Il carillon
La casa si presentava come un imponente edificio reso sinistro dall'incuria e da una pioggia torrenziale che ne rendeva appena visibili i contorni scuri.
Chi me lo ha fatto fare? Erano da poco scoccate le diciannove quando, tre ore prima, Oromor era approdato nella zona Galiziana in seguito alla notizia di aver ricevuto una cospicua eredità da parte di uno zio di cui non aveva mai sentito parlare. La curiosità lo aveva indotto a scegliere un pessimo giorno per arrivare fin lì: non ricordava l'ultima volta che aveva visto un acquazzone di tale portata. Inoltre, la casa in questione si trovava in un paese di montagna così piccolo da passare inosservato nelle mappe e i sentieri sterrati impantanati avevano reso difficile il viaggio.
Ora era là, di fronte alla cancellata di ingresso arrugginita oltre la quale i filamenti di un giardino incolto oscillavano in balia degli elementi. Parcheggiò l'auto sul vialetto e si precipitò verso la porta di ingresso, inzuppandosi da capo a piedi nonostante il breve tragitto.
Suonò il campanello; secondo le informazioni ricevute avrebbe dovuto essere accolto da un custode. La porta si aprì con uno scatto, ma non vi uscì o affacciò persona alcuna, lui però non aveva intenzione di rimanere sotto quella pioggia un minuto di più, così spinse la porta ed entrò. Solo una luce soffusa in fondo all'atrio illuminava l'oscurità che lo accolse al suo ingresso.
«È permesso? Sono il nipote di Albert Romero.»
L'eco della propria voce si disperse nel buio, ma non ricevette risposta.
Scacciò un brivido di freddo dopo essersi liberato dell'impermeabile zuppo. Le mura dovevano essere spesse, poiché non sentiva più il rumore della pioggia; al contrario, nell'aria risuonava solo una lieve melodia proveniente dall'unica stanza illuminata che riusciva a scorgere.
Un carillon, a giudicare dalla delicatezza delle note.
Il rumore appiccicaticcio dei suoi passi gli ricordò che non si era dato la briga di liberarsi degli stivali bagnati, dopo essere entrato, ma non se ne curò.
Si fermò prima di raggiungere la camera illuminata e si voltò indietro, verso l'ingresso: non aveva visto nessuno, allora chi aveva aperto la porta?
«Oromor Diez?»
Il suono di quella voce lo ridestò dai suoi pensieri con un sussulto. Era apparso un uomo dai capelli grigi ben curati e vestito di tutto punto, probabilmente sulla sessantina, sulla soglia della camera.
«Sono io» rispose impacciato. «Lei è?»
Sul volto dell'uomo si dipinse un enigmatico sorriso. «Il custode, naturalmente.»
Naturalmente. Chi altri, sennò?
«È un piacere incontrarti di persona, ragazzo» proseguì l'uomo, per poi fargli cenno di entrare nella camera. «Il viaggio deve averti spossato e infreddolito. Ti ci vuole un po' di riposo di fronte alle fiamme di un fuoco scoppiettante.»
In realtà aveva sperato di fare un bagno caldo e poi mettersi a dormire, ma sarebbe stato scortese da parte sua rifiutare un invito così allettante: ne avrebbe approfittato per saperne di più sul suo defunto zio.
Si bloccò subito dopo aver varcato la soglia, meravigliato da ciò su cui i suoi occhi si posarono: la camera era in realtà un ampio salone dall'alto soffitto illuminato dalla luce soffusa di un grande camino e di alcuni candelabri. Le pareti erano occupate da scaffali colmi di libri e il ricco mobilio era coperto da teli bianchi. Solo due poltrone e un tavolino di fronte al focolare erano rimaste libere, su una delle quali andò a sedersi il custode, intento ad assaporare un calice di vino.
Oromor accolse il calore del camino come una benedizione dopo essersi accasciato sulla poltrona, per niente disturbato dallo sguardo dell'altro fisso su di lui. Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro, godendosi il silenzio rotto solo dallo scoppiettio delle braci.
Il silenzio...
Il silenzio? Si voltò verso il custode, il cui sguardo era ora fisso sulle fiamme del camino. «Quand'è che il carillon ha smesso di suonare?»
L'uomo poggiò il calice sul tavolino e inarcò un sopracciglio. «Di cosa stai parlando?»
«Sono stato guidato in questo salone da una melodia.»
Vide il custode ― di cui, ora che ci pensava, non conosceva il nome ― abbassare lo sguardo e accennare un sorriso. «Non c'è alcun carillon in questa casa. Di sicuro la stanchezza ti ha giocato un brutto tiro.»
Oromor prestava particolare attenzione a ciò che lo circondava, perciò era sicuro di non essersi sbagliato. Preferì non ribattere, poiché sapeva quanto testarda potesse essere la gente a volte e lui non era abbastanza lucido da affrontare un dibattito, in quel momento.
L'uomo rimase a osservare il camino con sguardo perso, poi si alzò dalla poltrona e, prima di allontanarsi, disse: «Vado a prepararti una tazza di tè bollente, è quello che ci vuole dopo un viaggio così tortuoso.»
Prima che potesse rifiutare, l'altro era già uscito dal salone.
Chiuse gli occhi per pochi istanti, così da farsi cullare dallo scoppiettio delle braci, poi si guardò intorno per osservare ciò che lo circondava. Dubitava che le altre camere fossero così spaziose, ma tutto sommato non gli sarebbe dispiaciuto stabilirsi lì per un po'.
Il calore del camino lo fece tornare in forze, così, dal momento che ora quella casa gli apparteneva e che non sarebbe andato a dormire per un po', andò a scoprire cosa si nascondesse sotto i teli bianchi. Decise di iniziare da un grande quadro poggiato ai piedi di una spoglia parete dal lato opposto rispetto alla libreria, incuriosito dalla natura del soggetto raffigurato.
Le sue mani avevano appena raggiunto il telo quando un'unica nota di carillon risuonò nel salone, ma fu un particolare notato con la coda dell'occhio alla sua sinistra a bloccarlo dal proprio intento. Abbassò il braccio voltandosi lentamente in direzione di un tavolo circolare coperto, posto a pochi passi dal candelabro, con un rigonfiamento sotto il telo.
Nulla di strano, se non fosse che quando Oromor era arrivato quel rigonfiamento non c'era. Inoltre, il suono proveniva da lì.
I suoi passi furono l'unico rumore udibile mentre si avvicinava al tavolo. Rimosse il telo con un gesto quasi meccanico, lasciandoselo cadere ai propri piedi.
Nessun carillon, eh? Quello che aveva davanti era annerito e dall'aria molto antica. Se non ne avesse sentito il suono avrebbe dubitato che, ridotto in quelle condizioni, avrebbe potuto essere in funzione.
Si era già riaccasciato in poltrona quando il custode fu di ritorno con un infuso di erbe.
«Aveva detto che non ci sono carillon in questa casa» esordì sorseggiando la bevanda bollente.
«È così» rispose l'altro.
Reputò che fosse dovuto all'età, o alle dimensioni di quella casa: non ci sarebbe stato da stupirsi per una dimenticanza del genere.
«E che mi dice della scatola annerita su quel tavolo?» lo incalzò senza ironia.
L'ultima cosa che voleva era risultare sgarbato nei suoi confronti.
Dopo una rapida occhiata, il custode si incupì e disse, visibilmente imbarazzato: «Non c'è nessuna scatola, non c'è mai stata.»
Oromor si voltò di scatto e osservò a lungo il tavolo vuoto, come se si aspettasse che il carillon sarebbe riapparso da un momento all'altro, ma quando ciò non avvenne si rivolse di nuovo al suo interlocutore: «Le assicuro che...» No... deve averlo preso lui. E tuttavia sul suo viso non trovò nulla che lo dimostrasse. Scosse il capo. «È tardi, sarebbe un problema per lei mostrarmi la camera da letto?»
Quell'infuso gli aveva causato sonnolenza.
«Mi chiedevo quando me lo avresti chiesto» rispose il custode.
Dicendo ciò, prese un candelabro e gli fece cenno di seguirlo.
Oromor si strinse negli indumenti, sofferente per il cambio di temperatura dopo essersi allontanato dal tepore del camino. La vicinanza con quell'uomo gli incuteva uno strano senso di disagio: non ne avvertiva l'odore, né la presenza materiale. Gli era davanti, ma era come se non ci fosse.
«Attualmente la casa è sprovvista di corrente elettrica» lo informò lui, ridestandolo dalle sue perplessità. «Ci sono zone molto vecchie, ma è già stato pagato tutto affinché vengano sistemate. I lavori di ristrutturazione cominceranno la settimana prossima. Ti troverai bene.»
«Me lo auguro, comincio a pensare che sia infestata dai fantasmi» borbottò, seguendolo su per le scale.
I volti sui ritratti attaccati alla parete non erano esattamente un bel vedere, tantomeno sotto il fioco chiarore dei lumi. Trasalì quando il custode scoppiò in una rauca risata.
«Non posso garantirti assoluta tranquillità in tal senso, girano strane voci su questa casa. Io stesso potrei essere uno spirito!» enfatizzò. Poi si fece serio: «Ciò che conta è che tu abbia il buon senso di non cedere alla pazzia.»
«Che cosa intende?» gli chiese accigliato.
Raggiunto il piano superiore, percorsero un breve corridoio su cui si affacciavano alcune stanze, una delle quali senza porta. Anziché rispondergli, il custode gliene indicò una dicendo: «Questa è la tua camera; è provvista di scrivania, letto a una piazza e mezzo, una finestra che si affaccia sul retro e un separé per compensare l'assenza della porta che, a tal proposito, è in attesa di sostituzione a causa di un difetto della precedente. Io sarò nella stanza accanto. Buona notte, ragazzo.» Dicendo ciò, gli porse il candelabro e si diresse nella propria camera.
Prima di entrare nella propria, Oromor percorse il corridoio per osservare un particolare che aveva attirato la sua attenzione.
Cade proprio a pezzi. Tastò la superficie di un foglio di cartone fissato alla parete, dietro il quale doveva esserci una finestra in frantumi a giudicare dagli spifferi freddi che arrivavano dai bordi. Un lungo sbadiglio gli ricordò che la stanchezza lo faceva a stento reggere in piedi, così tornò sui suoi passi. Stanco com'era, si premurò a malapena di togliere gli scarponi prima di buttarsi sul letto.
Si addormentò in fretta.
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Si ridestò che era ancora buio pesto. Acceso il display del cellulare, scoprì che erano solo le tre del mattino; si passò una mano al viso sbuffando. Nell'aria risuonavano le note di un carillon, una melodia che, per quanto normalmente piacevole, a quell'ora era l'ultima cosa di cui aveva bisogno.
«Potrebbe spegnere quell'affare, per favore?» esclamò.
Non avendo ricevuto risposta si mise a sedere sul bordo del letto, si strofinò gli occhi e si alzò, servendosi della torcia del cellulare per muoversi nell'oscurità.
Il suono divenne più forte dopo aver lasciato la stanza; proveniva da quella accanto dove, notò, la porta era socchiusa.
Che rottura. Bussò, chiedendo ancora una volta la cortesia di spegnere lo strumento, ma gli rispose solo l'eco del colpo. Nient'altro.
Spazientito, avvisò: «Sto entrando.»
Quando lo fece, illuminò una camera provvista solo di un letto addossato alla parete laterale e uno sgabello sotto la finestra ad arco. Entrambi coperti da un telo.
Che diavolo?
Quell'uomo non aveva forse detto che avrebbe dormito in quella stanza? Eppure, sembrava che non ci mettesse piede nessuno da tempo. Si avvicinò allo sgabello, sotto il cui telo c'era un familiare rigonfiamento: il suono veniva da là sotto. Questo però cessò di colpo non appena Oromor sollevò il telo sotto il quale, scoprì sgomento, non c'era assolutamente nulla. Rimase a fissare lo sgabello vuoto per un lasso di tempo indefinito, come stordito.
Forse sto sognando.
«Che Dio mi perdoni, non ce la faccio più!»
Sussultò, quella voce disperata apparteneva al custode. Prima di capire cosa stesse succedendo, sentì un rumore di passi in corsa nel corridoio fuori dalla camera e poi un boato di vetri infranti.
Superato lo shock, prevalse la preoccupazione. Cellulare in mano, si precipitò fuori da lì e diresse il fascio di luce da una parte all'altra del corridoio; il rumore di vetri infranti lo portò a dirigersi verso la finestra in fondo, ma la copertura in cartone era intatta. Tuttavia, dai bordi cominciarono a colare dei sottili filamenti rossastri dall'odore ferroso: sangue.
Si guardò indietro col cuore in gola, incapace di immaginare cosa potesse essere accaduto, ma non appena illuminò di nuovo quel punto si accorse che le pareti erano pulite. Scosse il capo portandosi una mano sui folti capelli scuri.
Al diavolo tutto quanto. Sogno o no, io me ne torno a letto.
Durante il tragitto di ritorno reputò inutile provare a chiamare a gran voce il custode, poiché sapeva che non avrebbe ricevuto risposta. Non si sarebbe stupito di trovarlo in camera.
Esitò per un momento di fronte alla stanza chiusa, poi varcò la soglia della propria e si accasciò sul materasso, deciso a ignorare ogni stranezza fino all'indomani.
ㅤ
Quando Oromor riaprì gli occhi, un fascio di luce dorata gli fece capire che era giunta l'alba e che il maltempo era cessato. Si stiracchiò, storcendo il naso appena scoprì di avere addosso gli abiti della sera prima: aveva lasciato in auto il bagaglio con il cambio, tanta era la fretta con cui aveva abbandonato l'abitacolo per ripararsi dalla pioggia.
Si mise a sedere al bordo del letto, ancora intontito dal sonno, ma un suono cupo echeggiò per tutta la residenza ridestandolo all'istante. Gli ci volle un po' per capire che si trattava del campanello di casa; perlomeno non era di nuovo quel dannato carillon.
Si diede una rapida sistemata e scese di corsa la scalinata, per poi aprire il portone subito dopo essere stato assordato per la seconda volta dal campanello. Trovò sulla soglia un uomo stempiato di mezz'età vestito in frak, con un'espressione tirata in viso.
«Immagino che siate il nipote ereditario del signor Albert Romero» esordì l'uomo e lui annuì. «Dovete scusarmi per il ritardo, l'acquazzone mi ha impedito di giungere qui nei tempi stabiliti.»
Oromor corrugò la fronte. «Mi scusi, lei chi è?»
«Il custode, naturalmente.» Ebbe un déjà-vu. «Adam Fruentes, ho lavorato per vostro zio fino alla sua dipartita.»
«Deve esserci un errore, al mio arrivo sono stato accolto da un uomo che affermava la stessa cosa. È sicuro di non aver sbagliato indirizzo?»
Questa volta fu l'altro a corrugare la fronte. «Nessun errore, signore. Chiunque abbiate incontrato ha detto una falsità; ho con me dei documenti che attestano il mio ruolo.»
Dicendo ciò, gli porse un fascio di fogli e lui, sguardo fisso su quelle carte, lo invitò a entrare con un cenno. A quanto pare diceva il vero, quelle carte lo provavano, ma allora con chi aveva avuto a che fare la sera prima?
«Si sarà trattato di un fantasma» disse per sdrammatizzare, restituendo i documenti.
Ma l'altro si incupì mentre entravano nel salone. «È probabile, signore. Girano molte voci su questa casa, e il verificarsi di una di esse è stata la causa della morte di vostro zio.»
Dopo quelle informazioni, Oromor cominciò a dubitare che gli eventi della notte prima fossero un sogno. Deglutì a vuoto.
Adam si avvicinò al quadro coperto e, tolto il telo protettivo, rivelò il ritratto di un uomo dai capelli grigi ben curati e un ironico sorriso stampato in volto. In basso, in calligrafia elegante, c'era la seguente dicitura:
Il dolore fu intenso, qualcosa che, se fosse stato un rumore, sarebbe stato un tuono.
A. R.
Non è possibile.
«Costui era il vostro defunto zio. Se ve lo state chiedendo, la frase che precede le sue iniziali è tratta da un libro che ha amato ma di cui non rammento il titolo. Aveva uno strano senso dell'umorismo, ma era un grand'uomo.»
Era anche colui che la sera prima si era spacciato per il custode.
Si accasciò su una delle poltrone.
«Mi sembrate agitato» gli fece notare Adam, accomodandosi a sua volta.
Non ne hai idea. «Mi parli di mio zio, per favore. Di com'è morto, nello specifico.»
«A causa di un carillon, signore. Diceva di sentirne il suono ogni notte, eppure non riusciva a individuarne la provenienza. Ciò lo ha condotto lentamente alla pazzia, fino a portarlo al gesto estremo...»
«Sarebbe a dire?» gli chiese in un sussurro.
Il custode si esibì in un lungo sospiro, lo sguardo fisso sulle braci morenti del camino. «Si è lanciato da una finestra del piano superiore, i cui infissi sono attualmente ricoperti in attesa di sostituzione.»
Sentendo quella storia, solo due parole balenarono per la mente di Oromor: Che palle!
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