Capitolo 21
"Ti consegno anche i miei segreti
ma non li chiamerei più tali,
visto che già siamo in due
a conoscere i dettagli."
Mike è seduto sul divano in pelle nera del mio appartamento. Tra le mani stringe un bicchiere d'acqua inutilizzato e il suo sguardo è perso nel nulla. Ha un aspetto terribile, anche se per me lui rimane bellissimo. Il suo umore è a terra e lo dà a vedere. Vorrei cominciasse a parlare per liberarmi da questa tensione che avvolge il mio corpo da fin troppo tempo ormai.
Io, invece, sono seduto su una sedia in legno di fronte a lui. Non dico una parola. Aspetto che sia lui a cominciare, non vorrei metterlo sotto pressione. Non voglio che si senta obbligato a rispondere. Con me lui sarà sempre libero di dire ciò che gli passa per la testa senza troppi pensieri.
Eppure, ne avrei di cose da dirgli. Gli direi di come mi ha strappato via il cuore, di come mi ha stravolto la mente, di come mi ha mentito senza alcun timore. Ma, allo stesso tempo, gli direi di come non me ne importa niente e che vorrei solamente fare l'amore con lui.
Lo so, è assurdo avere certi pensieri in determinate situazioni, ma ripeto: per me lui rimane bellissimo. E dal primo istante in cui i nostri sguardi si sono incrociati, ho continuamente fantasticato su come sarebbe stato toccare il suo corpo, vederlo godere sotto ai miei occhi, sentirlo ansimare al cospetto del mio tocco delicato.
Tutto è rimasto così com'era prima che mi rendessi conto che Mike era svenuto sull'asfalto: la tavola ancora apparecchiata, la tv accesa e le finestre spalancate. L'unica differenza è che la radio è ormai spenta, non è più necessario tenere una musica di sottofondo. Adesso vige il silenzio. Un silenzio talmente tagliente che ho persino paura di tossire o di respirare.
«Sei arrabbiato con me?» Finalmente sento una luce.
Scuoto la testa. «Perché dovrei?» Chiedo affinché possa continuare a parlare. Odio il suo silenzio.
«Ti ho mentito e so che non avrei dovuto farlo. Purtroppo è tanto difficile per me» dice con voce quasi rotta. Poggia il bicchiere sul tavolinetto in vetro.
«Cos'è difficile?»
«Tutto» risponde ancora scosso.
Si alza in piedi e si avvicina verso di me. I suoi occhi non si staccano dai miei. Mi sento tempestivamente osservato. Ma lui, lui può.
Si siede sul tavolino. «Dopo ciò che sto per raccontarti, potrei capirti se tu volessi scappare via da me. Ti capirò. Non dovrai giustificarti».
«Io non vado via» sentenzio. Lui accenna un sorriso. Prende le mie mani e le stringe solo come lui sa fare stabilendo tra di noi una connessione mentale quasi inscindibile. Sono agitato, sono nervoso, ma sono qui per lui, soltanto per lui.
«Dimmi quando sei pronto» dice con voce flebile. Annuisco inspirando un po' d'aria fresca.
«Tutto è cominciato ventiquattro anni fa. Esattamente il dieci ottobre del millenovecentonovantacinque, il giorno in cui sono nato. So che può sembrare assurdo, ma le disgrazie sono cominciate da lì» comincia. Io non accenno al minimo movimento facciale. Non vorrei che le mie espressioni possano turbarlo. Però, non capisco come la sua nascita possa essere motivo di cotanta disperazione.
«Un giorno mia madre scoprì di essere incinta, ovviamente di me. All'epoca lei aveva solamente sedici anni, ma mio padre era più grande di lei di circa quindici anni. Lui era già pronto a diventare padre, ma lei no. Non aveva il coraggio di rinunciare alla sua vita per uno come me» deglutisce per qualche istante prima di proseguire. «All'inizio pensò di abortire e di riprovarci dopo qualche anno, quando sarebbe diventata più adulta, insomma quando sarebbe stata pronta per essere madre. Mio padre, però, gli fece cambiare idea identificandomi come un dono dal cielo». Adesso accenna un mezzo sorriso. È così tenero quando sorride.
«E lei cosa decise alla fine?» Chiedo.
«Entrambi decisero di tenermi. Mio padre gli promise che non l'avrebbe mai lasciata per nessun motivo al mondo. E così fece» sospira lentamente. «Ma dopo la mia nascita cominciarono i veri problemi». Il suo tono diventa improvvisamente più cupo.
«I primi anni della mia infanzia furono bellissimi. Mia madre capì di aver commesso un tremendo errore nel pensare minimamente di abortire. Il nostro rapporto è sempre stato intenso. Ricordo perfettamente le nostre passeggiate, i pomeriggi passati insieme, i nostri momenti». Si alza dal tavolinetto e comincia a camminare per la stanza. I miei occhi sono fissi sui suoi movimenti.
«All'età di cinque anni, però, tutto cambiò. Mio padre perse il lavoro e io cominciavo già a capire chi ero veramente. Non facevo nulla di male, ovvio. Chiedevo solamente rispetto nei confronti di un bambino che invece di giocare con le macchinine e i dinosauri, voleva divertirsi a vestire e pettinare le Barbie. Capisci cosa voglio dire?» mi guarda per qualche istante. Io annuisco.
«Avrei solamente voluto essere libero in ciò che facevo, indipendentemente da quello che era il mio corpo e il mio presunto orientamento sessuale. Perché credo che all'età di cinque anni queste piccolezze non dovrebbero essere così rilevanti». Da queste poche parole riesco a percepire la situazione di imbarazzo e disadattamento che deve aver subito in quegli anni.
«Cominciò a bere» annuncia furioso, ma in un modo non del tutto nuovo alle sue orecchie. «La sera quando tornava a casa cominciava a picchiarmi dicendomi che ero tutto ciò che un genitore non avrebbe mai voluto. Per anni subii violenze di qualsiasi tipo: mi legò a una sedia, mi immerse in acqua gelida, mi costrinse a guardare dei porno con lui. Diceva che così avrei potuto aggiustare ciò che c'era di sbagliato in me».
Con una mano copro la bocca, incredulo per ciò che ho appena sentito. Posso minimamente immaginare come si sia sentito. Ho le lacrime agli occhi, ma cerco di trattenerle per non appesantire la sua situazione.
«Varie sono state le volte in cui ho provato a ribellarmi. Una volta lo lasciai moribondo sul pavimento della cucina di casa nostra, ma mia madre se ne accorse e chiamò aiuto subito. Pensavo di essermene liberato per sempre, ma non fu così. Lui tornava sempre, si riprendeva sempre. Neppure fuggire sembrava essere un'opzione realizzabile» adesso guarda da un'altra direzione, distoglie l'attenzione da me. «Non sai quante volte io abbia provato a prendere un fottutissimo treno che potesse portarmi lontano da lui. Ahimè, i bigliettai non volevano vendermi nulla perché ero troppo piccolo per partire senza il consenso dei miei genitori».
Beve un sorso d'acqua per schiarirsi la voce. «Questi episodi, questi brutti ricordi continuano a perseguitarmi anche adesso che sono andato via. Ogni notte ho degli incubi su un abuso diverso che ho subito durante gli anni della mia infanzia e della mia adolescenza. Io non ce la faccio più. Lo odio!» scaraventa il bicchiere contro il pavimento lasciandosi andare a un pianto isterico pieno di rabbia e di paura. Sobbalzo per l'impatto, ma istintivamente mi alzo dalla sedia e gli vado incontro. Lo tengo stretto in un abbraccio mentre continuo a sussurragli all'orecchio che andrà tutto bene.
Le sue lacrime bagnano la mia maglietta, ma ciò che mi ferisce di più è che bagnino anche il mio cuore. È straziante vederlo così, ma è ancora più straziante non riuscire a fare nulla per poterlo aiutare. Sono impotente, sono inutile.
Aspetto che si tranquillizzi un po' prima di allontanarmi da lui e lasciare che prosegua con il suo racconto, con il suo momento di sfogo.
«Mi dispiace» riprende asciugando le lacrime con un fazzoletto. «Prometto che ripulirò tutto. Non so perché mi sia comportato così».
Accenno un sorriso. «Non importa, stai tranquillo».
Riprende la calma e si siede nuovamente sul divano. «Crescendo negli anni risultava sempre più difficile per lui avere il controllo sulla mia vita e su quelle che erano le mie preferenze sessuali, così cominciò a limitare la mia vita sociale. Una volta tornato da scuola mi chiudeva in camera ed era esclusivamente lui a decidere quando liberarmi, come se fossi un essere pericoloso per la sopravvivenza umana. La sera, però, riuscivo a scappare per incontrare i miei amici e rientrare il mattino seguente senza che lui se ne accorgesse. Ma non ho mai detto loro cosa succedeva a casa mia, avevo troppa paura».
«E tua madre non ha mai fatto nulla?» Chiedo senza peli sulla lingua. La situazione mi fa infuriare.
«Subiva anche lei. Subiva continuamente. Quando mi chiudeva in camera, era il turno di mia madre. Sentivo le sue urla trapanarmi le orecchie e io, impotente, davo pugni alla porta affinché la smettesse, affinché picchiasse me piuttosto che lei. A volte ciò funzionava, ma altre volte mia madre era così mal ridotta da non riuscire nemmeno a parlare». Le lacrime ricominciano a rigare il suo volto. «Non riuscirò mai a perdonarmi di non essere stato capace di difenderla».
«Non è colpa tua» cerco di tranquillizzarlo.
«Lo so, ma in un modo o nell'altro è anche colpa mia». Sto zitto. «La mattina, invece di andare a scuola, potevo andare dalla polizia e denunciarlo, ma non l'ho mai fatto. Ero un codardo, avevo paura che ciò potesse ripercuotersi anche su mia madre».
Le mie mani cominciano a tremare, è tutto così surreale.
«Purtroppo la situazione era così inusuale da sembrare normale. Ho capito con il tempo che tutto ciò non era normale. Se stai bene con te stesso, perché qualcun altro dovrebbe farti credere il contrario?»
«Esatto» annuisco.
«Quando avevo dodici anni, mia madre scoprì di essere incinta un'altra volta. Questa volta di mia sorella. Il suo arrivo sembrò cambiare la situazione drasticamente. Mio padre non era più così violento come prima, soprattutto con mia madre. Quelle poche volte che mi picchiava, sembravano carezze in confronto. Sembrò davvero un uomo diverso, un uomo sobrio. Un uomo che si preoccupava per la sua famiglia. Io ero davvero incredulo» alza gli occhi al cielo per qualche stante, poi fa spallucce, probabilmente notando il mio sguardo perplesso.
«Lo so, anche io ero abbastanza confuso. Era come se il mio padre reale fosse stato scambiato con un prototipo migliore, quasi umano. Decise addirittura di scusarsi con me e mia madre, promettendoci che sarebbe cambiato. E così fu: si ripulì e trovò un altro lavoro. Comunque... con la nascita di mia sorella tutto tornò alla normalità. Fino a quel giorno» annuncia.
«Quale giorno?» chiedo con il battito cardiaco a mille. Ho ancora più paura, come se ci fosse qualcosa di peggio di quello che mi ha appena raccontato.
«Avevo appena compiuto diciott'anni e da poco preso la patente. Un giorno mi disse che saremmo usciti insieme, per passare un po' di tempo solamente padre figlio» la sua voce comincia a farsi più nostalgica, quasi fredda. «Per me non c'era nulla di strano dato che ormai era da anni che non mi picchiava più. Ormai non c'era più niente da temere. Ho seriamente voluto dargli un'altra opportunità».
Non so perché, ma stento a credere che un uomo del genere possa essere cambiato improvvisamente.
«Guidò lui quel giorno. Tutto andava bene fino a quando non vide quel dannatissimo semaforo rosso» si ferma. I suoi occhi sono ormai consumati dal pianto eccessivo. «Quel semaforo rosso cambiò le nostre vite, mi fece aprire gli occhi. Andava oltre il limite di velocità e investì una donna che stava attraversando le strisce pedonali» comincia a piangere di nuovo. Adesso in alternanza con singhiozzi che spezzano la sua voce.
«Entrambi scendemmo dall'auto per vedere in che condizioni si trovava la donna. Io ero sotto choc, non riuscivo a respirare. La donna, invece, era immobile sull'asfalto. Chiamai subito un'ambulanza per spiegargli la situazione. Dopo qualche istante arrivarono accompagnati dalla polizia che ci interrogò. Quando a mio padre venne chiesto chi era alla guida, lui rispose che ero stato io».
Stringe le mani come se stesse pregando. «Lì capii che, in realtà, quel padre meschino e violento non era mai scomparso. Si era sempre nascosto dentro di lui aspettando di uscire nel momento giusto».
Io sono sconvolto. Non so come reagire, né tantomeno cosa dire. Lui sembra capirlo, infatti non si aspetta nulla da me.
«La donna morì dopo un periodo di coma e gli anni seguenti furono un inferno. Andammo a processo nonostante io sapessi la verità, nonostante avessi la possibilità di rovinargli la vita».
«Perché non l'hai fatto?»
«Non l'ho fatto perché mi minacciò. Mi disse che se avessi detto la verità, lui avrebbe ricominciato a fare del male a mia madre e... ad Abigaille, mia sorella» confessa con qualche gemito di paura.
Scuoto la testa e spalanco la bocca, incredulo ancora una volta di ciò che sto ascoltando.
«Il mio avvocato mi disse che rischiavo fino a sette anni di carcere. Io non sapevo cosa fare, avevo paura, avevo diciott'anni e volevo solamente scomparire dalla faccia della terra e così... lo feci, o almeno ci provai».
Il mondo si ferma per qualche istante, così come il mio cuore.
«Il giorno prima della sentenza finale, rubai in casa dei miei genitori tutte le pillole che avevano. Le inghiottì... una dopo l'altra, fino a non respirare più. Andai in overdose».
Il mondo si ferma del tutto.
Lui prosegue quasi subito: «mia madre mi trovò, subito dopo, senza sensi sul pavimento del bagno. Dopo quell'evento intervennero gli assistenti sociali e la polizia nonostante io fossi maggiorenne. Mi spinsero a dire tutta la verità su mio padre. Trovai il coraggio e confessai l'accaduto sull'incidente. Lui venne arrestato e, a causa dell'età, condannato a soli tre anni di reclusione» si alza in piedi di scatto. «Quei tre anni passarono talmente in fretta da non avere nemmeno il tempo materiale per pensare a una fuga, ma dovetti farlo. A ventun anni mi trasferii a Trento e chiesi a mia madre di seguirmi, ma non volle farlo perché aveva paura. Quindi partii da solo prima che lui potesse rivedermi, tagliando ogni ponte con la mia famiglia. È per questo che dico di non averne più una da tanto tempo. Probabilmente non l'ho mai avuta».
Mi guarda fisso. Il silenzio circonda la stanza per l'ennesima volta. Entrambi viviamo di silenzi, di attimi sprecati. Ho paura di incontrare il suo sguardo perché ciò significherebbe dire qualcosa, ciò significherebbe reagire a ciò che mi ha appena confidato. Com'è possibile trovare delle parole sensate e, magari, anche di conforto di fronte a un'atrocità simile? L'unico sentimento che sento esplodermi dentro è compassione. Compassione per ciò che ha subito. Compassione per aver vissuto con una famiglia che non può definirsi tale. Compassione per quella che sarebbe potuta essere la sua vita. Mi esplode il mondo dentro, ma io non so cosa dire. Mi ha appena vomitato i suoi segreti più cupi addosso e io non so se sentirmi onorato o spaventato. Non so se dovrei scappare via o stare qui ad aiutarlo a rimarginare le sue ferite. Non è qualcosa che riuscirebbe a fare chiunque e io non so se sono pronto, non so se a lui andrebbe bene il modo in cui cerco di rimarginare. Adesso so chi è, so chi è stato. So che non si sarebbe mai confidato così con chiunque e ciò mi gratifica.
Mi alzo dalla sedia e mi avvicino a lui nella speranza che mi venga in mente qualcosa da dire, nell'attesa di una suspense infinita, orribile e lancinante. Sono ancora scosso, vorrei piangere per lui, vorrei urlare per lui perché so, per certo, che Mike non l'ha fatto abbastanza.
Il tempo passa troppo lentamente mentre la stanza diventa sempre più piccola.
Esplodo.
«Mike, tu mi piaci!». Le parole mi tradiscono. Non riesco a credere a ciò che ho appena detto.
Lui si gira di scatto verso di me. «Anche tu mi piaci, Éric. Sei una persona fantastica».
«No, tu mi piaci per davvero. Mi piaci in un senso inspiegabile» insisto.
Lui spalanca gli occhi. «Io... io» balbetta prima di darsela a gambe e lasciarsi me e ciò che mi ha appena confidato alle spalle, e probabilmente per sempre.
Io, invece, resto qui tra gli scarti della sua vita, nell'immensa vergogna della sincerità, nell'assoluto vuoto dei suoi sentimenti. Resto qui mentre la stanza, ormai troppo piccola per la dimensione del mio corpo, sembra non avere nemmeno un angolo nel quale nascondersi.
Ciò che vedo è di nuovo il nulla, oltre che una porta sbattuta in faccia.
Alla fine, sei stato tu quello a scappare da me.
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