Capitolo 9

<<Signore e signori, tra qualche minuto cominceremo con la fase di atterraggio. Vi preghiamo di tenere allacciate le cinture di sicurezza. L'uso dei servizi non è più consentito>>.

Mi sento frastornato. Il collo sudato a causa del contatto con il maglione di lana. Le orecchie tappate che mi impediscono di comprendere correttamente le informazioni degli assistenti di volo. Scambiare "atterraggio" con "ostaggio" è alquanto bizzarro, ma ciò che riesco a percepire è solamente un insieme di movimenti di labbra e qualche parola interrotta a metà.
La coppia di anziani seduta accanto a me sta fissando dal finestrino l'immensità e lo splendore notturno del territorio francese. Mi sporgo verso di loro per osservare meglio.

La parte di pentagono che riesco a delineare è inghiottita dall'oscurità invernale. Le luci rendono tutto ancora più lampante ed eccitante.
Tra qualche istante realizzerò di essere arrivato a destinazione, lì dove ho sempre voluto essere, dove sarei sempre dovuto essere.
Continuo a osservare l'Île-de-France con estremo entusiasmo. I battiti del mio cuore sono accelerati. Non sto più nella pelle, a stento riesco a stare fermo sul mio sedile.
L'anziana signora mi osserva, mi sorride, mi fa l'occhiolino. Io non posso far altro che ricambiare il sorriso, non posso far altro che ringraziarla per le parole di coraggio e conforto di cui mi ha fatto dono prima della partenza. È assurdo come alcune persone, seppur sconosciute, possano essere lì nel posto giusto al momento giusto.

Dopo l'atterraggio irrompente, i passeggeri del volo hanno deciso di complimentarsi per le competenze del pilota, messe in discussione, con un applauso liberatorio.

<<Buona permanenza, caro. Au revoir>> esclama l'anziana signora mentre con un gesto mi accarezza la guancia.
<<Altrettanto. È stato un piacere averla avuta come compagna di viaggio>> rispondo. Lei sorride mentre pian piano scende le scale dell'aeromobile.
Recupero il mio trolley e la borsa. Indosso la giacca, i guanti e il cappello. Saluto cordialmente un assistente di volo e lentamente scendo un gradino dopo l'altro. Mi dirigo verso l'entrata dell'aeroporto, un luogo da cui non potersi aspettare più di tanto per essere la destinazione di un volo low-cost.

Nonostante la calca post viaggio presa dal recupero delle proprie valigie, il disorientamento, il caldo e la necessità di svuotare la mia vescica, l'attenzione viene catturata da una pubblicità su un monitor con su scritto "Bienvenue à Paris". Non so perché, ma mi fa un certo effetto. Notare che adesso tutto ciò che mi circonda non è più scritto in italiano ma in francese, mi rende consapevole di dove mi trovo in questo preciso istante.

Cerco di farmi spazio tra la gente che aspetta l'arrivo delle proprie valigie sul nastro trasportatore. Riconosco i miei trolley color blu avion, li recupero con difficoltà data la loro dimensione che sembra raggiungere il doppio della mia stazza.
Portare un trolley e due valigie giganti non è stata una mossa intelligente. Non ho idea di quanta strada ci sia per arrivare al mio appartamento, né tantomeno come arrivarci e trascinarmi questi pesi per la città.

Aspetto il mio turno per pisciare. Mi guardo allo specchio, ho un aspetto indecente. Sciacquo la faccia. Prendo il beauty-case e cospargo un po' di fondotinta sotto agli occhi, aggiungo dell'illuminante sugli zigomi.
Esco fuori dall'aeroporto, ancora un'altra volta disorientato. Gente che va a destra, gente che si ferma improvvisamente davanti a me mentre scovo la direzione giusta da prendere, gente che mi chiede informazioni senza ricevere risposta.
Cerco le indicazioni per lo shuttle bus diretto a Porte Maillot, ma sembra che oggi il senso dell'orientamento mi abbia abbandonato.
Mentre tento, impacciatamente, di trascinare le valigie, noto la presenza di alcuni militari vicino l'entrata dell'aeroporto. Faccio mente locale e chiedo: <<excusez-moi, où se trouve le terminal du bus pour Porte Maillot?>> (dov'è il terminal del bus per Porte Maillot?). Uno dei cinque si gira con espressione infastidita, indica uno spazio dedicato alla partenza dei bus. Ringrazio e cerco di affrettarmi, per quanto possibile, a raggiungere la calca.

La fila di persone è ben disposta: da un lato coloro che devono acquistare il biglietto, dall'altra le persone che si apprestano a salire sul bus in ordine di arrivo. Io, fortunatamente, l'ho già acquistato online.

Una giovane vigilessa ci invita ad accelerare il passo per poter riempire il bus il prima possibile. La gente fa per salire, mentre la pesantezza delle valigie mi fa rimanere di qualche posizione indietro. A volte penso a quanto sarebbe bello essere talmente ricchi da potersi permettere un taxi che viaggi per più di un'ora e quindici minuti. Ma, ahimè, la povera vita da studente non me lo concede.

Dispongo le valigie nel portabagagli dello shuttle bus. Porgo il biglietto al controllore, il quale mi dice di poter salire senza nemmeno aver controllato il nominativo. Non sono nelle condizioni adatte per poter controbattere a questa mancanza di sicurezza. Prendo il mio posto; accanto a me si siede una giovane signora dai tratti asiatici, mi sorride ripetutamente. Devo ammettere che risulta alquanto inquietante.

Dopo qualche istante l'autista ci informa della partenza. La gente finisce di sistemarsi nei rispettivi sedili. Io poggio la testa sul vetro del bus e guardo il sole sorgere. Tutto sembra così diverso, insolito, strano.

Osservo le grandi magioni in legno di Beauvais, le aree verdi sparse per la periferia, l'autostrada che imbocchiamo. Pian piano chiudo gli occhi e mi concedo un po' di riposo.

*

Ore 10:09.
Sento un leggero brusio. Mi sveglio di soprassalto ricordando dove mi trovassi. I miei occhi sembrano essersi squagliati. Mai dormire con le lenti a contatto. D'improvviso, riesco a mettere a fuoco un'immagine precisa. Mi guardo attorno, il bus è quasi vuoto. Realizzo di essere arrivato a destinazione. Mi appresto a recuperare le valigie.
Mi trovo nel piazzale del parcheggio di Porte Maillot, non so dove andare. La gente comincia  a prendere direzioni differenti mentre io mi limito a seguire le indicazioni per la metro. Cammino per più o meno dieci minuti, ma la fatica del peso delle valigie sembra aver triplicato la durata.
Finalmente riesco a trovare l'entrata della metro. Mi avvicino verso le macchinette automatiche per l'acquisto dei biglietti. Una giovane signora dell'est si avvicina verso di me mostrandomi un cartellino. Strizzo gli occhi e riesco a leggere solamente un numero di matricola, lei lo rimette nella sua tasca. Non capisco cosa voglia.

Si avvicina verso la macchinetta automatica. <<English? Français? Italiano?>> chiede. Io scuoto la testa nella speranza che vada via, mi sta solamente mettendo in crisi. Continuo a scrutare le valigie per assicurarmi che siano ancora qui vicino a me. Senza una risposta, la giovane donna sembra essere infastidita e, con prepotenza, ripete: <<English? Français? Italiano?>>. Continuo ad essere ignaro della situazione. Lei, di sua iniziativa, comincia a cliccare robe a caso sul monitor, mi avvicino per capire meglio e noto un ammontare di centocinquanta euro come totale. Io scuoto la testa ripetutamente, le faccio capire di non aver bisogno del suo aiuto. Apro il portafogli, tiro fuori venti euro e cerco di arrangiarmi con la macchinetta. La signora è ancora qui vicino a me, la situazione sta diventando snervante. Ad un tratto, lei comincia a correre verso l'uscita della stazione. Io mi guardo attorno, ho paura mi sia successo qualcosa senza essermene accorto, ma non noto nessun sguardo di stupore. D'altronde, come ci si può accorgere di un eventuale furto nella calca mattutina del ritmo francese? C'è un continuo via vai di persone, probabilmente assorte dalle responsabilità lavorative o dagli impegni accademici. Io, intanto, cerco di capire come diavolo si acquisti un dannato biglietto della metro.
Dopo qualche secondo, un'altra ragazza di colore si avvicina verso di me. E' tirata a lucido, con una coda che le raccoglie i suoi ricci selvaggi. Noto una targhetta sulla sua camicia, si chiama Tanya. Mi sorride e comincia: <<Bonjour, pay attention to that girl, she wanted to steal your money>> (fai attenzione a quella ragazza, voleva rubare i tuoi soldi). Lo switch dal francese all'inglese mi lascia alquanto sorpreso, ma probabilmente non era sicura della mia nazionalità. Metabolizzo ciò che la ragazza mi ha appena comunicato. Mi si forma un groppo alla gola pensando a come io mi sia risparmiato un furto. La ringrazio per aver fatto sì che quella ragazza non mi derubasse.

<<Tu dois aller où?>> (Dove devi andare?) chiede. Le faccio vedere il percorso già rintracciato sul mio cellulare. L'itinerario dice di prendere la linea 1 in direzione Hôtel de Ville e poi la 11 in direzione Pyrénées, da lì sarei dovuto arrivare a piedi in Rue des Cascades. Perché sono così impedito con i mezzi pubblici? Eppure a Trento mi atteggiavo da esperto. Lei mi porge due biglietti, ma mi assicura che per una sola tratta avrei potuto utilizzarne uno, l'importante è non uscire dalla metro. Le porgo i contanti, le mi dà il resto.

Inserisco il biglietto nel tornello a vetri mobili. Spingo con forza e velocità le valigie, poi mi catapulto nella direzione opposta. Cerco di imitare il ritmo svelto e impaziente degli abitanti, ma tutto ciò che riesco a fare è cadere inciampando sulle mie stesse valigie. Mi guardo attorno sperando che nessuno abbia notato la mia figura di merda, probabilmente se ne sono accorti ma nemmeno un'anima pia si preoccupa della mia situazione. Mi rialzo con sguardo fiero e mi dirigo verso l'area di attesa per la metro.

La stazione di Porte Maillot è abbastanza semplice. I muri sono ricoperti da mattoni bianchi, una scritta enorme con il nome della stazione predomina su gran parte della parete. Sotto a questa risultano elencate le coincidenze da poter prendere dal punto di arrivo.
Ci sono alcuni senza tetto che dormono distesi su dei cartoni. Provo tenerezza.

Dopo esattamente tre minuti la metro arriva. Nel giro di qualche secondo quest'ultima si riempie. Io mi ritrovo ad essere schiacciato nell'angolo infondo all'ultimo vagone mentre, un signore dalla puzza di sudore alquanto penetrante, decide di sostenersi vicino a me. Tento di trattenere il respiro mentre un ragazzo, preso dalla fretta mattutina, sta per essere tranciato dalla chiusura automatica delle porte. Ho provato paura per lui.

Nella metro regna un silenzio assordante. Nessun chiacchiericcio sopra i toni concessi, nessun cellulare alle prese con la riproduzione di un video, nessuna canzone che disturba la quiete. È tutto così assurdo che mi sembra di vivere in un incubo.
Dove sono le vecchiette che scambiano le ultime notizie sui loro figli? Dove sono i liceali che si lamentano dell'interrogazione di fisica? Dov'è Trento?
In quel momento realizzo esattamente di essere in un'altra dimensione, in un'altra vita.

Durante il breve tragitto sulla metro, rimango particolarmente colpito dalla stazione di Louvre-Rivoli, un luogo piuttosto dark animato da luce soffusa e decorato con copie di arte antica del Museo del Louvre. Un vero toccasana per la vista. Mi godo, per quanto possibile, la magnificenza delle decorazioni. Sfortunatamente quindici secondi non sono sufficienti, ma le porte si richiudono improvvisamente.

Una volta arrivati, per inerzia riesco a uscire fuori dalla metro e recarmi dall'altra parte della stazione Hôtel de Ville, la quale è decorata da una serie di annunci pubblicitari sulle pareti. La linea 11 arriva dopo qualche secondo. Fortunatamente riesco a beccare il vagone con qualche posto a sedere disponibile.
Nel momento esatto in cui il mio sedere entra a contatto con i sedili scomodi della metro, mi sembra di rinascere. Sento le mie gambe tremare a causa dei chilometri che ho dovuto percorrere da una fermata all'altra, sento i muscoli delle mie braccia pulsare per il peso delle valigie. Inspiro un po' d'aria per poi buttarla subito fuori. Mi guardo attorno un'altra volta. Sono a Parigi da quasi mezz'ora e mi sono già rintanato sottoterra.
Non so per quale assurdo motivo ma non riesco a provare nessun sentimento, forse per la stanchezza, forse perché non ho ancora realizzato o forse perché non ho ancora avuto l'occasione di provare un sentimento adeguato.

Dopo esattamente sei fermate, come suggerito dal cellulare, arrivo alla stazione Pyrénées. Salgo le scale tenendo stretto i miei trolley e per qualche istante mi sembra di rivivere la scena in cui Rachel arriva a New York e realizza di aver coronato il suo sogno.

Rue des Pyrénées è una strada abbastanza larga, popolata da supermercati, piccole boutique e grandi impresari asiatici. La quantità di boulangeries che circondano il quartiere è veramente impressionante.
Svolto a destra su Rue de la Mare. Una piccola pasticceria cattura la mia attenzione. Dal vetro del negozio riesco a intravedere tutta una serie di dolci tipici francesi, dai macarons alla tarte tatin. Mi prometto di ritornarci per degustare le piccole specialità del territorio.

Finalmente arriva il momento di imboccare Rue des Cascades, una piccola stradina popolata da mini appartamenti e da un piccolo bar ancora chiuso.
Noto la presenza di un uomo che aspetta davanti a un cancello in ferro battuto, probabilmente sarà il padrone di casa che mi sta aspettando per consegnarmi le chiavi.
Mi avvicino a lui con affanno. È un uomo sulla quarantina, capelli ricci un po' brizzolati, occhi scuri, pelle molto chiara e corporatura simile alla mia.
<<Monsieur Miller?>> chiede. Probabilmente avrà capito che sono io dal carico di valigie che mi porto dietro. <<Laissez-moi vous aider>> (lasci che l'aiuti). Gli porgo una valigia e tiro un sospiro di sollievo. Sono esausto.
<<Je m'appelle François. Avez vous trouvé l'appartement sans problèmes?>> (Mi chiamo François. Siete riuscito a trovare l'appartamento senza problemi?) chiede stringendomi la mano. <<Oui, tout de suite>> (Sì, subito) rispondo.
<<Bien ... l'appartement que vous avez choisi se trouve juste à gauche>> (l'appartamento che ha scelto si trova proprio a sinistra) dice mostrandomi la seconda entrata per il condominio.
L'atrio è dipinto di rosso, il pavimento è ricoperto da un tappeto beige e il portone interno ricorda lo stile delle cabine telefoniche londinesi. François si dirige verso sinistra, lo seguo. Una porta laccata di un colore simile al bordeaux predomina sul piano. Uno zerbino con su scritto "Chez moi" cattura la mia attenzione, principalmente perché c'è un'anatra ritratta. Non ho mai visto un'anatra su uno zerbino.
Il padrone apre la porta di casa e rimango letteralmente estasiato dalla bellezza dell'appartamento.
La prima stanza che si dà a vedere è uno spazio unico composto da una cucina living in stile moderno con una combinazione di colori di rosso, grigio metallico e bianco. Al centro della cucina c'è un piccolo tavolo affiancato da una colonna portante decorata con calamite provenienti da diversi posti. L'altra parte della stanza è composta da un divano letto grigio scuro, un piccolo tavolino in legno, una parete attrezzata color panna e un televisore affisso alla parete. Le mura sono state lasciate al loro splendore naturale; quadri di pittori francesi appesi di qua e di là e qualche mensola che riempie gli spazi vuoti.
Poggio le valigie e mi dirigo verso l'altra parte della casa: una stanza da letto, dallo stile minimal, con un letto matrimoniale dalle lenzuola beige e bordeaux e un armadio a muro dalle ante trasparenti. Difronte il letto c'è un piccolo comò sormontato da uno specchio rettangolare. In questa stanza il pavimento è ricoperto da parquet, mentre in cucina ci sono delle mattonelle scure.
Accanto alla camera da letto c'è un piccolo bagno senza porta con un lavandino, uno specchio, il water e una doccia che occupa metà dello spazio disponibile. Proprio in questo istante mi rendo conto di quanto sia vero ciò che dicono sui francesi: dov'è il bidet?
Evito, consapevolmente, di porre una domanda del genere al padrone di casa, sia per dignità personale ma anche per evitare di offendere la sua "cultura" patriottica.
François mi sorride una volta concluso il tour della casa, sorrido anche io educatamente.
<<Il y a beaucoup de supermarchés, boulangeries e magasins dans les environs, vous trouverez tout ce dont vous avez besoin>> (Ci sono molti supermercati, panifici e negozi nelle vicinanze, troverà tutto ciò di cui ha bisogno) esclama in estasi. <<Je vous laisse aussi un plan de la ville, pour vous orienter mieux>> (Inoltre, le lascio una mappa della città, per potersi orientare meglio) continua.
Sorrido e annuisco per ringraziarlo.
Dopo avermi assicurato per la decima volta di trovare tutto ciò di cui ho bisogno qui nel quartiere, François decide di dileguarsi per lasciarmi il tempo e la privacy necessaria per ambientarmi.
<<Si vous avez besoin de quelque chose, n'hésitez pas à m'appeler. Toutes les informations concernant l'appartement se trouvent dans le livret>> (Se ha bisogno di qualcosa, non esiti a chiamarmi. Le informazioni riguardanti l'appartamento si trovano nel libretto) conclude indicandomi un piccolo manuale sul tavolo. 
Lo accompagno alla porta e lo ringrazio, nuovamente, per la sua disponibilità. Lui mi assicura che mi farà avere, il prima possibile, una copia del contratto che ho firmato qualche mese fa tramite email.

Mi accascio sul divano, chiudo gli occhi e mi godo qualche istante di relax.
Mi guardo attorno, è tutto così diverso. Questa non è casa mia, ma è come se lo fosse. Questo non è il mio divano, ma è abbastanza comodo. Quella non è la mia tv, ma è molto più grande.
Affondo la mia faccia tra i cuscini del divano, mi scappa un urlo liberatorio. Sorrido.
Mi alzo e comincio a saltellare come uno stupido bambino. Nella mia testa continua a riecheggiare una sola domanda: com'è possibile che io sia arrivato qui?
Non me lo so spiegare, tanto meno realizzare. Continuo a fare avanti e indietro tra la cucina e la camera da letto. Tutto mi sembra così surreale che per qualche strano caso del destino sbatto il mignolo del piede contro la colonna in ferro. Trattengo il fiato per evitare di imprecare.
Mi siedo nuovamente sul divano. Incrocio le gambe per cercare di alleviare il dolore.

Tiro fuori il cellulare dalla tasca dei miei pantaloni. Un messaggio da parte di Andrew che mi chiede se fossi arrivato o meno. Una foto da parte di Antonio in cui mostra il suo hotel a Rio de Janeiro.
Guardo l'orologio, sono quasi le undici del mattino. Ignoro il messaggio di Andrew, lo chiamo direttamente per sentire la sua voce. Neanche un giorno da quando ho lasciato il territorio trentino e già sento la sua mancanza. D'altronde come ci si può abituare all'assenza di una persona dopo averci convissuto per mesi?
<<Pronto? Mike sei arrivato? Come stai?>> chiede.
<<Ciao Andrew. Sì, sono arrivato. Finalmente sono a casa>>.

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