雨の日 ~ Those Days Of Rain ~ KuroKen ~
⚠️Disclaimer⚠️
Questa storia partecipa al contest di _melilissa_ , esserechemangia .
Vorrei fare qualche piccola precisazione riguardo questa One Shot.
Come alcuni di voi sapranno, la KuroKen è la mia comfort ship.
Ho davvero un legame speciale con questa ship, per tanto ci tenevo a scrivere, per l'ennesima volta di loro.
Ho meditato a lungo se dividere la storia in 2 o lasciarla unica, alla fine ha vinto la seconda opzione.
Mi rendo conto che sia lunghissima, la più lunga finora.
Vi chiedo come sempre un po' di pazienza!
Magari alla fine sarà un bel viaggio, nonostante le ventimila parole!
Ho scritto questa storia utilizzando questa colonna sonora, per immergermi di più nel "mood" se così si può dire.
Se la lascio di seguito qualora vi vada di leggerla con la stessa modalità!
https://youtu.be/GMSpVGBd3A0
Vi aspetto nei commenti, per conoscere le vostre impressioni!
Vi lascio ai soliti disclaimer!
• Questa One Shot contiene un linguaggio estremamente scurrile e/o volgare, con la presenza di scene di sesso poco esplicite, per tanto non è andata ai minori.
• Presenza di Angst (lieve a dire il vero, ma questo è solo secondo il mio giudizio)
•Tematiche delicate: TW/death. (unici riferimenti a scene di morte per nulla grafiche e descrittive, ma visto che non si sai mai lo specifichiamo.)
Buona lettura.
*
~ Kuroo x Kenma ~
雨の日
Those Days Of Rain.
Parole: 20545.
*
Dieci quadrilioni.
Ogni frazione di secondo, all'interno del cervello avvengono contando tutte le sinapsi, circa dieci quadrilioni di connessioni.
Dieci quadrilioni di informazioni vengono codificate, impacchettate dentro impulsi elettrici e spedite all'interno della rete neurale che compone il nostro cervello.
Dieci quadrilioni.
Un numero con quindici zeri.
Da capogiro, così tanto che le mie mani tremano nello scrivere meticolosamente, zero dopo zero, la cifra su un foglio di carta ingiallito.
Ci ho versato sopra del caffè, distrattamente, mentre mi sgranchivo le articolazioni delle braccia intorpidite.
Non ho idea di che giorno sia o di che ora sia.
La luce non filtra dalle tapparelle abbassate del mio studio, anche se più che chiuse sono completamente serrate.
Sbarrate da così tanto che probabilmente il meccanismo si sia inceppato, annoto mentalmente che dovrei farlo controllare, ma ogni qual volta arriva il momento di chiamare qualcuno, puntualmente me ne dimentico.
Continuo a pensare ai numeri, ossessivamente e senza distrarmi neanche quando mi trovo costretto a mettere qualcosa sotto ai denti.
Non apro la porta di casa da mesi, non lascio lo studio da altrettanto tempo.
Dieci quadrilioni.
Dieci quadrilioni di collegamenti, di impulsi nervosi scambiati nel giro di una ridicola manciata di secondi, fanno di noi quel che siamo.
Dieci quadrilioni ci rendono umani.
Umani in grado di pensare, di muoverci, di emozionarci, di sognare e di parlare.
Perché alcune persone gesticolano più di altre?
Perché qualcuno dovrebbe arricciare il naso e strizzare gli occhi, quando ride?
Perché qualcosa fa ridere e qualcos'altro no?
La risposta è sempre racchiusa dentro quei dieci quadrilioni di scambi totali.
Ogni neurone di per sé in un'unità di tempo, ne produce in media tra le cinquecento e le mille, di connessioni.
Tutta la rete sinaptica, dieci quadrilioni.
Sono troppe anche solo da immaginare, eppure proprio mentre m'interrogo su queste cose, sto contribuendo a quei dieci quadrilioni di informazioni.
Lavorando nel campo dell'informatica da anni, o per meglio dire in quello dell'intelligenza artificiale, mi sono scontrato spesse volte con numeri incomprensibili; numeri che non riuscivo neanche ad immaginare, e che per scrivere, tante volte, mi ritrovavo a semplificarmi la vita utilizzando le potenze in base 10.
Eppure, il computer ha sempre immagazzinato centinaia, migliaia, miliardi d'informazioni nel giro di qualche secondo.
Il tempo di un click, il tempo che le mie mani pigre pigiassero l'invio sulla tastiera.
Tutte quelle informazioni, restavano schiacciate dentro a pochissimi bit e qualche stringa di codice.
Così giusto per provare, quanto tempo impiega l'informazione che diamo a Google per far accendere la luce, a tramutarsi nell'effettivo accendimento della lampadina?
Circa 0,03 secondi.
Quanto ci ho messo, per far sì che questa tecnologia fosse accessibile anche al figlio drogato della vicina di casa?
Anni.
Anni di studio, di testing, di codice, anni di bit che immagazzinavano informazioni.
Però ecco, adesso funziona.
Adesso possiamo parlare con un Dio sconosciuto che ci accende la luce, tramite un singolo pacchetto d'informazioni che viaggia per internet.
Adesso ci basta puntare la faccia verso un sensore della fotocamera, per sbloccare il nostro costosissimo smartphone.
Adesso possiamo far partire la musica a nostra madre mentre pulisce la cucina, per farle prendere uno spavento, tutto comodamente da un altro cazzo di Stato.
Quante connessioni ci sono, all'interno di un'intelligenza artificiale primordiale come questa?
Poche, poche se comparate a quei dieci quadrilioni che avvengono, senza alcun tipo di sforzo, nella nostra testa.
L'AI più complessa che ho codificato ne prevedeva un numero con nove zeri.
Un bilione, e cazzo un bilione è tantissimo.
Non ci sono neanche sul pianeta Terra un bilione di persone.
Ma ogni qual volta credo di star avvicinandomi a quei dieci quadrilioni, mi rendo conto che in verità sono sempre più lontano.
Che non li sto scalfendo minimante, quei dieci quadrilioni.
Loro restano lì, in cima alla torre più alta, e si sporgono sul fondo solo per sputarmi addosso quando cazzo sono inadeguato, se paragonato a loro.
Ce li ho nella testa, dieci quadrilioni di connessioni per unità di tempo, ma non riesco ad imprimerli dentro una macchina.
Non riesco a codificarli, non riesco neanche ad avvicinarmici a qualcosa del genere.
E questo è quello che mi ossessionava fino a qualche tempo fa.
Ma poi, poi Kuroo è andato in America.
Aveva un importantissimo lavoro di ricerca che lo ha spinto fino ad oltreoceano, e sinceramente non me la sono sentita di fermarlo.
Per lui, era il lavoro della sua vita ed io non potevo mettermi a giocare al ragazzino capriccioso, chiedendogli di scegliere tra me e la sua carriera.
Forse lui lo avrebbe apprezzato, essendo che un po' sadomasochista c'è sempre stato, ma io non potevo.
Un giorno mi fece una telefonata, che aveva tutta l'aria di essere una di quelle conversazioni che iniziano con il raccontarsi le nostre giornate e che finiscono con il cazzo in mano davanti ad una webcam, ma quel giorno le cose andarono diversamente.
Kuroo mi disse che era stato invitato nel dipartimento di informatica, e più nel particolare, che avrebbe seguito una conferenza di un suo collega per quanto riguardava le reti neuronali artificiali.
Ricordo di aver scollegato il cervello, di aver deglutito così forte che Kuroo pensò mi stessi strozzando.
E ricordo di aver immediatamente sentito l'erezione torcersi in mezzo alle mie gambe.
Cazzo, mi venne di marmo.
Tutto fu così rapido che mi ritrovai ad ansimare davanti allo schermo del portatile, masturbandomi più che sul mio fidanzato, su quanto mi avesse appena detto.
Oltreoceano c'era qualcuno che stava lavorando alla mia stessa irraggiungibile scommessa.
Una rete neuronale artificiale che copia, informazione dopo informazione, bit dopo bit, ogni processo biologico che avviene nel nostro cervello.
Dieci quadrilioni di informazioni all'interno di un processo artificiale, che si autoalimenta succhiando come una puttana dall'internet, ogni singola informazione che fa di un essere umano, un cazzo di essere umano.
Kuroo disse che era certo che mi sarebbe interessato.
Cazzo sì.
Mille volte si.
Anzi, dieci quadrilioni sì.
Mi diede il recapito telefonico di quel certo Krönberg Matheus, ed io lo chiamai senza aspettare che in America fosse un orario decente per ricevere una telefonata.
Matheus è un uomo di mezz'età, che aveva dedicato la sua vita alla ricerca, dapprima in ambito fisico e solo da qualche decina di anni, anche a quello dell'intelligenza artificiale avanzata.
Nonostante vivesse in America da oltre quarant'anni, Matheus conservava ancora quel fortissimo accento tedesco, che lo rendevano un po' buffo alle mie orecchie.
L'idea di Matheus era semplice, così semplice che dovetti reprimere l'impulso di chiudergli il telefono in faccia.
Così semplice eppure così dannatamente intrigante.
Il nostro limite, per arrivare a sfiorare quei dieci quadrilioni, era essenzialmente un limite di memoria e di processi che andavano a buon fine nel più breve tempo possibile; ciò che non riuscivamo a fare era evitare il sovraccarico di informazioni, la sovrascrittura di cortecce d'interfaccia già allocate e la riduzione sotto la soglia dell'1% dell'errore.
Non era proprio come succhiare un cazzo, insomma.
Era dannatamente complesso riuscire ad abbassare quella soglia d'errore, e più quella percentuale era alta e meno informazioni complesse che si auto-apprendevano potevamo generare.
Più c'era l'errore umano e più non potevamo avvicinarci a quei dieci quadrilioni che s'innescano naturalmente, nella nostra testa.
È ironico, non è vero?
Dieci quadrilioni di informazioni, alle quali abbiamo accesso solo per un misero 5%.
Dieci quadrilioni di informazioni che la natura ha creato ed evoluto da sola, ed io non sono in grado di replicarne neanche la metà tramite algoritmi dalla complessità disarmante.
Matheus mi disse che forse stavamo guardando nella direzione sbagliata: che piuttosto che concentrarci su quanti strati di deep learning- ovvero quanti layer la nostra intelligenza artificiale dovrà creare per riconoscere e classificare un'informazione- servono, ma piuttosto che avremmo dovuto pensare a come semplificarglieli.
Mi spiego meglio: se diamo ad una macchina il compito di riconoscere una forma geometrica elementare, come un triangolo, questa inizierà da un primo strato di soli numeri, poi di pixel, poi di linee e così via, fino alla formulazione della risposta corretta ovvero che quello che ha davanti è un cazzo di triangolo.
Così funziona il deep learning, e secondo Matheus non avremmo dovuto pensare al "tempo" impiegato per stratificare la risposta, bensì avremmo dovuto noi, da bravi genitori, semplificargli il compito.
Un bambino per imparare a distinguere le forme, nella fase dell'apprendimento, impiega forse qualche minuto.
Fa delle prove, dei test veri e propri, prima di capire che il triangolo ha tre lati e che non entrerà mai nella cavità che ne presenta quattro.
Una scimmia impiega qualcosina in più rispetto ad un bambino.
La domanda di Matheus era: come facciamo a semplificare l'apprendimento di una macchina?
Non abbiamo accesso a quei dieci quadrilioni, però forse... forse possiamo aggirare il problema.
Matheus a dire il vero era un uomo brillante, ma non riusciva a vedere oltre delle sue capacità.
Ecco perché la risposta non arrivò a lui, bensì a me.
Ci sono riuscito alla fine, ma preferirei non esserci arrivato a quei dieci quadrilioni.
Preferirei non aver dovuto sacrificare quanto di più caro avessi.
Il modo in cui la risposta arrivò, tormenta ancora i miei sogni.
*
Pioveva a dirotto quel giorno.
Dalle finestre del mio studio, nel mentre mi preparavo per andare a letto, sentivo il cielo contorcersi in delle doglie di tuoni e pioggia fitta.
C'era il vento che ululava contro le case, che faceva sbattere le imposte delle finestre dell'appartamento di fianco.
Era quasi mezzanotte, ed avevo stranamente già terminato di far quel che dovessi fare.
Aspettavo solo di infilarmi sotto le coperte, stringere uno dei cuscini di Kuroo ed immaginare di averlo di fianco a me steso nel letto.
Il suo lato è sempre rimasto freddo, durante quelle notti di tempesta.
Non potevo stringermi al suo corpo bollente, tutto quello che potevo fare era avvinghiami ad un cuscino e fingere.
Fingere che fosse con me, che potesse rassicurarmi come faceva quand'era ancora un ragazzino, mentre accarezzava i miei capelli sottili e chiari, sorridendomi ch'ero il più bello del mondo.
A ripensarci, non sento più l'imbarazzo che sentivo all'epoca.
Adesso mi sento davvero il ragazzo più bello del mondo, nonostante io sappia di non esserlo, e questo è perché Kuroo m'aveva davvero convinto.
Mi aveva fatto credere di essere il più bello, il più divertente ed il più intelligente.
Quando mi guardava con quegli enormi occhi dorati e felini che si ritrovava, nel riflesso di quelle iridi io ci scorgevo davvero la figura di un me stesso migliore, uno che rasentava la perfezione benché questa non esista.
Chiusi gli occhi, stringendomi al centro di un letto pensato per due, ricordando il suono della voce di Kuroo, il suo profumo ed il modo che aveva di sfiorarmi il profilo.
Kuroo mi faceva sentire bello, mi guardava come se fossi la cosa migliore della sua vita, mi parlava come se fossi la più importante; aveva quella voce roca, che trasudava una dolcezza imbarazzante, che ti s'appiccicava addosso e non ti mollava più.
Mi accarezzava, mi stringeva e mi baciava ogni qual volta che n'avesse l'occasione: e poco gli importava se fossimo a casa nostra, a scuola o nel bel mezzo di una conferenza.
Kuroo era semplicemente fatto così, ed io ero fatto per lui, nonostante cercassi sempre di raccontarmi il contrario.
Avevamo bisogno l'uno dell'altro, eravamo co-dipendenti nello stesso modo, nel nostro bellissimo equilibrio distorto.
Pioveva quel giorno, così tanto che la prima telefonata che mi fece non la sentii.
Fu il suono della sua voce che uscì da sotto le coperte, attraverso lo speaker del mio cellulare, a farmi rispondere a quel messaggio che stava lasciando nella segreteria telefonica.
<< Oh... ma allora ci sei...>> disse la sua voce, leggermente robotica.
<< Tetsu... non chiami mai a quest'ora.>> gli risposi.
Fece una risatina, durante la quale immaginai il suo sopracciglio destro sollevarsi di qualche centimetro sulla sua fronte.
<< Lo so, ma volevo sentire la tua voce, micetto.>>
C'era qualcosa di strano nel tono della sua voce, quasi come se mi stesse salutando per sempre.
Ma lui sarebbe rientrato tra due settimane in Giappone, ed ogni volta che ci sentivamo non faceva altro che ricordarmi di questo ridicolo countdown.
Qualcosa dentro di me, forse il mio sesto senso, mi fece rabbrividire rizzando tutti i peli che avevo sul corpo.
"Non ha forse intenzione di restare in America?"
<<... Ku...>>
<< Sai, stavo pensando... ti ricordi la casa dei miei genitori... quella in montagna?>> disse improvvisamente, facendomi restare quel groppo di cattivi presagi in gola.
<< Mh-mh... ma ora cosa c'entra?>>
<< Ti ricordi che la prima volta che abbiamo fatto l'amore, eravamo bloccati lì per una bufera di neve?>>
In quel momento, senza neanche sapere perché, una lacrima scese solitaria lungo la mia guancia, mentre mordevo il bordo della manica della felpa che stavo indossando.
<< Mi stai lasciando?>>
Kuroo rise nuovamente, facendomi sentire improvvisamente uno stupido per solo aver avuto quel tipo di pensiero.
<<Ma che dici... Ti amo micetto, non vedo l'ora di strapazzare quel tuo bel faccino.>>
Tirai un sospiro di sollievo, sentendo il peso sul mio cuore sciogliersi, esattamente con la stessa rapidità con il quale s'era formato.
Kuroo ogni tanto si faceva prendere da certi sentimentalismi estremi, che lo portavano ad essere molto nostalgico del tempo che avevamo trascorso insieme.
Delle volte arrivava anche a definirsi geloso del sé stesso del passato, per essere stato con me in tantissime occasioni, cosa che ora per via dei nostri rispettivi lavori, era sempre più difficile fare.
<< Sei uno scemo, Kuro.>>
<< E non ti piaccio proprio perché sono più scemo di te?>>
Un sorrisetto sfuggì dalle mie labbra, spazzando via immediatamente tutta quella tristezza di cui mi stessi bagnando, nonostante fossi con la testa sotto le coperte del letto.
Ciò che la lacrima di prima aveva cercato di dirmi, fu sovrascritto da quel sorriso che solo Kuroo era in grado di rubarmi.
<< Forse...>>
Ci fu una pausa, e qualcuno che parlava in inglese riempì la mia stanza, provenendo dall'ambiente in cui Kuroo si trovasse in quel momento.
<< Dove sei?>> chiesi, rotolandomi pancia in su, all'interno del bozzolo di coperte che avevo avvolto attorno al corpo.
<< In laboratorio, oggi abbiamo qualche faccenda da sbrigare...>>
Annuii, stiracchiandomi le braccia.
<< Stai attento.>> mi sfuggì dalle labbra.
Una rassicurazione come un'altra, qualcosa detto per circostanza, senza che avesse davvero una valenza di rimprovero apprensivo.
Kuroo era ossessivo nel suo lavoro, soprattutto quando si trattava di maneggiare nuclei radioattivi di isotopi instabili, ed io lo sapevo bene.
Non aveva bisogno di me che vestissi i panni del fidanzato ansioso, lui sapeva cavarsela benissimo già da sé.
Per lui, per chi lavorava sotto di lui e con lui, la sicurezza veniva prima della scienza.
E sicuramente veniva anche prima del fatto di ammettere che, nonostante il suo dottorato di ricerca avesse una facciata umanitaria- cioè si occupasse di neutralizzare gli effetti radioattivi degli isotopi dell'uranio-, lui dentro di sé, sapeva che ci fosse una certa valenza militaristica, in quel che stesse facendo.
In fin dei conti lo sapevo anche io.
Non poteva mai parlarne per telefono.
Non poteva neanche mostrarmi dove lavorasse sul serio, e non poteva propriamente neanche stare al telefono mentre si trovava dentro ai laboratori, ma ogni tanto lui disubbidiva.
Io l'ho sempre immaginato in un angolino, stretto dentro al suo camice bianco, mentre mi diceva a bassa voce che mi amava tantissimo.
<<Devo andare.>> concluse poi.
<< Buonanotte micetto.>>
<< Ti amo Tetsu.>> gli risposi.
Quel giorno pioveva fortissimo.
Il cielo veniva squarciato da lampi luminosi come luci da stadio, e l'aria si riempiva del frastuono di quegli elettroni che si scontrano nelle nubi, producendo tuoni assordanti.
Non riuscii a sentire cosa mi disse Kuroo, prima di riattaccare.
Sussurrò qualcosa, che forse la mia testa registrò come un ennesimo "ti amo" ma, a dire il vero, io non ne fui troppo sicuro.
Il rumore della tempesta s'abbatteva con violenza su quella linea telefonica leggermente disturbata, solo che io m'addormentai ugualmente, con in testa la voce di Kuroo che diceva d'amarmi, nonostante tutto.
Nonostante la pioggia, risuonava chiara quella frase.
Nonostante l'uragano che si stesse abbattendo all'esterno e che avrebbe lasciato permanenti danni anche dentro di me, io chiusi gli occhi sognando l'uomo della mia vita, che dolcemente mi sussurrava d'amarmi come se fosse il primo giorno.
*
Oggi piove.
Il cielo è carico, cupo, chiuso e nero.
È una macchia d'inchiostro su una pagina bianca, che s'espande e rovina il foglio, rovina il paesaggio, rovina tutto.
Rovina me.
Stringo con le mani guantate un ombrello, sento il legno del manico tra i miei polpastrelli, che lo tengono così stretto come se potesse venirmi portato via dal vento, da un momento all'altro.
Lo stringo facendo fermare la circolazione del sangue.
Qualcuno mi ha messo in mano un ombrello, da quando ha iniziato a piovere, però non ricordo chi.
Etica.
Bioetica.
Dieci quadrilioni.
Moralità.
Pioggia.
La terra rilascia un pungente odore di bagnato, d'erba appena tagliata e d'acqua piovana che ristagna e tintinna su tubature metalliche.
Penso, lasciandomi guidare dal rumore delle gocce che martellano i tubi.
Viaggio, più che altro con la mente, trasportandomi da solo in un luogo molto lontano rispetto a dove sono adesso.
Sento il fragore della pioggia, l'odore della pioggia, il freddo della pioggia.
La sento, eppure quando sbatto le palpebre, i miei occhi sono umidi di lacrime che non piango e mi mostrano un luogo dove non sono.
Giusto.
Sbagliato.
Il vento mi scompiglia i capelli che tengo disordinatamente dietro l'orecchio.
Una folata, nulla di più.
Un soffio gelido, arrossa le mie guance e mi lancia i capelli sul viso, nulla di più.
Sento il vento: sulla pelle, sul viso, nel freddo che mi permea attraverso il capotto, eppure la mia faccia non cambia espressione.
Si scompongono i miei vestiti, la camicia scura che qualcuno ha stirato per me questa mattina, la giacca pesante che porto al di sopra, la sciarpa che dovrei tener annodata al collo ma che, invece, scivola distrattamente sotto al colletto del cappotto.
Esseri umani.
Vita.
Morte.
Dieci quadrilioni.
Ci penso, mentre intorno a me continua a piovere.
Penso a quanto sia fragile il cammino, a quanto sia lontana la meta.
Penso a quanto sia rovente il deserto, proprio in questo momento mentre mi bagno d'acqua sporca.
Penso a quanto siano alti i monumenti, in una città lontana a diversa da quella in cui mi trovo io.
Penso a quanta gente stia avendo un orgasmo proprio in questo momento; quanti stanno litigando, quanti stanno piangendo dal ridere o dal dolore, proprio adesso.
Ci penso.
Non c'è un motivo preciso, o forse sì, ma in questo momento sotto questa pioggia, l'unica cosa che mi viene lieve è quella di pensare a tutt'altro.
Di trasportarmi da solo lontano da qui, lontano da questo tintinnare di grosse gocce che esplodono, cariche dello stesso rancore che mi porto dentro.
Dieci quadrilioni.
Oggi più che mai i numeri tornano a tormentarmi.
Quindici zeri come li ottengo?
Quindici zeri come li scrivo?
Dove sto sbagliando?
Dov'è che ho sempre sbagliato?
Ci penso, con smania, con rinnovata ossessione come se da questo dipendesse la mia stessa vita.
Alla fine forse è davvero così.
Forse sono nato con il solo scopo di vendere la mia anima al diavolo, pur di raggiungere quei dieci quadrilioni.
È un patto estremo, che non dovrei firmare proprio nel momento in cui mi sento più debole ed instabile, ma sono un codardo, sono un essere infimo mosso dalla paura, e per tanto, firmo.
Scrivo il mio nome, su un foglio invisibile, che mi viene porto da un essere che non è di questo mondo.
È la conoscenza?
È il bisogno di colmare una mancanza?
È solo l'ossessione di un uomo al quale non resta più nulla?
Non lo so, forse sono tutte e tre le cose messe assieme, o forse nessuna di esse.
Piove, non sento la voce di nessuno, se non quella di Dio che m'implora di fermarmi.
Mi scaglia contro le sue maledizioni, per la superbia di un uomo che crede di poter fare quel che ha fatto lui, e di farlo pure meglio.
Dieci quadrilioni.
Come ci sei riuscito Dio?
Come hai fatto a progettare gli uomini affinché funzionassero in questo modo?
Come sei riuscito a chiudere in una scatola delle dimensioni esigue, tutta questa potenza di calcolo?
Tutte queste informazioni, processate, analizzate, assorbite, nel giro di pochi secondi, com'è possibile?
Stringo forte il manico dell'ombrello, osservando un punto a terra che non riesco a mettere bene a fuoco.
C'è solo l'odore umido della terra, quell'incessante ticchettare metallico, il fragore delle gocce che s'infrangono sull'erba.
Dieci quadrilioni.
Quindici zeri.
Come ci arrivo?
Come abbasso la soglia d'errore?
Uno percento, una deviazione dell'uno percento.
Come la plasmo?
Come la codifico?
Come la semplifico?
Qualcuno chiama il mio nome, ma me ne rendo conto solo quando una mano grassoccia si posa sulla mia spalla.
<< Good evening, you must be Kenma.>>
"Buon pomeriggio, tu devi essere Kenma."
È un uomo tozzo, basso, molto più basso di me.
Ha i capelli rossicci, diradati per il tempo ch'è passato non troppo benevolmente su di lui; ha un riporto abbastanza evidente, la punta del naso arrossata, dei baffi biondicci e due grandi occhi verdi, scintillanti, puntellati di rosso.
A giudicare dalla stanchezza del suo sguardo, deve risentire ancora molto del jet-lag, nonché del viaggio lunghissimo che ha fatto.
Eppure so, che oltre quel velo di lacrime che opacizza le sue iridi, c'è ben altro.
Qualcosa che non può dirmi apertamente, qualcosa che solo io posso comprendere.
<< Matheus.>> rispondo, senza neanche stringere la mano che mi sta porgendo.
Sono un fantasma, uno spettro che prende forma se qualcuno gli rivolge la parola, e Matheus non è in vena di rimproverare la mia maleducazione del momento.
Non stringo la sua mano, non accenno a nessun sorriso di sorpresa o di circostanza.
Sebbene sia la prima volta che ci vediamo di persona, a discapito delle innumerevole telefonate e corrispondenze telematiche che ci siamo scambiati, non ci perdiamo in assurdi convenevoli.
Del resto, neanche l'insistente pioggia che si abbatte su di noi, sembra voler favorire il fiorire delle chiacchiere.
<< I don't know... what to sa-...>> inizia lui, ma so già cosa sta per dire e non intendo lasciarlo finire.
"Non so...non so cosa dir-..."
È un campo minato, Matheus lo sa bene, ma ci prova ugualmente, nel suo inglese dalla forte cadenza tedesca.
Gli rivolgo solo un cenno del capo, mentre indugio con gli occhi sulla folla circostante, per accertarmi che nessuno origli la nostra conversazione.
<< You're so young, Kenma... even more than I expected.>>
"Sei giovane Kenma, molto di più di quel che m'aspettassi."
<< I sold my soul right before your landing.>>
"Ho venduto la mia anima proprio prima che atterrassi."
La voce di Matheus suona esattamente come filtrava attraverso il telefono: sembra che abbia sempre l'affanno, o un principio di tosse grassa che sta per strozzarlo.
Sorride, solo con la bocca.
<< Did you bring what I wanted?>> chiedo, non mostrando nessuna espressione.
"Hai portato quel che volevo?"
Matheus si guarda intorno, deglutendo visibilmente e senza rispondere alla mia domanda.
<< Maybe this is not the right circumstance to speak about...>>
"Forse questa non è la circostanza adatta per cui parlare di..."
<< I think it's the perfect one, instead. Isn't time relative, isn't it? I'm so damn close... so close...>> la mia voce è ridotta ad un sussurro forzato, che sibila tra i denti e si disperde nel vento.
"Penso che sia il momento adatto, invece. Non è relativo il tempo? Ed io sono così dannatamente vicino, così vicino."
Matheus apre la bocca, come se stesse cercando di ritornare nell'acqua dalla quale l'ho violentemente pescato via, con una lenza rimasta tesa per anni.
Lo vedo cercare una scappatoia con gli occhi, lo vedo aggrapparsi a chiunque dei presenti.
Spera che qualcuno lo verrà a salvare, qualcuno di coraggioso abbastanza da avvicinarsi a me in un momento del genere.
Qualcuno come Akaashi Keiji.
<<Kenma.>>
La voce soffusa di Akaashi fa sobbalzare sia me che il mio ospite, entrambi ci voltiamo verso di lui, che con passo felpato è arrivato alle mie spalle senza neanche il minimo rumore.
Matheus fa un cenno del capo, insicuro se rivolgergli la parola o meno.
Ma Akaashi a differenza mia, conserva le sue buone maniere dentro alla tasca del cappotto pregiato che sta indossando quest'oggi, per tanto la estrae, porgendo una mano all'uomo grassoccio davanti a lui.
<< You must be the scientist from America... I heard about you a lot, what's your name again?>>
"Tu devi essere lo scienziato americano, ho sentito molto parlare di te, come hai detto che ti chiami?"
Bravo Akaashi.
Sai sempre cosa dire, sempre con quella compostezza e quel pacifico menefreghismo che ti hanno sempre contraddistinto.
<< Non l'ha detto il suo nome.>> rispondo io, al posto di Matheus.
<< Kenma, dovresti entrare... ti stanno tutti aspettando.>> mi dice, rivolgendomi uno sguardo di mera compassione.
La compassione degli uomini è ciò che più mi dà il voltastomaco.
Non mi serve a nulla vedere quei volti contriti in espressioni di dolore forzato, in sguardi supplichevoli.
Non me ne faccio nulla di quei sussurri detti alle mie spalle, di quel ricordare quei momenti come se fossero passati anni.
Non sono passati anni, secoli o millenni.
E questo funerale non è neanche un funerale.
<< Sto parlando Akaashi.>> rispondo secco, ricambiando il suo sguardo e caricandolo di tutto il miscuglio di emozioni che mi porto dentro.
Akaashi annuisce, mordendosi il labbro inferiore ed accennando ad un fugace sorriso infelice.
Ce n'è tanta di infelicità nell'aria, oggi.
Così tanta che sta venendo giù ininterrottamente dal cielo da più di cinque ore.
<< Puoi rimandare la tua conversazione a dopo? Adesso dovresti proprio entrare.>> mi dice, facendo un passo nella mia direzione e frapponendosi tra Matheus e me.
Prima ancora di riuscire a pentirmi del mio gesto, mi ritrovo ad afferrargli il colletto del cappotto, strattonandolo verso di me e lasciando che i nostri due ombrelli cadano a terra.
L'acqua gelida ci investe nell'istante di tempo immediatamente successivo.
<< Non ci vengo ad inginocchiami davanti ad una cazzo di tomba vuota.>> sibilo, puntando le mie pupille, ormai ridotte a delle fessure, contro gli occhi increduli di Akaashi.
Matheus indietreggia di qualche passo.
Non che conosca il giapponese, ma è intelligente abbastanza per capire quel che sto dicendo, o per lo meno per contestualizzarlo.
Matheus è venuto fin dall'America per me, ed io non posso lasciare che la farsa di un funerale senza morto, di una bara vacante, possa rallentare anche di un poco il flusso dentro la mia testa.
Devo parlarne con Matheus, devo mostrargli quel che ho pensato.
Devo montare i nuovi pezzi che mi ha portato.
Devo raggiungere quei dieci quadrilioni.
Akaashi si sottrae alla mia presa, si divincola e si sistema la giacca, ignorando completamente il fatto di essere entrambi sotto una pioggia torrenziale.
I suoi ricci color pece s'afflosciano sulla sua fronte, la sua camicia bianca inizia a aderire sulla sua pelle ed il cappotto nero lascia scivolare via la pioggia, che va ad inzuppargli le scarpe.
Sento anche i miei capelli appiattirsi sul mio viso.
Il labbro inferiore inizia a tremare, di un freddo che solo il mio corpo sente ma che, la mia testa, non riesce a processare.
Sono in piedi sotto la pioggia, eppure mi sembra di essere completamente all'asciutto.
Sto impazzendo, probabilmente è quel che merito per aver mirato così in alto.
Ma se proprio devo impazzire, se proprio non mi resta che bruciare tra le fiamme dell'inferno per sempre, allora voglio prendermi tutto ciò che mi spetta.
Voglio vedere cosa succede, quando una macchina riesce a processare dieci quadrilioni d'informazioni.
Voglio vedere con i miei occhi, scriverlo con le mie mani, assemblarlo con i miei sforzi.
Dieci quadrilioni nel giro di un'unità di tempo.
Un cervello pensante, che impara da solo, che ha un accesso illimitato e diretto a tutto lo scibile umano.
Akaashi raccoglie il suo ombrello da terra, si scusa con Matheus e gira i tacchi.
La gente ha iniziato a riversarsi all'interno della sala, in file ordinate di persone vestite di nero e con le facce tristi.
Le osservo entrare, prima di rivolgermi nuovamente all'uomo rimasto sotto la pioggia insieme a me.
<< Shall we continue our conversation in a private place?>>
"Continuiamo la nostra conversazione in un luogo più riservato?"
Matheus mi afferra per un braccio, con gli occhi di chi è ad un passo dal baratro ma prova comunque a salvarsi.
Oh, Matheus, non c'è modo di salvarmi ormai, neanche se fai quella faccia del cazzo.
<< Kenma... you're going insane! Are you completely sure? You're obsessed with something you can't reach... neither now nor ever...>>
"Kenma... stai diventando pazzo! ne sei completamente sicuro? Sei ossessionato da qualcosa che non puoi raggiungere... né ora né mai..."
Trattengo una risata, che mi graffia la gola.
Osservo Matheus prendendo un respiro a pieni polmoni, lasciando l'acqua piovana m'entri fin dentro le viscere.
<< I am perfectly aware of what I'm doing. You said I can't reach what I want... what if I already touched it? What if I already grazed it with my bare hands? Would you tell me to stop the same?
"Sono perfettamente consapevole di quello che sto facendo. Hai detto che non riesco a raggiungere quello che voglio... e se l'avessi già fatto? E se l'avessi già sfiorato a mani nude? Mi diresti di fermarmi lo stesso?"
Matheus resta impalato, lì sul posto, stringendo il suo ombrello come se fosse la sua stessa vita.
<< You... You can't be serious... do you?>>
"Non puoi essere serio... vero?"
Lo sguardo impresso sul viso dell'uomo difronte a me, mi fa salire un conato di vomito; mi disgusta quella sua disinteressata freddezza, quel suo sgomento e quella sua patetica apprensione.
Ma più di tutto mi dà la nausea quella sua scintilla di curiosità, quell'attimo in cui tutto viene messo in dubbio.
Matheus dischiude di poco le labbra, che hanno assunto un bizzarro colorito violaceo, mostra i denti in sorriso tirato, sofferto, incredulo.
Non c'è niente di più primordiale della paura e della curiosità.
Siamo fatti così, noi uomini pensanti ed evoluti.
Alla fine non facciamo che affidarci ai nostri istinti, a ciò che per anni abbiamo cercato di mascherare attraverso il progresso.
E nel tremore delle ciglia color carota di Matheus, riesco a scorgere quanto sia imbellente il suo istinto di sapere.
E non c'è niente di più patetico di qualcuno che maschera le proprie incertezze, i propri dubbi, con la compassione di una morale inesistente.
Lo vuoi sapere, Matheus?
Eppure, non credi che sia il luogo giusto, quello di un funerale senza morto, per chiedermi in mezzo ad una giornata di tempesta, se quel che sto dicendo sia la verità.
Matheus è attratto come un ratto è attratto dalla propria ricompensa, dal dubbio che le mie parole stanno insinuando dentro di lui.
Ma sei un uomo Matheus, sei un uomo di fede, di chiesa, di Dio e di scienza.
Quale strada sceglierai?
Può pensarci, lui può pensarci per tutti i secondi che ritiene necessari, che i suoi dieci quadrilioni di connessioni lo porteranno sempre alla stessa conclusione: "l'avrà fatto davvero?"
<< D-do you...?>> insiste lui, sgranando gli occhi.
"V-Vero?"
Ecco, per l'appunto.
Oh Matheus, dieci quadrilioni sono davvero così tanti da non crederci che io l'abbia fatto, non è così?
Mi ero perso, dato per vinto.
Avevo davvero gettato la spugna assieme a tutto quello che stava a prendere polvere sulla mia scrivania.
In uno scatto d'ira, mi sono convinto di star inseguendo davvero una chimera, una sirena dal canto ingannevole e dalle forme sinuose.
Troppo bello per essere vero.
Troppo perfetto da poter raggiungere.
Ho avuto un blackout di tre settimane, in cui non ho visto altro che un profondo baratro ai miei piedi.
Forse è vero che la genialità si nasconde nella follia, e forse è vero che io posso considerarmi tanto geniale quanto pazzo.
Ma alla fine... alla fine qualcosa dentro la mia testa ha iniziato a farsi largo.
Una domanda, una semplice costatazione che io stavo facendo a me stesso: e se stessi sbagliando contenitore?
E se non fosse possibile fare quel che io voglio fare, non perché sia davvero un'ingiuria a Dio quella di voler progettare una rete neurale artificiale tanto complessa come quella umana, ma semplicemente perché non riesce ad entrare nel contenitore per limitazioni fisiche?
E se non potesse realizzarsi perché sto semplicemente cercando di spingere "troppo" dentro qualcosa che "troppo", non potrà mai contenerlo?
E se fosse questo all'origine della mia soglia d'errore?
Era un po' come se volessi mettere l'intera acqua presente sul pianeta Terra, dentro una borraccia da 750ml, da poter portare comodamente in giro.
Era impossibile perché tutta quell'acqua non ci sarebbe mai potuta entrare in quella cazzo di borraccia.
Era impossibile perché dieci quadrilioni di connessioni, non potevano avvenire tramite dei semplici bit.
Ho avuto l'intuizione, Matheus.
So in che mare andare a pescare ora, ho visto chiaramente la strada da seguire davanti a me.
Sbagliavamo Matheus, sbagliavamo nel pensare che avremmo dovuto racchiudere tutto dentro bit progressivi.
Non avremmo mai semplificato la stratificazione del deep-learning, seguendo la strada classica.
Un super computer, un'intelligenza artificiale complessa che auto-apprende e innesca dieci quadrilioni per unità di tempo di connessioni, per come l'avevamo pensata noi... era zoppa ancor prima di nascere.
Era impossibile perché noi l'avevamo pensata impossibile, e quindi si stava limitando ad essere quel che noi volevamo che fosse: irraggiungibile.
Inarrivabile, oltre quella soglia d'errore dell'uno percento.
Lo vuoi davvero sapere Matheus?
L'ho azzerata, l'ho corretta sul serio, quella soglia d'errore?
Mi avvicino al suo volto, deglutendo una saliva che sa di pioggia e sangue.
Mi sporgo come se volessi sussurrargli un segreto all'orecchio, qualcosa che dovrà restare solo tra di noi e la pioggia che, incessante, continua a venir giù dal cielo.
È spietata questa pioggia, questa vita, questa risposta.
Ma non è forse, tutto esattamente meraviglioso, proprio in questo modo?
<<Listen close, I have done it.>> sussurro, lasciando che le mie labbra tremino, nello sfiorarsi per confidare ciò che mi tenevo dentro da diverso tempo.
"Ascolta attentamente, l'ho fatto."
*
L'ho fatto.
Alla fine l'ho fatto per davvero.
Montare i pezzi che avevo chiesto a Matheus di portarmi, non fu facile.
Non fu facile assemblare la macchina che mi serviva da mettere assieme, per di più non fu facile neanche farlo completamente da solo.
Il mio studio, che si trovava esattamente sotto il mio appartamento, non era più una semplice stanza con qualche processore.
Era un groviglio di fili, d'interfacce ultraleggere che servivano a stabilizzare i server che avevo acquistato.
Mi serviva potenza di calcolo, mi serviva una connessione diretta con l'Internet e mi serviva tempo.
Ho avuto a sufficienza di tutte e tre le cose.
Le righe di codice scorrevano rapide davanti ai miei occhi, così come i risultati alle equazioni che i miei calcoli prevedevano.
L'errore si sarebbe abbassato, l'avrei addirittura azzerato e tutto questo grazie ad una piccola, minuscola intuizione.
Ciò di cui avevo bisogno era un super computer quantistico, che immagazzinava qubit all'interno della sua rete neurale artificiale.
Dovevo addentrarmi nel mondo quantistico, per avere le possibilità che il mondo classico mi negava.
E laddove i bit di memoria necessari al deep-learning, finivano in un nulla di fatto, i qubit rispondevano con risultati straordinariamente precisi.
Un bit di memoria possiamo pensarlo come una moneta, sulla quale scriviamo "testa" da un lato e "croce" dall'altro.
Lanciando la moneta in aria, possiamo prevedere due soli risultati possibili: testa o croce, per l'appunto.
Traducendo in linguaggio tecnico, le variabili che entrano in gioco al posto di testa e croce, sono vero e falso.
Zero e uno.
Un bit di memoria può essere scritto con un risultato pari a zero o a uno.
Non si sfugge.
Ma il qubit, quello stronzo, possiamo pensarlo come una moneta che, una volta lanciata, ruoterà per sempre su stessa fino a quando io, ed io solamente, non ne forzo il risultato.
Ho bisogno di ottenere testa?
Testa sia.
Ho bisogno di croce?
Prego, accomodati pure.
Il fatto che il qubit non sia immediato come un bit, per sua natura, lo rende "sovrapponibile".
Ne posso avere tanti, tantissimi, tutti legati tra di loro tramite i postulati della meccanica quantistica.
Posso racchiudere in un semplice, misero, unitario pezzo di merda di un qubit, tutto lo scibile umano.
Ci posso mettere dentro quel che voglio, perché io ne forzo il risultato, e posso farlo quante cazzo di volte voglio.
Posso farlo una singola volta e metterci dentro dieci quadrilioni di connessioni sovrapposte.
Allora ecco che si aprono le possibilità, ecco che si apre un nuovo mondo.
Ecco che lentamente la soglia d'errore s'abbassa ed ecco che, dal mio fottuto cilindro, io riesco a tirare fuori dieci quadrilioni.
Un numero con quindici zeri.
Quindici zeri ed una soglia d'errore inferiore all'uno percento.
L'idea c'era, ed era anche valida.
Funzionava dentro la mia testa, funzionava nelle prime, grezze e rattoppate simulazioni.
Ma io avevo bisogno della certezza che solo la scienza può darti.
Dovevo arrivarci concretamente, e non potevo perdere tempo.
<< Kenma...>> la voce di Akaashi per telefono risulta come un ronzio, come un fischio fastidioso assimilabile ad un moscerino vicino al timpano.
<< Mh...>> rispondo, mentre continuo ad assemblare cavi tra di loro.
Un sospiro.
Un sospiro che lo speaker del telefono ovatta al posto mio.
<< Non esci di casa da due mesi, Kenma... sono preoccupato per te, siamo tutti preoccupati per te.>> sputa infine.
Ci sono abituato, ormai neanche lo sento più mentre mi fa la paternale.
Le conversazioni con Akaashi vanno sempre nello stesso modo: mi telefona, mi chiede se mangio, se mi lavo e se dormo abbastanza.
Dopodiché attacca con il ricordarmi da quanto tempo sia chiuso nel mio studio.
Non ce l'ho con lui perché non riesce a farsi i cazzi suoi, siamo amici dopotutto, è solo che vorrei essere lasciato in pace.
Vorrei vivere come io decido di vivere, non dico che tutti debbano condividere la mia scelta, ma vorrei quanto meno che chi non capisca cosa sto passando, resti semplicemente in silenzio.
Non è solo una corsa al raggiungimento di quei dieci quadrilioni, no, questa è una svolta.
Una svolta per me, un punto di snodo epocale oserei dire.
Ed io ne ho bisogno.
Necessito che siano le mie mani ad assemblare il primo super computer quantistico, necessito di essere il progenitore della rete neurale artificiale, che si appoggia ai qubit.
Devo farlo io, perché è quello che ho sempre voluto.
Perché è quello che...
<< Sto bene.>> rispondo automaticamente.
C'è una breve pausa, nella quale Akaashi valuta se fingersi convinto o meno delle mie parole.
Generalmente non lo è mai, ma questa volta sembra un po' più docile di tutte le altre.
<< Già è tanto se mi rispondi per telefono... almeno so che non sei morto.>> dice.
Annuisco, come se lui potesse vedermi.
<< Appunto, è una fortuna, non trovi?>>
<< Hinata dice che non hai risposto ai suoi messaggi.>> riprende dopo un po'.
Hinata Shoyo ha inviato dei messaggi?
<< Non li ho visti.>>
<< Lo so, è quel che gli ho detto... ma dice che non hai risposto neanche quando è passato a trovarti.>>
Hinata Shoyo è passato a trovarmi?
<< Non l'ho sentito suonare.>>
Akaashi sospira, nel mentre che continuo ad armeggiare alle mie apparecchiature.
<< Gli ho detto anche questo... però... anche io vorrei passare a vedere come stai...>> dice poi, in uno slancio di coraggio.
Vorrei dirgli di passare quando vuole.
Vorrei dirgli di portare anche Hinata, Bokuto e chiunque lui voglia, per ritrovarci tutti assieme come facevamo un tempo.
Ma invece, tutto quello che riesco a vedere davanti a me ora, sono i cavi che devo ancora collegare, i bulloni che devo ancora avvitare ed i problemi che devo ancora risolvere.
Vorrei avere il tempo per scambiare due chiacchiere con gli altri, e giuro che lo farò, ma prima devo portare a termine il mio compito.
<< Ti ho detto che sto bene.>> ribatto in tono secco.
Akaashi sospira ancora, facendo qualche secondo di pausa.
<< E se ti dicessi che sono davanti casa tua?>>
Non presto neanche attenzione alle sue parole.
Potrebbe essere vero così come non esserlo, che non m'importerebbe ugualmente.
Mi spiace solo che abbia fatto tutta questa strada, per parlarmi al telefono davanti la porta chiusa, del mio appartamento.
Abitare nella periferia di Tokyo ha i suoi vantaggi: non sempre la gente è disposta a farsi tre ore di macchina per venire a bussare al tuo campanello.
Non sempre, la maggior parte delle volte, ma a quanto pare non Akaashi Keiji.
Non lui, che ha deciso di guidare fin qui dal suo attico a Shibuya, per sua personale volontà e per assecondare un capriccio di beneducata amicizia.
Tipico di Akaashi, tipico del suo colletto delle camicie sempre inamidato di buoni propositi e buone maniere.
<<Kenma?>> mi richiama all'attenzione lui.
<< Ah... ti direi di tornartene al caldo del tuo appartamento, ho da fare adesso. Scusa.>> rispondo.
<< Quindi il pacco che c'è sul retro, posso portarlo con me?>>
Pacco?
Che pacco?
Il corriere ha suonato?
Possibile che io non l'abbia sentito?
Le telecamere si accendono sempre quando rilevano un movimento, sia sul retro che nel vialetto principale.
Se fosse arrivato un pacco me ne sarei accorto di certo, non manco mai la consegna di qualcosa, soprattutto se quel qualcosa è uno dei pezzi necessari a quel che sto facendo.
Mi sollevo da terra, sentendo tutte le giunture del mio corpo dolere; le gambe cedono, come se non fossero più abituate a stare in posizione eretta.
Mi ritrovo nuovamente a terra, mentre il suono della caduta arriva catastroficamente alle orecchie di Akaashi, ancora in attesa dentro al telefono poggiato sulla scrivania.
<< Ehi! Che succede?>> s'allarma.
<< Ah niente... è caduto qualcosa da qualche parte della stanza.>> rispondo, il che corrisponde anche ad una mezza verità.
Con un nuovo sforzo m'avvicino ai monitor di sorveglianza delle telecamere a circuito chiuso, che costellano la casa.
Effettivamente quella sul retro mostra un Akaashi impaziente, che passeggia avanti e dietro, con un pacco sotto braccio e l'auricolare sotto quell'assurdo berretto rosso che porta.
Noto che c'è la neve intorno a lui, all'esterno, alta forse 20 centimetri, accumulata per tutto il giardino sul retro.
Osservo le impronte che ha lasciato Akaashi, per arrivare fino alla porta.
In lontananza, noto anche la sua costosissima auto parcheggiata.
Ad un certo punto Akaashi solleva lo sguardo verso l'obiettivo della camera, facendomi un cenno con la testa e sollevando il pacco.
Un cazzo di pacco c'è davvero e ce l'ha quel miserabile.
E se voglio averlo devo trascinarmi al piano superiore, aprire la porta e lasciarlo entrare.
So già che andrà a finire molto male.
So già che finiremo per litigare, che mi troverà palesemente non bene come gli avevo assicurato di stare, mi costringerà ad andare a fare un bagno, e dirà pure che cucinerà qualcosa per me che non posso andare avanti ad energy drink e carne essiccata.
<< Sei un pezzo di merda.>> è quel che gli dico, prima di chiudere la telefonata e vedere il suo sorrisetto soddisfatto apparire sul monitor.
Akaashi entra in casa senza aspettare neanche che io apra completamente la porta, lui semplicemente s'infila dentro non appena sente la maniglia scattare dall'interno.
Non gli rivolgo neanche uno sguardo, anche perché sento i suoi occhi indagare su di me e sullo stato della casa, non appena lo sento chiudersi la porta alle spalle.
Adesso mi dirà che questo posto è uno schifo, che c'è puzza di chiuso e che io puzzo di morto.
Che uno zombie lo sembro davvero e che dovrei uscire di tanto in tanto, anche solo per ricordarmi che esiste una vita oltre i miei schermi.
Sono già preparato a tutto quel che potrà dirmi, ed è proprio per questo che quando si lancia ad abbracciarmi, io resto spiazzato.
Immobile, con il viso schiacciato contro il suo cappotto grigio che profuma del suo dopobarba e del freddo esterno.
Sento l'odore dolce del suo shampoo ed anche una punta del profumo di Bokuto, sul suo maglioncino.
Come pietrificato, sento una stanchezza senza pari abbattersi su di me all'improvviso: come se in questi mesi io fossi andato avanti solo per inerzia, per ostinata ossessione e per null'altro.
Avverto il peso del mio corpo, il dolore su ogni centimetro di muscolatura e gli occhi che faticano a restare aperti.
Il fiato sembra mozzarsi, mentre un bruciore s'estende dal centro del petto fino alla mia gola, che si secca come se non bevesse un goccio d'acqua da anni.
<< Hey.>> dice, sospirando e stringendomi ancora di più a lui.
Chiudo gli occhi per un brevissimo istante, il tempo necessario per visualizzare Kuroo al suo posto, quando rientrava a casa e mi stringeva esattamente così, sulla soglia di casa, senza neanche togliersi il cappotto.
Ci stacchiamo dall'abbraccio che, sorprendentemente Akaashi ha più le lacrime agli occhi di quanto le abbia io.
<< Che sei venuto a fare?>> dico, facendo inciampare le parole sulla mia stessa lingua, prima di riuscire a pronunciarle correttamente.
<< Mi avevi detto di stare bene...>> sussurra lui, mordendosi il labbro inferiore.
<< Sto bene infatti.>> ribatto, abbassando lo sguardo.
Akaashi scuote la testa, chiudendo gli occhi e ricacciando indietro un'ondata di pianto, che non se la sente di lasciar scorrere davanti a me ora come ora.
<< È Natale Kenma...>> dice.
Ah.
È per questo che fuori c'è la neve?
È per questo che il suo cappotto profuma di cannella, di neve appena caduta e di Bokuto?
<< Mh... e tu cosa ci fai qui?>> rispondo, iniziando a zoppicare verso la cucina.
Akaashi mi segue, senza che ancora si sia tolto il cappotto, continua a stringere il pacco sotto braccio ed in religioso silenzio.
Lo so che ha notato che sto zoppicando, lo so che avrà notato che sono dimagrito di diversi chili dall'ultima volta che ci siamo visti, ormai due mesi fa.
Lo so che sta pensando a quanto io sia pallido, a quanto siano cerchiati di nero i miei occhi ed iniettati di sangue.
Così come so che non gli sarà passato inosservato neanche il taglio sul labbro, così come i miei pantaloni macchiati di sangue e di liquido raffreddante per i processori, nella stanza al di sotto di noi.
<< Ti ho portato un regalo...>> dice infine, mentre libera un bancone della cucina dalla polvere accumulata, e da tutte quelle cianfrusaglie che sono rimaste qui a far confusione.
Non rispondo, mi siedo con difficoltà su uno sgabello, ed aspetto.
Akaashi non accende la luce, per non ferire i miei occhi poco abitati, restiamo nella penombra delle luci delle case vicine.
Il fatto che sia Natale spiega anche il perché ci siano tutte queste illuminazioni, nel quartiere.
<< Posso mettere su il bollitore dell'acqua?>>
Non me lo sta chiedendo davvero, dato che non aspetta la mia risposta, ma si alza, continuando a reggere quel pacco ed inizia a frugare dentro ai banconi, per cercare qualcosa con cui bollire dell'acqua.
<< Perché non lo molli quello?>> dico, poggiando la testa sulle braccia, sentendola improvvisamente molto pesante.
<< Perché questo è il mio lascia passare. Se te lo dessi ora, poi dovrei andarmene, e non è quello che voglio fare al momento.>> risponde.
Il che è vero, nel momento in cui mettessi le mani sul pacco, credo che tornerei nel mio studio, lasciandolo da solo in casa finché non decidesse da solo di andarsene.
Te lo devo riconoscere Akaashi, sei un Babbo Natale piuttosto scaltro, o forse io sono troppo stanco anche solo per pensare a qualcosa per oppormi alla tua volontà.
<< Non c'è niente per fare il the... o se c'è probabilmente sarà scaduto.>>
<< Non c'è problema, l'ho portato io da casa.>>
Come già detto, Akaashi non è mai impreparato, su niente.
Prepara una tisana, dal gusto che non riesco a riconoscere, anzi, per quel che ne so potrebbe anche avermi appena drogato.
Si siede poi difronte a me, dopo aver acceso la luce calda e soffusa della cappa.
Giusto per non continuare a restare nella penombra notturna.
<< Che sei venuto a fare Keiji?>> chiedo nuovamente, dopo averlo visto prendere un sorso della sua stessa preparazione.
A quel punto solleva il pacco, mettendolo sul tavolo.
Dal suo borsello estrae delle posate, e lentamente inizia ad aprirlo.
<< Te l'ho detto, il tuo regalo di Natale.>> dice piano, mentre estrae dalla confezione una torta, con della panna bianca e delle decorazioni natalizie al di sopra.
Il disgusto si dipinge nei miei occhi così rapidamente, che quasi mi sembra di sentirmi mancare lo sgabello sotto al culo.
Ha davvero fatto tutta questa strada solo per portarmi una torta del cazzo?
Non festeggio il Natale, non festeggio nulla a dire il vero.
Una rabbia che non so da dove mi parte, s'impossessa completamente di me.
Un impulso di scaraventare a terra quella torta, assieme al volto di Akaashi, mi costringe a stringere i pugni sotto al bancone.
Deglutisco, cercando di calmare il mio respiro ed il demone della furia, che continua ad accarezzarmi l'orecchio, sussurrandomi di mandarlo al diavolo.
Di ammazzarlo con le mie stesse mani, di farlo a pezzettini minuscoli e poi di cospargerlo come cacao in polvere, sulla sua stessa torta del cazzo.
<< Che stai facendo?>> dico, serrando la mascella e puntando lo sguardo più truce che mi ritrovo, nelle iridi chiare di Akaashi.
Lui non solleva lo sguardo, continua a tagliare la torta ed impiattarla.
Me la porge, ignorando lo scetticismo dipinto a morsi sul mio viso devastato dal dolore e della stanchezza.
Con un gesto della mano, rapido e poco pensato, spingo di lato quel piattino, che rovescia la torta sul bancone.
La mia mano trema, ferma a mezz'aria, di un fremito d'ira incontrollato.
La mano di Akaashi trema, ferma a mezz'aria dopo che il piattino si è completamente ribaltato sul bancone della cucina.
Si trattiene Akaashi, lo vedo da come cerca di mantenere i suoi gesti piatti e misurati; senza strafare e senza farsi prendere troppo dalle emozioni, lui resta compostamente seduto, sospirando e prendendo a tagliare una nuova fettina di torta.
Non dice nulla, ma dentro al suo sospiro posso leggere tutte quelle emozioni che tiene spesso in gabbia, incontrollate e sepolte sotto una facciata fredda e distaccata.
<< Che cazzo sei venuto a fare? Con questa torta... che cosa vuoi?>> butto fuori, non riuscendo a concepire la sua calma in questo momento.
<< Kenma voglio solo che mangiamo una fetta di torta assieme. Non sono venuto per dirti come vivere la tua vita, anche perché sono bene che non ci riuscirei neanche se ci provassi. Puoi restare nella tua crisalide di solitudine se preferisci, puoi chiudere i rapporti con tutti... puoi anche impazzire qua sotto... che qualsiasi cosa io faccia, non servirebbe a nulla... perché neanche mi lasceresti provare...>>
Ecco, ecco quello che stava disperatamente tentando di tacere, e di mescolarlo assieme al sapore di vaniglia della panna.
Ecco il veleno che s'è portato dietro da Tokyo, impacchettato solo per me.
Il suo dono di Natale, per me.
<< Tu non... non lo sai che vuol dire...>> rispondo, trattenendo ancora il formicolio alle mani, che m'implorano di rovinare il suo viso, magari accoltellandolo quindici volte di fila.
<< È vero, non lo so. Però...>>
Mi alzo in piedi, facendo cadere a terra lo sgabello.
<< Però un cazzo. Non lo sai e basta... nessuno lo sa, nessuno sa che vuol dire avere... avere uno scopo... portare avanti qualcosa perché... perché altrimenti io potrei impazzire sul serio se non lo facessi.>>
Odio piangere.
Odio mostrarmi debole ed insicuro, odio tremare come un bambino.
Odio farlo davanti agli occhi carichi di quella merdosa pietà e compassione, che in questo momento sta annegando dentro le iridi di Akaashi.
<< Lui non ti vorrebbe vedere così...>>
<< MA LUI NON C'È ... KUROO NON C'È ... NON È QUI.>> urlo, sbattendo i pugni sul ripiano, e restando con la testa bassa.
Kuroo non c'è.
Non è più tornato dal suo viaggio, è rimasto lì, in quel laboratorio a chilometri e chilometri di profondità sotto terra, per quello in cui credeva.
Per la sua ricerca, per il lavoro della sua vita.
Kuroo non c'è.
Kuroo non è tornato.
E per quanto io mi sforzi di andare avanti, per quanto io provi a vedere le cose da un'altra prospettiva, come tutti mi suggeriscono che dovrei fare, la verità non cambia.
Kuroo non c'è.
Ed io sono rimasto da solo, a Tokyo, in una casa vuota e piena di spazi freddi.
Piena di luci spente, di porte chiuse e di puzza di marcio.
Sono rimasto da solo, con la mia ossessione e il mio peggior nemico: me stesso.
Ho ceduto sotto al peso dei miei pensieri, dei miei perché senza risposta e di tutte quelle volte in cui ho pensato cos'è che avessi sbagliato.
Mi sono spento, lentamente, come una candela di cui non rimane altro che un ammasso di cera incapace di bruciare ancora.
Ho provato a dimenticare, ho provato a fingere che Kuroo Tetsurō non fosse mai esisto.
Ho provato a togliere le sue foto, le sue cose rimaste a casa, ho cercato davvero di mettere tutto quello ch'era suo dentro ad uno scatolone e chiuderlo in soffitta.
Ma ogni volta le mie braccia non riuscivano neanche a prenderla in mano, una di quelle cornici d'argento, dove sono conservati ricordi di noi che non torneranno.
Ogni volta, le mie gambe, cedevano sotto al peso schiacciante del vuoto che Kuroo ha lasciato dietro di sé.
E vorrei raccontare una storia diversa.
Dio, quanto lo vorrei.
Vorrei dire di quanto sia bello, accoccolarsi tra le braccia della persona che hai sempre amato, dopo un anno di separazione.
Vorrei raccontare di come sia stato romantico, il nostro ricongiungimento, di come sia stato selvaggio il nostro sesso.
Vorrei raccontare una storia che non sia questa.
Ma Kuroo non è tornato.
Kuroo non c'è.
E mi restano solo vecchi messaggi, intrisi di promesse che non verranno mantenute.
Mi restano messaggi vocali di una voce che suona così familiare, eppure così lontana ed estranea al mio cuore.
Di Kuroo, mi resta solo questo.
Cose che non ho il coraggio di cancellare, di mettere via, di buttare e di dimenticare assieme a tutto il resto della sua presenza fantasma in questa casa.
Kuroo non c'è.
Kuroo non c'è più.
Kuroo mi ha lasciato.
E cosa mi rimane se non gli stracci della mia anima, ancora annodati a lembi di pelle, da portarmi dietro?
Cosa mi resta se non questa casa, questo vuoto, questa ossessione?
Niente.
La risposta è che non mi resta niente.
E per una storia infelice come la mia, la morale non può che essere questa.
Akaashi abbassa lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore.
<< Volevo solo mangiare una fetta di torta con il mio amico. Ammesso che ancora ci sia, da qualche parte, sotto tutto il rancore ed il dolore che lo ricoprono.>> ammette, stringendosi nelle spalle.
Non la voglio una fetta di torta.
Non voglio la compagnia e la pietà di nessuno.
Non voglio Akaashi che cerca di espiare qualche colpa, qualche peccato di cui s'è macchiato durante le tre ore di viaggio da casa sua.
Non sono qui per assolvere le anime di nessuno, a malapena riesco a mantenere integra la mia, figuriamoci smacchiare quelle degli altri.
Lo so che vorrebbe solo essere un buon amico, ma non ci riesce.
Non ci riesce se torna a ricordarmi di quello che vorrebbe o non vorrebbe Kuroo.
Perché con stenti e fatiche, sto cercando di ricompormi da solo, dopo essere andato in mille pezzi il giorno in cui mi ha lasciato.
<< Non voglio nessuna torta.>> rispondo, secco e conciso.
Akaashi annuisce, un paio di volte come per convincersi.
Come per dirsi che lui ci ha provato, ha fatto tutto quello ch'era in suo potere ma sono stato io a rifiutarlo.
Ed alla fine preferisco che la pensi così.
Che tutti la pensino così.
Che sono un caso perso, che rifiuto una mano tesa quando la vedo, che mi sono indurito e che ho chiuso il mondo fuori.
Che pensino pure che io sia impazzito, che abbiano provato a fare di tutto per me, che si sono prodigati in tanti ma che, alla fine, io abbia sempre e comunque respinto tutti.
È più semplice dare la colpa a me, piuttosto che mettersi ad analizzare i fallimentari e pietosi tentativi di tutti, nel tirarmi fuori da un baratro dove non ho saltato.
Oh no, perché non ho scelto io di ritrovarmi così in basso, non sono state le conseguenze di azioni sconsiderate e di scelte sbagliate, a rendermi così come sono oggi.
Mi ci sono ritrovato, all'improvviso, sul fondo senza neanche sapere quando fossi sceso.
Che neanche mi sono mai affacciato all'abisso, eppure questo m'ha inghiottito ugualmente.
Un giorno, uno come tanti, mi sono ritrovato nel nulla.
Ed ero spaventato, ero spaesato, di ritrovarmi in quel luogo da solo, e tutto quello che ho sentito da parte degli altri è stato un: "La vita va avanti, Kenma."
La vita va avanti.
È vero, alla fine, dopo questi mesi di reclusione, sono arrivato anche da solo a questa considerazione: la vita va avanti.
Alla fine sono abbastanza intelligente per capirlo anche da solo.
Ed ho anche imparato che è una frase che si dice sempre, circostanziale ad ogni situazione.
Che i dolori sono tutti comuni, che fanno parte di un pentolone dove tutti attingono in ogni momento; se ne abbeverano tutti nello stesso momento e poi, all'unisono, tutti vomitano strepitando per crampi insopportabili.
Ma la vita va avanti.
Che non serve viverlo per forza un dolore del genere, alla gente basta dirlo.
E lo dicevano, tutti, continuamente.
Nessuno però mi ha detto come.
Come va avanti la vita, dopo che si è caduti nell'abisso?
Come si risale?
Come s'impara a nuotare nelle proprie paure, senza salvagente e senza ossigeno?
Come si sopravvive, ad una vita spietata e crudele?
Nessuno mi ha detto come si fa.
E vorrei chiederlo a chiunque, a tutti quelli che mi hanno sempre detto "avanti, Kenma, la vita continua", ma come continua?
In che direzione?
Quella che scelgo di seguire, o quella in cui la corrente mi sospinge contro la mia inesistente volontà?
Vorrei chiederlo anche ad Akaashi, a lui ed alla sua cazzo di torta il giorno di Natale.
Come dovrebbe farmi sentire meglio, una torta?
Che ferita dovrebbe guarire, esattamente?
Che tormento dovrebbe lenire?
Che peccato dovrebbe espiare?
<< Mi dispiace.>> mi dice, mentre è sulla soglia della porta.
<< Lo so.>> è quello che gli rispondo, senza guardarlo.
<< Ti chiamo...>> sussurra, mentre richiudo la porta sul retro alle sue spalle.
Resto un attimo con le mani che tremano stringendo la maniglia, appoggio la testa contro il laminato freddo.
Mi lascio andare ad un singhiozzo, che nasce direttamente da quella parte distrutta di me, quella che cerco di tenere chiusa dentro i palazzi della mia testa.
Quella che, quando vede Akaashi o qualsiasi altra persona che prova a sollevarmi il morale, strepita e scalcia, nel profondo delle prigioni in cui è rinchiusa, per uscire fuori.
Per prendere il sopravvento su di me e per ridurmi in cenere, ancora una volta.
<< Lo so...>> sussurro, ad un Akaashi che molto probabilmente sarà già in macchina, in viaggio verso il suo attico, con suo marito in attesa del suo ritorno.
Lo sussurro anche se non può sentirmi, perché alla fine preferisco che non mi senta.
Non voglio vomitare veleno su questo, ma è inevitabile, nel vedere quanto schifosamente sono felici loro due.
È inevitabile, me lo dico per sentirmi un po' meglio.
Fa parte della natura umana odiare, ed io da rifiuto umano quale sono, odio con tutto me stesso.
Odio la felicità, l'amore, il destino, l'universo.
Odio me stesso.
Odio Kuroo, più di quanto io voglia ammettere, ma meno di quanto io ancora lo ami.
Forse è per questo che ho smesso di aprire la porta di casa, perché ogni qual volta lascio entrare qualcuno, questo è sempre in grado di ferirmi.
Akaashi ci riesce sempre, inconsapevolmente, ed è anche colui che più riesce a farmi male.
Probabilmente non glielo dirò mai, che quella torta glassata alla vaniglia e dal gusto di cioccolato e lamponi, era quella che Kuroo prendeva sempre per Natale.
Gli piaceva il fatto che i lamponi venissero usati per fare dei piccoli babbo natale, sul topping della torta.
Ed anche se io preferivo i dolci con pezzetti di mele dentro, finivamo per mangiarla tutta insieme, proprio in cucina.
Proprio come fino a poco fa Akaashi faceva.
Solo che io ero seduto al posto di Kuroo.
Ma io non sono Kuroo, e lui non sarà mai me, in quei giorni di Natale passati troppo in fretta.
Probabilmente non glielo dirò mai.
*
Oggi piove.
Un'altra di quelle giornate di poggia intensa, che sciolgono gli ultimi rimasugli di una neve solidificata ai bordi della strada.
È quasi primavera, o forse è questo che il tempo m'illude essere, a giudicare dal rumore esterno.
Oggi piove, in modo lieve, senza rabbia e senza l'intento di cancellare un inverno troppo rigido appena conclusosi, oppure, senza voler lavare via dalla mia faccia la stanchezza di un altro giorno passato senza ottenere il risultato che voglio.
Sono vicino, questa volta lo sono per davvero.
Ho scritto tutto il codice che dovevo scrivere, ho assemblato i server più performanti che potevo, ho scaricato e racchiuso tutto quello che dovevo, all'interno di dodici qubit.
Voci, suoni, ricordi, memorie, conoscenze, personalità.
C'è tutto, tutto quello che fa un essere mano, un vero e proprio essere pensante e vivente, dentro dodici qubit.
Però non opera come dovrebbe.
C'è qualcosa che non funziona, qualcosa che si perde e che non riesce a prendere vita.
Ogni qual volta che connetto il tutto in rete, il processo in qualche modo muore.
Un errore imprevisto, qualcosa che non riesco a capire, intercorre tra me e la creazione di una nuova forma di vita completamente artificiale.
Manca quella scintilla vitale, quel soffio di linfa, che miliardi di anni fa ha dato l'origine al tutto.
Li chiamo aborti spontanei.
Li chiamo aborti spontanei quando il processo non giunge al termine.
Ed oggi, nel primo giorno di quella che là fuori sembra essere primavera, ho registrato il mio novantanovesimo aborto spontaneo.
Novantanovesimo.
Non sono tantissimi, mi dico, non tanti se paragonati a quello che potrebbero fare dieci quadrilioni di connessioni, se questo processo andasse online.
Se questo figlio di puttana vedesse la luce, metaforicamente parlando, novantanove aborti non sono la fine del mondo.
Errori di procedura, di calcolo, di qualsiasi cosa, che non riesco a determinare al millesimo perché il mio corpo sta cedendo.
Non ho più risposto alle chiamate di Akaashi.
Non ho avuto il coraggio di buttare la torta, e con molta probabilità sarà ancora sul bancone della cucina con i vermi a godersela al posto mio.
Forse è meglio così, sentire una puzza diversa rispetto a quella di cadavere in decomposizione che mi lascio dietro, mi ricorda che nonostante tutto sono ancora vivo.
E se sono ancora vivo, posso ancora tentare di far funzionare quanto ho progettato.
Posso riprovare, con un nuovo impianto.
Una nuova gravidanza, una gestazione artificiale che dura ventiquattr'ore.
Ci posso riprovare e sperare che questa volta il processo vada a buon fine, che questa volta possa funzionare come dovrebbe.
Un nuovo tentativo, che a malapena riesco a registrare, scrivendo con gli ultimi grammi di forza che mi restano nelle mani.
Gestazione #100
Starting: 3:00 AM_
Ending: 23:59:59_
Checking parameters:
•Memory_stauts......100%
•Allocations......100%
•Internal_process......100%
•Data......100%
•...
•...
•...
•...
•...
•...
•...
•...
•...
•...
•...
•...
•...
•...
•...
Continue_ Simulation _
press Y/N _
Le mie mani riescono a schiacciare il tasto Y prima di ritrovarmi sul pavimento.
Un capogiro, la vista che s'annebbia, il rumore dei server che si accendono e raggiungono il pieno regime.
Il timer sullo schermo che riflettere le cifre verdi digitali, del processo che s'innesca.
Un dolore che s'espande dalla mia nuca fino alla punta dei miei piedi, le mani che si fanno pesanti, il respiro che rallenta la propria frequenza.
Il cuore che rallenta a sua volta.
Il cervello, nelle sue dieci quadrilioni di connessioni, manda l'impulso di autopreservazione.
Sono allo stremo quando svengo, sul pavimento del mio studio, adagiato come Biancaneve su una bara di cristallo, mi ritrovo disteso sui cavi e fili di ogni spessore, in attesa che anche il mio principe venga a svegliarmi.
Tutto quello che sento è lo scandire del tempo ed il fragore della pioggia.
Poi sento solo la pioggia, lenta, che fa crepitare come fuoco vivo, tutto quello su cui s'infrange.
Sento il freddo della pioggia, nonostante sia chiuso dentro casa.
Sento l'odore della pioggia, nonostante qui non possa raggiungermi, che va a mescolarsi con l'odore di gomma e di chiuso dello studio.
Vorrei restare a guardare lo schermo, lasciare che le cifre digitali scorrano riflettendosi nei miei occhi stanchi; vorrei che illuminassero il mio viso, vorrei che mi dessero l'emozione di qualcosa che funziona, di qualcosa che va come avevo previsto.
Vorrei provare qualcosa, guardando quel countdown, qualcosa che ho dimenticato ora come ora.
Piove, in un intenso picchiettare contro il tetto, gli alberi, l'auto, la veranda.
Sento il rumore della pioggia, ancora per qualche breve istante.
Poi il silenzio.
Un silenzio che mi divora, morso dopo morso e che mi strappa alla coscienza che ho di me.
Kuroo... dove sei in questo momento?
Piove anche dove sei tu?
Che cosa stai facendo, mentre svengo sul pavimento?
Mi pensi ancora?
Mi stai pensando, Kuroo?
Mi ami ancora?
Mi ami, come ti amo io?
Flebile è anche la voce dei miei pensieri, la voce con cui mi ritrovo a narrare la storia della mia stessa vita.
Un sussurro in mezzo al rumore bianco, che riempie le mie orecchie e mi fa vorticare in una spirale nera, mi dice proprio quel che vorrei sentirmi dire.
Mi rassicura, di tutte le paure e dei demoni che m'attendono, quando intorno a me c'è troppo buio, quando c'è troppo silenzio.
Mi riscalda, quando sento freddo, mentre perdo coscienza, e mi fa sentire l'unica frase in grado di farmi ancora sollevare gli angoli della bocca in un timido sorriso:
"Ti amo, micetto."
Ah Kuroo... come vorrei poterci credere.
*
Quando mi sveglio, sono intorpidito da capo a piedi.
Avverto il mio corpo dolente sui cavi del pavimento dello studio, che benché sia fatto di moquette, questa è sepolta sotto fili e prese.
Ogni muscolo duole, di un dolore personale per una posizione mantenuta per un lasso di tempo imprecisato.
Duole di stanchezza accumulata, duole perché ha le fibre allo stremo e duole per, nel contempo, solo auto causandomi un blackout sono riuscito a prendermi una pausa.
Il mio stesso corpo mi sabota, o forse m'implora pietà, di fermarmi ogni tanto.
Non sempre, ma quel che basta per rimettersi in sesto.
Il primo istinto è quello di rialzarmi, il più in fretta che posso, ma ho imparato che questa è una cosa da evitare, se non voglio ritrovarmi nuovamente sul pavimento per chissà quanto tempo ancora.
Si fa con calma, si respira piano e si conta, mentalmente, almeno fino a cento.
Si resta con gli occhi chiusi, aspettando che tutto il tuo corpo inizia a rispondere ai tuoi comandi.
Ed inizio a contare, lentamente, utilizzando la mia voce solo dentro la mai testa.
Sollevo lentamente le gambe, per permettere al sangue di iniziare a scorrere con omogeneità dovunque.
Apro gli occhi che sono arrivato ad ottanta.
Mi metto a sedere quado sono a novantadue e piano, solo quando sfioro i cento, posso dirmi di essere stabilmente in piedi.
Mi porto una mano alla testa e solo adesso mi rendo conto di avere i vestiti bagnati, così come i piedi poggiati su uno strato di acqua tiepida.
Osservo le mie mani, osservo i piedi ed i pantaloni zuppi, di quella che ha l'aspetto di essere acqua ma a giudicare dall'odore pungente che emana, sembra completamente qualcosa di diverso.
Il cuore sta iniziando a battere ad un ritmo inatteso, un senso di ansia mi stringe allo stomaco e tutto ciò mi coglie impreparato.
Per quanto tempo sono rimasto steso sul pavimento?
Deglutisco a fatica e torno a sentire i miei arti instabili, un tremore che si diparte dal centro del mio petto mi fa perdere il senso dell'equilibrio.
Non può essere, giusto?
Non può essere...
Mi trascino quel che basta per sporgermi sui miei monitor.
Tengo gli occhi sbarrati dalla paura, ma, nonostante ciò, ci vuole un po' prima che io riesca a mettere a fuoco la scritta verde.
Process_completed_
System_online_
<< Ah...>> sfugge dalle mie labbra, improvvisamente secche.
Mi allontano dallo schermo come se avessi appena visto in faccia la morte, la mia stessa morte, materializzatasi dentro ad uno schermo fatto di pixel spenti su altri pixel verdi.
<< Ah...>> dico nuovamente con un tono di voce più alto, così che rimbomba dentro la mia stessa cassa toracica prima di disperdersi nell'ambiente circostante.
C'è silenzio nello studio, un silenzio surreale, di quelli che non fanno presagire nulla di buono.
Se fossi all'interno di un film horror questo sarebbe il momento perfetto, il tempismo calcolato da un regista competente, per spaventare lo spettatore.
Questo è il momento della morte del protagonista.
Ed il protagonista di questa messinscena, sono io e, con una probabilità inaspettatamente alta, sto per morire sul serio.
Il martellare furioso del mio cuore, unito al formicolio della voce, che graffia la gola per poter uscire e liberarmi il corpo da tutto quello che ho sempre taciuto, sembrano riempire improvvisamente la stanza.
I miei piedi continuano a muoversi in quel liquido di raffreddamento criogenetico- di contenimento che scorreva all'interno di alcuni tubi- che è fuoriuscito, ad un certo punto, durante l'elaborazione del processo.
<< AH...>> urlo, sentendo il dolore accumulatosi sul petto, prendere il volo tramite le mie parole.
È un sollievo amaro, quello che provo.
Una sete che ha arso per millenni, e che adesso non riesce a placarsi con questo singolo goccio d'acqua, seppur dovrebbe essere sufficiente.
Con gli occhi addobbati di lacrime, mi precipito fuori dallo studio, senza sapere effettivamente cosa aspettarmi.
Cosa dovrei fare adesso?
Cosa dovrei fare, ora che sono giunto alla meta che per un anno e mezzo io ho cercato disperatamente di raggiungere?
Un saggio direbbe, arrivati a questo punto, di sedermi, prendere un bel respiro e godermi la vista.
Godermi il frutto del mio lavoro, delle mie paure e delle mie insicurezze.
Il seme ed il frutto della mia ossessione.
Osservare con gli occhi pieno d'orgoglio, la mia creatura che finalmente nasce, che s'agita in un nuovo mondo in cui io l'ho forzata a nascere.
Attendere i suoi primi passi, guidarla ed esserne fiero.
Dovrei farlo, dentro di me una parte minuscola mi dice esattamente di seguire questa via.
Di calmare il mio respiro e di essere felice.
Ma allora perché tremo come una foglia?
Perché sono più infelice di quando ho iniziato?
Perché il cuore batte così forte, così tanto, da farmi impazzire?
Non dovrebbe essere questo, il momento che ho tanto atteso di sbattere in faccia a Matheus, a tutta la comunità scientifica che mi credeva solo un folle?
Non dovrebbe essere così?
Mi chiudo la porta dello studio alle spalle, sedendomi contro di essa e reggendomi la testa.
"Che cosa ho fatto?"
"Che cosa è successo?"
E mentre tremo, mentre mi rendo ancora una volta un essere umano patetico, qualcosa disturba il mio naso.
Un odore intenso.
Un sentore, un profumo, una fragranza che si scompone in minuscole particelle e viaggia dentro all'aria.
Una scia, una strada, un ricordo.
L'odore di un dolce che viene messo dentro al forno.
L'impasto che sprigiona quella nota di vaniglia e di lievito, non appena inizia a gonfiarsi dentro al forno.
L'odore zuccherino della frutta che cuoce, che perde i suoi liquidi che vengono assorbiti dalla crema alla cannella.
Sollevo la testa, lasciando che il mio corpo reagisca come meglio crede alle sensazioni che, veloci come la luce, stanno arrivando dritte da quei dieci quadrilioni di connessioni dentro la mia testa.
<<...高たかい声こえも出だせずに思おもい通どおり歌うたえない...>>
"...Non riesco a cantare note alte, come mi piacerebbe fare..."
<<...それでもうなずきながら一緒いっしょに歌うたってくれるかな...>>
"...Ma spero che tu annuisca, che ti piaccia e che canti insieme a me..."
Qualcuno sta canticchiando, una vecchia canzone* di diversi anni fa.
Una canzone sdolcinata, che parla di un amore eterno, di un sogno che diviene realtà e di due anime che sono destinate a stare insieme.
Una canzone di un amore che se appassisce, non verrà perdonato da chi resta inerme, davanti alle foglie appassite dell'altro.
Una vecchia canzone che parla d'amore.
<<...愛あいが溢あふれていく...>>
"...Sono pieno d'amore per te..."
Una canzone che qualcuno canticchiava sempre.
Una canzone che veniva storpiata da qualcuno che, all'effettivo, non sapeva cantare ma che per me risuonava come la melodia di un professionista.
Suonava sdolcinata e smielata, affettuosa e divertente.
Suonava come la sua voce roca la faceva suonare, in mezzo a tante note mancate e ad una ritmica inesistente.
Credevo che non l'avrei più sentita: né quella voce e né quella canzone che fingevo di odiare, ma che in realtà rimbalzava dentro la mia testa fino al mio cuore, ogni volta, per ogni nota.
Una ninnananna in mezzo ad una notte di tempesta.
Un salvagente, una riva sicura, in mezzo al mare.
Un ricordo, che si mescola assieme al profumo di un dolce che si cuoce lentamente.
Una voce ed un profumo, che possono appartenere solo ad una persona.
Una certezza, un battito di cuore, un nodo di emozioni che si stringe allo stomaco che solo una persona a questo mondo, è in grado di darmi.
Solo una persona.
M'affaccio alla porta della cucina con le lacrime agli occhi, la bocca aperta ed il respiro di chi ha appena corso cento chilometri, piuttosto che arrancato per pochi metri.
La luce filtra dalle tapparelle alzate, in un turbinio di corpuscoli.
Illumina i profili freddi del marmo, li riscalda e li rende come impregnati d'oro; li impreziosisce, come non erano più da un anno e mezzo a questa parte.
Li ammorbidisce, li rende familiari.
Li rende casa mia.
Il profumo della torta che cuoce nel forno, l'odore pungente di pulito che mi fa prudere il naso.
Quel detersivo alle violette e fiori di campo, che dava un tocco primaverile anche agli interni, che io detestavo perché mi sembrava puzzare più che sprigionare una fragranza floreale.
Il bancone della cucina infarinato, con delle ciotole da lavare, un disordine piacevole che rimanda a qualcuno che abita la casa piuttosto che infestarla come uno spirito dalle faccende in sospeso.
Qualcuno di spalle, che canticchia una vecchia canzone d'amore, con indosso un maglioncino rosso e dei pantaloni di tuta grigi che gli vanno leggermente corti sulle caviglie.
Guarda fuori dalla finestra, mentre ha iniziato a lavare ciò che ha sporcato, nel fare quell'improvvisata.
Un uomo dai capelli neri.
Una torta di mele nel forno.
L'odore di pulito che si diffonde nella casa.
Il suono di una melodia che solo lui cantava.
La primavera che timidamente s'affaccia nel riflesso dei miei occhi, arrossati di lacrime.
<<Kuro...>> sussurro, sentendomi mancare nel mentre che il suo nome lascia le mie labbra.
Con disinvoltura si volta.
Come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, mette su un sorriso luminoso, più splendente della giornata di sole alle sue spalle.
Le fossette sul suo volto si disegnano, naturalmente, proprio dove ricordavo fossero.
I suoi occhi scintillano.
Un velo di luce passa attraverso le sue iridi dorate.
Come se si fosse appena risvegliato da un sonno durato millenni, mi guarda, mi sorride, solleva appena l'angolo del sopracciglio destro ed arriccia un po' il naso.
È tornato.
È tornato.
Non riesco a muovermi, resto impalato sulla soglia della porta, con quello che probabilmente è un attacco di cuore in corso.
Le mani tremano di rabbia, di sollievo e di rammarico.
Gli occhi piangono, da soli, di stanchezza, d'amore che trabocca proprio come dice quella sua canzone troppo sdolcinata.
È tornato.
<< Che fai lì impalato?>> dice, scuotendo la testa e tornando a lavare i piatti.
È la sua voce.
La sua voce roca, profonda, maschile, dal graffiante appiglio di ogni singola sillaba e dall'inflessione tipica del quartiere a Sud di Tokyo dove siamo cresciuti.
Che la riconoscerei tra mille, la sua voce.
Il suo accento, il suono della sua risata, la cadenza che imprime su certe parole, il suo tono canzonatorio, quello che usava per provocarmi e quello sommesso.
Chiudo gli occhi, anche se in realtà non vorrei svegliarmi e ritrovarmi davanti ad una cucina vuota, sporca e che puzza di cibo avariato.
Chiudo gli occhi perché ho imparato, che quando è troppo bello per essere vero, generalmente non lo è mai, e di conseguenza preferisco togliermelo subito questo dubbio.
È davvero qui?
Il tempo necessario a chiudere le palpebre è davvero infinitesimale: 0.03 secondi.
Tre decimi di secondo.
Ma è mai successo che questo brevissimo intervallo, venisse avvertito come infinito?
È mai successo che, in realtà, dalla chiusura delle palpebre, passino davanti mille e più scenari, ricordi e situazioni che probabilmente avvengono solo nella tua testa?
È mai successo a qualcuno di vedere la propria vita dall'esterno, come se fosse un film che scorre sul grande schermo cinematografico, e pensare che il momento in cui si chiudano gli occhi corrisponda ai titoli di coda?
È la fine.
Quando riaprirò gli occhi potrebbe essere scomparso, potrebbe non esserci più ed io potrei non riprendermi dallo shock.
Oppure...
Oppure potrebbe esserci ancora, potrebbe osservarmi con quei suoi occhi felini e penetranti.
Potrebbe essere davvero tornato, ed io non essere minimamente pronto a quest'eventualità.
Deglutisco e sento la luce filtrare attraverso le mie palpebre instabili.
<< Ma che fai?>> dice.
Quando riapro gli occhi è proprio davanti a me.
Con un'espressione a metà tra il divertito ed il perplesso, resta in piedi con un grembiule natalizio allacciato in vita, sul quale si sta lentamente pulendo le mani.
<< Kuroo...>> sussurro, lanciandomi contro di lui.
Ho bisogno di sentirlo, reale e concreto, tra le mie braccia.
Ho bisogno di sentire il calore del suo corpo, la fermezza della sua presenza, la sua pelle che scorre sotto i miei polpastrelli; ho bisogno che anche lui mi tocchi, che m'accarezzi, che mi stringa, che mi faccia sentire come se fossi finalmente tornato a vivere.
Ed è questo quello che fa.
Automaticamente, senza bisogno di aspettare un secondo in più, non appena il mio viso affonda nel tessuto morbido del suo maglioncino, le sue braccia mi avvolgono.
M'avviluppa in un abbraccio stretto, troppo stretto, che a momenti mi mozza il fiato.
Mi tiene saldamente a sé, come se avesse sempre fatto così, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Come se non mancasse da due anni e mezzo in questa casa, come se non mancasse da due anni e mezzo a me.
Piango contro la sua maglietta, lo stringo e lo colpisco sul petto, fino a quando le mie braccia non perdono da sole la forza.
Fino a quando le lacrime non lavano via tutto il risentimento, l'odio ed il senso d'abbandono che ho provato.
Fino a quando non resta altro che l'amore.
Come nella sua canzone troppo sdolcinata e romantica, dalle note distorte di una voce che non è fatta per cantare.
L'ho immaginato, sognato e temuto a lungo questo momento, il suo ritorno.
Ed essendo che non ho avuto modo di parlargli per un anno e mezzo, stavo lentamente rassegnandomi all'idea di averlo perso per sempre.
Mi stavo abbandonando a quel flusso incontrollato di quando le cose ti sfuggono dalle mani, a quel senso di dolente solitudine.
Che un tempo desideravo che Kuroo fosse più silenzioso in casa, fosse più ordinato.
Ma quando il silenzio e l'ordine della sua assenza hanno investito la casa, non avrei potuto sentirmi peggio.
Non avrei potuto desiderare di sentirlo schiamazzare per nessun motivo apparente, di trovare i suoi vestiti buttati alla rinfusa per tutta casa.
Non avrei potuto desiderare di riavvolgere il tempo, di più di come all'effettivo, ho fatto.
Ma adesso è qui.
Adesso è tornato, e non importa nient'altro.
Né il tempo passato separati, né tutti quei sentimenti che mi hanno corroso l'anima per un anno a mezzo.
Adesso importa solo che lui sia qui.
<< Kuroo mi sei mancato così tanto...>> singhiozzo ancora contro di lui, affondando ancora di più contro il suo addome.
Kuroo sorride, accenna giusto a quell'espressione tipica che lo ha sempre contraddistinto.
<< Anche tu, topino.>> risponde, senza scomporsi.
Sollevo il capo fino ad incontrare i suoi occhi di miele dorato.
Il suo volto continua a sorridere, con ogni singola ruga d'espressione che solca la pelle ambrata del suo viso.
<< Era micetto...>>
Kuroo annuisce, come se fosse leggermente risentito della mia correzione.
<< Scusami, micetto.>> si corregge immediatamente, facendo anche una breve pausa.
Resto un momento incantato nel bagliore di luci che attraversa i suoi occhi.
Sono leggermente umidi, come se fossero fatti di vetro o come se avesse un perenne velo di tristezza che non riesce a piangere.
Mi sollevo sulle punte, quel che basta per farlo abbassare su di me e portare i vostri visi alla stessa altezza.
Passo lentamente una mano su tutto il suo viso, disegnandone appena i profili.
I miei polpastrelli tremano nello sfiorare la sua pelle, la punta del naso, le sue labbra carnose, le sue sopracciglia sottili.
È lui, davvero lui e nessun'altro.
Chiudo gli occhi, questa volta in piena coscienza di quel che starà per succedere: mi prendo quel che mi spetta.
Mi prendo un pezzo dell'amore del mio uomo.
Dei frammenti, di uno stesso mosaico che combaciano perfettamente solo quando le nostre labbra s'uniscono.
E questo me lo sono costruito da solo, con fatica, nel tempo.
Me lo sono guadagnato quest'uomo, quest'amore.
L'ho preso quando era meno di niente, l'ho lavorato, l'ho plasmato, l'ho codificato affinché funzionasse come fa oggi.
Kuroo mi appartiene ed io appartengo a lui.
È sempre stato così, sin da quando eravamo solo dei bambini.
Siamo sempre stati noi due, noi che ci smussavamo gli spigoli a vicenda, per permetterci d'incastrarci sempre meglio.
Noi due e nessun altro.
Ed adesso questo è quello che merito.
Me lo merito, Kuroo.
Me lo merito il suo amore.
Le sue labbra sono soffici, di una morbidezza che avevo dimenticato avessero.
Dolci, saporite, familiari, allo stesso modo del profumo che si libera in aria dal forno.
Ricambia il mio bacio, approfondendolo.
Lascia che le sue mani fredde dell'acqua con cui ha lavato nel lavello, indugino sulla pelle scoperta del mio collo.
M'accarezza, assaporando ogni angolo delle mie labbra e sfiorando ogni centimetro di pelle.
Si prende pazienza, come se mi stesse studiando, nelle attenzioni che mi sta dando.
E Dio sa, se m'erano mancate queste attenzioni.
Se m'era mancato il calore che mi nasce in mezzo al petto, quando c'è lui che mi tocca.
Se m'era mancato il modo che ha d'amarmi, con lentezza, con una calma al limite del sopportabile.
Mi tende i muscoli, mi fa desiderare di avere di più e di averlo più velocemente.
Mi accende l'appetito, mi fa dolere lo stomaco dalla fame che mi penetra l'anima.
Mi fa essere vorace, mi fa essere possessivo, violento, bramoso.
E mentre io brucio sotto la sua fiamma, lui continua l'esplorazione del mio corpo con esasperato autocontrollo.
Mentalmente ringrazio di aver fatto una doccia proprio prima di far partire la centesima gestazione.
Ora che ci penso, che la mente mi riporta a quel fugace momento, ricordo di avere i pantaloni e la felpa ancora zuppi del liquido fuoriuscito.
Ma non riesco a preoccuparmi di questo ora, la mia priorità è solo prendermi l'amore dell'uomo che mi appartiene.
Prendermi tutto di lui, tutto quello che m'è mancato per due anni e mezzo.
Prendermi quel che mi spetta, quel ch'è in attesa solo per me, quello che possiedo e che avrò per sempre.
<< La torta micetto...>> dice piano sulle mie labbra, mentre continua a tenere gli occhi chiusi e la sua solita espressione immersa e concentrata, che era solito fare quando desiderava fare l'amore con me, ma qualche fatto esterno ce lo impediva.
<< Spegni il forno...>> rispondo, in un ansito nell'incavo del suo collo.
Un sospiro corre incontrollato dalle sue labbra, mentre mi solleva da terra ed io allaccio le gambe alla sua vita.
Continuo a mordicchiargli l'orecchio destro, lo vedo mandare indietro la testa e chiudere gli occhi.
L'espressione sul suo viso è rilassata, distesa, semplicemente in estasi.
E, mentre Kuroo indietreggia a tentoni continuando a baciarmi, fino al forno, osservo il riflesso del mio viso alla vetrata della finestra: un viso stanco, sofferente, incredulo.
Un viso avvolto dal desiderio, da un'aggressiva lussuria che vuole prendersi, non importa come, tutto quello che c'è da afferrare.
Il tragitto verso la camera da letto è più breve del previsto: con sole tre falcate da parte di Kuroo, sono già disteso sul materasso, senza la felpa.
Kuroo torreggia sopra di me, appoggiandosi con il gomito sul piumone, di fianco la mia testa.
Si sorregge con una sola mano e mi osserva, registrando ogni dettaglio del mio corpo, come se mi stesse facendo un miliardo di fotografie, una dopo l'altra.
Lentamente gli sfilo il maglioncino rosso e lo lancio in una parte della stanza, senza fare attenzione a dove.
I suoi capezzoli sono leggermente più scuri di quel che ricordassi, ma per il resto il colore della sua pelle è esattamente lo stesso.
Così come quei suoi tre nei, sul fianco destro, che ricordano la disposizione delle stelle della cintura d'Orione.
<< Ti amo Kuroo... ti amo così tanto...>> gli dico, mentre afferro il suo volto per attirarlo in una nuova spirale di baci, dal sapore umido di lacrime.
Con la mano libera lo sento accarezzarmi il volto, delicatamente, come se fossi fatto di un materiale fragile ed instabile.
Forse, per tutte queste emozioni che mi stanno travolgendo, instabile lo sono per davvero.
E credo che lui lo sappia, anche se ricambia il mio bacio con dolcezza, e tace, quel che in realtà vorrebbe dirmi.
Si solveva dal mio viso solo per sussurrarmi un caldo "Anche io, Ken."
E proprio come quella canzone troppo sdolcinata che piace solo a Kuroo, il mio sogno è diventato realtà.
"Darlin'夢ゆめが叶かなったの
お似合にあいの言葉ことばが見みつからないよ...[...]
「愛あいしてる"
"Darlin', il mio sogno è diventato realtà...
Ed anche se non riesco a trovare le parole per descriverlo... [...]
Ti amo."
Mi stringo al suo corpo nudo, senza volerlo più lasciare andare, dopo che il nostro ricongiungimento di tre orgasmi di fila, si è concluso.
Lo accarezzo, sentendo come scorre liscia la pelle del suo addome sotto le mie dita, che tremano leggermente.
Kuroo m'accarezza i capelli, gioca con alcune ciocche arricciandole appena, e poi stirandole nel momento immediatamente successivo.
Vedo il suo sterno fare su e giù con un ritmo pacifico, che m'infonde un senso di tranquillità e sicurezza come non ne provavo da tempo.
<< Tetsu...>> dico piano, senza sollevare lo sguardo.
Lo sento rispondere con un mugugno gutturale, mentre anche lui continua ad accarezzarmi la testa.
<< Credevo che sarei morto senza di te...>> gli confesso, con un filo di voce.
<< Non dire sciocchezze.>> risponde, stringendomi ancora un po' contro il suo petto.
M'accoccolo, come se potessi farmi più piccolo di quello che sono e come se lui potesse inglobarmi tutto dentro di sé.
Come se potessi penetrare sotto la sua pelle e vestirmi di lui, anche in quei giorni in cui stento a guardarmi allo specchio.
<< Lo giuro...>>
Kuroo mi lascia un bacio sulla fronte, poggiando piano le labbra e facendo appena pressione.
<< Non dirlo neanche Ken...>> risponde lui.
Sospiro, chiudendo gli occhi.
<< Anche io credo che morirei senza di te, micetto.>> aggiunge infine, notando quella nota d'infelicità nel mio sospiro.
Sorrido, leggermente, sentendo gli occhi pizzicarmi nuovamente.
Mi era mancato così tanto che solo ora, al sicuro tra le sue braccia, mi rendo conto di quanto facesse male la sua assenza.
Di come mi stesse dilaniando l'anima, facendola a brandelli, quella mancanza.
Di come mi pesasse sul cuore quel vuoto, di come fosse profondo l'abisso senza di lui, di come fossi niente, senza di lui.
Di come fossi niente.
<< Non lasciami mai più.>>
<< Mai.>>
Mi sollevo sui gomiti, appoggiando la fronte sulla sua.
Alcune ciocche dei miei capelli più lunghi solleticano il suo viso, ma Kuroo non le sposta.
Lui mi guarda e porta una mano dietro la mia nuca, sincronizzando il suo respiro con il mio.
<< Promettilo, promettilo davvero questa volta.>> gli dico, strofinando leggermente la punta del naso contra la sua.
<< Te lo prometto, Ken.>> risponde, accennando ad un sorriso.
Annuisco, sigillando la promessa sulle sue labbra, con la cera che cola dalle mie.
<< Niente più America.>> sussurro.
<< Niente più America.>> ripete lui.
<< Ci saremo solo noi d'ora in poi.>>
Annuisce piano, sfiorando ancora le mie labbra inumidite dalle lacrime.
<< Solo io ed il mio bel micetto.>>
<< È una promessa?>> chiedo, bloccando a metà strada quel suo bacio.
Kuroo annuisce nuovamente, ed io decido semplicemente di credergli.
Di buttarmi completamente tra le sue braccia, di lasciarmi trasportare dalla corrente e di chiudere il mondo che collide con la nostra dimensione, fuori dalla stanza.
Non esisterà più nulla da questo momento in poi: niente lavoro, niente viaggi, niente ricerca, niente di niente.
Niente più dieci quadrilioni.
Niente più calcoli, previsioni, codificazioni, ricerche impossibili.
Solo noi due, solo io e Kuroo.
Solo noi a vivere l'amore che meritiamo, l'amore che abbiamo faticato a preservare ed alimentare ogni giorno.
<< Te la ricordi la casa in montagna dei tuoi...?>> dico all'improvviso, staccandomi dalle sue labbra.
<< Certo micetto, la prima volta che abbiamo fatto l'amore è stata proprio lì...>>
<< Ci andiamo, domani.>> affermo, trasudando una sicurezza che non ricordavo di possedere.
<< Tutto quello che vuoi, micetto. Tutto quello che vuoi.>>
*
Il tragitto verso la casa in montagna è più lungo del previsto.
Sarà perché pioviggina, sarà perché non guidavo la macchina da un anno e mezzo, sarà perché dovrei tenere gli occhi sulla strada ancora innevata, eppure non riesco a staccarli da dosso a Kuroo.
Resta compostamente seduto, con la cintura allacciata, la giacca ripiegata sulle ginocchia ed il viso rivolto al finestrino.
Vedo il panorama scorrere nei suoi occhi rapidamente, come se lo stesse registrando, per imprimerlo meglio nella sua memoria.
All'effettivo non tornavamo in quella baita da diversi anni, troppi per cui io possa ora ricordarne realmente il numero.
Si è offerto di guidare lui, così come si è offerto diverse volte di darmi il cambio in tutte quelle ore di strada che ci separano dalla nostra meta, ma io ho rifiutato tutte le volte.
Ho rifiutato perché sento che questa sia la mia seconda chance, la mia seconda benevola occasione di essere una persona migliore.
Di essere quello che vizia e non quello viziato.
Di essere quello paziente e non quello per cui serve pazienza.
Sento di potermi finalmente riscattare, di mostrargli quanto sia profondo l'amore che ho, e che ho sempre avuto.
Gli posso mostrare che sono in grado di prendermi cura di lui, di tutti suoi bisogni anch'io, che non sono più il bambino che lui pensa io sia rimasto.
Non sono più il ragazzino che lottava contro i suoi sentimenti, impaurito d'ammettere d'essere innamorato del suo migliore amico.
Non sono più quel Kenma.
Sono adulto ora.
Sono adulto e voglio fare per lui tutto quello che, per pigrizia o per semplice disattenzione, non ho mai fatto.
Guidare per lui, mentre si gode il panorama che si sussegue dal finestrino.
Non l'ho mai fatto.
Ho sempre lasciato che fosse lui a guidare per me, trasportandomi come se fossi una valigia troppo pesante che nessuno ha voglia di scendere dalla macchina.
Fargli trovare i pasti già pronti, mentre lui è impegnato a fare dell'altro, che sia anche il semplice rilassarsi davanti al camino con un buon libro.
Non l'ho mai fatto.
Non ho mai cucinato per Kuroo, ho sempre lasciato che fosse lui a mettersi ai fornelli per prepararmi quel che più mi piacesse.
E non era perché io non volessi cucinare per lui, ma semplicemente non mi sono mai imposto di volerlo fare sul serio.
Cedevo, ogni qual volta mi diceva di lasciar perdere, che avrebbe fatto lui.
Cedevo e lo lasciavo fare, continuando a farmi viziare da lui, anche quando tornava a casa stanco morto dal lavoro.
A lui andava bene, diceva ch'era terapeutico per lui prendersi cura di me a quel modo, che stava bene e che non si sentiva in alcun modo infelice.
Ed io ci credevo, ci credevo perché m'era comodo farlo e perché lui mi aveva convinto che fosse l'unica verità da credere.
Adesso, mentre gli porto una cioccolata calda che so che non berrà, dopo ch'è già trascorsa una settimana dal nostro arrivo, non posso fare a meno di chiedermi se lui sia stato infelice con me.
Se io l'abbia mai fatto sentire di troppo, non voluto, non amato, poco importante.
Se, per anche un singolo attimo, lui si sia sentito triste a causa mia.
Se io l'abbia reso infelice, in qualche modo.
Ci penso da qualche giorno, di nascosto al suo sguardo sempre attento su di me.
Ci penso.
Se si fosse abituato ad una mezza felicità, piuttosto averne una per intero come avrebbe meritato.
Se non lo avesse fatto perché legato ad un ricordo familiare, di genuino affetto, ma che all'effettivo il mio essere apatico e totalmente ossessionato dal mio lavoro, non l'abbiano reso in qualche modo, anche solo per qualche secondo, infelice.
Kuroo posa il libro sulle sue ginocchia, lasciandolo ancora aperto sulla pagina che stava leggendo e mi sorride, mentre prende la tazza con la cioccolata in mano.
Mi sorride, dentro a quel maglioncino di lana verde che sua madre aveva confezionato per lui qualche anno fa.
Io gli sorrido di rimando, sentendo improvvisamente un senso di malinconia adagiarsi sul mio cuore.
Mi accomodo sul bracciolo del divano, osservando come fuori stia nevicando con persistenza; una leggera ed impalpabile assiduità da parte di quei fiocchi di cristalli, a metà tra una goccia di pioggia ed un chicco di grandine.
Il paesaggio introno a noi è completamente imbiancato.
Gli alberi, la foresta, il giardino, il vialetto di pietra che serpeggia fino alla porta di casa ed anche io, mi sento schiacciato dal peso di un manto di neve gelido, che s'è depositato nel giro di una settimana sul mio cuore.
<< A cosa pensi?>> mi chiede Kuroo, adagiando la cioccolata sul tavolino davanti al fuoco e posando una mano sulla mia coscia.
Lo osservo mentre mi mordo il labbro inferiore.
<< Sei infelice, Kuroo?>> chiedo, guardandolo disperatamente negli occhi, alla ricerca di un segno, di un bagliore, di un piccolissimo cenno, che possa farmi convincere del contrario.
Che possa aiutarmi a spazzare via l'idea di aver reso Kuroo infelice per anni, prima di riuscire a rendermene conto e prima di trovare la forza di cambiare.
<< No, è ovvio che io non lo sia. Perché me lo chiedi, micetto?>> dice lui, sporgendosi a guardare il mio viso, sul quale si proiettano le ombre di un camino che scoppietta e crepita.
<< Non adesso...ma... lo sei mai stato in passato?>>
Non c'è modo che lui possa rispondermi.
Lo so bene, eppure provo lo stesso, aggrappandomi nuovamente a quella vana speranza di scorgere dell'esitazione nel suo viso perfetto.
Ma Kuroo non esita, lui solleva il mio mento con due dita e mi lascia un bacio sulle labbra.
<< Non potrei mai essere infelice con te al mio fianco.>> risponde, facendo scontrare ancora una volta le nostre labbra.
È così da lui, una risposta da manuale che solo lui potrebbe darmi, che al posto di sentirmi sollevato nel sentirglielo dire, mi sento sprofondare nella tristezza ancora un po'.
Quel che basta per vedere le ombre della luce che si riflettono sulla superficie, mentre io cerco disperatamente di trattenere il respiro in questo stagno di melma.
Accarezza ancora il mio viso, con pazienza.
Con la sua solita pazienza, con le sue buone maniere, la sua incrollabile fede nell'amore cieco che prova per me, con la sua romantica e sdolcinata devozione.
Con tutto quello che rendono Kuroo, proprio Kuroo Tetsurō.
Il mio Kuroo Tetsurō.
<< Non essere triste, micetto, non ce n'è motivo...>> sussurra, avvicinandosi nuovamente al mio viso.
Rinnova il bacio che s'era appena concluso tra di noi, ed io mi ritrovo a ricambiarlo nonostante dentro non senta altro che la voglia di tornare a Tokyo a piedi.
Ma non avevo detto che lo meritavo quest'amore?
Non avevo detto, preso dalla mia solita aggressiva presunzione, che lo meritavo quest'uomo e che avrei fatto di tutto per tenerlo insieme a me per sempre?
<< Non vorresti chiamare tua madre?>> dico ad un certo punto, mentre reggo il suo viso tra le mani, ed osservo le sue iridi dorate, mescolarsi ai colori del fuoco che si riflette dentro di esse.
I suoi capelli scuri, neri come la pece, vengono rischiarati dalla luce aranciata del camino, così come i profili morbidi del suo viso.
Non c'è un'imperfezione su questo viso.
Non c'è niente che non sia al suo posto.
È perfetto.
Bellissimo, splendido, impeccabile, ineguagliabile.
È proprio Kuroo ed al contempo non lo è.
<< Perché dovrei?>>
<< Perché forse vorrebbe sentire la tua voce.>> gli dico, stringendomi nelle spalle.
<< La chiamerò più tardi, per ora la mia priorità sei tu.>> risponde.
<< Come farai a chiamarla, non ricordi che qui non c'è linea?>>
Kuroo si sofferma qualche secondo a pensare, inarcando di poco il suo sopracciglio sinistro.
<< La chiamerò quando torneremo a Tokyo allora.>> asserisce.
Annuisco.
Non che ci sia molto da fare.
Kuroo non mi ha chiesto dove sia il suo cellulare, il suo pc portatile, o qualsiasi altro dei suoi effetti personali e a dire il vero, preferisco così.
Non saprei cosa rispondergli, essendo che neanche io so dove siano all'effettivo.
Potrebbero essere ancora in America, come potrebbero essere spariti dalla faccia di questo mondo.
Per quel che m'importa non fa davvero nessuna differenza.
<< Fammi un sorriso... avanti...>> dice lui, iniziando a stropicciare la mia faccia.
<< No dai... non ne ho voglia...>> protesto, cercando di ripararmi dalle sue mani, che sono dovunque e che mi pizzicano e mi solleticano.
Nel giro di qualche minuto mi ritrovo sdraiato sul divano, con le sue mani che solleticano i miei punti deboli sui fianchi.
Inizio a ridere, scalciando e cercando di divincolarmi da quella morsa in cui sono caduto, senza accorgermene, fatta di pizzicotti, di morsi e di mani che sembrano moltiplicarsi a vista d'occhio essendo che sono impossibili da fermare.
<< Fe-Fermati... ti prego.. ti prego!!>> riesco a dire tra le risate, che mi hanno acceso il volto e fatto lacrimare gli occhi.
<< Solo se mi dai un bacio... un bacio bello, in cui metti tutto il tuo amore.>> s'impone lui, mentre si mette a cavalcioni sopra di me, senza però gravarmi con il peso del suo corpo sull'addome.
Inizio a prendere un po' d'aria, e lentamente riapro gli occhi.
Mi ritrovo il suo viso vicinissimo al mio, così tanto che le punte dei nostri nasi si sfiorano appena.
<< D'accordo... ci metterò tutto l'amore che ho...>> sussurro, mentre le sue mani continuano ad accarezzarmi al di sotto dei vestiti, facendomi rabbrividire.
<< Ti amo micetto.>>
Ah, Kuroo... quanto mi sei mancato.
Quanto mi manchi.
*
Un'altra giornata di pioggia, di piatto frusciare tra gli alberi e di sordo atterrare sugli strati di neve che ancora persistono all'esterno, mi sveglia in questa mattinata cupa.
Dalla nostra fuga d'amore, se così posso chiamarla, sono passate altre cinque settimane.
Ormai dovrebbe essere primavera inoltrata, il verde sta cercando di farsi strada attraverso la neve solidificata che residua sui bordi del vialetto, in accumuli più ostinati dentro al giardino ed in qualche lastra di ghiaccio sulla strada principale.
Dalla finestra della camera da letto si vedono le vette più alte, completamente imbiancate che offrono ancora una buona occasione per andare a sciare.
A Kuroo piaceva andare sullo snowboard quando facevamo il liceo, e devo dire ch'era anche piuttosto bravo.
E proprio in una delle volte cui mi trascinò qui su, con la scusa che avrebbe voluto andare a sciare in occasione delle vacanze invernali, si dichiarò a me.
Ricordo come tremasse la sua voce, le sue mani, di come non riuscisse a sostenere il mio sguardo.
Ricordo di come me la stessi facendo sotto poiché credevo che volesse dirmi che s'era accorto dei miei sentimenti, ma che avesse una ragazza, e che per tanto che non avrebbe mai potuto ricambiare.
Ricordo poi il nostro primo bacio, proprio davanti al camino.
Ricordo la nostra prima, timida ed impacciata volta.
Lo ricordo come se fosse ieri, come se il tempo in questa baita non fosse mai passato.
Come se tutto si fosse preservato, rimanendo aggrappato a quell'istante di tempo, che non sbiadisce neanche nella pellicola dei miei ricordi.
Mi sembra tutto come allora: la casa, la neve, noi due, l'amore.
Quell'amore che non sapevo m'avrebbe bruciato vivo, fino al midollo, fino a rendermi insensibile a qualsiasi altro sentimento.
Quell'amore che credevo di non meritare, da parte di un uomo ch'era troppo bello per essere vero.
Mi rotolo sotto le coperte, stringendomi nel piumone.
Allungo un braccio per cercare Kuroo, ma il letto è palesemente troppo leggero per poter pensare che lui stesse ancora dormendo.
Apro gli occhi a fatica, sentendoli ancora impastati per il sonno, solo per accertarmi che il cuscino di Kuroo sia effettivamente vuoto.
E lo è.
La pioggia impatta contro il vetro della finestra, come il puntellare di un milione di piccoli spilli, appanna leggermente la lastra a causa della differenza di temperatura tra interni ed esterni.
Mi sollevo, mettendomi seduto e stropicciandomi la faccia.
Sbadiglio, guardandomi intorno.
Sento che c'è uno strano silenzio dentro casa, un silenzio riempito solo dal rumore incessante della pioggia.
<<Kuroo?>> chiamo, sporgendomi a guardare dalla finestra.
Sento il cuore salirmi in gola, nel momento in cui non ricevo risposta per la terza volta consecutiva.
Mi alzo di fretta dal letto, infilando le ciabatte e qualcosa da mettermi addosso, direttamente da dentro la valigia di Kuroo.
La sua valigia è ancora in casa, ma lui no.
<<Kuroo?>> chiamo nuovamente, alzando il tono di voce ed iniziando a cercarlo per tutto il resto della baita.
Ma lui non c'è né in bagno, né nel soggiorno e neanche nella cucina.
Non è in giardino, non è nella casupola della legna.
Kuroo semplicemente non c'è.
Torno velocemente in camera da letto, con l'affanno e la preoccupazione che scorre nelle vene più fluida del sangue per prendere il mio cellulare.
Mi ritrovo a scorrere nelle voci della rubrica, furiosamente fino a quella salvata come Kuro.
Le mie mani tremano nel mentre che mi fermo con il dito a mezzaria, proprio prima di schiacciare il tasto di chiamata.
Mi accovaccio sulle ginocchia, prendendomi la testa tra le mani e lasciando cadere lo smartphone a terra.
Ma chi voglio prendere il giro?
Kuroo non avrebbe mai risposto al telefono, lui neanche ce l'ha dietro un telefono e qui la recezione, per giunta, è anche pessima.
La sensazione di essere stato nuovamente abbandonato da lui risale lungo la mia gola, stringendola e lasciandomi boccheggiare come un pesce fuor d'acqua.
Sento un fremito sconvolgermi da dentro, farmi a pezzi, questa volta più piccoli di quella precedente.
Mi sento come se mi stessi sbriciolando al soffio del vento, ancora una volta.
E se ho peccato, se ho puntato troppo altro per essere solo un uomo, è giusto che io paghi.
È giusto, ma non posso fare a meno di chiedermi, perché debba scontare io peccati degli altri?
Perché tocca a me fare sempre la parte del redentore che prega in chiesa, con le ginocchia aperte a sangue, davanti ad una croce che si riflette uguale sulla mia schiena?
Perché...
Perché se n'è andato di nuovo?
Perché non può restare con me?
Perché non posso essere felice, anch'io?
Le lacrime piangono da sole, scorrendo come pioggia sulla mia faccia.
Mi lavano via l'illusione d'amore nella quale m'ero rintanato ancora una volta.
Dio, se ci sei da qualche parte, perché mi odi così tanto?
Perché non mi lasci essere felice come tutti gli altri uomini sulla Terra?
<< Kenma?!>>
Sollevo lo sguardo, alzandomi piano da terra, nel sentire qualcuno chiamare il mio nome: una voce robotica, disturbata, su una frequenza troppo debole per essere facilmente interpretabile.
<< Kenma... tutto bene?>> ripete la voce, con non poche difficoltà.
Tiro su con il naso e solo dopo essermi passato una mano sulla faccia, per cerare di ricompormi, mi rendo conto che la voce proviene dallo speaker del telefono.
Nella caduta devo aver schiacciato qualche tasto, inconsapevolmente, ma il destino ha voluto che ci fosse abbastanza segnale per far partire la telefonata nella voce in rubrica immediatamente sopra a Kuro.
E questa fortuita coincidenza del destino, quest'evento imprevedibilmente già predestinato ad accadere, non è altro che la risposta alla mia precedente domanda.
"Perché mi odi, Dio?"
E la risposta è chiamare Akaashi Keiji, la voce sovrastante a Kuro.
Keiji.
Chiamare Keiji dopo mesi di silenzio, di chiamate rifiutate, di visite respinte, non era il segno dal cielo che avrei voluto accadesse.
Dopo mesi in cui non avevo fatto altro che avvolgermi nell'ombra, vestirmi d'indifferenza e rinchiudermi nella prigione che m'ero scelto da solo.
Mesi, ho impiegato mesi per disperdermi, e lasciare che nessuno seguisse le mie tracce.
Nessuno, ma tra tutti Akaashi era quello più difficile da scrollarsi di dosso.
Mesi, mesi impiegati per spingerlo ad oltrepassare la linea sottile tra la compassione e l'indifferenza.
Mesi per chiuderlo fuori definitivamente dopo quell'improvvisata il giorno di Natale.
Mesi passati a cancellare le mie tracce, per non far sapere a nessuno dove fossi e cosa stessi facendo, vanificati, andati in fumo per una semplice coincidenza.
Ed adesso eccolo qua, il mio destino: Akaashi Keiji dall'altra parte del telefono che mi ha sentito singhiozzare come un'idiota.
<< Lo so che ci sei, Kenma... ti prego rispondimi, hai bisogno d'aiuto?>> dice, con voce apprensiva.
Apro la bocca per dire qualcosa, ma non riesco a pronunciare neanche una singola parola.
Tutto quello che vorrei dire resta annodato a metà tra il mio cuore e la mia lingua, e si decompone dentro di me, per l'assenza d'aria.
Ho imparato che le parole sono esseri viventi.
Le parole sono come bestie indomabili, che se tieni rinchiuse si ribellano contro di te, ti avvelenano con un singolo morso sulla punta della lingua, ti stringono al collo in multiple spire.
E se non le fai uscire, dopo infinite sofferenze, muoiono; muoiono e si decompongono, lasciandoti in bocca il retrogusto amaro di un rimpianto.
E fanno male, le parole che non dici.
Le lacrime che mi sforzo di piangere in silenzio mi finiscono in bocca, facendomi assaggiare lo stesso fiele salato che mi porto dentro.
Ed ha un sapore disgustoso, il mio pianto.
Ha il sapore di tutto quello che non riesco a dire, di quello che mi sta marcendo dentro da un anno e mezzo ormai.
<< Keiji... sto... sto bene.>> sbiascico a fatica, dopo aver lasciato vincere la parte di me che mi suggeriva di rispondergli, piuttosto quella che m'intimava di chiudere.
<< Kenma non dire stronzate... hai bisogno di me?>> dice, ancora a fatica per l'effetto dell'interferenza.
È il capolinea.
In un ennesimo, triste, vuoto e grigio giorno di pioggia, sono arrivato alla fine della corsa.
È il momento di dirgli la verità e sperare che Akaashi sia più misericordioso di Dio stesso e che, per tanto, possa darmi una mano.
Ho sempre pensato che non mi servisse altro che il mio lavoro, per colmare quel vuoto, ma adesso che in quel vuoto mi ritrovo a sguazzarci nuovamente, mi rendo conto di aver fatto un errore dietro l'altro.
Che non solo ho peccato di blasfemia, ma anche di superbia, nel volere quel che credevo di meritare.
E forse tutto l'universo sta cercando di dirmi che infondo, non lo meritassi come io in realtà credevo.
<< Keiji... io...>> rispondo piano, sentendo una nuova ondata di tristezza rinnovarsi dentro di me.
<< Dimmi dove sei Kenma... a casa tua non sembra esserci nessuno...>>
Nel mentre che apro bocca per comunicargli la mia nuova posizione, sento il rumore di un motore che si spegne.
Un'auto si parcheggia nel vialetto di casa, che non avevo notato essere vuoto.
Preso com'ero dallo sconforto e dal darmi contro da solo, avevo ignorato l'unico particolare degno di nota: mancavano le chiavi e l'auto.
E non un'auto qualsiasi, di qualcuno dei nostri vicini, bensì la mia di auto.
Con il telefono ancora in mano e la faccia contrita in un'espressione indefinita di dolore e sollievo, mi precipito alla porta.
<< Kenma?>> sento chiamare da Akaashi ma torno ad ignorarlo.
Apro la porta di casa, lasciando che l'odore di terra bagnata, che il freddo di montagna di una giornata di pioggia intensa, m'investano.
Mi sento rabbrividire, quando a piedi scalzi mi sporgo quel che basta per vedere Kuroo uscire dalla macchina, prendere una giacca e mettersela sulla testa e correre verso l'ingresso di casa.
Si sorprende nel trovarmi in piedi sulla soglia della porta, sobbalza e assume un'espressione confusa.
<< Entra o ti prenderai un malanno.>> dice serio, spingendomi verso l'ingresso.
<< Dove sei stato?>> dico piano, stringendo il cellulare in mano con più forza.
<<Entriamo prima di discutere, avanti micetto.>> riprova lui, pazientemente.
<< DOVE SEI STATO?>> mi ritrovo ad urlare, in modo che la mia voce sovrasti anche il rumore insistente di pioggia.
Kuroo mi guarda, quasi del tutto incredulo, e solo adesso mi rendo conto che ha una busta in mano.
Me ne rendo conto solo quando me la porge, con un'espressione ferita in viso.
<< Ero andato a comprarti la colazione, volevo prendere la torta di mele che tanto ti piac...>>
Ma non fa in tempo a finire la frase che mi ritrovo a spingere via quel sacchetto, con un gesto di estrema rabbia, condito da un disgusto che non saprei dire da dove mi nasce.
Da quando ho sviluppato un odio viscerale per i dolci?
La risposta era chiara davanti a me, per quanto ammetterla avrebbe significato, piuttosto che aver raggiunto la vetta della mia personale felicità, che aveva toccato il fondo dell'abisso.
E non avrei ammesso di aver fallito.
Mai.
Non era questo il mio intendo.
<< Chi ti ha detto che potevi uscire in questo modo?>> gli grido in faccia, puntandogli un indice dritto contro il petto.
<< In che modo?>> ribatte lui, indurendo i lineamenti del suo viso.
<< SENZA DIRMELO.>> preciso, sentendomi improvvisamente esasperato.
Continuo a stringere il telefono, fino a quando non sento il rumore della conversazione che si chiude.
Sebbene questa sia la mia priorità, il concentrarmi su quello che Akaashi farà, dopo aver sentito parte di questa lite domestica, preferisco ignorarla.
Preferisco seppellirla nelle stanze più remote della mia mente, nella speranza che l'interferenza telefonica di trovarsi in montagna, per una volta, mi abbia assistito.
<< Credevo ti avrebbe fatto piacere...>> sussurra Kuroo, abbassando lo sguardo.
Lo afferro per una manica e lo tiro dentro casa.
La porta si chiude con un rumore sordo, e nel contempo mi stringo al suo corpo infreddolito ed ai suoi abiti leggermente umidi.
Gli cingo la vita, lasciando che il mio viso si tuffi nel suo maglioncino imperlato da gocce di pioggia.
Kuroo esita un po', lo sento dall'indecisione con cui solleva le braccia prima di mettermele sopra la testa ed iniziare ad accarezzarmi i capelli.
<< Non credevo di essere un prigioniero...>> dice poi, piantando uno sguardo carico di risentimento dritto nei miei occhi.
Apro la bocca per rispondergli, sapendo, ancora una volta, che non ne sarebbe uscita nessuna reazione.
Quel suo sguardo, quei suoi occhi dalle tinte calde del miele, mi stavano disprezzando.
Mi stavano odiando, si stavano scagliando contro di me con la tristezza di chi è rimasto inevitabilmente deluso.
Aveva gli occhi di chi è infelice ma non riesce a liberarsi della fonte, di quel senso d'infelicità.
Ed è così che l'amore mi ha reso?
È questo che per amore di Kuroo, che sono diventato?
Colui che lo rende infelice, quello che lo sfibra e lo lascia appassire come se fosse un fiore dimenticato in un libro in soffitta.
L'ho prosciugato, senza rendermene conto, fino a quando non m'è scivolato via dalle mani.
<< Non lo sei...>> sussurro, trattenendo a stento le lacrime negli occhi.
Come la pioggia batte sui vetri, offuscandone la superficie, quel velo di lacrime che s'abbassa sui miei occhi m'impedisce di vedere chiaramente l'espressione ferita di Kuroo.
È sbiadito ed offuscato, come se fosse dentro ad un sogno e questo per me non è altro che il momento di svegliarmi.
<< Mi tratti come se lo fossi.>> ribatte.
Ed è vero.
Se n'è accorto sin dal primo momento, già da quando ho proposto di venire qui in montagna senza che nessuno potesse avere contatti con lui.
Era quello che speravo: che nessuno lo vedesse, che nessuno gli parlasse e che lui restasse solo con me.
Volevo amarlo come non avevo potuto fare per tutti gli anni che siamo rimasti insieme, per tutte le volte che non ho saputo come fare e per quelle altre in cui mi sono semplicemente impaurito, difronte al carico emotivo che comportava portarsi dentro, quando qualcuno come Kuroo Tetsurō ti ama.
Volevo mostrargli che potevo essere forte, saldamente ancorato al terreno e che lui avrebbe potuto soffiare, con tutto il fiato ch'avesse in corpo, che io non mi sarei mosso.
È davvero così sbagliato?
È davvero un peccato così grande, voler riprovare?
Voler ricucire ciò che il tempo ha lenito e strappato, contando sulle sole proprie forze, è davvero così sbagliato?
Io non ce l'ho una risposta per me stesso.
E a giudicare dal silenzio che Kuroo decide di mantenere in macchina, durante il viaggio di ritorno, credo proprio che non ce l'abbia neanche lui.
Questa volta è lui a guidare.
Non che io abbia avuto molta scelta: semplicemente si siede al posto guida, allaccia la cintura ed aspetta che io entri in macchina.
Mentre ci allontaniamo dalla casa in montagna, non posso fare a meno di guardare il sacchetto con la torta di mele che si scioglie sull'uscio.
A guardarlo bene mi viene voglia di piangere.
A guardarlo bene mi viene voglia di scendere dalla macchina, di raccoglierlo e di mangiarlo, leccarlo dal cemento se necessario.
Ma forse, la verità è che non sono tanto cambiato da quello ch'ero.
Non ho imparato a domare la parte peggiore di me, neanche per amore di Kuroo.
Neanche per me stesso.
*
Credevo che, lasciandomi la pioggia della baita alle spalle, avrei lasciato indietro anche la discussione avuta con Kuroo e tutto il resto dei miei problemi.
Se pensavo che sarebbe stato così semplice probabilmente ci avrei riflettuto sopra un po' di più.
Un errore di calcolo, una minuscola anomalia in un processo che credevo perfetto, m'aspetta per farmi fare i conti con la realtà.
E non è neanche il silenzio stringente a cui Kuroo m'ha obbligato per due ore e mezzo di macchina, che alla fine si è sciolto con l'intreccio delle nostre mani sul cambio.
Non è neanche quel sorriso un po' risentito che mi ha riservato, prima di mettere da parte la sua delusione e tornare ad essere sempre il solito.
Non è neanche il senso di colpa che provo ogni volta che penso che, qualcuno come Kuroo Tetsurō, qualcuno come me non lo riesca a meritare fino infondo.
È qualcosa che avevo sperato non si presentasse sotto casa, con una pioggia torrenziale del genere.
Più che qualcosa, qualcuno.
Ma lui è lì, stretto nel suo completo scuro, come se fosse appena uscito da lavoro e si fosse precipitato direttamente qui.
Stringe l'ombrello con una mano guantata, sotto il porticato di casa, con lo sguardo più truce che io gli abbia mai visto riservarmi.
Sento quegli occhi glaciali scrutarmi da prima ancora che la sua silhouette rientri nel nostro campo visivo.
Il rumore meccanico ed ovattato dei tergicristalli in funzione, lo fa apparire, con una nitidezza paurosa prima che un nuovo strato d'acqua piovana investa il parabrezza, sfocando la sua figura.
<< Ma quello è...>> dice Kuroo, spingendosi con il naso verso lo sterzo per vedere meglio.
Deglutisco il groppo che mi si è formato in gola, cercando di regolarizzare la mia respirazione che segue il solo battere impazzito del mio cuore.
È solo un uomo, mi dico mentalmente.
È solo Akaashi Keiji.
<< Resta in macchina.>> ordino a Kuroo, con un tono che non ammette repliche.
Sento i suoi occhi rapaci, dorati, assottigliarsi verso la mia direzione, nel mentre che mi slaccio la cintura di sicurezza dopo che ha parcheggiato, nel viale di casa.
<< Ma...>> prova lui.
Mentre apro la portiera, con un solo gesto e lo sguardo fisso al mio ospite inatteso, mi ritrovo ad alzare nuovamente la voce con Kuroo, benché gli avessi appena promesso che non avrei più urlato contro di lui.
Lo faccio perché voglio che m'ubbidisca, perché per me è importante proteggerlo ora, dalla tempesta che sta per abbattersi su di me.
E non sto parlando del tempo.
Lascio che le grosse gocce, fredde e cariche di terra, mi piovano addosso.
Rabbrividisco, mentre accorcio la nostra distanza, con passo lento ma deciso.
L'avevo detto ch'era la resa dei conti.
L'avevo predetto io stesso, eppure ho cercato di sfuggire alle mie previsioni ancora una volta.
Ed ha funzionato, per due mesi all'incirca.
È stato sempre tutto molto precario ed instabile, ma funzionava.
Era il mio equilibrio, la mia bolla e la mia stanza di sicurezza.
Ma ecco che la realtà mi colpisce duro, ancora una volta, proprio mentre penso che finalmente anche io sia in grado di scalare le pareti lisce e scure dell'abisso.
Siamo faccia a faccia: io fradicio dalla testa ai piedi, con il cappuccio della felpa calato sugli occhi ed il respiro affannato; lui calmo, posato, composto, rigido, freddo com'è sempre stato.
È stato forse questo che ci ha avvicinati, il suo essere sempre così dannatamente tutto d'un pezzo.
Ma adesso, in questa giornata fredda di una primavera che tarda ad arrivare, dove neanche la pioggia riesce a lavare via la tensione tra di noi, è la cosa che più mi fa paura.
Mi fa sentire piccolo, colpevole quel suo sguardo di ghiaccio.
<< Che cosa stai facendo?>> dice, con una durezza tale da colpirmi in pieno viso.
Dritto al punto, come al solito.
<< Niente...>> rispondo, cerando il coraggio di sostenere il suo sguardo.
<< Cosa stai facendo, Kenma?>> ripete, deglutendo e serrando la mascella in una morsa di rabbia che riesce a trattenere a malapena.
La capisco, dico davvero.
La capisco la sua rabbia, la sua delusione, la sua preoccupazione ed anche quella dannata compassione che mi ha portato a rinchiudermi nella mia ricerca.
Le capisco tutte quest'emozioni che mi piovono addosso, eppure non riesco ad accettarle.
Non la voglio la compassione, non la voglio la rabbia, non voglio niente da nessuno.
Tutto ciò che ho sempre voluto è sempre e stato solo Kuroo.
Perché è così difficile da accettare?
<< Ti ho detto...>>
<< Non mentire, non mentire cazzo!>> ringhia.
<< Ti ho sentito... ho sentito la voce di un uomo per telefono e... cristo ci avevo quasi creduto. Ero quasi felice per te... pensavo, cazzo Kenma si sta frequentando con qualcuno...>>
Abbasso lo sguardo, sentendomi improvvisamente nudo davanti a lui.
La cosa che più mi fa sentire un verme, in questo momento, oltre alle sue parole, è lo sguardo di Kuroo fisso su di me, attraverso il parabrezza della macchina.
Stai sentendo anche tu, non è vero?
Stai ascoltando, nonostante il rumore incessante della pioggia?
<< Ma poi ho capito... poi ho capito che la voce che sentivo apparteneva a... lui. Ed ho pensato di essere pazzo, ho seriamente pensato di essere impazzito nell'aver sentito la voce di qualcuno che non c'è.>> continua lui, muovendo un passo verso di me.
<< Keiji... lasciami spiegare...>> sussurro piano, stringendo i pugni.
<< Oh Kenma... amico mio, vorrei tanto riuscire a comprenderle le tue spiegazioni. Non so dove ho fallito, dove ho sbagliato... in cosa ho mancato nello starti vicino e nell'aiutarti a superare il periodo che stavi passando. Credevo che chiuderti in quello studio, lavorare sodo, servisse a distrarti... ma questo...>> dice, trattenendo a fatica le emozioni dentro di sé.
Akaashi alza il braccio libero, puntandolo verso la macchina.
Non ho bisogno di voltarmi per capire di chi stia parlando.
Non ho bisogno d'incontrare i suoi occhi per capire il perché la sua voce stia tremando, in questo momento.
<< Questa è follia.>> riprende, in tono aspro.
Sono al limite.
Sono al massimo del peso che le mie spalle riescono a sopportare.
Sto per esplodere, crollare in pezzi così piccoli che ricostruirmi sarà impossibile.
<< Che male c'è? Dimmelo, che male c'è nell'amare una persona?>> gli dico, sentendomi pervaso da una nuova ondata di rabbia.
<< Che male c'è mi chiedi? Che male c'è? Questa è una cosa più grande di te...>> sbraita lui, alzando il tono della voce.
<< È così semplice giudicare dall'esterno... COSÌ DANNATAMENTE FACILE!>> mi ritrovo ad urlare anche io.
<< QUESTO NON È AMORE KENMA. E SOLO DIO SA SE ANCH'IO HO SOFFERTO QUANDO KUROO SE N'È ANDATO... IMPAZZIREI SE SUCCEDESSE A KŌTARŌ...>>
Mi ritrovo ad afferrarlo per il colletto del cappotto, prima ancora di realizzare che non è la decisione giusta.
<< E ALLORA PERCHÉ NON PUOI CAPIRMI? PERCHÈ NESSUNO RIESCE A CAPIRE... PERCHÈ NON TI DIMENTICHI DI ME E MI LASCI VIVERE COME VOGLIO?>>
Akaashi risponde alla mia presa, strattonandomi a sua volta ed assestandomi uno schiaffo in pieno viso.
Il suo palmo guantato schiocca contro la mia guancia, rigata dalle lacrime e dalla pioggia.
Risuona nell'aria come un tuono ovattato.
Risuona quel che basta per lasciare che Kuroo apra la portiera dell'auto ed urli il mio nome.
<< Perché l'ho promesso a Kuroo... l'ho promesso a lui che mi sarei preso cura di te, non importa quante volte tu mi avresti respinto. Perché sei come un fratello per me, e lo era anche lui... ed io non posso accettare di vederti così.>> dice, abbassando il capo.
<< Kenma... che sta succedendo?>> chiama Kuroo, dopo averci raggiunto con due sole falcate.
<< Stai indietro, per favore...>> gemo, sentendo un dolore che si espande nel petto, che mi porta a piegarmi sulle mie stesse ginocchia.
Che sto facendo?
Che sto facendo a me stesso?
Che cosa sto facendo a Kuroo?
Con la coda dell'occhio vedo come Akaashi osserva il volto allarmato di Kuroo.
Il suo viso sta per scoppiare a piangere, tutto di lui trema per le sensazioni che non riesce ad ignorare.
È sopraffatto, completamente atterrito nel vederlo.
Proprio come lo ero io la prima volta.
<< Kenma...>> sussurra Akaashi, lasciando la sua frase sospesa in mezzo al fragore della pioggia.
Ma è tutto okay, perché so che cosa vuole dirmi, non ha bisogno di parlare oltre.
<< È sorprendente, non è vero?>> ghigno a bassa voce, costringendomi ad un sorriso così forzato che mi fa dolere gli angoli della bocca.
È un sorriso amaro, faticoso da mantenere su un viso devastato come il mio.
<< Lascialo andare, Kenma... se davvero lo ami... non fargli questo.>> dice, posando una mano sulla mia spalla ed aiutandomi a rialzarmi.
Kuroo resta in disparte, con la bocca aperta ed il fiato corto, osservando la scena che scorre davanti ai suoi occhi.
Akaashi mi stringe in un abbraccio, così serrato che mi fa mancare il respiro.
Non rispondo alla sua stretta, mi lascio semplicemente schiacciare da lui come se stesse assorbendo parte della mia tristezza, attraverso quel gesto.
Probabilmente è vero, probabilmente mi ha liberato in qualche modo dal peso che portavo sul cuore, poiché adesso riesco a vedere chiaramente quel che devo fare.
<< Sii forte...>> sussurra Akaashi, prima di allontanarsi da noi.
Il mio sguardo cade su Kuroo, ancora in piedi e con un'espressione disturbata in viso.
Gli allungo una mano, che prende senza esitare.
<< Andiamo a casa, ora.>>
*
La luce soffusa del mio studio, nell'ammasso di cavi e schermi che producono un ronzio di ventole in funzione, ci accoglie.
I miei occhi non riescono a smettere di piangere, così come il mio cuore non riesce a smettere di sanguinare.
Fa male.
Fa male di tutto quel dolore che avevo cercato di mettere sotto al tappeto, di tutte quelle volte che ho cercato di convincermi che tutto stesse andando per il meglio.
Che io stessi facendo il meglio, che io per quanto ne fossi rimasto ferito, ero riuscito a rialzarmi e trovare un nuovo scopo.
Ce l'avevo uno scopo.
Ce l'avevo davvero, e credevo fosse la mia unica salvezza, arrivare a quei dieci quadrilioni.
M'ero convinto, così tanto da non vedere quanto grave fosse lo squarcio che si stava allargando dentro di me.
Brandelli d'anima volteggiano nello studio, pezzi di me stesso che mi sono lasciato indietro, in questa folle corsa alla felicità.
Mi sono smontato con le mie mani, solo perché credevo che questo fosse il modo migliore per restare integri.
Ma mi sbagliavo.
Ho sempre avuto torto e non ho mai voluto ammetterlo fino ad oggi.
<< Cos'è successo là fuori?>> chiede Kuroo, dopo aver preso posto su una sedia dentro allo studio.
Alzo le spalle per tutta risposta, mordendo il mio labbro inferiore ed abbassando il capo.
<< Ti ha ferito?>> incalza nuovamente.
Sollevo ancora una volta le spalle.
<< Non più di quanto io abbia fatto a me stesso, tutto da solo.>> rispondo, in un sussurro appena udibile.
Kuroo sospira e poggia una mano sulla mia coscia.
<< Sei triste?>>
Annuisco, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano.
Kuroo mi costringe a guardarlo quando mi porta due dita delicatamente sotto al mento, per sollevarmi il capo.
I nostri occhi sono incatenati gli uni agli altri.
Anche se le labbra tremano e la voce fatica ad uscire, entrambi sappiamo che questo è un addio.
Gli accarezzo il volto, con esitazione.
Lui mi lascia fare, socchiude gli occhi appena sotto al mio tocco, ma continua a guardarmi con estremo amore.
Amore.
È proprio a causa sua se ho fatto quel che ho fatto.
Se ho peccato, se ho errato, se ho perseverato, è stato tutto per amore.
Per amore tuo, Kuroo.
Per te e per nessun altro.
Non so se questo mi rende meno mostro di quel che io sia in realtà, non so se vale appigliarsi ad una scusa come questa, ma è comunque la verità.
<< Sei così uguale a lui...>> sussurro, in un singhiozzo disperato.
Kuroo trattiene la mia mano sul suo viso.
<< A chi?>>
Ci guardiamo, in silenzio, prima che la mia schiena sussulti di una nuova crisi di pianto.
Sei così bello Kuroo, così bello da risultare un falso pressoché perfetto.
<< Kuroo... perché nessuno mi capisce? Perché dovrei lasciarti andare?>> gli chiedo, anche se la vera domanda è rivolta a me stesso.
Ma io non ho la risposta.
Spero che, ancora una volta, sia qualcun altro a sputarla fuori al posto mio.
<< Non farlo se non vuoi. Io sono qui per restare con te, per sempre. Lo sai...>>
Annuisco, abbassando il capo.
<< Lo so... cazzo, io lo so. L'hai sempre fatto ed io... io ero così convinto che saremmo rimasti insieme per sempre che non ho pensato all'eventualità di... di perderti.>>
È la delusione che parla al posto mio, lo sento.
Il mio essere geniale dentro la mia follia, il mio essere arrivato a quei dieci quadrilioni per puro capriccio personale.
Per peccare, a questo mondo crudele, un po' più di tutti gli altri.
<<Da quando lo sai?>> gli chiedo infine.
Anche gli occhi di Kuroo sembrano velarsi di un principio di lacrime.
S'inumidiscono, come se volesse piangere, anche se so che difficilmente lo farà.
<< Che-che cosa?>>
Ed anche in questo momento riesce a strapparmi un mezzo sorriso.
<< Avanti, sei troppo intelligente e somigliante a lui per non averlo realizzato, non è vero?>>
Kuroo abbassa lo sguardo, stringe il tessuto dei suoi jeans tra le mani ed annuisce.
<< Lo so da quando mi hai corretto quel giorno in cucina...>> confessa infine.
Sgrano gli occhi, per un attimo, sorprendendomi anch'io per la sua dichiarazione.
<< Dio... è davvero tanto tempo... Mi... mi hai odiato?>>
Kuroo alza di nuovo gli occhi, incollandoli nei miei ancora una volta.
<< Odiarti per avermi dato la vita? Odiarti per avermi amato? Odiarti per essermi innamorato di te? Mai.>>
Le sue parole sono ricolme di gratitudine, di un amore che solo io che gliel'ho impiantato in testa riesco a comprendere.
È sincero, Kuroo.
È sincero dentro le sue dieci quadrilioni di connessioni, che in questo momento soffrono tutte assieme alle mie.
E la sua sofferenza non è tanto diversa dalla mia, forse perché gliel'ho codificata dentro per assomigliare a quella che Kuroo m'aveva lasciato nell'animo.
E così, gli si spezza il cuore, quello fatto di processori, cavi ed interconnessioni quantistiche.
Gli si spezza il cuore, perché così sta facendo anche il mio.
S'inumidisce le labbra, prima di continuare a parlare.
<< Mi sono innamorato di te perché l'ho scelto io, nel momento in cui ti ho visto... non perché dovevo farlo.>>
Gli afferro le mani, portandomele prima alla bocca e poi sulla fronte.
<< Anche io.. anche io mi sono innamorato di te, di nuovo. Ti ho amato davvero, anche se lo sapevo fin dall'inizio.>> confesso anch'io, tra le lacrime che si mescolano alla pioggia che batte sui vetri delle finestre di tutta la casa.
<< Cos'ho sbagliato allora?>> mi chiede.
<< Oh... niente. Tu non hai sbagliato niente. Sono io che non avrei dovuto... non avrei dovuto costringerti a prendere il posto di qualcuno che non c'è più... non avrei dovuto costringerti a colmare un vuoto che non si sarebbe mai colmato per davvero... era solo questione di tempo prima che me ne rendessi conto... prima che tu stesso te ne rendessi conto.>> rispondo, avvicinandomi al suo viso.
Kuroo mi avvolge in un abbraccio che non ha più lo stesso calore di tutte le altre volte.
È un abbraccio freddo, distante, rassegnato.
<< Sei pentito di avermi creato?>> dice.
Prendo il suo viso tra le mani e provo a sorridergli al meglio che posso.
<< Certo che no.>>
<< E allora perché non sono riuscito a curare il tuo cuore?>>
Oh Kuroo, lo sai meglio di me ch'è più complicato di così.
Lo sai eppure me lo chiedi ugualmente, perché alla fine nonostante tu sia stato generato dopo cento gestazioni abortite, sulla rete neurale di Kuroo Tetsurō, sei un'inguaribile romantico, proprio com'era lui.
E ci provi, anche tu, a mettere l'amore davanti al dolore.
Ci provi a proteggermi, a stringermi e dirmi che ci avresti pensato tu, ci provi a viziarmi ancora ed ancora.
Ci provi perché sei fatto così.
Ci provi perché sei esattamente com'era lui.
<< Ci sei riuscito, in parte. In parte hai sostituito quel che mi mancava... ma la verità è che Kuroo è morto un anno e mezzo fa. È scomparso nel nulla, in seguito all'incidente nella centrale nucleare dove si trovava quel giorno. Lui è rimasto in America, vanificato ed annullato completamente, da quella fuga di radiazioni che ha fermato pagando con la sua vita.>> sussurro, continuando a guardare quel clone negli occhi.
<< Non mi è tornato indietro neanche un corpo su cui piangere... non ho avuto niente se non parole di cordoglio, di lodi tessute per un eroe che si mosse nell'ombra, quel giorno. Mi dissero "il suo gesto nobile verrà premiato con una medaglia al valore..." capisci? Il mio Kuroo era scomparso e tutto quello che mi promisero, era una fottuta medaglia...>> continuo, appoggiando la fronte contro il suo mento e piangendo finalmente, la scomparsa di qualcuno che non riuscivo ad accettare.
Kuroo non c'è più.
Kuroo non è tornato dall'America.
Kuroo mi ha lasciato.
Kuroo è morto.
<< Avrei voluto vederti felice, ma non perché ho i suoi ricordi in testa...>> sussurra Kuroo, avvicinandosi al mio orecchio.
<< L'avrei voluto perché standoti vicino ho pensato che lo meritassi...>>
<< Io non potrò mai esserlo, non così...>> rispondo.
<< Lo capisco.>>
Quello che ci scambiamo è un bacio d'addio.
Non so dire se è come un bacio tra due amanti, se come un bacio tra un padre che lascia andare il figlio, o semplicemente come tra un folle che molla la presa sulla sua illusione.
<< Ti amo Kuro.>> gli sussurro, stringendo la sua mano, prima di avvicinarmi alla tastiera principale e digitare qualcosa.
Process_system_shut_down_
Start_countdown_: 00:10
00:09
I nostri sguardi restano incatenati per quei secondi interminabili.
Non c'è odio negli occhi dell'androide.
Non c'è risentimento dentro le mie lacrime.
C'è solo un profondo amore, che continua a legarci, mentre ci teniamo per mano e ci godiamo gli ultimi istanti insieme.
00:07
Io e Kuroo.
Kuroo ed io.
00:05
Una lacrima, probabilmente prodotta dal suo sistema di raffreddamento interno, fatta dello stesso liquido in cui s'è svegliato la prima volta, gli riga la guancia.
Solitaria scende fino alle sue labbra carnose, che piano si dischiudono un'ultima volta.
00:01
<< Ti amo anch'io, micetto.>>
00:00
System_offline_
Simulation_ completed_
Starting_ new_ Simulation?
Press Y/N_
Lo schermo continua a lampeggiare, mentre mi piego sulle ginocchia immobili di Kuroo, per piangere sul suo grembo.
Mi è concesso di piangere su un fantoccio, per lo meno?
Mi arrogo il diritto di poterlo fare, senza fermami a chiederlo a nessuna forza al di sopra di me.
Del resto sono solo un uomo e, adesso ho capito che, tale devo restare.
Tale sono destinato a restare.
E va bene così, non è vero?
Kuroo, dovunque tu sia, va bene così non è vero?
Le ore successive le impiego a trascinare l'androide in soffitta, metterlo in una posizione seduta e coprirlo con un telo bianco.
Non riesco a voltarmi per osservarlo, illuminato dall'unica feritoia in quell'ambiente polveroso e buio della soffitta.
Ho salito anche tutte le foto di me e Kuroo, tutti i suoi vestiti e tutto quello ch'era rimasto di lui in casa.
Non è come un non volerlo ricordare, è un monito per me stesso.
È per ricordarmi che non c'è più e che io devo imparare a convivere con quest'assenza.
Nonostante nessuno mi dica mai come fare.
Nonostante io ora sia definitivamente da solo, devo imparare a farlo.
Immagino che dovrò trovare la strada da solo.
E allora sarà meglio incamminarsi, prima che torni a piovere.
Mentre mi chiudo la porta della soffitta alle spalle, stringendo saldamente la chiave tra le mani, mi sembra che, finalmente, il cielo si sia rasserenato.
*
*
*
BONUS
*SKIPTIME*
Un anno dopo.
La voce squillante, esageratamente rumorosa e fuori controllo di Bokuto riempie il soggiorno.
Per qualche motivo è in piedi su una sedia, mentre continua ad urlare di voler sparare dei coriandoli per aria.
Akaashi cerca ragionevolmente di farlo scendere, provando a spiegargli che è pericoloso stare in piedi su una sedia, oltre che rischia di rompere tutto e di cascare sul tavolo ancora apparecchiato.
Hinata non riesce a contenere le risate, nel vedere come siano infuocate le guance di Bokuto per via dell'alcool che ha in circolo in corpo.
Kageyama, dal canto suo, ubriaco quasi quanto Bokuto, continua a spiegare ad un super eccitato Lev, la differenza tra i vini giapponesi e quelli tedeschi.
Dubito che quella testa calda di Lev riesca a capire una singola parola, di quelle che il corvino gli stia sbiascicando addosso.
Dall'altro lato del tavolo c'è un'inaspettata coppia di amici, sulla quale nessuno avrebbe mai scommesso un singolo ¥: Tsukishima Kei e Yaku Morisuke.
Se la ridono, mentre entrambi osservano qualcosa sullo schermo dello smartphone del ragazzo più alto.
Il suo ragazzo, Yamaguchi Tadashi ha il volto talmente rosso, mentre prova a dare una mano ad Akaashi, che quelle sue lentiggini sembrano un ricordo ormai lontano.
Sono palesemente tutti ubriachi, tutti quanti.
Si stanno divertendo tutti un mondo.
Io li osservo, dal mio posto alla tavola, sorridendo come non facevo da un po' di tempo.
Le luci dell'albero di Natale rendono l'ambiente più accogliente di quello ch'è in realtà: era da tempo che non ci riunivamo tutti, o quasi tutti, per festeggiare qualcosa insieme.
Il tempo tra di noi non sembra essere per nulla passato, e questo, mentre il vino inizia ad inebriare anche i miei sensi, non può che farmi sorridere.
Casa mia non è mai stata così piena.
Lo penso sul serio, mentre mi rigiro tra le mani una piccola chiave, annodata ad una catenella.
<< CI SONO! RACCONTIAMOCI STORIE DELL'ORRORE.>> urla all'improvviso Bokuto, cercando appoggio negli sguardi di tutti i presenti a tavola.
<< Bokuto-San ti prego... è Natale non Halloween...>> lo rimprovera Akaashi, mettendosi una mano sulla faccia.
Io osservo in silenzio, limitandomi a battere le mani sul tavolo quando Lev e Kageyama scattano in piedi, urlando a loro volta ch'era un ottima idea.
Nell'agitazione generale, si sente un tonfo, sommesso ed ovattato provenire dal piano di sopra.
O forse, da qualcosa più in alto.
Qualcosa come dei passi, infilati di fretta l'uno dietro l'altro.
Tutti piombano nel silenzio più totale e i loro occhi si fissano su di me.
<< A-Avete sentito?>> balbetta Bokuto, stringendosi improvvisamente a suo marito.
<< Cos'è stato?>> chiede Yamaguchi, con un'espressione sbigottita in volto.
<< Sarà stato qualcosa in soffitta...>> conclude Tsukishima, guardando tutti i presenti con sufficienza.
Sono uomini adulti; eppure, ancora si spaventano per qualche rumore inaspettato?
<< Yaku... ho paura...>> piagnucola Lev, provando a farsi abbracciare dal suo ragazzo, proprio come Akaashi e Bokuto in quel preciso istante.
Ma tutto quello che riceve, con suo profondo rammarico, è una botta ben assestata sulla testa.
<< Ma quanto puoi essere scemo? Sarà un topo... vero Kenma?>> dice Yaku, sollevando un sopracciglio e cercando approvazione nel mio sguardo.
Mi porto un nuovo sorso di vino alle labbra, per poi guardare da sopra l'orlo del bicchiere le facce di Lev e tutti gli altri presenti.
<< Si... un topo. O uno spettro...>> aggiungo, sorridendo appena.
<< OH KENMA AVANTI!>> un coro di voci deluse e spaventate, si leva contro di me.
Io scuoto la testa, sollevando le braccia in segno di resa.
Lascio uno sguardo al soffitto, prima di seguire gli altri che hanno proposto di spostarci sul divano e lasciare ad Hinata e Akaashi, il compito di sparecchiare.
Già, alla fine quel che ha fatto rumore in soffitta potrebbe essere un topo.
Potrebbe proprio essere un topo.
Sorrido, accendendo la Nintendo Switch ed infilandomi, con un rapido movimento della mano, la chiave dentro le tasche dei pantaloni.
Del resto, è Natale anche per i topi in soffitta.
Vero?
E così, mentre ci perdiamo in una spirale di competizione su Mario Kart, noto come fuori dalla finestra, sia iniziato nuovamente a piovere.
Ed alla fine, preferisco così.
Angolo Autore:
Stelline salve✨
Purtroppo ho pubblicato questa lunghissima Os in super ritardo, quasi allo scadere del tempo... ma ehi! Nessuno aveva dubbi vero?
Purtroppo sono MOLTO impegnata ultimamente, tra esami e casa e quant'altro quindi vi chiedo scusa se le pubblicazioni sono così altalenanti!
😭
Comunque cosa ne pensate?
È una storia che si svolge in dei giorni di pioggia, scuri come il peso sul cuore di Kenma.
Alla fine era giusto o sbagliato, che avesse cercato da solo la sua felicità?
Kuroo l'androide era stato costruito, nella parte fisica, in America, tramite un progetto al quale Matheus stesso aveva lavorato.
Kenma ha reso il guscio vuoto proprio Kuroo, tramite il resto della sua attività sul cloud del cellulare: messaggi vocali, localizzazioni, frasi, immagini e quant'altro.
È uno scenario futuristico, ma la scienza sta lavorando sul serio verso questa direzione!
Cosa ne pensate?
Alla fine non era propriamente Angst... vero?
* Vi lascio di seguito il link della canzone che canticchiava Kuroo in cucina!
https://youtu.be/xf1c1r9Tt2U
Spero vi sia piaciuta!
Vi lascio un bacino e alla prossima One Shot!
P.S vi ricordo ancora che questa storia partecipa al concorso di _melilissa_ e esserechemangia
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