La teoria della mela - parte 2

CONTINUA...

Dovrei tornamene a casa ma non ci riesco. I miei piedi sono come impietriti. Pesanti macigni sulla terrazza panoramica della città.

Solo dopo un po' di tempo, riesco a trovare il coraggio per rimettere quei cioccolatini in tasca e fare una delle cose più stupide che potessi fare.

"Perché te ne sei andato?".

Digito velocemente sullo schermo del cellulare. Lasciando da parte tutto il resto.

Dovresti avere paura di lui, mi avvisa il mio istinto, dovresti tornare a casa. Eppure, mentre i miei piedi si incamminano giù per la scalinata e poi attraverso il parco sottostante, quella domanda continua a perseguitarmi.

Ma quando il cellulare vibra, facendomi prendere uno spavento ma avvisandomi della risposta, non è la sua.

"Dove sei? Sono al terrazzo".

Nicholas, il ragazzo che dovevo incontrare, mi ha appena scritto. Mi blocco. Che devo fare? Tornare sui miei passi? Tornare indietro? La terrazza non era lontana.

Sento ancora il peso di quei due cioccolatini nella tasca e i miei occhi si calamitano su una coppietta intenta a baciarsi su una panchina rovinata. Potrebbe finire così la mia serata. Oppure no.

Calpesto la ghiaia del vialetto, tornando indietro, fino alla fontana che zampilla nella semioscurità dei lampioni, tra le ombre di alberi spogli.

Penso alle mele e a che cosa volesse dirmi quel tipo fuori di testa.

Un altro messaggio. Sempre di Nicholas. "Tutto bene?".

Osservo l'acqua incresparsi in piccole onde. La verità è sempre la scelta migliore.

Mi prenderà per pazza, ma gli telefono. Lui poco dopo risponde.

«Sei in ritardo» mi saluta, scherzando, quando quello in ritardo era lui.

«No, non lo sono» commento criptica «Ero alla terrazza, ma ho incontrato un tipo strano e sono andata via».

«Un tipo strano?» domanda lui, sorpreso come se gli avessi appena detto di che colore sono le mie mutande.

«Sì» sputo quella sillaba con tanta acidità che potrei far invidia a un limone. Ero arrabbiata. Ero scossa e volevo che lui lo capisse.

«Stai bene, Erin? Dove sei? Vuoi che ti venga a prendere?».

Scuoto la testa come se potesse vedermi. Troppe domande. «Voglio solo... tornare a casa» rifletto a voce alta su ciò che davvero vorrei fare.

«Ti ha fatto del male?» comincia a preoccuparsi.

«Non è successo nulla» mi affretto a rassicurarlo. «Usciremo un'altra volta, scusami». Le parole scivolano sulla mia lingua svelte, prima che mi decida a chiudere quella brusca telefonata senza dire altro.

Scusami? Perché mi ero scusata? Dopotutto era lui quello in ritardo. Se fosse arrivato in orario ora sarei con lui.

Nicholas era venuto all'appuntamento. Al contrario di quello che mi aveva detto quel tizio. Però proprio a causa di quello strano tipo, mi era passata completamente la voglia di vederlo.

Una mela... cosa c'entrano le mele?!

Mi volto e comincio a camminare senza una meta precisa per i sentieri del parco. Evitando quelli dove vedo persone che portano a spasso il cane prima di rientrare in casa, ne approfittano per una corsetta serale, o coppiette che passeggiano sotto la luce romantica della sera.

Provo a riscrivere a quel numero una delle prime cose che mi passa per la mente.

"Non avevi nessun accento russo".

Mi lascio scivolare su una panchina, coperta di scritte e circondata da cespugli sempreverdi, e aspetto che mi risponda.

Rispondi.

Avanti, rispondi.

Mi fermo a fissare lo schermo con impazienza e quando ormai non ci spero più le parole compaiono a illuminarlo. "Infatti non russo".

E poi una seconda risposta. "Ti ho spaventato troppo e me ne sono andato via, per oggi può bastare".

"Vuoi dire che hai intenzione di spaventarmi ancora?".

"Certo. Tu sei una mela, ma sei comunque sul confine dell'ombra dell'albero. Potrei avvicinarmi e raccoglierti facilmente, così saresti libera, poi potresti rotolare dove vorresti".

"Ancora con questa storia? Mi spiegheresti che vuol dire?".

Tiro fuori uno dei due cioccolatini e lo esamino, chiedendomi se fosse avvelenato, oppure no. Ma poi la voce del ragazzo mi fa sussultare.

«Meglio parlarne di persona. Posso sedermi?» dice, lasciandosi cadere al mio fianco sulla panchina.

Milioni di domande mi affollano la testa. Che ci fai qui? Non hai freddo solo con la felpa? Perché gli occhiali se non c'è il sole? Come hai fatto a trovarmi?

Ma ancora una volta non ho il coraggio di dire nulla e nemmeno di spostarmi, nonostante la sua spalla urti la mia.

Senza che io dica nulla comincia a raccontare. «Hai mai sentito dire il detto che "ogni mela non cade mai lontano dal proprio albero"? Beh, non è vero. Le mele cadono dove vogliono, ovviamente però possono cadere solo sotto il proprio albero».

«E con questo che vuoi dire?» commento confusa, osservandomi la punta delle scarpe.

«Immagina che l'albero sia la società e ogni mela sia una persona. Più una mela cade vicino al tronco e più sarà stereotipata e portata a seguire il resto delle altre mele, più invece cade lontano e più sarà libera di rendersi diversa dalle altre». Mi afferra delicatamente il viso, affinché io guardi in quelle lenti scure come pozze, che gli nascondono gli occhi.

Di che colore sono i tuoi occhi?

«Ecco perché tu non saresti mai andata d'accordo con quello lì. Fidati di me. Ho fiuto per queste cose» continua a dirmi con voce dolce. «Hai fatto bene a dargli buca. Tu sei già sul confine dell'ombra della chioma. Ti manca soltanto una piccola spinta per essere libera e poi da mela potrai diventare una pera o un'albicocca o quello che più ti piace».

«Questo discorso non ha molto senso, lo sai?» gli rispondo, ma lui si limita a sorridermi. «E la frutta non mi piace chissà che».

Sposta la mano, lasciandomi libera di guardare altrove e punto gli occhi sugli alberi di fronte a noi. «Tu cosa saresti? Un kiwi?» comincio a ridere da sola per tutta l'assurdità di quella scena.

«Definiscimi più come tuo angelo custode. Per questo so tante cose su di te».

Ritorno a guardarlo, ma non riesco a dirgli nulla. Mi concentro sui lineamenti del suo viso per provare a vedere se riesco a riconoscerlo o se l'ho già visto da qualche parte, oltre che su quell'autobus nel tardo pomeriggio.

«A te non piacciono gli stereotipi, vero?» mi dice, senza staccare lo sguardo dal mio. Ma le lenti a specchio mi rimandano il riflesso del mio viso.

«No, nemmeno i kiwi se è per questo».

Lui sospira e il suo fiato sfiorisce in una nuvoletta di vapore. «Se fossi un ragazzo e dovessi immaginarti una bella ragazza a cosa penseresti?». 

Sto per rispondergli ma lui mi anticipa. «Non te la sogneresti mai con i peli sulle gambe, ammettilo! Eppure se quel ragazzo ti ama non dovrebbe importargli se tu quel giorno non hai voglia di rasarti oppure vuoi proprio assomigliare a un orsetto. D'altro canto tu ti sogneresti mai di andare in piscina o al mare con i peli sulle gambe?». Ride. «Anzi forse, conoscendoti saresti in grado di fregartene. Dopotutto tu sei lontana dal tronco dell'albero».

Immediatamente arrossisco, osservando i jeans chiari che mi coprono le gambe. «Che... che... che cavolo stai dicendo?».

«Che quel tipo, quello con cui volevi uscire, a lui sarebbe importato. Di sicuro. Perché pensa attraverso stereotipi. Te l'ho detto è vicino alla corteccia, non riuscirà a vedere a fondo di quello che tu sei. Perché è troppo impostato su quello che si aspetta o vuole soltanto lui. E quando farai l'errore di conoscerlo meglio, cercherà di comandarti e di... cambiarti. E purtroppo tu sei troppo gentile per non ascoltare, anche quando non dovresti dare retta a nessuno».

Trattengo quasi il respiro. «E tu come lo sai?».

Allunga l'indice e mi da un colpetto sulla fronte. «Mi raccomando, non lasciarti mai oscurare da nessun'ombra. Nessuna. Nemmeno la tua. Ma dopotutto per te è facile, hai paura del buio» sussurra come se fosse un segreto e poi si alza in piedi di scatto. «Che si fa? La notte è ancora giovane». Mi porge la mano, invitandomi ad alzarmi e andare con lui chissà dove.

«Stai pensando che sono un tipo interessante, vero? E non ti sto più facendo paura».

«Come ti chiami?» gli domando invece, ignorando le sue domande, come del resto lui fa con le mie.

Ma lui non risponde, si limita a sorridermi e mi afferra la mano. «Ha importanza? Puoi chiamarmi come vuoi, oppure puoi anche non chiamarmi se non ti va, l'importante è quello che si passa insieme. Così si creano i veri legami. I legami non stereotipati».

Rido, ammettendo a me stessa che ha ragione. Non ho paura di lui. Non più.

«Sei buffo» gli dico, lasciando scivolare la mia mano nella sua. Stranamente è molto calda e il suo calore si diffonde anche nella mia.

«Meglio buffo, che noioso» sorride lui. «Allora, dove vuoi andare?».

«Ho fame» rispondo, portandomi la mano libera sulla pancia e ricordando che effettivamente non avevo ancora mangiato nulla. Avrei dovuto cenare con Nicholas, in quella nuova pizzeria. Se ci pensavo mi sembrava soltanto un ricordo lontano.

«Perfetto, conosco un posto che ti piacerà. Nel mentre puoi mangiarti i due cioccolatini che ti ho regalato, se proprio sei tanto affamata».

«Perché me li hai dati?» mi ricordo di chiedergli, mentre mi accorgo che stiamo già camminando nel vialetto del parco, ormai vuoto.

«Perché il cioccolato è un'ottima medicina e tu avevi bisogno di guarire dalla tua paura».

«Secondo te sono guarita?» gli chiedo perplessa, quasi fosse stato una sorta di dottore.

«Beh... se non lo fossi non saresti qui con me» risponde e più ci penso, più mi convinco che lui abbia perfettamente ragione. Ma se i miei occhi si fermano a guardare l'oscurità, sento il cuore cominciare a galoppare nel petto e vorrei soltanto allontanarmene.

«Da cosa sono guarita esattamente?» gli domando ancora, mentre ormai abbiamo raggiunto le cancellate di ferro che delimitano il parco.

Ma lui si limita a sorridermi e a stringermi la mano, facendomi capire che probabilmente non lo saprò mai.


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