Nel nome del male

Il bagliore solare s'insinuava tra le ciglia tremule, sfiorava le palpebre calate e asciugava le lacrime che si erano fermate agli angoli degli occhi.

La brezza marina scompigliava la lunga e riccioluta chioma castana, indomita al pari di quella che era stata, fino a pochi mesi prima, la mia natura.

Avevo piegato le gambe e avevo fermato il loro tremolìo circondandole con le braccia e avvicinandole al torace; poggiai la testa sulle ginocchia e mi lasciai cullare dai ricordi che riempivano la mia mente con immagini di un corpo inerme, mentre i piedi affondavano nella sabbia.

«Sapevo di trovarti qui! La spiaggia di Coroglio è il tuo posto preferito sin da quando eravamo bambini. Perché non sei venuta in Tribunale, stamattina? È stata pronunciata la sentenza definitiva, abbiamo vinto!»

Un sospiro di sollievo fuoriuscì dalle mie labbra, schiusi le palpebre per fissare le pupille erose dal pianto in quelle del mio vecchio amico d'infanzia a cui, due anni prima, avevo chiesto, supplicandolo, di tutelare i diritti di Sergio, il ragazzo conosciuto durante l'inchiesta sui rifiuti tossici che mi era stata assegnata dalla redazione del giornale per cui lavoravo.

Avevo trascorso notti insonni sulle scartoffie che il capo redattore mi aveva consegnato, mormorando a fior di labbra buona fortuna, avevo studiato ogni perizia con accurata attenzione e avevo esaminato ogni test effettuato sui territori incriminati, non giungendo a nulla. Erano stati pezzi di un puzzle degli orrori, da incastrare tra loro in nome della costante ricerca della verità. Era arrivata, poi, la soffiata di mio padre, illustre primario del reparto oncologico del Cardarelli: un giovane ragazzo, mio coetaneo, era stato ricoverato nel suo ospedale con una nefasta diagnosi, carcinoma pancreatico. Papà mi aveva informato che il paziente era residente in uno di quei comuni che monitoravo costantemente, nelle vicinanze di un lotto di terreno incolto e, quindi, appetibile per ognuna di quelle industrie il cui nome era impresso negli appunti stilati durante la mia inchiesta. Erano aziende dal nome altisonante e dalla cassa che strabordava di soldi neri, non giustificabili; dovevano smaltire le scorie di scarto e, farlo legalmente, sarebbe costato troppo denaro e uno spreco di fatica inutile. E che male c'era a sotterrare i rifiuti in un pezzo di terreno abbandonato? Non ci sarebbe stato alcun danno, ma solo guadagno.

Impavida, ero entrata, di soppiatto, nella camera ospedaliera del giovane malato, incurante della sofferenza di ogni altro paziente. Potevo udire i ràntoli di dolore che fuoriuscivano dalle bocche di ognuno di loro, nonostante stessero tutti dormendo. Non mi curai di nessuno, soffocando ogni guizzo di compassione o rimorso, e giunsi fino al letto interessato. I miei occhi si posarono sul viso consunto del ragazzo, attraversato da una smorfia di patimento; era disteso sul fianco, accovacciato e teneva le mani strette sul grembo, come se volesse trattenere il male tra i palmi.

Cautamente, avevo occupato la sedia che era lì, accanto al suo giaciglio per accogliere chiunque fosse andato da lui per accudirlo o confortarlo. Si era svegliato, disturbato dal cigolìo molesto; aveva schiuso le palpebre e le nostre iridi si erano incastrate tra loro per la prima volta, per combaciare, poi, per l'eternità. Un sorriso mesto si era formato sulle mie labbra, mentre un suono arrochito era fuoriuscito dalle sue: «Chi sei? Cosa fai nella mia camera?»

Iniziai a parlare, soffiando con determinazione i miei motivi, enumerati con la foga di un'arringa, e un guizzo di speranza riverberò nei suoi occhi spenti.

I giorni a venire si erano susseguiti uguali gli uni agli altri, trascorsi insieme a elaborare teorie nel silenzio della notte e a intrecciare le nostre mani quando il suo corpo era stato scosso dal tremore che aveva seguito la chemioterapia.

Abbiamo vinto.

Avevo invischiato il mio vecchio amico d'infanzia Lorenzo, promettente tirocinante di un importante studio legale, nella battaglia legale contro l'azienda su cui ricadevano i sospetti miei e di Sergio.

«Avevo paura, Lorenzo. Temevo una sconfitta.» sussurrai, rinfrancata dalla vittoria. «Ora, vado da lui perché devo essere io a dirglielo.»

Balzai di scatto per tirarmi in piedi, ma la mano di Lorenzo si posò, smaniosa di un contatto sul mio braccio. «Festeggiamo con una cena?» I suoi occhi tradirono la necessità di sentire un mio cenno di consenso, che io non potevo, però, pronunciare.

«Mi spiace, Lorenzo, non posso. Sarà per un'altra volta, grazie.» Chinai il capo e celai il moto di fastidio per la sua richiesta che aveva imbruttito il mio viso.

«È per lui, vero? Ti sei innamorata? Anna, sta morendo!» pronunciò, a voce atona, e furono parole soffiate con disincanto, tale da far sparire quell'accenno di rimorso nel dover costantemente rifiutare quel vecchio amico che, più volte, aveva mostrato interesse per me.

Allontanai, brusca, la sua mano e, scalciando sabbia e ciottoli, andai via senza alcun cenno di commiato. Il silenzio nell'abitacolo dell'auto era spezzato dal rumore dei ricordi e dai singulti incessanti. Rividi, innanzi agli occhi acquosi, ogni giorno trascorso con lui; eravamo due giovani che si erano conosciuti durante una guerra sporca e silenziosa. Eravamo anime spezzate che si erano intrecciate in un'asettica stanza d'ospedale.

Avevo vegliato su ogni suo sonno, avevo sorretto il corpo stanco e seguito i suoi passi nelle trasferte tra casa e ospedale. Pochi erano stati i giorni in cui le forze non lo avevano abbandonato, attimi sublimi costellati dai primi baci e dalle prime carezze, che erano giunti inaspettati e dolci.

Rari erano stati i momenti in cui il nostro amore, appena sbocciato, aveva sfiorato una parvenza di normalità; non c'era stato nessun appuntamento galante e scarse erano state le volte in cui l'avevo portato nei luoghi dove amavo trascorrere del tempo.

La spiaggia di Coroglio.

Fu su quel lembo di spiaggia che i nostri corpi si erano incastrati per la prima volta, unendosi con urgenza e accortezza, e dove un soave ti amo si era posato sulle nostre labbra.

Sopraggiunsi in ospedale sfinita, un violento tribolo si era annidato tra le spire della mia anima, giacché fossi istruita che la malattia stava, oramai, consumando il ragazzo che amavo, ogni istante sempre di più. Sapevo che, di lì a poco, le sue palpebre sarebbero calate sul mondo e sarei stata privata della compiacenza di essere guardata da lui, in quel modo innamorato che era solo suo. Stava morendo, e io con lui.

Varcai le porte d'ingresso e mi addentrai nell'atrio, iniziando ad avvertire i compassionevoli sguardi del personale sanitario, coloro che avevo imparato a conoscere come fossero una seconda famiglia. Iniziai a correre, intimorita dalle loro occhiate mortificate che, quel giorno, si erano fatte più insistenti, allertando i miei sensi.

Le gambe traballanti minacciarono di cedere e due braccia, quelle vigorose di mio padre, furono pronte a sorreggermi, e al contempo lui pronunciò un monito amorevole: «Ha il diritto di morire sereno, non potrà farlo se ti presenti da lui in queste condizioni.»

Le sue parole riecheggiarono nelle mie orecchie quando lo sorpassai, ricusando il suo sostegno. Trovai la stanza gremita di familiari affranti, ammantatisi nel silenzio appena notarono la mia presenza, che si scostarono affinché io potessi gettarmi al suo capezzale.

Osservavo ogni minuzioso dettaglio del mio ragazzo mentre mi accasciavo sul suo letto, imprimevo ogni particolare nella mia mente: i radi capelli castani, dissipati dalla chemio, il volto emaciato, le occhiaie che contornavano gli occhi appena schiusi, le palpebre che si innalzarono a fatica per l'ultima volta. Le luccicanti iridi smeraldine si incastrarono nelle mie per, poi, spegnersi per sempre; la mia mano stringeva nel palmo l'ultima delle sue lacrime assieme all'ultimo dei miei battiti. Poggiai la bocca sulla sua, bagnandola e sfiorandola con impeto, e sussurrai: «Abbiamo vinto.»

Fu l'ultima bugia da me pronunciata a fin di bene, che lui non udì; non esisteva vittoria contro chi aveva avvelenato i nostri corpi e infettato le nostre anime.

Abbiamo perso, la vita.

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