13
Servilio lasciò i suoi uomini a banchettare, ridere e raccontarsi storielle sconce che solo i marinai riuscivano ad inventare e si addentrò nella foresta, illuminando il passo con la torcia e stringendo due pesci appena pescati nell'altra mano.
Voleva vederla, e sapeva che non si sarebbe mai fatta avanti in mezzo a tutte quelle persone. Arrivò nella radura dove lei l'aveva attaccato, raccolse un po' di legna e accese un allegro fuocherello accanto ad un tronco abbattuto, probabilmente da un fulmine. Faceva abbastanza freddo e Servilio si rannicchiò sotto la pelliccia di lupo che si era portato da Roma, una delle poche cose nelle casse ad essersi salvata.
Era seduto davanti al falò da quasi un'ora e aveva iniziato ad arrostire il secondo pesce, quando udì il fruscio dei rami sopra la sua testa. Allungò con noncuranza lo spiedo sopra le basse fiamme rossastre. La immaginò mentre si sporgeva per osservarlo.
Altro fruscio. Una foglia gli cadde sulla spalla.
Attese ancora un istante, prima di dire, senza sollevare la testa: <<Ti unisci a me, Roma?>>
Dato che non udì più alcun suono, continuò: <<So che ci sei. Vieni avanti, non ti faccio niente.>>
Istante di silenzio e immobilità. Poi la sentì strusciare contro il legno, probabilmente mentre si calava a terra. Infine, sentì i suoi passi avvicinarsi. Si voltò, e lei era lì, a gambe larghe ma con fare timido e confuso. Le sorrise e tornò a voltarsi verso il fuoco, arrostendo il pesce. Dopo qualche istante, si avvicinò ancora e si sedette sul suo tronco, ma lontano da lui, lo sguardo puntato sul fuoco.
<<Fame?>>
Lei lo guardò, senza rispondere. Servilio allora ritirò il bastoncino e strappò un pezzo di carne, che passò alla ragazza. Dopo qualche istante di esitazione, lo prese, stando bene attenta a non toccare la mano dell'uomo. Se lo infilò in bocca e iniziò a masticare silenziosamente. Anche Servilio diede un morso al pesce, gustandoselo. Intorno a loro, solo il frinire dei grilli e i rumori della natura. Si respirava un'aria di pace totale.
<<Roma...>>
Servilio tornò ad osservare la ragazza e vide che lo stava guardando attentamente. Le offrì un altro pezzo di pesce ma lei scosse la testa.
<<Lo hai detto bene. Roma. Tu come ti chiami?>>
<<Roma.>>
<<Beh, quello sicuramente sarà il tuo soprannome. Io mi chiamo Servilio. Servilio.>> E si indicò, portandosi una mano al petto.
<<Servilio>> ripeté lei.
Lui esibì un ampio sorriso. <<Sì, Servilio! E qual è il tuo nome?>>
Lei scosse la testa.
<<Non capisci, eh?>>
Lei scosse più rapidamente la testa. Lo indicò. <<Servilio.>> Indicò sé stessa e scosse la testa, stringendosi nelle spalle.
<<Non hai un nome?>>
Lei si strinse ancora nelle spalle.
<<Dov'è la tua famiglia?>>
Si era spinto troppo oltre. La ragazza si ritrasse, guardandolo con i suoi grandi occhi viola. Servilio sospirò, sconfitto. <<Eh, credo che dovrò farti un corso avanzato di latino, almeno quanto basta perché riusciamo a capirci. Ma non saprei davvero da che parte iniziare...>>
Rimuginò tra sé e sé per qualche secondo, mentre la ragazza spostava lo sguardo da lui, al fuoco, al pesce. Servilio glielo passò, sovrappensiero, e lei iniziò a mangiarlo. Poi il giovane scattò in piedi, con un grande sorriso di trionfo. <<Trovato!>>
La ragazza emise uno squittio di allarme e corse lontano, acquattandosi. Servilio si guardò intorno, e quando la trovò le rivolse un sorriso mortificato. <<Perdonami, non volevo spaventarti.>> Le tese una mano, che lei guardò, diffidente. <<Vieni con me. Su, puoi fidarti.>>
Lei esitò ancora un istante. Poi allungò la sua mano e Servilio la strinse delicatamente, aiutandola a mettersi in piedi. Era tanto vicina a lei che poteva sentire il suo odore forte e pungente di muschio e pioggia.
Si incamminò verso la costa, sperando che i suoi compagni non dovessero rientrare all'accampamento proprio in quel momento. Lei sarebbe senza dubbio scappata un'altra volta.
La luna piena illuminava il terreno scosceso, che declinava verso l'oceano blu quanto il cielo. Mentre procedevano, Servilio si prese tutto il tempo per osservare la ragazza. Camminava leggera, con un agio e una comodità di cui neppure le matrone romane avrebbero dato prova su un pavimento in marmo. Le braccia ondeggiavano lungo i fianchi snelli, al ritmo del suo rapido e silenzioso passo. Servilio spinse lo sguardo più in basso. Un corto gonnellino di felci e altre piante che lui non riconobbe la copriva fin sopra le ginocchia, lasciando nudi e senza protezione i polpacci torniti. Ai piedi, non portava calzature né ampie foglie che potessero proteggerle i piedi arcuati dalle dure pietre della foresta. Dovevano essere pieni di calli, dato che non sobbalzava al contatto con i sassi sul sentiero.
Quando finalmente sbucarono sulla costa sabbiosa, lontano dall'accampamento silenzioso, Servilio sentì la ragazza trattenere il respiro. Seguì la direzione del suo sguardo e vide che era puntato sulla Penelope, o su quello che rimaneva. Le sorrise. <<Nave>> la informò, ripetendo il nome finché lei, guardando il legno incagliato sugli scogli, non lo ripeté.
Servilio la guardò compiaciuto e le mise una mano sulla schiena per spingerla avanti. Lei si ritrasse bruscamente. Servilio non se la prese, raccontando: <<Ora non la si può più chiamare così, ma un tempo era una gran bella nave, maestosa ed imponente, l'invidia di tutte le genti e dei popoli del mare.>>
La ragazza si fermò di botto, lo sguardo perso nel vuoto. <<Popoli del mare>> mormorò, aggrottando la fronte, in un latino quasi impeccabile. <<Pirati...>>
Servilio si illuminò. Era la prima parola che udiva uscire dalle sue labbra senza che l'avesse prima sentita da lui. <<Sì! Pirati! Come lo sai? Ah, lascia perdere. Andiamo?>>
Lei si scrollò, lo sguardo allucinato scomparve e riprese a camminare, lentamente, osservando la grande nave con gli occhi pieni di stupore. Arrivati all'apertura sullo scafo, Servilio salì per primo, poi tese le mani verso di lei. Disdegnandole, la selvaggia lo raggiunse agile come un ragazzo. A Servilio non rimase altra scelta che alzare gli occhi al cielo, troppo divertito per mostrarsi offeso, e guidarla nell'oscurità della nave. La luce della luna non penetrava negli angoli più lontani, ma Servilio conosceva quelle stanze come le sue tasche, e fu con rapida prontezza che raggiunse la scorta di lampade e pietre focaie dentro uno dei mobili irrimediabilmente distrutti. L'improvvisa luce fece fare un salto indietro alla ragazza, alle sue spalle.
Servilio si voltò verso di lei. <<Lampada>> spiegò, indicando il ferro e il bronzo dell'oggetto in questione. Lei annuì, seria, e ripeté la parola.
Servilio la condusse avanti, camminando chino per evitare le travi di quello che era il ponte della nave, che pendevano verso il basso come appuntite stalagmiti. Lasciarono la stanzina dove erano sbucati. Il giovane aiutò la ragazza a sorpassare una piccola voragine e a non inciampare nelle travi di legno scalzate e scheggiate, che al buio era quasi impossibile vedere.
Percorsero il corridoio, fino ad arrivare alle scalette che conducevano sopraccoperta. Più oltre non si poteva proseguire, perché la poppa della nave era completamente distrutta, affondata nella sabbia, mentre per arrivare alla prua bisognava salire prima sul ponte e una volta lì calarsi nuovamente giù, dato che il corridoio di passaggio era interamente ostruito dai detriti. Per salire sul ponte, l'unica possibilità erano quelle scalette, oramai inservibili, dato che l'inclinazione su un fianco della nave aveva contribuito a sollevarle fino a far raggiungere loro la verticalità. Per questo avevano gettato delle corde sul ponte che calavano nelle profondità della nave, per rendere più agevole la salita.
Servilio si assicurò in vita la lampada, stando attento a non bruciarsi, e afferrò la corda. <<Salgo prima io, così dopo ti tiro su.>>
La ragazza si limitò a fissarlo. Servilio si arrampicò, lento ma efficace, puntellando i piedi sui gradini delle scale. Una volta uscito sul ponte, si mise in ginocchio, sfregandosi le mani lussate sulla toga. Poi si chinò nel buco. La ragazza era lì, ferma.
<<Vado a vedere se trovo qualcosa che possa esserti d'aiuto>> la rassicurò, credendo di vederla spaventata. Attraversò il ponte e salì sulla pedana di pilotaggio. Il timone, spezzato, pendeva da un lato, ora più simile ad una ruota di carro che alla guida di una fiera nave. Scostando le assi, si mise alla ricerca di una scala, una botte, qualunque cosa che potesse aiutare la ragazza nell'arrampicata. Continuò a cercare, ostinato, finché non si sentì toccare sulla spalla. Si voltò, e lei era lì.
<<Come diavolo...?>> iniziò, mentre lei aggrottava le belle ciglia. Allora Servilio rise di sé stesso, abbandonò la ricerca e la condusse verso prua. Lì il le assi in legno del pavimento avevano ceduto quasi completamente, quando la nave si era accartocciata su sé stessa. Servilio individuò il punto in cui lui e i suoi avevano lasciato cadere la seconda corda e iniziò a scendere. Una volta a terra, Servilio trattenne la corda, in modo da facilitare la ragazza.
<<Puoi scendere, Roma!>> le gridò. Subito la corda iniziò a muoversi, oscillando leggermente mentre lei la usava per calarsi a terra. Lo fece nella metà del tempo impiegato da Servilio, che annuì, guardandola ammirato. <<Ben fatto.>>
Lei ovviamente non rispose. Servilio mosse la lampada nell'oscurità totale e iniziò ad incamminarsi tra i corridoio bui e irti di pericoli, tra cui voragini, mobili rovesciati e travi divelte. Infine, giunse ad una porta scardinata, la cui soglia era coperta dai vecchi tendaggi che l'avevano un tempo rivestita dall'esterno. Fece pressione sul legno con le mani fino a creare un varco sufficientemente grande da permettere il passaggio suo e della ragazza. Una volta entrambi dentro, Servilio spanse la luce della lampada tutto intorno, per mostrare la cabina nella sua interezza.
Era tristemente distrutta. Il giaciglio del navarco era stato infilzato da una trave staccatasi dal soffitto, una lampada si era rovesciata spargendo olio tutto intorno, la scrivania si era spaccata a metà e fogli di pergamena cospargevano il pavimento.
Ciononostante, Servilio iniziò ad elencare ogni cosa e a dirne il nome, in modo che la ragazza potesse ripeterlo.
Fu lei a trovare il piatto scheggiato ma miracolosamente intero. Era seminascosto sotto il giaciglio ma lei lo tirò fuori e lo ammirò. Vi era dipinta sul fondo una scena mitica molto famosa.
<<È una delle fatiche di Ercole, sai, l'eroe>> iniziò a raccontare Servilio, pur sapendo che lei non avrebbe capito una parola. <<Qui cercava di impadronirsi della cintura di Ippolita, la regina delle Amazzoni. Aella fu la prima guerriera ad attaccarlo, quando manifestò le sue intenzioni. È questa qui>> e le indicò una delle amazzoni. <<Il suo nome vuol dire tornado.>>
La ragazzina continuava ad osservare il disegno, l'espressione concentrata, le labbra ben strette. Quindi sollevò una mano a sfiorare il volto dell'amazzone Aella e mormorò qualcosa che Servilio non capì. Anche lui tornò ad osservare l'amazzone e lo colpì la somiglianza che aveva con la selvaggia che lo affiancava. Gli stessi lunghi capelli d'oro e lo sguardo cupo, offuscato dal furore. Lo stesso furore che aveva visto negli occhi della ragazzina quando l'aveva incontrata la prima volta.
<<Aella>> mormorò, fissandola. Lei si voltò verso di lui, col suo sguardo intenso, determinato.
In quell'istante si udì un rumore da sopraccoperta. Passi e risate basse. I ragazzi della ciurma in un giro di ispezione probabilmente.
All'istante, la selvaggia gli diede le spalle, con tale impeto da sferzargli la faccia con la folta chioma e scappò via, finendo inghiottita nell'ombra. Soffregandosi la guancia, Servilio pensò che 'tornado' come soprannome a quella piccola guerriera pareva del tutto legittimo.
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