神経症性 ~ Neurotic
⚠️Disclaimer⚠️
Questa storia è stata scritta per un contest di coppia assieme a _melilissa_ , infatti quanto segue è la SECONDA PARTE della storia.
È una storia autonclusiva che può anche essere letta da sola, MA ovviamente si apprezza MOLTO DI PIÙ una volta letta la prima parte!
• Dove trovo la prima parte?
Naturalmente sul profilo di _melilissa_ quindi vi consiglio di leggere prima da lei (e di commentarle con un cuore perché si.) e poi tornare qui per il continuo!
• Storia inspirata alla canzone dei Three Days Of Grace, Neurotic.
Vi lascio il link di seguito qualora vogliate ascoltarla!
https://youtu.be/7e-k9oJn-kI
Questa storia ha vinto anche due premi, uno per la grammatica (non ci credevo neanche io) ed uno per l'idea OUT OF MIND che sta di base alla realizzazione della storia stessa.
Ed a proposito di ciò, vi lascio l'incipit del concorso e subito dopo ai soliti disclaimer!
Scaglie di Ghiaccio.
Una giovane ricercatrice ed il suo migliore amico viaggiano viaggiano per lavorare su un caso importante. Arrivano sul punto di lavoro e trovano ogni cosa coperta da ghiaccio. E sarà studiandolo che scopriranno l'origine.
L'origine di qualcosa...
⚠️
• Questa storia contiene un linguaggio volgare, con la presenza di scene poco adatte ai minori.
NE SCONSIGLIO FORTEMENTE LA LETTURA AI MINORI O AI FACILMENTE IMPRESSIONABILI.
•Gore: questa storia è molto cruda, grafica, forte. Se sensibili ne sconsiglio la lettura.
•TW: tematiche per adulti, abuso psicologico, morte, violenza, omicidio, cannibalismo.
•Questa storia non scherza, non ha l'intendo di romanticizzare/giustificare le azioni descritte, in quanto semplice frutto di fantasia.
•Questa storia NON ha intento educativo.
•Questa storia è disturbante, pesante e piena di ingiustizie velate ed esplicite.
Bene, se non vi siete spaventat* fino a qui, e se vi ha incuriosito un po', quel che la mia testolina è quella di _melilissa_ hanno creato, vi aspetto alla fine nei commenti!
Buona lettura.
*
神経症性
Neurotic
Parole: 7984.
*
Dott.ssa. Shizuka
Il mio nome, scritto con una calligrafia minuziosamente lavorata, risplende sulla targhetta dorata applicata alla porta del mio ufficio.
Non mi abituerò mai nel vederlo per intero, nonostante io lavori qui da mesi ormai.
Dei giorni ci faccio più caso di altri.
Alcune volte mi soffermo a guardare lo smalto scuro delle lettere, che risplende sulle incisioni, altre volte apro e mi butto sulla poltrona al di là della scrivania senza neanche badare se sia o meno la mia stanza.
La prima volta che ho messo piede alla Tachikawa Detention House ricordo di esser rimasta sbalordita dalla grandezza dell'edificio.
Non è un carcere, non sui documenti per lo meno.
Loro preferiscono definirlo centro detentivo di medio-alta sicurezza.
Preferiscono non mostrare il filo spinato sul perimetro del cortile esterno, ma se si fa abbastanza attenzione quando ci si passeggia vicino, riesce a sentirsi un ronzio di decine di migliaia di Volt.
Come tante cose in Giappone, in particolar modo a Tokyo, l'apparenza deve essere sempre la più appetibile possibile.
Anche se si tratta di un carcere, ed anche se con molta probabilità ci morirai, tra queste mura.
Non c'è troppo malcontento tra i detenuti, non di più quel che m'aspettassi di trovare.
Il mio compito è quello di fornirgli supporto psicologico, emotivo ed anche quello di fornirgli un'occasione.
Non credo nell'inaffidabilità della legge così come non credo nelle seconde occasioni, però credo che gli esseri umani commettano errori e che tante volte, se solo ci fosse stato qualcuno ad ascoltarli, probabilmente non li avrebbero compiuti.
Una voce, un sussurro che si leva sopra le urla di chi li tratta come bestiame e che, tante volte, riesce a zittire tutto il tormento che hanno intorno.
Quella voce è la mia voce.
Credo che la terapia anche per chi ha una pena di appena pochi mesi sia importante.
Credo che faccia parte del processo stesso di riabilitazione per rientrare in società.
Ciò che non credo è che basti la mia voce, dal tono languido e mai accusatorio, per rendere questi uomini degli uomini migliori.
Per chi invece sta scontando una pena lunga, una pena che non è stata quella capitale per un soffio, allora credo che la terapia sia quella finestra che si apre per lasciar entrare un po' d'aria fresca.
Quel barlume di speranza che non spetta a me spegnere, negli occhi dei condannati.
E così oggi, mentre organizzo la pila di fogli e scartoffie varie, mentre ricontrollo maniacalmente la lista di chi verrà a farmi visita, penso che non ci sia niente di più pericoloso di qualcuno che ha perso tutto a cui io offro uno spiraglio.
La targhetta lucida con il mio nome impresso sopra risplende, quando un raggio di sole la colpisce attraverso le sbarre alla finestra.
Manca poco alle 9:00 del mattino, una manciata di minuti.
Questi sono i miei preferiti.
Posso sentire l'aria quieta, il corridoio oltre la mia porta vuoto che produce un'eco di solitudine quasi malinconico.
Le voci delle guardie sono lontane, così tanto che fatico a sentirle.
Non ci sono passi che risuonano al di fuori dei miei, che impazienti iniziano a settare tutto il necessario per iniziare il mio lavoro.
Infilo la camicetta bianca più adeguatamente nei pantaloni, inforco gli occhiali da vista dopo essermi ricacciata alcuni ciuffi di capelli dietro l'orecchio.
Mi specchio nel vetro opaco della mia porta e l'immagine distorta del mio viso mi lascia leggermente trasalire.
Non dormo benissimo nell'ultimo periodo, che anche se possiamo riassumere negli ultimi tre anni, inizia a farne risentire l'espressione sulla mia faccia.
Le folte sopracciglia scure sono quasi sempre corrugate, gli occhi verdi oliva, nascosti dietro delle lenti da vista, si tuffano nelle borse sotto agli occhi mal coperte da un fondotinta di marca scadente.
Sospiro, deglutendo e massaggiando un burro cacao alla ciliegia sulle labbra in modo da dargli un leggero colorito rosaceo.
Non ho il cellulare con me e non posso neanche indossare orologi mentre sono a lavoro.
Tutto quel che posso fare è imparare gli orari a memoria, lasciare che lo scandire del tempo diventi qualcosa di metodico ed automatico in me.
Così riesco a regolarmi solo con il rumore dei passi che ascolto, su che ore siano.
La telecamera fissata sopra la porta, che riprende tutta la stanza si accende, subito dopo averne schiacciato il pulsante d'avvio alla registrazione.
Certo, le sedute di terapia sono gratuite, se ti viene riconosciuto il diritto di poterne usufruire per quei cinquanta minuti alla settimana, ma non esiste privacy in quel che faccio.
Non esiste un sussurro che non venga catturato dagli occhi vitrei della telecamera a circuito chiuso.
Quella spia rossa ad intermittenza è la mia assicurazione sulla vita più di quanto non lo siano le guardie al di fuori della porta.
Lavorare in un carcere è così, che mi piaccia o meno.
E gli anni in cui sognavo di fare la ricercatrice, in cui sognavo che il mio nome venisse ricordato al pari di quello di Gustav Jung o Sigmund Freud, sono finiti.
C'era una persona, un bambino a dire il vero, che mi diceva spesso che credere nei sogni ci faceva bene al cuore.
A quei tempi, per quanto bui e dolorosi alle mie spalle, ci credevo sul serio.
Credevo a quel bambino con il viso puntellato di lentiggini esattamente come il mio.
Credevo alla sua vocina speranzosa, quando sotto un fortino fatto di lenzuola mi diceva che tutto sarebbe andato per il meglio.
Bussano alla porta, rozzamente.
Ero così immersa nei miei pensieri che all'effettivo non mi ero accorta dei passi lungo il corridoio e che fosse ora di iniziare le sedute.
Trasalisco e trattengo il fiato, nel mentre stiro le pieghe del pantalone con le mani.
Resto appoggiata alla pesante scrivania di legno laccato scuro, mentre azzardo un tremolante avanti.
Mostrarsi deboli in carcere è il modo più efficace per impazzire e finir divorati, ed io lo so bene.
Di solito non mi lascio andare ad alcun tipo di sentimentalismo, ma oggi non avevo preventivato di tornare con la mente ai miei ricordi con Tadashi.
Il primo detenuto, il numero 7934, un certo Akaashi Keiji, si fa avanti.
La sua scheda non rispecchia per nulla il suo aspetto.
È un uomo esile, sebbene alto e dalle spalle larghe, ma c'è qualcosa di molto fragile in lui.
Qualcosa di molto distante che sta andando in frantumi dietro quei suoi occhi languidi dal colore del cielo.
Akaashi è un uomo di cui in molte fuori di qui avrebbero potuto innamorarsene, proprio per l'aura indifesa che emana.
Eppure è stato condannato a nove anni per violenze aggravate e sequestro di persona.
Si accomoda accavallando le gambe e con gli occhi bassi, come se volesse scoppiare a piangere.
Se non fossi stata forgiata con il fuoco di un passato turbolento e traumatico, avrei potuto perfino provare pietà per uomini come Akaashi Keiji.
Se fossi stata più debole e più empatica, avrei anche potuto sentirmi turbata nel restare nella stessa stanza con qualcuno del genere.
<< Mi fa piacere rivederti Keiji, ti trovo bene.>> sorrido nella sua direzione, socchiudendo appena gli occhi dietro gli occhiali.
Lui solleva il capo ed annuisce, timidamente, prima che la nostra seduta vera e propria inizi.
*
La pausa pranzo arriva poiché l'ultimo detenuto della mattinata viene portato via mentre ancora in lacrime, sul divanetto del mio ufficio.
Gli sarebbe bastato qualche minuto in più per ricomporsi, giusto una manciata di secondi che però, nessuno ha la grazia di concedergli.
Il tempo è tiranno, soprattutto quando ne perdi la cognizione dietro a delle sbarre.
Un tiranno benevolo a giudicare dai gorgoglii affamati che il mio stomaco produce.
Kuroo Tetsurō, la guardia che fa il turno di mattina, lascia entrare un carrello con il pranzo.
Il perché non mi sia concesso di pranzare nella stanza delle guardie è ben chiaro: io sono l'unica donna qui dentro, ed in una prigione prettamente maschile è un po' come essere quell'unico ago in un pagliaio.
Non è solo tremendamente mortificante per me, essere trattata come un pezzo di carne con qualche buco in più, quanto anche veramente miserabile.
A quanto pare avere una laurea in psicologia comportamentale e cognitiva, con un master in criminologia e diversi PhD di ricerca nelle neuroscienze applicate e adattive, non serve proprio a niente se tra le gambe hai una vagina.
<< Cos'è tutto questo trambusto, oggi?>> chiedo, mentre mi avvicino al mio pranzo, che a giudicare dall'odore sarà qualche tipo di stufato base di carne di maiale.
<< C'è un tipo nuovo, ch'è stato appena trasferito da Kōchisho.>> risponde lui, con fare scialbo.
Kōchisho?
Dev'esserci un errore, nessuno viene mai trasferito da Kōchisho.
Oltre che da Kōchisho a Tachikawa è come passare da Alcatraz a Disneyland, ma non è mai successo finora qualcosa del genere.
Nessun condannato a Kōchisho viene mai trasferito altrove, proprio per la massima sicurezza del penitenziario.
Una volta dentro se ne esce solo se freddi, da quel luogo.
Kōchisho è per crimini efferati, violenti, disumani.
Tachikawa è un soggiorno in un resort se paragonato a Kōchisho, nonostante sia abbastanza severo anche qui.
Sgrano gli occhi e la guardia se ne rende conto.
Non ho bisogno di esprimere i miei dubbi a voce alta, non ho bisogno di produrre un solo sibilo, che mi viene fornita la risposta a tutte le mie domande:
<< Viene da una famiglia potente, ma vedrai tu stessa, bellezza.>> ghigna, strizzandomi un occhiolino che fingo di accettare.
Sorrido, come se fossi una ragazzina e lui un uomo con una reale chance con me, nel mentre che si richiude la porta alle spalle.
Non appena la serratura scatta, il mio sorriso si tramuta in una smorfia di disgusto e gli occhi roteano al cielo da soli, senza ch'io faccia troppi sforzi.
Per quanto sia estremamente sbagliato, la vita nel carcere funziona così e tanto spesso, mi sento anch'io come se avessi una condanna da scontare qui dentro.
Non so cosa faccia di me meno prigioniera sotto gli sguardi che ogni giorno mi vengono rivolti quando mi reco a lavoro, rispetto a chi veste un'uniforme monocolore.
Ma è il mio lavoro, mi ripeto mentalmente, mentre prendo una prima cucchiaiata dello stufato misto a del riso.
Lo faccio perché credo nel bene.
Lo faccio perché mi è stato insegnato ad andare oltre le apparenze e a scavare nella psiche degli uomini.
Lo faccio perché ho bisogno di questo lavoro e perché, in qualche modo contorto a cui neanche la psicoanalisi è ancora riuscita a trovare una risposta, io amo quel che faccio.
Forse ascoltare i problemi altrui, l'insinuarsi tra le pieghe della mente piuttosto che tra le cosce di un uomo mi dà più soddisfazione e riesce realmente ad appagarmi, più di qualsiasi altra cosa.
Forse perché, da quando Tadashi se n'è andato, ho smesso di credere all'amore ed ho deciso di buttarmi a capofitto nel mio lavoro.
Lascio andare la testa indietro contro lo schienale della poltrona.
Sbottono appena il primo bottone della camicia e mi perdo ad osservare il divano vuoto di fronte a me.
Ci vedo Tadashi seduto sopra.
Quand'era ancora un bambino e si vedeva lo spazio tra i suoi denti davanti.
Ci vedo quello ch'era il mio migliore amico, mio fratello, il mio amante e qualsiasi altra cosa avrebbe potuto essere ma che non è stata.
Tadashi è scomparso nel nulla, inghiottito da un mondo crudele che non ha risputato neanche il suo cadavere.
Un nodo mi si aggrappa alla gola.
Non piango più per la sua scomparsa.
Non cerco più di rimettermi in contatto con lui, nonostante siano passati tre anni da quell'ultimo messaggio nella nostra chat di Facebook.
"Scusa, è appena tornato :P... ci sentiamo presto. Andrà tutto bene."
È davvero andato tutto bene, Tadashi?
Me lo sono chiesta spesso durante il tuo silenzio, iniziato quel venerdì di tre anni fa e che ancora mi pesa sul cuore.
Andrà tutto bene, dicevi.
Lo dicevi spesso.
Lo dicevi perché ci credevi davvero, probabilmente.
O forse perché non c'era altro che potessimo dire quand'eravamo solo due bambini, ed il tuo vizio d'essere un inguaribile ottimista non è sbiadito neanche con il tempo ch'è passato.
Eravamo sempre sporchi di terra, durante gli anni in cui siamo rimasti insieme a Kagoshima, nel vecchio orfanotrofio di periferia.
Me lo ricordo ancora, nonostante io sia una donna adulta ora.
Ricordo i nostri giorni, i nostri sogni e le nostre speranze forse un po' troppo ingenue e lungimiranti.
Eri tutto ciò che avevo, Tadashi ed io ero tutto quel che ti rimanesse di una famiglia.
Ci bastavamo, noi facevamo in modo di bastarci.
Poi siamo cresciuti.
Poi ci siamo spellati i sogni da dosso come se fosse pelle morta, sotto all'abbronzatura di un sole che non profumava di salsedine a Kagoshima.
Credevo che una città come Tokyo ci avrebbe guariti, che ci avrebbe offerto mille nuove e scintillanti opportunità.
Credevo che ci avrebbe fatti ritrovare, dopo che ci separarono.
Che ci avrebbe accolto, insieme.
Ma niente è andato come avrei sperato.
Tu sei sparito, sei diventato un'ombra che mi sembrava di scorgere con la coda dell'occhio quando voltavo l'angolo.
Sei sparito e poi ci siamo trovati.
Sei sparito e non ho mai smesso di cercarti, fino a quando non ti sei dissolto nel nulla di nuovo.
Con chi eri quel giorno?
Chi stavi aspettando?
Il non conoscere la risposta mi tormenta ed è alla base della mia insonnia.
Vorrei davvero ritrovarti, sul serio questa volta.
Venire a prenderti e stringerti.
Vorrei essere io quella che ti dice che tutto andrà bene.
Ma non posso.
Mi ritrovo a stringere il cucchiaio di plastica tra le mani.
Andrà tutto bene, avevi detto, Tadashi.
Andrà tutto bene.
Chiudo gli occhi, massaggiandomi il ponte del naso, reggendo gli occhiali con l'altra mano.
Non è il momento di lasciarmi trasportare così.
Che cosa mi prende oggi?
Controllo la mia agenda, solo perché non posso controllare lo smartphone, il mio calendario d'ovulazione.
Forse oggi sono così sensibile e malinconica perché qualcosa dentro le mie ovaie si sta muovendo.
Rinforco gli occhiali e finisco il mio pranzo, lasciando che il pensiero ed il ricordo di Tadashi seduto sul divano, svaniscano da soli.
Quando la porta del mio studio si riapre, il viso affilato di Kuroo Tetsurō e quel suo solito ghigno perverso, non entrano nella stanza.
Piuttosto i passi pesanti del direttore del penitenziario, scortato da quattro guardie che non avevo mai visto, entrano nella stanza.
La sua aura di severa autorità satura il locale, così tanto che mi sembra difficile anche solo respirare.
Due lo scortano dentro, mentre altre due restano a tenere la porta del mio ufficio al sicuro.
Deglutisco e scatto in piedi, m'inchino in un saluto formale.
Il direttore non viene mai quaggiù.
Il direttore non è mai venuto di persona fin dentro la mia stanza, e questo non fa che farmi presagire qualcosa di poco piacevole all'orizzonte.
<< Signorina Shizuka.>> dice, con la voce che tradisce una certa fretta.
<< Direttore, a cosa devo l'onore della sua presenza?>> chiedo, facendo un gesto con la mano per invitarlo a sedersi alle poltrone davanti la scrivania.
Lui non accetta, ma lascia uno sguardo irrequieto alle due guardie che sono dentro con lui.
Il direttore non è mai stato una persona da lasciarsi andare ad inutili convenevoli, e mi rendo conto dal modo in cui stringe qualcosa sotto braccio, al di sotto della sua giacca gessata marrone, che non è qui per fare conversazione con me.
Non c'è bisogno di essere un'esperta di psicoanalisi per capire che tutto ciò ha che vedere con il nuovo arrivato.
Si sporge sulla scrivania e vi appoggia una cartelletta chiusa con una spilla rossa, io seguo il suo movimento con lo sguardo, già ben conscia di quel che questo gesto significhi: è un avvertimento bello e buono.
<< C'è un nuovo detenuto al quale è stato riconosciuto il diritto di assistenza psicoanalitica.>> inizia piano, tenendo ancora ferma la cartella con il palmo della mano.
<< Sarò ben lieta di fornire la mia più professionale assistenza.>> rispondo, sostenendo il suo sguardo e posando una mano, a mia volta, sulla cartelletta.
<<Quel che ti è concesso sapere è qui dentro, non fare domande inutili.>> continua il direttore.
Lascia la presa sulla cartella, senza staccare i suoi occhi da dentro i miei.
<< A nessuno.>> aggiunge.
Per essere una cartella che necessitasse di essermi portata dal direttore in persona è piuttosto leggera.
Aprendola ne esce un solo foglio, con una foto sbiadita di un giovane uomo dai capelli biondi, cortissimi come se stessero ricrescendo dopo una radicale rasatura.
I suoi occhi sono di un nocciola caldo, dalle sfumature di miele e cioccolato.
Accenna ad un sorriso, dietro a delle spesse lenti da vista scure.
Ha un viso quasi d'angelo, se non fosse per qualcosa di terrificante e diabolico dentro la luce dei suoi occhi.
Dentro di me, nel solo osservare il suo volto, scatta un campanello d'allarme; un istinto primordiale che mi fa mettere in guardia, che mi fa aumentare i battiti nel petto.
"Calmati."
Mi dico, prendendo un respiro.
"Andrà tutto bene."
I miei occhi vagano sulla cartella, nello scorrere le sue generalità e, benché la voce che m'interessi di più leggere sia solo una, un'espressione di stupore si dipinge sul mio viso.
Mi trovo a corrugare le sopracciglia, alzando lo sguardo sul viso grassoccio del direttore, prima di parlare.
<< Non c'è scritta la sua condanna...>> dico.
Lui accenna ad un sorriso, prima di fare un cenno alle guardie per farsi scortare fuori.
<< Direttore, con tutto il rispetto non posso lavorare con nessun detenuto se non conosco l'entità della pena e la...>>
<< Sbaglio o ti avevo detto di non fare domande inutili?>> sibila, voltandosi da sopra l'uscio della porta.
La voce mi muore in gola, istantaneamente, soprattutto quando i miei occhi scorgono il rapido movimento delle mani delle guardie che corrono alle fondine che hanno appese ai pantaloni.
<< Mi scusi.>> rispondo, abbassando il capo e mordendomi il labbro inferiore.
<< Ci siamo intesi, brava.>>
Cala il silenzio ed io sprofondo sulla sedia, con ancora il foglio del detenuto in mano.
Detenuto 11120 –
Tsukishima Kei –
Sesso: M –
Altezza: 191,3 cm –
Peso: 82 Kg –
Condanna: Secretato.
Andrà tutto bene, torno a ripetermi, mentre la mia ora di pausa volge tristemente al termine.
*
La primavera è arrivata all'improvviso, sebbene con qualche giorno di ritardo.
Ha smesso di piovere, il cielo s'è aperto e finalmente si respira un'aria meno tesa.
Anche a Tachikawa l'aria è piatta, calma, come se il tempo si fosse fermato.
Cammino svelta verso il mio ufficio, è tutto così stranamente silenzioso che non mi sembra neanche di essere un penitenziario.
La rugiada sull'erba m'inumidisce i bordi dei pantaloni, così come la condensa della foschia mattutina mi lascia appannare gli occhiali.
Non è inverno, ma non è neppure ancora pienamente primavera e, per quanto il cielo non sia carico di nuvole, mi sembra esserci aria di tempesta.
Arrivo al mio ufficio che guardo come sempre la targhetta sulla porta.
Sono passati tre mesi dalla visita del direttore ed ancora del detenuto 11120, non ho ricevuto ulteriori notizie.
Una parte di me era curiosa nel volerlo incontrare, l'altra, completamente terrorizzata.
Come sempre aspetto che sia la guardia dai capelli corvini, Kuroo, a scortare dentro il primo detenuto della giornata.
Da agenda anche oggi il primo dovrebbe essere Akaashi Keiji.
Mentre sistemo i miei fogli, accendo la telecamera a circuito chiuso, la porta si apre e qualcuno scivola dentro.
La voce squillante ed altisonante di Kuroo Tetsurō mi saluta con un commento di cui non sentivo il bisogno, come ogni mattina.
Sento il detenuto accomodarsi sul divano senza ch'io gli dica di farlo, ma alla fine preferisco siano loro a prendere l'iniziativa.
È come se inconsciamente si sentissero a loro agio e che comprendessero il loro ruolo.
Sono detenuti, ma in questa stanza sono anche pazienti.
Sono esseri umani, con qualche colpa in più sulla coscienza rispetto agli altri, ma pur sempre esseri umani.
Riemergo da sotto la scrivania con un sorriso sul viso che presto svanisce.
È seduto compostamente, con le gambe larghe e le braccia a penzoloni tra di esse, con ancora le manette allacciate ai polsi.
La divisa del penitenziario gli va decisamente più grande di qualche taglia: potrebbe essere che sia dimagrito rispetto alla foto sulla sua cartella.
Ha un viso stanco, scavato un po' dal tempo ch'è passato non proprio dolcemente.
I suoi occhi affilati e vitrei mi scrutano l'anima, spogliandomi di ogni velo di sicurezza.
Mi lasciano nuda ed inerme, quegli occhi nocciola trincerati dietro le lenti da vista, mi fanno sentire a disagio.
Deglutisco un groppo di saliva e cerco di mostrarmi professionale, ripetendomi mentalmente che sapevo questo giorno sarebbe arrivato.
Il suo viso è inespressivo, nonostante tenga gli occhi inchiodati nei miei.
Sembra avere della barba chiara, un manto di peluria che inizia a crescere e che gli definisce meglio gli spigoli del volto.
È distante, freddo, distaccato, impenetrabile.
Sembra fatto di ghiaccio.
<< Buongiorno, tu devi essere Tsukishima Kei, sono lieta di incontrarti.>> parlo piano, quasi con la speranza che non possa sentirmi.
Lui non si muove, non risponde e non accenna neanche ad un gesto con il capo.
È immobile, radicato sul divano mentre affonda sempre di più le unghie nei miei occhi.
Il suo sguardo taglia, ferisce, s'insinua e ti accartoccia, come se fossi fatta di carta.
Il suo sguardo è violento, nonostante i suoi occhi siano di un colore rassicurante e confortante.
Mi schiarisco la voce, prima di procedere a spiegare quello che andremo a fare, se collaborerà, insieme.
<< Kei, posso chiamarti così?>>
Nuovamente nessuna risposta.
<< Bene, non devi pensare alla terapia psichiatrica come un'ulteriore condanna. No, qui, in questa stanza tu devi sentirti libero. È un posto sicuro, dove possiamo sentirci protetti ed alleggerire il carico sulle nostre coscienze... è una valvola di sfogo di una caldaia, sulla quale noi abbiamo il controllo e->>
<< È per questo che c'è una telecamera sopra la porta?>> sussurra, parla piano, quasi come non volesse farsi notare ma ciò che dice è così dannatamente mirato che centra il bersaglio.
<< Questa è solo una misura cautelare del penitenziario...>>
<< Come fai a parlare di libertà con quella puntata sempre sopra la testa?>> i suoi occhi si assottigliano un po', mentre increspa leggermente gli angoli della bocca.
Deglutisco ancora, decisa a mostrargli che il comando in questa stanza ce l'ho io, né lui e né quella dannata telecamera, ma solo ed esclusivamente io.
<< Non è necessario che l'ambiente intorno a noi sia favorevole al tradizionale concetto di libertà. Ciò che ci rende liberi è dentro di noi, ed io ti aiuterò a trovarlo.>>
Lui sbuffa, rilassando la schiena contro il divano.
Annuisco, prima di procedere.
<< Questa mattina probabilmente ti avranno fatto firmare una liberatoria per venire qui... hai firmato per sottoporti al trattamento immersivo psico-cognitivo fornitoci da I.C.E>> spiego, indicando qualcosa alle sue spalle.
Lui si volta, quasi repentinamente nel seguire il movimento del mio indice.
I.C.E è il nome che io stessa ho dato alla macchina.
Ci ho lavorato per i miei anni di dottorato e ricerca all'università di Tokyo, e, quando il professore mi ha proposto di sottopormi ad una seduta d'ipnosi regressiva tramite il macchinario sul quale avevo svolto il mio lavoro di tesi, quasi mi venne un colpo.
I.C.E è qualcosa che l'umanità non ha mai visto.
È l'innovazione ed il progresso racchiusi insieme in un semplice hardrive collegato alla più sofisticata macchina diagnostica che sia mai stata creata.
È il futuro, il futuro delle neuroscienze e della psicoanalisi e si trova qui, a Tachikawa, in via del tutto sperimentale.
<< Che cos'è? Uno scherzo?>> sibila Kei.
Sorrido e scuoto la testa.
<< È un'interfaccia che si connette direttamente con la tua corteccia cerebrale tramite dei sensori che registrano le onde alpha e beta del tuo cervello.>> spiego.
Sconcertato, il detenuto si volta verso di me, sgranando gli occhi.
<< Per farla breve è come se fosse un casco, basta che lo indossi e ti permette di entrare in uno stato regressivo della tua coscienza. Ti guiderò io, m'immergerò con te e così riusciremo a costruire la tua libertà, Kei.>>
Le sue labbra si dischiudono ma dalla sua bocca non esce alcun tipo di suono.
La blasfema sensazione di aver appena trionfato sul male, mi fa gonfiare il petto d'orgoglio, oltre che fremere le punta della dita.
Cos'hai da nascondere, Kei Tsukishima, da non aver neanche potuto leggere la tua scheda per intero?
Che cosa hai fatto a questo mondo, per finire qui dentro?
<< I.C.E ovvero Immersive Cognitive Expierence, è il tuo biglietto per la libertà. Cosa ne dici, Kei? Proviamo?>>
Posizioniamo i due visori sulle nostre teste, lasciando che la rete di sensori aderisca perfettamente al nostro cranio.
Le ventose tirano un po' i capelli, ma non è niente che non si possa sopportare.
Le cuffie aderiscono ai nostri lobi perfettamente ed il macchinario si mette in funzione con un leggero ronzio, paragonabile a quello di una cicala che frinisce in una calda giornata estiva.
Kei è disteso sul divano, con ancora le manette alle mani, ed il petto che fa su e giù ritmicamente.
Io mi lascio andare sulla poltrona, scrocchiando il collo, prima di abbassare il mio visore.
<< Adesso sentirai alcuni suoni che ti permetteranno di rilassarti. Lentamente ti sentirai scivolare in un sonno profondo e solo quando chiamerò il tuo numero, 11120, ti risveglierai. Non c'è da avere paura, non ti succederà niente ed anche se non senti subito il contatto con la realtà, basterà contare fino a dieci per aprire nuovamente gli occhi nello studio.>> dico piano, scandendo le parole.
Kei annuisce.
Abbasso la visiera.
<< Lentamente Kei, ascoltiamo il rumore bianco, questo dolce sottofondo che l'universo ci sta inviando. Scendiamo una lunga gradinata ma non abbiamo fretta.>>
Gli impulsi acustici lasciano riversare dentro i nostri timpani una frequenza dolce, appena accennata.
Un rumore lieve, seguito dallo scandire ritmico di un orologio.
<< Scendiamo, insieme, non c'è da avere paura perché non è una scala buia. L'orologio scandisce i nostri passi.>>
Tic- tac
<< Un passo alla volta, un gradino alla volta e noi continuiamo a scendere sempre più in basso.>>
Il rumore di una biglia che cade, il rumore d'un passo dato in punta di piedi, lo schioccare delle dita.
<<Il nostro corpo si fa pesante, ma i nostri piedi continuano a muoversi verso il fondo della gradinata.>>
Ci siamo quasi, mi sento quasi abbandonare al vortice in cui il subconscio di Kei mi sta risucchiando.
Per quanto possano essere simili, i nostri caschi ed i suoni che sentiamo, sono letteralmente diversi.
Io continuo a mantenere il controllo, continuo a percepire due realtà intorno a me: quella della sua psiche, che la simulazione ricrea, e quella dove il mio corpo si trova realmente.
Può essere destabilizzante e dissociante, in un primo momento, ma lavoro con I.C.E da così tanto tempo da aver imparato ad apprezzare questa sensazione di scissione.
<< Stai andando benissimo Kei, ci siamo quasi... spingi la porta che visualizzi davanti a te... così riusciremo ad entrare, con calma al mio tre...>>
Uno...
Qualcosa nel mio campo visivo si muove, inizia a modellarsi dal nulla e prendere una forma tangibile.
Due...
Uno spiraglio di luce passa attraverso la serratura della porta che si è materializzata davanti a me.
Solo Kei può decidere se aprirla, e se lo farà, anche io entrerò nella stanza che rappresenta il suo strato più interno di coscienza.
Tre...
Silenzio.
Gelo.
Quando apro gli occhi nella realtà che la psiche di Kei ha creato, mi ritrovo davanti ad un luogo che non avevo mai visto prima.
Vedo il fiato uscire dalla mia bocca e condensarsi immediatamente nell'aria gelida attorno a noi.
Mi sarei aspettata una stanza dei giochi, tutti i traumi che spingono un individuo a commettere qualche crimine in futuro, si sviluppano nella prima fascia d'età.
L'abbandono di un genitore, una violenza domestica, un abuso... ma dentro Kei, dentro di lui non c'è niente di tutto ciò.
<< Dove siamo?!>> chiede la sua voce allarmata, dietro di me.
Mi volto per osservare il suo viso: è sorpreso, meravigliato, spaesato e forse anche leggermente impaurito.
Le sue gote sono rosse dal gelo, nonostante abbia indosso un cappotto.
Vorrei tranquillizzarlo subito, vorrei dirgli di non preoccuparsi perché è normale, tutti visualizzano questa stanza la prima volta, ma non è così.
In nessuna della mie sedute immersive mi sono mai ritrovata in una landa del genere.
Non c'è nulla attorno a noi.
Niente che l'occhio umano riesca a distinguere nitidamente.
Il cielo si confonde con la terra e viceversa, in un miscuglio di bianco e gelo.
C'è una distesa di ghiaccio, dove imperversa una tempesta di neve che non ci ferisce il volto ma che sembra opprimerci e volerci risucchiare.
Deglutisco, cercando le parole migliori per guidare Kei in questa sua prima esperienza con I.C.E.
<< Questa è la stanza della tua coscienza. Sta tranquillo, è normale che sia così. Tutti visualizzano qualcosa di diverso, sta a noi adesso indagare da dove nasce questa stanza e soprattutto cosa si nasconde sotto questo ghiaccio, Kei...>> mi ritrovo quasi ad urlare, per contrastare il vento che ulula tutt'intorno a noi.
<< Non ha senso... io... perché dovrebbe esserci del ghiaccio?>>
<< Ogni evento della tua vita, qualsiasi sia stato... qualsiasi motivo per il quale ti sei colpevolizzato fin troppo a lungo è cristallizzato qui. Sotto questo ghiaccio si trova la risposta... si trova la tua libertà Kei. Può sembrare freddo ed impenetrabile... ma non preoccuparti, noi riusciremo a scavarlo tutto. Io te lo prometto.>> gli rispondo, sorridendo della sua direzione.
Gli porgo una mano.
<< Non c'è fretta di scoprire cosa c'è al di sotto, quali paure hai deciso di congelare qui sotto. Per adesso, facciamo un giro e cerchiamo il punto dove il ghiaccio è più sottile, così da iniziare a picchiettare, sei d'accordo?>>
Kei non risponde, per lo meno non subito.
Si guarda intorno, lasciando che i riflessi del ghiaccio gli illuminino il viso.
La tempesta di neve si è già placata ed adesso intorno a noi vige un religioso silenzio.
Il silenzio di un luogo dimenticato da tutti, anche da Kei stesso.
Il silenzio di una mente che non riesce ad accettare qualcosa che gli è successa.
Il silenzio di chi soffre, il silenzio di chi commette un peccato troppo grande affinché gli possa venire perdonato.
Il silenzio di Kei.
Scoprire quello che si nasconde sotto al ghiaccio della sua mente è qualcosa che m'infuoca dentro.
"Andrà tutto bene"
Adesso sento la fiamma della speranza iniziare ad ardere dentro di me.
Esiste la redenzione, ne sono sicura, anche per qualcuno come Kei.
Nonostante il ghiaccio sotto ai nostri piedi sia spesso, così tanto da non riuscire a vedere quel che si nasconde al di sotto, sono sicura che il giorno in cui si sentirà libero dalle sue catene, arriverà.
Farò in modo che arrivi.
<< Andiamo.>> dice infine.
*
La prima volta che sono discesa nella landa di ghiaccio di Kei Tsukishima non posso dimenticarla.
Tremavo come una foglia, dal freddo e dalla paura.
Tremavo al solo pensiero di dover iniziare a picconare un iceberg che mi avrebbe fatto inevitabilmente affondare.
Ricordo della sensazione di gelo che ti mangia le ossa, la prima volta su quella landa.
Ricordo di come fosse inespressivo lui, mentre passeggiava in silenzio sul ghiaccio, cercando di sentirne ogni scricchiolio.
Ricordo di avergli fatto molte domande e, man mano che rispondeva, il ghiaccio si assottigliava impercettibilmente sotto ai nostri piedi.
Kei è una persona complessa.
Stratificata, come il ghiaccio che si porta dentro.
Una persona che ha amato, con tutto sé stesso e che alla fine è diventata schiava dell'amore che lui aveva creato.
Dal ghiaccio è emerso Kei, quello vero.
I suoi difetti, i suoi ricordi cristallizzati, la sua infanzia difficile, la sua adolescenza e la sua pena.
L'ergastolo.
Kei Tsukishima è stato condannato all'ergastolo.
E nonostante io sia sicura che il crimine che abbia commesso sia qualcosa di disumano, lui continua a tenere questo dettaglio sotto all'ultimo strato d'impenetrabile corazza di ghiaccio.
Alla fine, dopo dodici anni insieme, sento di non voler scavare oltre.
Sento che va bene così, nonostante lui non voglia aprire questo nuovo buco nel ghiaccio dentro di sé.
Dalla prima seduta Kei, nel suo sguardo indagatorio e volgarmente insistente su di me, è cambiato.
Il ghiaccio dentro di sé è stato scalfito, analizzato al microscopio e messo da parte.
Kei si è sciolto, come neve al sole, lentamente e con pazienza.
Kei sorride quando entra nella mia stanza ora, dice che non vede l'ora di parlare con me e che ama il modo in cui sorrido.
Dice che sono un Raggio di Sole nella sua vita.
Che gli illumino le giornate buie che solo una condanna all'ergastolo fanno sorgere nella tua vita.
Kei mi lusinga.
<< Buongiorno raggio di Sole.>> esordisce, non appena mette piede nel mio ufficio.
Io sorrido, perché so quanto gli piace vedermi sorridere.
<< Oggi splendi più di ieri.>> sussurra, riservandomi uno sguardo dolce.
Sono passati dodici anni da quando ci siamo conosciuti, ed ancora la sua voce roca ed autoritaria, riescono a farmi leggermente arrossire le guance.
Non dovrei lasciarmi andare a certi sentimenti, non dovrei far sì che i detenuti si affezionino a me in questo modo.
Io non dovrei affezionarmi ai detenuti e lo so bene, l'ho sempre fatto.
Ma c'è qualcosa dentro Kei, qualcosa di naturale, che mi spinge a giocare un po' quasi come se fossi una ragazzina alle prime armi con una cotta adolescenziale.
Alla fine, che male c'è nel simpatizzare un po'?
Kei resterà qui per sempre.
Kei ha dimenticato cosa vuol dire amare qualcuno, quindi perché infrangere anche questo suo unico capriccio e desiderio?
È un gioco, mi dico mentalmente ogni volta.
È solo un gioco e nulla di più.
<< Le tue lentiggini sono più evidenti che mai...>> mi dice, dopo essersi messo comodo sul divano.
<< Non ti piace?>> scherzo, mordendomi la lingua.
<< Mi fanno impazzire, soprattutto quelle che hai sul collo.>> risponde, riservandomi un feroce sguardo intriso di lussuria.
Mi mordo il labbro, ben consapevole di non poter cedere, non in questo modo.
Ci sono cinque lentiggini sul mio collo, appena più scure e definite delle altre che somigliano più a piccole goccioline trasparenti piazzate sulla tela chiara della mia pelle.
Una sul lato sinistro del collo.
Quattro in una linea arcuata e gentilmente tondeggiante sul lato destro.
<< Lo so bene.>> flirto in risposta, facendo il giro della scrivania ed andando a posizionare il casco di I.C.E sulla sua testa.
<< Niente preliminari oggi? Sei così impaziente?>> mi sussurra, mentre trae un profondo respiro del mio profumo.
I miei capelli lunghi gli solleticano la punta del naso.
<<Oggi è un'occasione speciale... non mi dire che l'hai dimenticato!>> rispondo, mettendo su un finto broncio.
<< Come potrei... oggi dodici anni fa...>> bisbiglia.
È una cosa strana, tremendamente infantile da fare.
Ma oggi è il giorno in cui ci siamo conosciuti per la prima volta, dodici lunghissimi anni fa.
È un po' come un anniversario segreto, di cui solo noi due siamo a conoscenza e che ricordiamo al di là del vero motivo per cui ci troviamo insieme in questa stanza.
In questo giorno io non sono la sua terapeuta e lui non è un detenuto.
Oggi siamo semplicemente Shizuka e Kei.
<< Niente telecamera oggi.>> gli sussurro all'orecchio, prima di allontanarmi.
Non ho acceso la registrazione.
Non oggi.
Ho chiesto il favore a Kuroo, la solita guardia che scorta i detenuti al mio ufficio, di portarmi il numero 11120.
Kei non sarebbe dovuto venire oggi, in quanto la sua condizione psicologica è clinicamente migliorata in questi dodici anni insieme, che adesso non ha più bisogno di venire così spesso.
Ma non potevo non vederlo oggi.
Non oggi.
Lui sorride, mentre si distende sotto ad I.C.E che entra in funzione e si rilassa.
Io lo imito.
Non so bene cosa aspettarmi oggi nella nostra discesa sul ghiaccio, ma so che qualsiasi cosa succederà tra di noi oggi, resterà tra di noi.
Sarà il nostro segreto.
L'ennesimo da custodire sotto ad una crisalide di cristallo.
Il ghiaccio sotto ai nostri piedi è così sottile che scricchiola rumorosamente.
Si è completamente disciolto, ed il Sole splende alto in questa stanza della sua coscienza, da lasciarci bagnare le scarpe con i rimasugli di ciò che ancora si sta sciogliendo.
È tutto completamente consumato, tranne in un punto.
Quel punto che per dodici anni Kei non ha mai voluto neanche guardare.
Non mi ha mai permesso di avvicinarmi a quella lastra di ghiaccio e non abbiamo mai neanche guardato cosa ci fosse al di sotto.
Non faccio neanche in tempo a parlare, dopo aver messo piede nella sua stanza di coscienza profonda, che lui mi prende per mano.
<< Sei bellissima sotto questo Sole, non so se splendi di più tu o lui.>> dice.
Arrossisco, inevitabilmente.
Sorrido, come a lui piace che io faccia e ci incamminiamo, tenendoci per mano.
Benché io sappia sia solo una simulazione, il calore della sua mano sembra estremamente reale.
Veritiero, genuino, sincero.
<< Kei, ti ricordi quando ti avevo promesso la libertà, qui dentro?>>
Lui annuisce.
<< Alla fine ci sei riuscita davvero, hai fatto sciogliere tutto questo ghiaccio intorno a me... quando sono qui dentro, con te... io mi sento libero sul serio.>> dice, guardandomi dritta negli occhi.
<< Bhe non tutto...>> gli dico piano.
Si arrabbierà?
Ne sarà turbato da questa affermazione?
Non credo, alla fine ci conosciamo da così tanto tempo... ho scavato così a fondo nel ghiaccio della sua psiche, che questo non lo farà contrariare.
So come parlargli, sia perché sono una terapeuta professionista e sia perché ormai ho imparato a conoscerlo.
Posso parlare apertamente, senza filtri, senza prestare attenzione al confine tra paziente e psicoanalista.
Siamo due persone, due esseri umani che si parlano apertamente.
Siamo noi due, oggi più che mai.
Posso fidarmi perché so che lui si fida di me.
La sua mascella si contrae per un attimo, prima di ammorbidirsi nuovamente.
<< Credevo che non avremmo tirato più fuori questa storia.>> dice piano.
<< Credevo che oggi avremmo sciolto l'ultimo blocco, insieme.>> lo riprendo, continuando a camminare al suo fianco.
<< Non c'è nulla lì sotto.>>
<< Andiamo a controllare allora, e se non c'è niente ti comprerò un gelato.>>
Kei resta in silenzio per un po', dopodiché scuote la testa.
<< No, quante volte devo ripetertelo?>> la sua voce suona dura, dominante, autoritaria ed incredibilmente fredda.
Il sole, che mi sembrava splendere alto nel cielo di questa simulazione, sembra incupirsi un po'.
Alcune nuvole si frappongono tra noi ed il ghiaccio.
Tra me e Kei.
Deglutisco, annuendo e lasciando perdere, nuovamente.
<< Kei... non pensarci. Va bene così, anzi scommetto che non ci sia niente d'appetitoso lì sotto. Hai ragione.>> cerco piano di rassicurarlo.
<< Quando vorrai, io sarò al tuo fianco per andare a scavare anche in quel punto.>>
Lui si volta a guardarmi.
<< Resterai per sempre con me?>> chiede, con esitazione e bisogno.
<< Sempre, finché lo vorrai.>>
Sorride, e scuote la testa.
<< Non posso neanche uscire da qui... questa prigione sarebbe stata ancora più stringente se non ci fossi stata tu, raggio di Sole.>>
<< Possiamo fingere di essere fuori, qui dentro. Possiamo andare a mangiare fuori, passeggiare, fare qualsiasi cosa tu voglia, qui dentro.>> dico piano, sorridendo più a me stessa che a lui.
<< Fuori? Non ti basta stare qui dentro con me?>>
<< No Kei... dicevo che...>> mentre provo a rispondergli, sento come stia stringendo forte la sua mano ancora intrecciata sulla mia.
Indietreggio, cercando di dirgli che mi fa male, e mi ritrovo a sbattere contro quell'ultimo pilastro di ghiaccio spesso.
Quando siamo arrivati qui?
<< Kei mi fai...>>
Non riesco a finire di parlare che lui torreggia sopra di me, appoggiando le mani al ghiaccio e bloccandomi la strada.
Deglutisco, per il suo sguardo severo e tagliente sopra di me.
Credevo che questa sensazione d'inerme paura sotto alle sue iridi, non l'avrei più provata.
Credevo di aver abbassato tutte le sue difese, così ho abbassato anche le mie.
<< Non ti basto io?>> torna a chiedermi, con più insistenza.
<<Perché fate sempre così? Perché vuoi scavare sotto questo ghiaccio?!>>
<< Kei rilassati, va tutto bene... ricordati che questo è un ambiente sicuro per tutti e due...>> la mia voce trema, ha un'inflessione di sfuggente timore che non dovrebbe avere.
Le sue mani si arrampicano fino al mio collo, le sue dita combaciano perfettamente con le lentiggini sparse sulla mia pelle candida.
<< Perché... perché...perché...>> impreca a bassa voce.
Stringe, stringe con gli occhi iniettati di sangue ed una rabbia ch'esplode all'improvviso.
Le sue mani ardono, incandescenti sulla mia pelle.
Mi sciolgono il collo, mi mozzano il respiro, nonostante tutto questo non sta accadendo sul serio.
<< K-Kei...>> sbiascico, cercando di portare le mie mani a liberarmi dalla sua morsa serpentina.
In quel momento, mentre lo sento stringere fino al punto di non ritorno, la lastra di ghiaccio alle mie spalle s'infrange.
Emerge un ricordo, una luce sfocata e dai contorni sbiaditi che rivela ciò che il ghiaccio ha protetto fino ad oggi.
Dodici anni di silenzio.
Dodici anni di gelo.
C'è un tavolo, coperto di sangue.
C'è una testa, senza un corpo attaccato al di sotto, che gronda di nervi ed ossa rotte.
Qualcosa si muove, nelle orbite oculari della testa, serpeggia e si contrae, come piccoli guizzi di luce bianca.
Come dei vermi.
C'è qualcuno che cucina, di spalle, con il grembiule coperto di feci e di croste.
C'è una puzza incredibile ed una pentola che viene mescolata con ossessiva meticolosità.
<< È meglio se restiamo a mangiare a casa, raggio di Sole.>>
Kei, l'uomo di spalle, prende un boccone di quel che bolle nella sua pentola.
<< È delizioso, avanti assaggia...>>
Un cucchiaio di una poltiglia disgustosa, dal colore acceso del sangue.
Pezzi di osso frantumato galleggiano, in quella gelatina dall'aspetto disumano.
Nervi, arti mozzati, pezzi di carne dal colorito violaceo.
Sbarro gli occhi, in preda ad un conato di vomito che mi risale a fuoco dallo stomaco.
Kei avvicina il cucchiaio alla bocca della testa, posata sopra al tavolo.
<< Avanti, sorridi!>> intima.
L'espressione di terrore sul volto sfigurato che lentamente di disgela sopra ad un piatto, colando sangue ed acqua, s'imprime nella mia mente.
Boccheggio ed urlo, fino a quando non mi ritrovo, in preda ad un capogiro, nella mia stanza d'ufficio.
Vomito istantaneamente, tra le mie mani e sopra i miei piedi.
Soffoco con il mio stesso conato, e mi porto le dita tremanti al collo.
Le mie lentiggini.
Raggio di Sole.
Il mio sorriso.
Sollevo gli occhi che sono già inondati d'orrore e di lacrime.
Kei è placidamente disteso sul divano, il suo petto si alza e abbassa lentamente, come se stesse dormendo.
Il terrore ed il disgusto di quanto visto, sotto l'ultimo strato di ghiaccio, mi portano ad accasciarmi a terra.
Vedo Tadashi seduto sul divano.
Lo vedo sorridente, anche se niente del suo viso vorrebbe sorridere.
<<Eri tu... Tadashi... lui...>> sussurro piano, piangendo all'allucinazione di una persona che non c'è più.
La figura di Tadashi scompare, senza né annuire e né dissentire.
Per tutti questi anni ho pensato che se ne fosse andato, che avesse fatto una valigia e che stesse vivendo una vita migliore lontano da Tokyo.
Ma Tadashi in verità non se n'è mai andato.
È sempre rimasto qui, sotto al ghiaccio, in attesa che qualcuno liberasse il ricordo della brutalità che gli è stata imposta.
Un fremito di rabbia, un impulso bestiale, una sete che in tutti questi anni non sentivo di dover colmare.
Non ho mai cercato giustizia.
Non ho mai cercato Tadashi in tutto questo tempo.
Però...
Mi alzo a fatica, sentendo qualcosa dentro di me guidarmi verso I.C.E, prendendo la stilografica da sopra la mia scrivania.
La mia vista è offuscata dalle lacrime, ma la mia mente non ha mai lavorato in modo più lucido.
I.C.E funziona grazie ad un sistema di raffreddamento a liquido, che tiene sotto controllo le scariche elettriche che rilascia per registrare le onde cerebrali.
I.C.E funziona perché è stata progettata per autoregolare il voltaggio.
I.C.E non funziona per lasciare la corrente libera di fluire attraverso i sensori collegati direttamente al cranio di chi lo indossa.
È solo un attimo il momento in cui mi ritrovo a infilzare i tubi.
È solo un momento, rapido, in cui tutta la corrente che finora veniva cablata dalle resistenze, fluisce fino al casco ancora indosso a Kei.
L'odore che si solleva, dopo i primi minuti in cui il cervello di Kei si riduce in una poltiglia, è nauseabondo.
L'odore di qualcosa che si carbonizza, immediatamente, violentemente.
Il corpo di Kei si contrae, sotto spasmi brutali di un dolore che non ha fine.
Un supplizio di qualche minuto, ed il silenzio che ne consegue.
I.C.E va in corto circuito e la puzza dei materiali che si fondono si solleva nella stanza.
Le placche metalliche che aderiscono al corpo di Kei sul divano.
Il computer che si spegne e l'odore elettrico che si diffonde nella stanza.
Il silenzio.
Lo lascio lì, immobile, con un'espressione di terrore scolpita sul volto.
I suoi muscoli e tendini sono tutti contratti in una smorfia che trasuda atroci sofferenze.
È ancora caldo, mentre una lacrima gli bagna lo zigomo che lentamente perde colorito.
Il mio respiro è affannoso ma controllato, lo guardo negli occhi anche se so che la luce non potrà più raggiungere le sue iridi.
Quando apro la porta e la guarda mi viene incontro, non devo fingere alcuna espressione, mi lascio andare in un pianto liberatorio per qualcosa che ho tenuto dentro per anni.
Mi aggrappo alla sua divisa che puzza di disinfettante, mentre biascico che la macchina ha avuto un malfunzionamento.
Non fa fatica a credermi, del resto io sono una professionista qui dentro.
Mi consiglia di stendermi, che avrebbe chiamato i soccorsi e che tutto sarebbe andato per il meglio.
Io lo vedo correre nella stanza e alzare le mani al cielo per le scintille che fuoriescono dal macchinario sovraccaricato; si tappa il naso per la puzza di carne carbonizzata.
Gli viene da vomitare, lo so bene, l'odore è nauseabondo ed i liquidi di una carcassa morta hanno già impregnato la poltrona.
Mi asciugo le lacrime con il dorso della mano e continuando ad imprecare.
"Ma com'è potuto succedere?!" sento dire alla mia voce.
Ma devo aspettare di voltare l'angolo, prima di poter effettivamente sorridere.
Angolo Autore
Stelline ✨
Eccoci qui, alla fine di questa storia un po'... un po' particolare!
Se volete darci fuoco lo capisco, è una storia molto diversa da quelle che di solito pubblichiamo, ma spero davvero che vi sia piaciuta!
Alla fine, vi lascio qualche piccolo memino tra me e _melilissa_ durante il processo creativo, così per stemperare un po' l'atmosfera.
Abbiamo riso per giorni su TSUKKI MASTERCHEF. COTTO E MANGIATO.
FATTO IN CASA PER VOI.
Prossimamente troverete questi programmi su Real Time!
Un grazie va a Mel, ovviamente.
Mi sono davvero divertita a scrivere di catastrofi e cannibalismo assieme a lei!
Spero che alla fine anche voi l'abbiate apprezzata!
Fatemi sapere un po' le vostre impressioni!
Io vi lascio un bacino e vi do appuntamento MOLTO PRESTO con tante pubblicazioni!
(Lo so ultimante non ho davvero fatto molto, ma GIURO che recupero!)
A presto!
❤️
Lavienne
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