Capitolo 4

Mi sembra di essere il protagonista di qualche stupido romanzo che vive il momento pieno di pathos in cui tutto va nel verso sbagliato, ma che continua, nonostante tutto, a sperare che qualcosa cambi improvvisamente per poter finalmente vivere il suo vissero per sempre felici e contenti; anche se preferirei sostituire il "vissero" con la terza persona singolare. Non ho bisogno di qualcun altro per essere felice. Il mio lieto fine è potermi realizzare nella vita, potermi amare. D'altronde come si può minimamente pensare di poter amare qualcun altro se, prima, non si prova amore per sé stessi?

Dopo aver lasciato Ludovico ho attraversato un periodo piuttosto buio. Non riuscivo a guardarmi allo specchio, ero incapace di vedermi sicuro di me. Forse perché il suo gesto era stato interpretato come un rifiuto nei miei confronti, sia da un punto di vista fisico che sentimentale. Forse perché le sue ragioni non avevano una giustificazione plausibile. Forse perché non sono mai riuscito ad affrontarlo come volevo. Nonostante ciò, da quel momento decisi di continuare il mio cammino accompagnato solamente da una buona dose di Miller, con un pizzico di Mike sopra. Sembrerà assurdo, ma dopo la nostra rottura non ho mai ritrovato il coraggio di stringere nessun legame intenso con qualcun altro. Tutt'ora ciò che mi soddisfa di più è l'appagamento fisico. Il solo pensiero di poter sentire un uomo pronunciare quelle due parole temibili mi fa venire il voltastomaco. E' paura? E' noia? E' egoismo? Chiamatelo pure come volete, ma essere egoisti può risultare vantaggioso, soprattutto dopo aver speso gran parte della nostra esistenza a piacere agli altri e, come se non fosse abbastanza, a desiderare il loro consenso. Ciò che ho voluto fare era renderli partecipi di un ribaltamento di ruoli e poter, finalmente, urlare al mondo ciò che ho sempre sperato di sentirmi dire: the dog days are over.

Mentre mi dirigo verso casa mia, continuo a pensare alle frasi terribili che ho dovuto dire ad Andrew. Fondamentalmente lui non mi ha fatto del male, almeno non del tutto. Colui che avrebbe dovuto evitare il seguito è solamente Ludovico. Avrebbe dovuto riflettere su qualcosa che pensiamo di poter tralasciare: le conseguenze. Nonostante ciò, ho preferito chiudere ogni tipo di rapporto o comunicazione con lui. Avrebbe significato dover riaprire il vaso di Pandora, ormai chiuso da quasi un anno. Inoltre, così facendo, sono riuscito a liberarmi del passato e non pensarci; ma, in realtà, mi ci vorrebbe un'altra vita per non ricordare niente.

Dopo qualche istante arrivo a casa mia. Apro la porta d'ingresso, tolgo le scarpe e mi avvio verso la mia stanza. Mi sdraio sul letto e mi guardo intorno. Comincio a pensare a quanto sia liberatorio poter, finalmente, vivere da soli; senza nessun coinquilino a romperti le scatole o ad ascoltare musica ad alto volume mentre tu cerchi di studiare per un esame molto importante; o peggio, doverti sorbire le urla di due tipi che scopano prepotentemente, in una casa dalle mura di cartongesso.

Dopo il "quasi" matrimonio con Ludovico, mi sono trasferito per qualche mese allo studentato dell'università, condividendo una stanza con un ragazzo Ucraino che puntualmente, per ogni ponte o festività, invitava la sua ragazza nel nostro appartamento. Un incubo che, ahimè, non ha mai avuto una fine. Solamente con il mio trasferimento in un bilocale sono riuscito a trovare e stabilire una pace interiore con me stesso.

Oggi mi trovo qui, in un appartamento di quarantaquattro metri quadrati, a vivere la mia vita come più desidero. Vestiti sparsi di qua e di là, piatti sporchi da lavare, spazzatura da buttare. In realtà mi aspettavo che il mio ideale di vita sarebbe stato più coerente con il quieto vivere ma, ultimamente, non ho avuto neanche il tempo di pensare a me stesso. Fortunatamente non devo rendere conto a nessuno, quindi posso gestire i miei impegni come più mi è comodo, anche se l'organizzazione non è mai stata il mio forte. La mia casa è un casino, la mia vita è un casino.

Guardo fuori dalla finestra. Ha smesso di piovere, ma il cielo si è riempito di nuvole grigie. E' da giorni che qui in Trentino non si riesce a vedere l'azzurro limpido che tanto amo. D'altronde è impossibile sperare di beccarlo in una stagione del genere.

Mi guardo allo specchio, riesco a riconoscermi; ma il mio riflesso non riesce a riconoscere me. Mi osserva accuratamente mentre imito alcune pose delle dive degli anni duemila. Mi sta parlando ma non capisco se in maniera positiva o meno. Mi incita a rimettermi in piedi e di continuare a guardare il domani. E' così vicino, così fugace, così irrequieto. Un po' come me.

Sento il cellulare vibrare. Rispondo senza guardare il nome sullo schermo.

«Mike!» riconosco subito la voce. E' Antonio.

«Dimmi». Lui sbuffa.

«Sono sotto casa tua: aprimi o scendi giù» sentenzia.

Mi accingo ad andare verso la finestra dell'appartamento e vedo un Antonio abbastanza irrequieto. Penso subito di aver fatto qualcosa di male, ma non riesco  a capire di cosa si tratti. Non riesco a capire il motivo della sua visita. Cerco di studiare i suoi movimenti, lo guardo attentamente, lui continua a sbuffare e a mettere le mani nei capelli, come se qualcosa lo preoccupasse tremendamente. Probabilmente vuole solamente sfogarsi per un'altra beffa lavorativa. Ma se così non fosse? Il suo tono era veramente cupo, e quando Antonio è in pensiero o infuriato, è meglio stargli alla larga.
Però noi abbiamo fatto una promessa. Non una di quelle che non si rispettano, ma una di quelle di cui te ne prendi cura.
Un giorno mi disse di essere veramente imbranato nel rapportarsi con la gente. Gli risposi che lo ero anche io. Mi ripeté di non aver mai avuto amici veri. Gli dissi che sentivo la stessa mancanza. Mi rispose che io ero il suo primo vero amico. Lo guardai negli occhi e gli sorrisi, mi colse alla sprovvista. L'unica cosa che gli seppi dire fu: ti voglio bene. Lui non riuscì a trattenere l'emozione e la tensione si concluse in un abbraccio sincero, uno di quelli che ti stravolgono l'esistenza, uno di quelli più unici che rari. Entrambi sentivamo l'esigenza di doverci unire e di consacrare la nostra amicizia. Antonio, ancora un po' scosso, mi disse: «promettimi che qualsiasi cosa succeda, qualsiasi sbaglio, qualsiasi torto o dubbio, me ne parlerai. Solo così potrò essere sicuro di aver trovato un amico vero». Io esitai, ma non per paura. Lo feci solamente perché fidarmi delle persone è un compito arduo, ma lui mi stava parlando con il cuore in mano. Lo invitai a confidarmi tutto ciò che volesse o sentisse la necessità di dirmi. Gli risposi: «solamente se anche tu farai lo stesso con me».

«Scendo subito». Indosso una felpa col cappuccio per evitare il freddo autunnale del Trentino. Prendo le chiavi di casa e mi precipito verso l'entrata.

Uscendo dalla porta mi ritrovo difronte ad un Antonio inquieto, turbato, insofferente. Lui si getta verso di me e mi abbraccia. Non dico niente, lo stringo forte a me. Sento le sue lacrime bagnarmi la felpa. Sento i suoi singhiozzi. Aspetto qualche minuto affinché possa sfogarsi e liberarsi da ogni preoccupazione. Anche lui mi stringe forte. È troppo fragile.

«Scusami» dice singhiozzante. «Perché ti scusi?» chiedo. Lui si allontana dal mio petto e si asciuga le lacrime, respira intensamente e confessa: «per averti deluso». Io, smarrito, mi avvicino a lui e lo invito a sedersi sui gradini del portico. Si siede e affonda la testa fra le sue mani. Sembra disperato, ma io non riesco a leggere la sua anima.

«Non sono stato del tutto sincero con te» continua. Ho paura di quello che potrebbe dire, ma lo ascolto, come gli promisi tempo fa. «So che hai incontrato Andrew». Inizio ad agitarmi, «sapevi fosse ritornato a Trento? Perché non mi hai detto nulla?» chiedo pacatamente. Lui alza gli occhi al cielo: «ci siamo incontrati qualche settimana fa. Mi ha raccontato tutto». Le parole fanno fatica a comporsi. A tratti singhiozza ancora. «Cosa ti ha raccontato esattamente?» sono incuriosito da quante menzogne possa dire una persona. «Sono veramente stanco di tenermi questo peso addosso» non risponde alla domanda. «Sono stanco di continuare a fingere che tutto ciò non sia colpa mia». «Adesso mi stai veramente spaventando. Ti prego, dimmi cosa succede» l'ansia prende il sopravvento.
Antonio fa un bel respiro: «ti ricordi di quella serata che abbiamo passato tutti e quattro insieme? Quando siamo andati a Bologna?». Annuisco, ma continuo a non capire. «Andrew mi aveva accennato ciò che stava succedendo tra lui e Ludovico, ma non ci volevo credere. Conoscevo Ludovico da anni e non mi sarei mai immaginato che avrebbe fatto una cosa del genere. Così decisi di non credergli, fino a quando non li sorpresi nella camera dell'hotel mentre tu eri in giro». Cerco di non agitarmi inutilmente, probabilmente l'ha fatto per il mio bene; ma non posso confessare di non sentirmi ferito. «Mike, dì qualcosa, ti prego» cerca di guardarmi negli occhi, ma abbasso lo sguardo. «Non so cosa dire. Cosa dovrei dirti? Cosa ti aspetti che dica?». «La verità» mi sfida. «La verità? Vuoi la verità? Il mio migliore amico sapeva che il mio ragazzo mi stava tradendo e non ha fatto niente per farmelo notare o, almeno, darmi il beneficio del dubbio. E adesso come potrò fidarmi di te? È questo quello che vuoi sentirti dire?» alzo la voce in preda alla rabbia. «Devo dirti un'altra cosa» ignora nuovamente ciò che dico. La mia espressione cambia in un batter d'occhio. Lo ascolto attentamente. «Andrew è tornato qui con uno scopo ben preciso» dice. «Quello di riconquistarmi? Mi dispiace, ma non sono in vena» alzo gli occhi al cielo. «No, questa volta è serio. So che non dovrei dirtelo e che dovrebbe essere una sorpresa ma ...» si ferma, come se volesse creare suspence. Io lo esorto con un netto «parla!». Sta tremando, adesso ho veramente paura che possa dirmi qualcosa che potrebbe rovinare la nostra amicizia definitivamente. «Andrew vuole chiederti di sposarlo».

Cala il gelo. Non riesco a percepire neanche un singolo angolo del mio corpo. Sono attonito, impietrito, sconvolto. Pensavo fosse difficile impressionarmi con qualcosa, ma questo va oltre le mie aspettative. Colgo l'ironia della situazione e cerco di smorzare la tensione. «Stai scherzando, vero?». Lui scuote la testa e continua a ripetermi che gli dispiace e che avrebbe voluto dirmelo prima. «So che per te è difficile accettare tutto questo, ma ti prego Mike, non voglio perderti» mi implora. Sono ancora troppo scosso per riuscire a comporre una frase minimamente dotata di senso. Continuo a guardarlo senza far trasparire nessuna emozione. «Mike, ti prego».

Mi alzo in piedi. Ho i pugni serrati, probabilmente tanta rabbia dentro di me, ma che non riesco ancora a esternare. Perché approfittarsi così di me? Perché volermi togliere tutto e poi tornare qui, dopo qualche mese, a cercare di fare da rimpiazzo? Perché volermi sposare? Io non credo di amarlo. Io non posso e non devo amarlo. Come si può amare chi ti ha portato ad odiare te stesso? Solamente un debole farebbe una cosa del genere. Forse, però, io lo sono.

«Ho bisogno di rimanere da solo» invito Antonio ad andare via. Anche lui si alza in piedi e prova ad abbracciarmi, ma non riesco a ricoprire il ruolo di migliore amico che lui mi ha attribuito, non riesco a perdonarlo, non adesso. Dopo aver rifiutato il suo abbraccio, lui non riesce a guardarmi negli occhi, abbassa lo sguardo. «Capisco tu voglia rimanere da solo, ma ti prego, non andare via da me». Come pretende che io possa perdonarlo? Come può pensare una cosa del genere?

«Prima che io me ne vada vorrei dirti una cosa». Continua con la suspence. «Tra una settimana parto per Barcellona». Non gli chiedo il motivo perché so che me lo dirà lo stesso. «Ernesto ha scelto me come supervisore per i meeting».

Sono contento per lui, triste per me, infuriato per la verità. Un mélange di sentimenti prende il controllo della mia mente, del mio corpo, delle mie parole. «Spero di vederti stasera per poter festeggiare» la sua voce è ridotta al minimo, le sue frasi infrante in monosillabi. Gli volto le spalle ed entro in casa. La rabbia mi spinge a rompere il vaso del mobile del corridoio. La rabbia mi spinge a sfogarmi.

Andrà tutto bene è ciò che continuo a ripetermi. Non può andare peggio di così. Nel giro di meno di dodici ore ho infranto il mio sogno più grande, ho incontrato chi mi ha rovinato la vita, perso la fiducia nel mio migliore amico e ricevuto una notizia che, in circostanza diverse, dovrebbe rendermi l'uomo più felice del mondo. Cosa sta succedendo? È solamente un sogno? È solamente un incubo? So solamente che non vedo l'ora di svegliarmi. Alice mi ha sempre insegnato a rendermi conto di chi siano i veri pazzi e a non confonderli con chi dicono di esserlo. Loro sono solo dei bugiardi; perché se sei pazzo, lo sei e basta, non hai bisogno di dimostrarlo.

Mi accovaccio sul letto e mi stringo alle lenzuola sgualcite. Sento la pressione del mio corpo aumentare, mentre il resto del mondo continua a raffreddarsi. Le emozioni pervadono i miei pensieri, la rabbia controlla il mio inconscio.

La situazione sembra essere diventata surreale. Tutto ciò che mi circonda non ha più senso, non ha più voglia di esistere. Desideravo solamente una vita normale, diversa, ordinaria. Ma mi sono ritrovato con delle persone che desiderano qualsiasi cosa tranne il mio bene. Continuo a riflettere sul perché Antonio abbia fatto una cosa del genere. Mi sembra inutile pensare che l'abbia fatto per il mio bene, perché così non è. Un amico mi avrebbe avvertito sul pericolo della situazione, soprattutto quando quest'ultima inizia ad essere nociva per me stesso, per sé stesso. È inutile illudermi del fatto che, se lui mi avesse detto la verità, qualcosa sarebbe cambiato. Non è così. Non è come voglio farmi credere. Ma non mi sento in grado di perdonare Antonio, non adesso, non subito. Ho bisogno di pensare al mio bene. Ho bisogno di escogitare un piano B, di andare via da tutto questo casino che si sta creando attorno a me senza il mio consenso. Ho bisogno di una vita in cui dovermi preoccupare solamente di quale Versace indossare e di quale meta scegliere. Forse Serena van der Woodsen non aveva tutti i torti. Ammiravo moltissimo il modo in cui decidesse di fare le valigie e partire alla scoperta di sé stessa, con la speranza che, una volta tornata, avrebbe trovato ciò che cercava. Ammiravo il modo in cui affrontava la vita, senza pregiudizi e senza paure. Ammiravo il modo in cui riparasse un cuore spezzato con un foulard di Gucci. Io, però, al contrario di Serena, non ho lo stesso conto in banca. L'unica cosa che ho è un mondo virtuale nel quale poter scaricare le mie frustrazioni e i miei tormenti interiori.

Prendo il cellulare, apro l'app di grindr. Una sfilza di modelli mi acceca la vista. La foto di un ragazzo brasiliano mi salta all'occhio. Il suo nome è XXL, ma so, per certo, che non si riferisce alla larghezza delle sue t-shirt o dei suoi jeans. Mando un tap. Dopo qualche secondo mi risponde con un "ciao". Saltiamo i convenevoli e lo invito a raggiungermi a casa. Mi chiede quale sia il mio ruolo, gli rispondo di non preoccuparsi, gli dico che avremmo deciso sul momento. Mi risponde con una foto del suo cazzo, stuzzicandomi nell'attesa lenta ma del tutto effimera.

Dopo qualche minuto sento bussare alla porta. Un ragazzo dalla statura media attende risposta. Gli apro e squadro ogni centimetro del suo corpo. Viso incorniciato da occhi verdi e una mascella scolpita. Capelli castani rasati ai lati e crespi sul centro. Il suo corpo è tonico, ma non eccessivamente. La vista cala sulle braccia, dipinte armoniosamente da qualche vena pulsante. Lui mi sorride facendo notare la dentatura perfetta. Si avvicina verso di me e comincia a baciarmi prepotentemente. Con un calcio chiudo la porta e mi concedo a ciò che Dio ha messo sulla mia strada.

Stringo con enfasi i suoi glutei, duri come il marmo, ma qualcos'altro sembra aver assunto la stessa consistenza; lui cerca di farmelo notare strusciandosi contro la mia coscia. Passo le mani sotto il suo maglione di lana e comincio a stuzzicargli i capezzoli. Sento le sue labbra ansimare. Si sposta e comincia a baciarmi il collo e a esplorare l'emisfero sud, io mi lascio andare a ondate continue di piacere mentre gioca con il punto giusto.

Gli prendo la mano e lo conduco verso la mia camera da letto. Lui mi toglie la felpa e, dolcemente, mi spinge contro il letto. Si mette a cavalcioni su di me e con la sua lingua esplora ogni singolo angolo del mio petto. Slaccia i miei jeans e mentre i miei vasi sanguigni si concentrano in un unico punto, mi rendo conto di quanto sia inutile il detto italians do it better, perché la sua dimestichezza con la lingua mi ha appena fatto cambiare idea.

Lo porto verso la mia bocca e comincio a baciarlo, a mordergli le labbra, a spingere il suo corpo contro il mio. Gli tolgo il maglione, lui comincia a strusciarsi verso la mia profondità, ma, ad un tratto, lo prendo dalla vita e lo adagio sul letto a pancia in giù. Gli tolgo i pantaloni e mi avvicino al suo orecchio: «oggi comando io». Lui si morde un labbro e mi lascia fare. Con la lingua gli lecco la schiena e, in seguito, mi avvicino verso la sua profondità. Dio quanto è bello. Lui continua ad ansimare, stringe le lenzuola. Chiude gli occhi. Dopo qualche istante apro il cassetto del mio comò e tiro fuori un preservativo. Lo apro con i denti e lo sistemo sulla mia erezione. Gli chiedo: «vuoi che usi il lubrificante?». Lui scuote la testa e, lentamente, entro dentro di lui.

Non c'è niente di meglio del sesso per rabbia.

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