Correva l'anno
Correva l'anno 1943. Era l'anno dei primi rastrellamenti. L'anno in cui le leggi razziali trovarono la loro più efferata applicazione.
Ho avuto più di settant'anni di tempo per scovare le parole per raccontarti questa storia. Erano frasi costruite abilmente nel silenzio della mia solitudine ma che, puntualmente, morivano sulle mie labbra, lasciando su di esse il sapore della codardia. Ora, arrivata alla fine dei miei giorni e privata dalla malattia finanche della possibilità di poter udire il suono della mia voce, reputo inevitabile lasciarti questo scritto. Una lettera in cui vi è raccontata una storia. Non è, però, la storia della guerra, quella stessa che avevo scelto di raccontare ai miei studenti. Con queste ultime mie parole, voglio raccontarti una storia di speranze. La storia di come il popolo napoletano difese i suoi ebrei. La storia della tua vita.
I miei piedi calpestavano con forza il manto asfaltato di via Scarlatti, diciotto chilometri da percorrere correndo per arrivare sul ponte del rione Sanità, lì dove erano iniziate le prime rivolte contro chi stava commettendo un abominio. Era una notizia giunta alle mie orecchie grazie al passaparola, voci susseguitesi l'un l'altra, un chiacchiericcio che bramavo fosse infondato.
Dovevo, però, scoprirlo con i miei occhi giacché, nell'ipotesi cui la notizia fosse stata veritiera, Davide sarebbe stato lì a difendere la libertà, la sua e quella di chi, come lui, possedeva un'unica colpa: essere ebreo.
Davide, il ragazzo che avevo amato sin dai primi sguardi incastrati tra loro. Una passione sbocciata tra i banchi di scuola del liceo Sannazzaro, quello stesso che lui era stato costretto ad abbandonare cinque anni prima come da impedimento delle leggi razziali. Quel liceo diventato sede di assemblee dove gli studenti, insofferenti, cercavano di organizzarsi per bloccare l'intolleranza tedesca.
Davide, il ragazzo a cui era stato negato il diritto di varcare le soglie dell'università, al mio fianco come avevamo sempre sognato.
Colui che aveva preso, con dolcezza, la mia innocenza e che aveva venerato il mio corpo nudo disteso sulla spiaggia del Bagno Elena.
Davide, il padre del bambino che portavo in grembo di cui non avevo, ancora, fatto parola alcuna, neppure a lui.
Era il venticinque settembre 1943.
Ogni minuzioso particolare era stato organizzato dalle truppe tedesche già da tempo, ma lo scoprimmo solo dopo il suo verificarsi. Erano pronti i vagoni ferroviari, gabbie prive di luce e di aria, ed erano stati stilati elenchi con i nominativi degli ebrei da rastrellare per l'operazione chiamata "Samstagsschlag", il colpo a sorpresa del sabato.
Inchinati alla viltà, i nazisti scelsero di deportare gli ebrei della nostra città nel loro giorno santo, colpendoli quando erano distratti. Genuflessi all'arroganza, avevano scelto Napoli come preludio della loro crudeltà giacché considerata remissiva ai loro occhi, un popolo incline alla prostrazione dinanzi ai dominatori.
Avevano sottovalutato, però, l'orgoglio popolare dei miei concittadini e quell'operazione divenne una sorpresa unicamente per le truppe tedesche.
Giunsi al rione Sanità accaldata e trafelata, le ginocchia si piegavano e il cuore tamburellava contro il costato. Lì, dinanzi ai miei occhi sbarrati dal terrore, scorsi uomini, donne e scugnizzi che imbracciavano mitra, pronti a far fuoco sul nemico.
Osservavo ogni uomo armato, in cerca dell'unico ragazzo mai amato; battiti accelerati riecheggiavano nelle mie orecchie mentre gocce di sudore imperlavano la fronte e la colonna vertebrale.
Nelle mie orecchie rimbombava il coro che fuoriusciva con orgoglio dalle labbra di ogni individuo armato "Adesso ve lo facciamo vedere noi chi sono i Napoletani".
Un sorriso aveva orpellato le mie labbra quando intravidi la figura di Davide e le nostre iridi si erano incrociate in una muta dichiarazione di appartenenza. Vacillavo sotto lo sguardo accorato di colui che aveva eretto un muro tra noi, sebbene fossi consapevole dell'altruismo del suo gesto. Voleva proteggermi, preservarmi dalla minaccia che incombeva sulla sua gente e su chi, come me, si era ammantata in un amore che non aveva razza. Erano passate più di due settimane da quando ci eravamo osservati, per l'ultima volta, con il bagliore della speranza che riverberava sui nostri volti. Eravamo stretti in un groviglio inestricabile di braccia, nascosti dietro un muro di cinta, e c'era solo il rumore soave dei nostri baci a riempire il silenzio di quel vicolo. Poi, la voce stridula di una donna, protesa dal davanzale della sua abitazione, aveva spezzato l'incanto, portandone un altro. "È furnuta 'a guerra! È furnuta 'a guerra!" rimbombò nelle nostre orecchie e nei cuori tonanti, vibranti di un'effimera illusione. La voce di Badoglio era entrata in ogni casa, facendo germogliare l'infido seme di un'aspettativa che fu, però, delusa dai tedeschi. Non vollero andar via, piantanti in una città che, invece, li voleva estirpare come gramigna, malerva.
E Davide era sparito, risucchiato dalle viscere della nostra terra, laddove si nascondeva e organizzava l'insurrezione.
Era nuovamente innanzi a me, incastrava le pupille alle mie e sussurrava il mio nome a fior di labbra. I ricci castani erano sparpagliati in ogni direzione, le iridi scure erano rischiarate dal bagliore della speranza, mentre i pettorali flettevano attraverso la stoffa della maglietta azzurra; aveva un mitra tra le mani e un sorriso mesto si era formato sulla bocca appena aveva notato la mia presenza.
I raggi del sole riverberarono sulla sua figura, illuminando la mia vita.
Un battito di ciglia e, poi, il caos avvolse i nostri corpi frementi di passione, di ira e timore. Ripetuti e assordanti colpi trafissero i miei timpani, riecheggiando nel costato, mentre dinanzi alle pupille calava il velo dell'oblio. Davide era riverso sull'asfalto, giaceva inerme ai miei piedi e io crollavo con movimenti sgraziati accanto alla sua sagoma.
La schiena era puntellata da numerosi colpi,
il sangue fuoriusciva a fiotti, inzuppando i suoi vestiti e anche i miei; il mio cuore smarrì ogni suo battito, sotto i colpi di una lama ardente che penetrò la carne e trafisse le ossa.
Sporca di fango, sangue e lacrime.
Grondante di marciume e mortificazione.
Fu l'ultima immagine che potei osservare, prima che l'oscurità mi avvolgesse nel tepore dell'incoscienza. C'era solo un borbottio ovattato intorno a me, urla e ordini sibilati a denti digrignati di cui non ho memoria. Non so chi mi portò via da lì, avvertii solo il mio corpo che veniva trascinato da braccia possenti, mentre a me apparve di librare nell'aria, riuscendo così a raggiungere Davide laddove non c'era più guerra.
Fu l'ultima immagine dell'uomo che amavo e che sarebbe rimasta impressa nella mia mente per oltre settant'anni, la stessa che si palesa dinanzi ai miei occhi ora che sono sul punto di chiuderli per l'eternità, bramando di poter congiungermi con colui che ci avrebbe amato più di ogni altra persona a questo mondo.
Tuo padre.
Mi destai qualche ora dopo, le palpebre si innalzarono lentamente e, tra il tremolio delle ciglia, osservai la soffitta ammuffita di una cucina che non ricordavo; guardai, stranita, il mobilio e portai gli occhi alla finestra sbarrata. Ero distesa su un giaciglio di fortuna: una poltrona reclinata a cui mancavano entrambi i braccioli. Mi issai e un dolore fulminante trafisse l'ossatura, puntai le pupille sui miei vestiti e il sangue di Davide pizzicò i miei occhi. Era lì a imbrattare un jeans sbiadito e una canotta verde, macchiando la mia pelle di un tribolo che non avrebbe mai avuto fine.
Urlai il mio dolore con quel fiato che non voleva abbandonarmi, nonostante anelassi di morire; furono grida che squarciarono il cielo, benché non riuscissi a vederlo in quel luogo, e crearono trambusto tra gli abitanti della casa. Giunsero accanto a me, atterriti, e tentarono, invano, di placare la mia disperazione. Fu quando udii il suo nome che cercai di capire cosa stessero dicendo. «Sei la ragazza di Davide, vero?» era una voce maschile, benché io non riuscissi a vedere, nell'offuscamento dovuto alle lacrime, il suo volto. Annuì a mo' di assenso e l'uomo proferì la sua costernazione: «Mi dispiace tantissimo, lui credeva molto in questa rivolta e teneva a te più di ogni altra persona. Non faceva altro che sfinirci parlando della sua ragazza. Noi, ora, dobbiamo andare là fuori. Faresti meglio a ritornare a casa; appena avverti che la situazione si è calmata, esci dalla porta sul retro e scappa.» Mossi il capo per acconsentire, benché non avessi alcuna intenzione di andarmene senza vendicare l'uomo che amavo.
I ragazzi andarono via, rammaricati per una perdita che aveva scosso anche loro. Attesi di rimanere sola, poi cercai un'arma e varcai la soglia di quel basso con le pupille irradiate da un dolore cocente.
E sparai, sparai! Affondai i polpastrelli sul grilletto, serrando le palpebre e stringendo i denti. Diventai come i nemici, carnefice e burattino, i cui fili erano nelle mani dell'odio che mai avrebbe avuto giustificazione.
Partecipai alle sommosse che si susseguirono nei giorni successivi, giorni intensi e sanguinari, che valsero alla città una medaglia d'oro al valor militare e tanti figli perduti. Ero con loro, al posto di Davide, e avevo smesso di tremare e chiudere gli occhi poiché volevo vedere i volti di chi affondava sotto i miei colpi.
Volti che non mi hanno mai lasciato libera, hanno serrato il mio corpo in un rovo pungente; aculei avvelenati hanno punto il mio sangue e infettato la mia anima. Settant'anni di rimorsi, di notti insonne in cui si alternavano il ricordo soave di Davide e il rimpianto di aver ceduto al desiderio di vendetta. Visi astrusi si sovrappongono al suo anche ora e mi impediscono di vederlo davvero, poiché l'amore si è mescolato all'odio e la guerra non mi ha mai abbandonato.
Fuori e dentro di me.
Eravamo stati il primo popolo in Europa a scacciare l'avanzata degli invasori, loro erano andati via ma mai il sangue degli innocenti che imbrattava i vicoli fu cancellato, così come indelebile è stata la macchia sulla mia anima.
È furnuta 'a guerra!
Era un grido che aveva infiammato le mie viscere; eppure, non era vero. Non è mai finita per chi, come me, l'ha vissuta. Le mie palpebre calano per la stanchezza e la smania di ricongiungermi a Davide, ma il fracasso dei bombardamenti mi riporta qui e comprendo di non poter trovare pace neanche nell'agognata morte.
Invoco il tuo perdono, figlio mio, e prova a guardare me e tuo padre non come assassini, ma come figli di un'illusione. Mai avrei immaginato che quella battaglia mi avrebbe privato di ogni pezzo di me, quelli migliori.
Ho avuto più di settant'anni di tempo per raccontarti questa storia, rivolgerti una preghiera, ma l'impavida eroina che era in me è morta sotto un colpo di mitra che affondò nel mio ventre, laddove da seme d'amore divenisti angelo.
Ora, però, voglio tornare da voi con l'animo priva di ogni macchia e con la certezza che voi due siate lì ad aspettarmi. "Sto arrivando, finalmente!"
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