È NATA L'Emozione
«Buona vigilia.» mugugnò, ansimando affannosamente come ogni volta che la osservava, o spiava, dalla finestra della camera da pranzo. Si era trascinato fino alla vetrata, affaticando la gamba malata. Il bastone era stato lasciato accanto al tavolo, incustodito al pari di un oggetto di poco valore, seppur fosse l'unico compagno di vita. Le pupille velate dalla bramosia scivolarono oltre le lastre di vetro e inchiodarono la sua figura esile, l'ossatura sporgente e il viso smagrito, benché la tenue luce gli impedisse di osservare il magnificente volto della donna. Era così spoglia la casa della sua vicina, priva degli agi che abbellivano, invece, la propria abitazione. C'era un'unica lampadina che calava giù dal soffitto e riverberava un lieve bagliore sulla tavola, imbandita con piatti sporchi e vuoti, poiché nulla era stato sprecato del magro cenone. Si voltò e osservò, dietro di sé, quello che era avanzato della sua cena, manicaretti preparati con dovizia dalla propria domestica. L'argenteria giaceva, senza essere stata sfiorata, accanto ai piatti di pregiata porcellana; il bicchiere di cristallo, invece, era macchiato di rosso, riempito e svuotato nell'immediato dall'eccelso vino che aveva tracannato con ardore. Non aveva toccato altro, l'avvocato Ruggero Falconieri avevo lo stomaco vacante e l'esofago arso dall'alcol e dai triboli. Si era ammantato nella solitudine e nel disincanto dieci anni prima, quando la bellezza e la pienezza dei suoi trent'anni erano sfumate nell'inerzia che seguì l'incidente automobilistico di cui fu vittima e colpevole.
Era stato un mancamento, i sensi erano affievoliti dopo un'intensa giornata di lavoro e un velo di momentanea cecità era calato sulle pupille. Miracolato, era stato trascinato via dal veicolo in fiamme, seppur avesse maledetto i soccorritori ogni alba da quel giorno. Erano tutti sulla pelle e sulle ossa i segni della sciagura: una gamba claudicante, una cicatrice che tagliava in due il fianco e una simile, sebbene fosse più piccola, squarciava la guancia destra. Non era più uscito da casa, trascorreva l'intera giornata a lavorare nello studio accanto alla camera da letto, gironzolava, poi, per casa con un libro stretto in un palmo e il telecomando ghermito nell'altra mano. Nessuno frequentava più la sua abitazione, l'aveva proibito a ogni vecchio amico e ai pochi parenti che aveva, qualche zio e una decina di cugini. Clara, la domestica che prestava servizio in quella casa da prima che lui nascesse, era l'unica a poter varcare la soglia senza sentirsi malvoluta; finanche i clienti erano intimoriti dal suo tetro stato d'animo quando avevano la grazia di essere ricevuti. Poi, pochi anni prima, era arrivata la nuova inquilina a occupare l'appartamento più piccolo dello stabile di cui era proprietario, un antico palazzo ereditato dal nonno materno. L'edificio era costituito da quattro palazzine unite fino a formare un quadrato, abbellito al centro da un giardino curato e rigoglioso che l'avvocato Falconieri lasciava a disposizione dei bambini dei suoi affittuari. La giovane donna aveva affittato l'appartamento del primo piano, nell'edificio posto di fronte al suo, grazie all'intercessione della governante. Clara aveva conosciuto Sonia alla trattoria dove quest'ultima serviva i tavoli per un'esigua paga settimanale. Aveva ascoltato la sua storia, si era fatta sostenitrice dei suoi diritti quando aveva scoperto che viveva nel retrobottega insieme alla figlia di quattro anni. Aveva parlato con il proprio datore di lavoro, affinché desse alla donna l'appartamento un tempo occupato dal portiere. Sfinito, l'avvocato aveva acconsentito alle suppliche di Clara e, così, Sonia si era trasferita, insieme alla bambina, sebbene pagasse solo un quarto del valore reale di affitto. Non si erano mai incontrati, la firma del contratto era avvenuta con l'ausilio di Clara che portava i documenti avanti e indietro, quasi fosse un mediatore immobiliare. Sonia era entrata nell'appartamento e Ruggero l'aveva vista dalla vetrata, rimanendo folgorato. Era attratto come un magnete dalle sue movenze, dalla grazia dei lineamenti e dalla soavità del corpo malnutrito. Passava ore a osservarla, dall'alto del quarto piano dove risiedeva, e trascinava l'attesa dei propri monotoni giorni nella speranza che lei lo vedesse. Era penetrata nel suo costato, laddove il cuore aveva ripreso a pulsare con ardore, e nelle sue iridi affette da eterocromia, dove un bagliore di speranza guizzava ogniqualvolta lei si affacciava alla finestra per richiamare la figlia affinché smettesse di giocare in giardino e tornasse su per la cena.
Sonia era stanca della sua vita di stenti, dei sogni falliti, della fame patita. Era stata abbandonata dal fidanzato appena i due avevano scoperto la gravidanza e, al contempo, cacciata di casa dai genitori all'antica. Aveva aborrito quanto suggerito da chi le era intorno, non avrebbe mai abortito e la piccola Vittoria era venuta al mondo, cullata dall'amore e dalla miseria. Svolgeva due lavori pur di non far mancare nulla alla figlia, seppur spesso si fossero ritrovate senza un vero tetto sulla testa, almeno fino a quando aveva fatto la conoscenza di Clara.
«Mamma, babbo natale verrà da noi, questa notte?» la bimba smosse il viso delicato e piantò gli occhi azzurri su quello della madre. Avevano finito di cenare, mangiando voracemente quel poco che la donna era riuscita a preparare, e si erano sedute a terra, intorno a un minuto pino artificiale, impreziosito da qualche decorazione sparse sui rami.
Sonia aveva trattenuto il respiro, sbuffando, poi, anidride carbonica e mortificazione. Era riuscita a comprare alla figlia unicamente una barbie tarocca. La letterina scritta, a fatica, dalla figlia non l'aveva neppure letta, certa che non avrebbe mai potuta accontentarla. E sapeva che ogni frase sarebbe stata una stilettata conficcata nello sterno. «Tesoro, babbo natale non potrà accontentare tutti i bambini e ha scelto lui cosa donare a ognuno di voi. Qualsiasi cosa ti porterà, sappi che è un regalo pieno d'amore.»
«Ma io volevo solo un papà!» la bambina sputò il suo più grande desiderio, imbronciando le labbra e tirando su con il naso. «Magari, il signore del quarto piano, quello che ci guarda dalla finestra per tutto il giorno. Poveretto, è sempre solo, e anche noi! Potremmo farci compagnia.»
Le sopracciglia di Sonia scattarono all'insù, lambendo la linea della frangia castana, e il suo cuore scalpitò nel costato. La figlia non aveva chiesto doni preziosi, ma il calore di una famiglia e lei aveva fallito finanche in quello, incapace di darle un padre degno di quel nome. Sonia serrò le palpebre, lasciando che l'immagine dell'uomo riempisse le sue pupille. Lui era lì, innanzi alla finestra a guardarla e lei si domandava, ogni volta, il motivo. Lo aveva scoperto l'anno precedente, per caso, e gli occhi dell'uomo avevano bruciato la sua pelle. Da allora, i sensi si allertavano tutte le volte che lui era accanto alla finestra.
Non occorreva, però, che lo vedesse; lo avvertiva nel formicolio delle mani, nelle gocce di sudore che scivolavano lungo la colonna vertebrale, nei solchi che deformavano la pelle delle braccia, nel tremolio delle ciglia, nel pizzicore che riempiva la sua femminilità e nei palpiti impazziti di un cuore dormiente.
Sonia si destò, scossa per un braccio dalla figlia e l'osservò con gli occhi ottenebrati dal rimorso. «Perdonami, sono un po' stanca. Vado in bagno, resta qui e guarda la televisione. Dovrebbero trasmettere il tuo cartone animato preferito a quest'ora.»
Sonia scattò in piedi e si allontanò, avvertendo lo sguardo rammaricato della figlia accompagnare ogni suo passo.
«Ma non mi hai acceso il televisore!» la bambina sussurrò; poi, si guardò intorno fino a che gli occhi si posarono sulla porta e s'illuminò. Raggiunse l'uscio, dopo aver infilato il cappotto di seconda mano, e varcò la soglia di casa.
L'avvocato Falconieri aveva osservato Sonia uscire dalla stanza e Vittoria sparire oltre la porta d'ingresso. Le viscere si erano riempite di irrequietezza, nel timore che alla bambina accadesse qualcosa. Si trascinò, tra una fitta alla gamba e un sussulto, fino al tavolo e ghermì il bastone da passeggio; strisciò fuori dal suo appartamento e si infilò nell'ascensore, tentando di raggiungere il cortile prima che Vittoria uscisse dallo stabile.
Sonia fissava la propria immagine nella specchiera del bagno, il lieve bagliore della luna filtrò dal lucernario e riverberò sulla sua figura nell'attimo in cui la luce emanata dalla lampadina si spense. «No! No! Non possono avermi staccato la corrente proprio la sera della vigilia di Natale. Stupida me!» inveì contro sé per non aver pagato la bolletta, intenzionata a farlo con i soldi della tredicesima quando il datore di lavoro l'avrebbe pagata. Fece scattare la chiave nella serratura e fuoriuscì dal bagno per raggiungere la figlia, istruita sui suoi timori per il buio. Chiamò a gran voce il nome della bambina, ricevendo in cambio un ostinato silenzio. Udì solo un leggero brusio e, poi, qualcuno sgolarsi per attirare la sua attenzione oltre la finestra della cucina. I suoi occhi vagarono fino al cortile e videro l'avvocato Falconieri sbracciarsi nel tentativo di richiamarla. Sonia era atterrita, un tremore scosse le sue membra, sebbene non ne capisse il motivo. Continuò a osservare l'uomo e, poi, si ricordò della figlia. Provò a cercarla ma le sue pupille si incrociarono con la porta spalancata, e intuì. Corse giù per le scale e arrivò, trafelata, in cortile, invocando il nome della figlia. Arrivò al cospetto dell'uomo e si prostrò, singhiozzando, ai suoi piedi. «Dov'è? Dov'è andata?»
Ruggero tentò, sforzando i fiacchi arti, di issarla, mentre le ginocchia della donna affondavano nella coltre di neve che rivestiva il manto asfaltato del cortile. «Non lo so! L'ho vista uscire dalla porta e mi sono precipitato giù, ma ho perso le sue tracce.»
Erano le prime parole pronunciate tra loro, non si erano mai parlati, eppure si tennero per mano e, quando Sonia fu nuovamente in piedi, si strinsero l'un l'altra. Era un groviglio inestricabile di braccia intrecciate e di respiri mozzati. «Stai tranquilla, il portone d'ingresso è sbarrato e lei non può arrivare al gancio. È sicuramente ancora all'interno dello stabile. Magari, è tornata a casa e noi non ce ne siamo accorti. Sarà lì ad attenderti.»
«È buio in casa e lei ne ha paura.» Sonia sussurrò con il viso premuto sul deltoide dell'uomo, soffocando un singulto. «Mi hanno staccato la corrente perché non ho pagato la bolletta. Aiutami a trovarla!» Fiocchi di neve calarono giù dal cielo, mentre accorate lacrime effluirono dai bulbi della donna.
La bambina, nascosta dietro la fontana zampillante che si ergeva al centro del giardino, sorrise furba mentre osservava i due ammantarsi nel candore della neve e di un abbraccio vigoroso. Per la prima volta, aveva visto l'uomo uscire di casa e la madre invocare l'aiuto di qualcuno che non fosse sé stessa. La sua intenzione iniziale era quella di arrivare fino all'appartamento di Ruggero, ma si era smarrita nel dedalo di corridoi ed era tornata nel cortile, laddove li aveva scorti ad abbracciarsi. Vittoria si impietosì dei loro corpi frementi di paura e di freddo e si avvicinò, lesta, alla coppia. Tirò i maglioni che indossavano, unico indumento a ripararli dal freddo, e richiamò la loro attenzione. «Siete bellissimi e perfetti insieme.» Un guizzo di gaia soddisfazione illuminò le pupille vispe che la bambina puntò in quelle dell'uomo. «Vuoi diventare il mio papà? Non ce l'ho e tu non hai figli.»
«Vittoria!» Sonia si staccò dalla vigorosa stretta di Ruggero e si gettò, tremante, sul corpo della bambina, rotolando con lei nel manto innevato. Implose di gaudio, stringendo il corpo minuto e marchiando il viso cereo con le proprie labbra inumidite dalle lacrime.
«Vorrei venir giù con voi a rotolarmi nella neve, ma la mia gamba fa capricci. Cosa ne dite di andar su e riscaldarci davanti al camino?» Ruggero, seppur a malincuore, spezzò il gioioso momento del ritrovamento. Il freddo vento trapassò il maglione e penetrò nelle ossa, e aveva coscienza che anche le due stessero patendo il gelo. Sonia si issò, rabbrividendo, e portò con sé la bambina. «La ringrazio, avvocato, di tutto.» gli parlò con riverenza, vergognandosi dell'intimità con cui si era rivolto a lui poc'anzi. «Non voglio disturbarla oltre. Noi torniamo a casa. Grazie.»
«Al buio e al freddo? Non se ne parla!» Ruggero tuonò, deciso, e zittì la donna. «Sono io che ringrazio voi per avermi scosso al punto di uscire di casa. Sono dieci anni che non lo faccio, neppure per una visita medica. Eppure, la paura che vi accadesse qualcosa è stata più grande del timore di varcare la soglia, non ci ho pensato un solo attimo.» sospirò, affranto, e continuò l'accorata dichiarazione: «Ora, andiamo su da voi e prendiamo quanto vi serve per questa notte, poi andremo a scaldarci e a mangiare nel mio appartamento, vuoto come la mia vita. Riempite entrambi e consentitemi di prendermi cura di voi, così come, stasera, voi vi siete prese cura di me, facendomi uscire dal bozzolo di solitudine e avversione in cui vivevo.»
Sonia smarrì ogni parola da proferire, non aveva più voce; le iridi si velarono di commozione e le labbra tremanti si acquietarono posandosi, accorte e smaniose, sulla bocca rinsecchita dal freddo di Ruggero. Sì avvinghiò a lui che, vibrante di ardore, sussurrò: «Aveva ragione Clara, il Natale è magico.»
Vittoria batté le mani, infilandosi tra i loro corpi intrecciati e stringendosi a loro. «È merito della magia del Natale e quella dell'amore,» pronunciò, poi, a fior di labbra anche la sua verità, «ma è, soprattutto, merito della mia magia.»
Ruggero si inclinò per aggiungere un ciocco di legno nel camino, una smorfia di dolore sfigurò il volto e soffocò tra le labbra un grido, tentando di non svegliare il batuffolo rosa che dormiva beatamente nel passeggino a pochi passi dal divano di pelle. «Papà, se mamma ti vedesse, inizierebbe a urlare, svegliando il tenore.» Vittoria entrò, brandendo tra le mani il nuovo videogioco, e si avvicinò alla neonata sorella per controllare che stesse ancora dormendo. L'aveva apostrofata affettuosamente tenore per le sue doti di urlatrice, ma stravedeva per lei e mai aveva sofferto di gelosia alla sua nascita, soprattutto perché Ruggero, che lei aveva iniziato a chiamare papà, non aveva mai mostrato preferenze tra lei e la figlia naturale. Le amava ambedue, quella a cui aveva dato la vita e quella che la vita l'aveva ridata a lui, cinque anni prima, insieme alla bellissima madre, divenuta ormai la moglie. Si era assopito sul divano, accanto alla pargola, appesantito dal cenone preparato da Sonia. Si era destato pochi minuti prima, ricordando il sogno fatto: la sera della vigilia di Natale in cui tutto ebbe inizio, quando l'emozione di stringersi a loro fiottò dalla bocca e dal cuore.
«Non ti starai mica affaticando?» Sonia aveva udito il parlottio tra padre e figlia ed era sopraggiunta dalla cucina dove era intenta a rassettare, per evitare che l'indomani lo facesse Clara, ormai troppo in là con gli anni, ma ancora al loro servizio.
Ruggero sorrise mesto, colpevole, ma il luccichio guizzato nelle iridi della moglie gli diede un nuovo slancio. «Non fa male, posso fare tutto per voi. Ricordi? È la magia del Natale e dell'amore.» Si avvicinò a lei, senza l'ausilio del bastone, e circondò il corpo rinvigorito, dagli agi, di Sonia, catturando, famelico, le sue labbra.
«Ma, soprattutto, è la mia magia, perché l'ho fermato in tempo!» Vittoria innalzò le braccia, a mo' di esultanza, e si unì, festante, al loro abbraccio.
Erano uniti, stretti l'un l'altro, accanto alla finestra che, un tempo, li aveva divisi e fissavano, ammaliati, la neve fioccare copiosa, mentre il tenore intonò il suo canto di risveglio e catturò la loro amorevole attenzione.
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