Capitolo 14

Mike

Valuto attentamente se acquistare o meno l'oggetto di tanto stupore e ammirazione che ha catturato la mia attenzione, ma abbandono subito l'idea per evitare di apparire come un poco di buono agli occhi di Éric. Penso non sia il caso, soprattutto perché ci siamo appena conosciuti. Cosa potrebbe pensare di me? Certo, è inutile sostenere questo discorso dopo aver esplicitamente affermato che utilizzerei un dildo a forma di Tour Eiffel durante le mie notti brave, ma in fin dei conti il piacere è un peccato umano dal quale è impossibile evadere, in qualsiasi forma esso si manifesti.
Distolgo lo sguardo su un'altra vetrina in seguito alle occhiatacce ricevute da passanti abbastanza loschi, in modo tale da evitare qualsiasi commento di carattere omofobo. Ripongo il cellulare nella tasca e scruto Éric con la coda dell'occhio, il suo sguardo è privo di espressione, sembra quasi pensieroso, come se volesse dirmi qualcos'altro. Difatti mi turba il fatto che abbia deciso di far morire la conversazione dopo la mia risposta ad alto tasso ormonale, avrei apprezzato qualche altro commento stuzzicante. Purtroppo non è colpa mia se è da giorni che il mio cazzo cerca di incoraggiarmi a darmi da fare. Sono passati mesi dall'ultima volta in cui ho avuto un orgasmo in compagnia. Da allora solamente monologhi nel cesso di casa mia per evitare che Andrew potesse vedermi. Non è colpa mia se il mio corpo ha dei desideri che necessitano di essere soddisfatti, e non è affatto semplice pensare ad altro con un culo scolpito come quello di Éric che cerca di trascinarmi verso la parte oscura.
«Tutto bene?» chiedo per distrarmi, i cinque secondi spesi ad ammirare i suoi glutei di marmo hanno fatto concentrare la pressione del mio sangue in un unico punto.
Lui si gira verso di me e sorride. «Sì, perché non dovrebbe?» tossisce.
«Non saprei, spero che la mia risposta non ti abbia turbato. Non penso di essere il primo ragazzo gay che incontri nella tua vita» chiarisco la mia identità a scanso di equivoci.
«Non sarai nemmeno l'ultimo, stai tranquillo» sorride un'altra volta.
Cosa avrà voluto dire con questa risposta? È gay anche lui? Vorrei chiederglielo ma essere indelicato risulterebbe spiacevole.
«Anche a te piacciono i ragazzi?» mando a puttane le mie insicurezze. Come al solito.
«Non mi piace identificarmi in qualcosa, diciamo che sono uno strano individuo aperto a tutto» spiega. Mi fa l'occhiolino, poi accenna un altro sorriso. Penso di star impazzendo.
«Mi piace il fatto che non senti la necessità di imporre delle etichette. La libertà dovrebbe essere apprezzata a trecentosessanta gradi» continuo.
«In fondo siamo noi i primi a sentire il bisogno di essere liberi, ma con il tremendo errore di dover imporre delle etichette, non credi?» chiede. Mi sento in imbarazzo, non ho mai interpretato questo discorso in maniera così estrema; forse perché nessuno me l'aveva mai fatto notare, ma un fondo di verità in realtà sembra esserci. Non so cosa rispondere, tantomeno non so se rispondere sia necessario.
«Davanti a un caffè riesco a essere più loquace. Che ne dici di incamminarci verso il bar?» lo costringo a rimandare il discorso. Non sapere cosa dire mi mette tremendamente a disagio. Lui annuisce e sorride per l'ennesima volta. Infila le mani nelle tasche dei suoi pantaloni e mi fa strada. Io lo seguo, ma è impossibile non fermarsi ad ammirare il carattere pittoresco di queste strade. La maggior parte dei negozi sono simili tra loro, ma alcuni risaltano più di altri. Noto una certa calca in un negozio dell'usato, mi avvicino per capire il motivo di cotanta baldoria. Una lavagna con cavalletto informa i potenziali clienti che solo per oggi ci sarà un'offerta speciale: l'indumento che costa di meno sarà gratuito, con il solo obbligo di dover acquistare minimo tre capi. Do una rapida occhiata tra le giacche esposte all'esterno del negozio. Hanno una variazione di colori posta in scala cromatica. Tra tutte, una di queste cattura la mia attenzione: una giacca di pelle piena di borchie e catene. Molto minimal, insomma; ma non importa perché la amo. Guardo la targhetta del prezzo: la modica cifra di sessantacinque euro mi sembra esagerata per le mie tasche, nonostante si tratti di un capo più unico che raro e in vera pelle. Il mio lato spendaccione cerca di trovare un compromesso con l'altra personalità avara, ma senza nessun riscontro positivo. Mi lascio alle spalle una delle giacche più kitsch che abbia mai visto, con la speranza di poterci incontrare nuovamente.

Nuove vetrine. Nuove sciccherie. Tazze a forma di seni, matite a forma di pene con il prepuzio che funge da gomma, semplici portacenere con la scritta "I love sex" e simpatici dadi con differenti posizioni del kamasutra per ogni faccia. È impossibile non fermarsi a osservare. Persino le persone più caste si soffermerebbero davanti a tale spettacolo.

Camminiamo per qualche altro metro. Éric non proferisce parola, nemmeno per esprimere dissenso all'ennesima sosta in negozi del tutto uguali. Ma io ho bisogno di curiosare e lui sembra capire. D'altronde è la prima volta, da quando sono qui, che decido di bighellonare per le strade della città senza uno scopo che sia rifornire il frigorifero o portare delle carte all'università. È tutto così nuovo che sento la necessità di godermi ogni istante.
«Siamo quasi arrivati» esordisce Éric.
Distolgo lo sguardo dal suo corpo perfetto per notare come ciclisti e pedoni riescano a camminare pacificamente sulle corrispettive corsie. Non pensavo fosse possibile viste le recenti esperienze nella mia città natale e a Trento, dove pur di arrivare in orario si rischia la vita tra autobus massicci, cinquanta volte più grandi. Non pensavo fosse possibile soprattutto perché Éric qualche istante fa ha sbraitato contro un tale che gli ha tagliato la strada. Come si dice? Tutto il mondo è paese.
«Eccoci! Finalmente» Éric cerca di annunciarmi qualcosa. Alzo lo sguardo per ritrovarmi difronte a una maestosa e immensa costruzione dal colore rosso, perlopiù bordeaux. Un simbolo così iconico ma considerato come una delle minori attrazioni della capitale francese. Il mulino più conosciuto al mondo, soggetto di bordelli serali e musa ispiratrice per i capolavori e i manifesti di Toulouse-Lautrec, nonché luogo di diletto rinomato per i tradizionali spettacoli di can-can.
Sbatto ripetutamente le palpebre per essere certo della visione maestrale alla quale sto assistendo. Ladies and gentlemen, Miss Moulin Rouge.
Adesso penso sia ufficiale, adesso penso di essere cosciente al cento per cento di dove sono. Cazzo.
La bocca è spalancata, gli occhi sgranati a causa dell'eccitazione, tutto mi sembra così surreale, così perfetto.
«Voulez-vous coucher avec moi ce soir?» Éric mi distrae dal contatto diretto e intenso con la sede del Burlesque per eccellenza, canticchiando una delle canzoni più conosciute dell'ambito. Sento la sua risata propagarsi nelle mie orecchie, ma io sono ancora su un altro pianeta.

Passa qualche minuto prima che possa prendere piena coscienza di dove mi trovo. «È una richiesta seria?» chiedo a Éric. Lui sorride e alza lo sguardo. «Beh, mi sembrava adatta per il luogo in cui ci troviamo. Di certo nessuno di noi è come Lady Marmalade ma ...» lo interrompo «parla per te, e comunque non hai risposto alla mia domanda» insisto. Non so dove riesca a trovare il coraggio. Sembra come se mi piaccia creare situazioni imbarazzanti.
«Ovvero?» fa il finto tonto. Ghigna ripetutamente.
«Se la tua richiesta fosse seria o meno» aggiungo.
Lui tenta di guardare altrove, si allontana dai miei occhi, odio quando lo fa. È così bello trovare una scusa per poter fissare i suoi.
«Diciamo che potrei valutare la tua offerta» scherza. Si avvicina verso di me, ma continua a non degnarmi di uno sguardo.
«La mia offerta? Non mettermi in bocca cose che ...» vengo interrotto dalla sua risata, non capisco il motivo, ma subito dopo mi rendo conto di ciò che ho appena detto e del doppio senso che chiunque avrebbe potuto interpretare. «Sei un pervertito» esclamo. Lui continua a ridere a crepapelle. «Non era mia intenzione. D'altronde ti ho appena chiesto se useresti un dildo a forma di Tour Eiffel, mi hai chiesto della mia sessualità e se ti andrebbe di passare una notte con me. Questo dovrebbe essere insignificante tra le altre cose» spiega tra una risata e l'altra.
«Continui a essere un pervertito per me» sentenzio. Mi lascio andare a una risata forzata.
«Dai, su. Stavo scherzando. Andiamo, così ti offro questo caffè» continua beffeggiandosi di me.
«Visto l'orario, ti toccherà offrirmi un pranzo, non credi? Ma prima ...» tiro fuori il cellulare dalla mia tasca «devo immortalare questo momento, questo luogo. È importante conservare i propri ricordi, potrebbero non rimanere per sempre con noi» continuo.
«Per caso sei un influencer?» chiede sarcastico.
Scatto tre foto all'immensa superficie di Boulevard de Clichy, poi mi volto verso di lui per rispondere alla sua domanda: «non è il mio fine ultimo nella vita e non lo disdegno come possibile impiego, ma richiede un lavoro enorme, contrariamente a ciò che la gente dice. Non si tratta di scattare delle foto e basta, servono competenze in marketing, comunicazione, informatica e chi più ne ha più ne metta». Scatto un'altra foto. Éric continua ad ascoltarmi, sembra che le mie opinioni gli interessino. È così strano sentirsi ascoltato e apprezzato.
«Ma per il momento» scatto l'ennesima foto all'entrata del Moulin Rouge «mi limito a tenere tutto ciò per me e per il numero modesto dei miei followers su Instagram» sorrido.

Controllo la qualità delle foto per evitare che ci sia qualche sfocatura indesiderata. Guardo il viso di Éric, adesso sembra così rilassato. Apro la fotocamera frontale del cellulare.
«Vieni qui» gli ordino.
«Non sono fotogenico» cerca di difendersi dopo aver capito il mio intento.
«Mi vuoi far credere che un fotomodello e protagonista di spot pubblicitari non sia fotogenico? Ritenta con un'altra scusa. Vieni qui» ripeto nuovamente.
«È diverso. Sono costretto a farmi fotografare per soldi» continua con le scuse.
«Allora offrirò io il pranzo, l'importante è che vieni qui e ti fai scattare una foto insieme a me».
Lui sembra arrendersi, china leggermente il capo e si posiziona al mio fianco. Poggia la mano sul mio bacino, quasi vicina al mio sedere. Deglutisco per evitare ulteriori rigonfiamenti. Posiziono il cellulare in modo tale che possa riprendere sia noi che il meraviglioso quartiere di Pigalle. Éric improvvisa un sorriso forzato, si nota che è in forte imbarazzo. Non è a suo agio. Mi affretto a scattare quattro foto consecutive per lasciarlo in pace.
«Addirittura quattro foto? Ti toccherà offrirmi anche il dolce per questo» sentenzia. Continua a sorridere, ma questa volta per davvero.
«E se un giorno dovessi diventare un influencer di successo? Potresti vendere queste fotografie e guadagnare qualcosa. Quindi dovrei essere io a chiederti un compenso» scherzo. Entrambi ci abbandoniamo a risate goliardiche.

Dopo qualche battuta sui prezzi stratosferici per un singolo biglietto per assistere a uno degli show di cabaret all'interno del Moulin Rouge, decidiamo di dirigerci verso lo store di Starbucks che si trova difronte al locale icona delle serate parigine nel quartiere a luci rosse.
L'atmosfera è abbastanza tranquilla. Il bar è animato da qualche studente alle prese con il proprio laptop e qualche businessmen intento a sbraitare al cellulare contro i propri dipendenti o colleghi. Ci accoglie un ragazzo che normalmente identificheremmo come il tipico Californian boy: capelli lunghi, abbronzatura decisamente falsata e bicipiti pompati al massimo da non riuscire nemmeno a piegare fino in fondo le braccia. Mi chiedo come sia riuscito a farsi assumere.
Éric studia a fondo il menù, per poi optare per una mini baguette al pollo e pomodoro, mentre io scelgo un'insalata di pasta. Entrambi ordiniamo un blonde americano da bere, solamente per poter farci firmare il caffè da passeggio. Purtroppo, dopo aver ripetuto per tre volte il mio nome al ragazzo dai capelli biondi, decide di arrendersi e optare per un semplice "mic", chiamandomi automaticamente "microfono". Éric trova la situazione così divertente da non riuscire a smettere di ridere. Come prima esperienza in questa famosa catena di ristorazione non c'è male. La prendo sul ridere anche io. Probabilmente avrei sbagliato persino io dopo aver dovuto ascoltare e trascrivere centinaia e centinaia di nomi. Visti anche i miei trascorsi come cameriere, mi sa che lascerò correre questo errore insignificante. Infondo, Mic non è poi così male, potrei anche prenderlo in considerazione come alternativa al mio soprannome attuale.

Mi avvicino alla cassa per porgere la mia carta di credito al commesso, ma la mano di Éric mi blocca il braccio e insiste per offrirmi il pranzo. Dopo una serie di discussioni e ramanzine sull'essere fedeli alle proprio promesse, decide di zittirmi con un semplice: «tu offrirai la prossima volta». Mi sento in imbarazzo. Non è una novità per me, non ho mai capito il perché. Non si tratta di una lotta di supremazia, ma di un semplice fatto che ci si debba sempre sentire in dovere con chi cerca di essere carino con te. Alla fine decido di farmi da parte e di lasciarlo fare.
«Almeno sono sicuro che così ci sarà una prossima volta» continua. Io sorrido all'udire quelle parole, sento una fitta allo stomaco, ma sembra essere piacevole. Non si tratta di farfalle nel basso ventre, ma di una sensazione che mi indica che mi sento bene in questo preciso istante, che sono felice, che sono sereno.
D'altronde era da tempo che non riuscivo più a sentirmi così. La mia serenità e la mia spensieratezza sono state messe a dura prova da uno stronzo che mi aveva promesso di darmi amore, ma che alla fine dei conti mi ha dato tutto tranne che quello. Uno stronzo di cui ancora oggi porto il nome tatuato sul cuore. Uno stronzo il cui atteggiamento saccente e sarcastico hanno fatto sì che indietreggiassi con il mio percorso di vita. Uno stronzo il cui appellativo che ho utilizzato per descriverlo è piuttosto mediocre. Continuo a ripetere a me stesso che lui non è più nella mia vita, non è più il centro dei miei pensieri, non è più il primo nome che pronuncio al mattino e nemmeno l'ultimo che sussurro la notte prima di andare a dormire. È un nome, uno tra tanti. Un nome la cui pronuncia mi fa ancora sussultare, mi fa ancora accapponare la pelle, ma di certo non come prima. L'unica cosa che mi domando è: sono pronto a riprendere la mia spensieratezza?

Ci accomodiamo in un tavolo per due vicino alla finestra centrale del bar, con una vista mozzafiato su Boulevard de Clichy e il Moulin Rouge. Chiedo a Éric di scattarmi una foto mentre sorseggio il mio blonde americano, da poter mandare ai miei amici sparsi per il mondo e per aggiornare il mio feed. Lui non sembra essere infastidito, anzi continua a chiedermi se potrebbe mai avere una carriera da fotografo; ma mi ci è voluto qualche minuto prima di capire che stesse scherzando. Sono un completo idiota.
«Ti fa ancora male la caviglia?» chiede addentando il suo panino.
Muovo leggermente la gamba che ha subito l'impatto con il pavimento. «No, per niente. Mi sento come nuovo. Te l'avevo detto. Era solamente questione di tempo».
«Non si è mai troppo sicuri nella vita. Volevo evitare di averti sulla coscienza» sorride prima di dare un altro morso alla sua mini baguette.
«Toglimi una curiosità» chiedo. Cerco di distogliere l'attenzione su di me. Mangio una forchettata di insalata.
«Ho un déjà vu. È la tua frase preferita, per caso?» esordisce. Alza un sopracciglio nella speranza che io continui a parlare.
«Sono una persona abbastanza curiosa anche io, ma a modo mio» spiego. Entrambi sobbalziamo a causa di un incidente in cucina che ha visto come protagonista il cameriere dalla corporatura robusta.
Riprendo il discorso: «come fai a saper parlare italiano? Non mi sembra sia una lingua così diffusa in Egitto, tantomeno qui in Francia, nonostante sia un paese confinante» chiedo.
«Diciamo che è una tradizione familiare. Mia mamma era di origini italiane. I miei bisnonni materni erano di Torino, prima che decidessero di trasferirsi al Cairo alla ricerca di fortuna». Continuo ad ascoltarlo attentamente.
«Da allora hanno tramandato la cultura italiana e tutto ciò che ne concerne alle generazioni che li hanno succeduti. I miei nonni materni hanno appreso l'italiano, così come i miei genitori e, di conseguenza, anche io e mio fratello» conclude. Lascia cadere una fetta di pomodoro sul piatto.
«È una storia fantastica. È come se una parte di loro fosse sempre con voi» commento. Scosto i capelli davanti ai miei occhi per osservarlo meglio.
«Sì, e li ringrazio ogni giorno per questo. È stato anche grazie a loro se ho deciso di partire alla scoperta di ciò che c'è al di fuori del continente africano e, in parte, asiatico» aggiunge. È così piacevole stare ad ascoltarlo che lo farei per ore. Ha un modo di parlare così attraente e una voce così calda da essere quasi stimolante.
«Sei mai stato in Italia?» chiedo affinché possa continuare ad ascoltare il suono soave della sua voce.
«Sfortunatamente no. Ma ho sempre voluto poterla visitare. Durante l'adolescenza non ho mai avuto la possibilità di andare all'estero. Gli unici interlocutori con cui interagire era la mia famiglia» spiega. «La vita lì era così monotona che per svagarci dovevamo implorare nostro padre a portarci a casa dei miei nonni per farci giocare a biliardo. Un vero spasso» continua sarcastico. Controlla l'orario.
«Sai anche giocare a biliardo, quindi? C'è qualcosa che non sai fare?» chiedo. Lui sorride.
«In realtà ci sono tante cose che non ho mai avuto occasione di fare».
«E allora perché non le fai?» lo incito.
Lui è titubante. «Ho quasi trent'anni. Non è così facile rimettersi in gioco alla mia età, soprattutto quando nessuno è pronto a offrire nuove opportunità a un ragazzo non più così tanto giovane» spiega. Fa una smorfia.
«Hai quasi trent'anni. Hai ancora un'intera vita davanti a te. Non puoi permettere che qualcuno ostacoli i tuoi sogni e i tuoi desideri». Poggio le mani sul tavolo, lascio scivolare la forchetta sul piatto.
«Non è così facile. I sogni sono costosi e hanno un tempo limitato affinché si possano avverare». Non è dispiaciuto, sembra quasi essere abituato a questo tipo di discorsi. Chissà cos'è che lo frena.
«Non mi va di sentirti parlare così» sentenzio.
«Mike, parlare di chi si vuole diventare è molto più facile di diventarlo concretamente. Ho dovuto rinunciare a molte cose nella mia vita, ma va bene così. Significa che questa è la mia strada» continua.
«No, non va bene. Non puoi arrenderti. Siamo noi gli artefici del nostro destino» lo guardo fisso negli occhi. Lui è perplesso.
«Non mi sono arreso, mi sono semplicemente adattato ai tempi. Ed io, io devo lasciare spazio a chi è arrivato dopo di me» conclude.
Io, però non riesco a stare zitto. Uno dei miei più grandi difetti è la schiettezza che prende il sopravvento quando mi altero.
«Se fossi una persona che conosco da tempo, ti avrei già mandato a fanculo per poterti scuotere un po'» comincio. Lui non muove neanche un singolo muscolo della faccia, è impassibile. «La tua vita non è finita qui. Puoi sempre cambiare chi sei e cosa fai. Non è mai troppo tardi. Non puoi accontentarti di una vita mediocre perché questo non è vivere, ma sopravvivere ogni giorno finché il tuo inconscio non crollerà, fino a quando tu non crollerai» continuo.
Lui sbatte ripetutamente le palpebre. Sospira più volte tra un morso e l'altro del suo panino. Dopo qualche secondo lo poggia sul piatto.
«Allora cosa consigli di fare per cambiare la situazione?» chiede.
Io sorrido. Faccio una smorfia e sospiro profondamente prima di rispondere: «ti consiglio di metterti completamente a nudo».

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