Capitolo 12

«Stai bene?» chiede Éric. Lo guardo dritto negli occhi dal colore indefinito. Sembrano verdi, a tratti azzurri; nonostante io li ricordassi castani.
Continuo a ridere nella speranza di poter scomparire dalla faccia della terra per qualche istante. Le figure di merda sono la mia specialità, soprattutto perché preferisco farle con almeno un testimone presente. Tra l'altro, chi l'avrebbe mai detto che uno dei testimoni sarebbe stato proprio il ragazzo misterioso dal gatto smarrito? Le probabilità erano veramente basse, ma nulla è impossibile per uno sventurato come me.
«Stai bene?» ripete. Annuisco per tranquillizzarlo. «Sei sicuro?» chiede conferma.
Annuisco un'altra volta toccandomi la fronte, mi fa davvero male. È stata una brutta caduta. «Solamente qualche dolore post botta, ma passerà. Grazie per il pensiero» comincio a raccogliere i documenti disseminati per tutto l'atrio.
«Lascia stare, faccio io» mi afferra il braccio e tira via i fogli dalla mia presa. Lo osservo mentre raccoglie i miei oggetti personali e li ripone dentro alla borsa.
Distolgo lo sguardo dal suo gesto gentile per concentrarmi sul suo corpo: indossa una camicia azzurra che delinea perfettamente la muscolatura delle braccia e il petto robusto, e dei pantaloni blu scuro che scolpiscono armoniosamente i glutei pronunciati. Passo la lingua sul labbro superiore al solo pensiero di poter assaggiare quel culo, e non solo. Alzo gli occhi al cielo e stringo le gambe per evitare che si veda qualche protuberanza imbarazzante. L'astinenza mi sta uccidendo.
Mi alzo lentamente. «Aspetta, ti do una mano» dice correndo in mio soccorso. Mi regge le braccia, ma riesco a stare in equilibrio senza problemi.
Ci separano pochi centimetri di distanza, riesco quasi a sentire il suo respiro lento e l'odore penetrante della sua colonia. Non so per quale strano motivo, ma il mio cuore sta battendo più veloce del solito. Sarà ancora preso dallo choc della caduta.
«Hai bisogno di ghiaccio» sentenzia.
«No, tranquillo. È solamente una botta, non penso di aver riscontrato gravi traumi» mi scappa una risata.
«Sarebbe meglio controllare per sicurezza» continua. Prende il cellulare dalla tasca, digita qualcosa sullo schermo e lo porta all'orecchio. Blocco il movimento del suo braccio.
«Davvero, sto bene. Non c'è bisogno di allarmarsi per una caduta. Ho passato di peggio». Lui sorride mentre mette giù la chiamata già partita.
Mi porge la borsa a tracolla. Cerco di assumere un aspetto quasi decente, anche se il caldo e l'aria irrespirabile non aiutano a raggiungere l'obiettivo.
«È la seconda volta che ti vedo a distanza di nemmeno ventiquattro ore. Sarà un segno?» dice mentre si allontana dal mio corpo, anche se avrei preferito rimanesse per qualche istante in più.
«Piuttosto direi una sfiga» scherzo. Lui scuote la testa.
«Non credo. È grazie a te se ho ritrovato Léon» spiega sorridendo. Si morde il labbro inferiore; un gesto letale per la mia instabilità ormonale. Quanto vorrei poterle assaggiare. Scaccio via il pensiero, di nuovo.
«Senti, per oggi ho finito ciò che avevo da fare qui all'università. Ti andrebbe di andare a prendere un caffè? se te la senti ovviamente. Non vorrei ti sforzassi troppo dopo la caduta» chiede.
Andare a bere un caffè con un ragazzo che ho appena conosciuto?
«Offro io, devo ringraziarti in qualche modo per aver ritrovato il mio gatto». Avrà notato la mia incertezza sul da farsi. Anche se potrei proporre un altro modo con cui ringraziarmi.
«Va bene» annuisco. Lui sorride.
Mi fa segno di aspettarlo mentre recupera il suo cappotto e l'ombrello dall'ufficio della segretaria. «Okay, possiamo andare» urla dall'entrata principale. Lo seguo a passo svelto, per quanto la caduta recente me lo possa permettere. Mi apre la porta e mi lascia uscire per primo.

Osservo il cielo che sormonta la Sorbonne. Ha smesso di piovere, nonostante il grigiore delle nuvole continui a essere presente.
«Dove vorresti andare? La mia auto è parcheggiata qui vicino» chiede.
Mia mamma mi ha sempre detto di non accettare caramelle dagli sconosciuti, tantomeno passaggi in auto; ma le recenti esperienze con uomini incrociati in chat mi hanno fatto cambiare idea, specialmente perché le caramelle erano davvero deliziose.
«Sei un tipo da Starbucks, non è vero?» chiede. Io alzo un sopracciglio nel notare come mi prenda per scontato così facilmente.
«In realtà non ci sono mai stato. Come mai ti ho dato questa idea? Ho una faccia che urla "voglio un iced cappuccino?"» cerco di metterlo in difficoltà.
Lui si gratta la testa cercando di camuffare il suo imbarazzo. «Effettivamente, penso di essere io ad aver voglia di un espresso da Starbucks, ma volevo sembrare cortese». Entrambi ridiamo.
«Vada per quello allora» dico.
Dopo qualche istante tende la sua mano verso di me e dice: «penso sia opportuno presentarci come si deve prima di andare a bere un caffè insieme. Mi chiamo Éric Dubois». Mi guarda fisso negli occhi, perdo la connessione con ciò che mi circonda per qualche secondo. «Michael ... Michael Miller» balbetto, «ma tutti mi chiamano ...». «Mike!» mi interrompe.
Spalanco gli occhi per l'interruzione inaspettata. Non pensavo si sarebbe ricordato di un insulso soprannome di un insulso essere umano incontrato in una qualunque stradina di Belleville.
«Ho una memoria di ferro» sembra leggermi nel pensiero. È inquietante ma affascinante allo stesso tempo.

Cominciamo a incamminarci verso la macchina, attraversando rue Cujas, una strada popolata principalmente da hotel e da qualche bar. La gente continua a tenere gli ombrelli aperti per paura che possa piovere nuovamente, ma la tempesta sembra essersi placata. Qualche raggio di sole appare fievolmente.
Con la coda dell'occhio continuo a guardare Éric, il quale è preso dalla vita mondana. Non distoglie lo sguardo neanche un attimo. Si aggiusta il cappotto, digita qualcosa sul cellulare, cerca di formulare qualche frase, ma l'imbarazzo è ormai palese dato che nessuno dei due trova degli argomenti sensati da affrontare. Fortunatamente, la mia curiosità è sempre pronta a dare il via.
«Toglimi una curiosità» rompo il silenzio.
Lui si gira verso di me. «Dimmi tutto».
«Di solito ciò che mi rimane impresso delle persone è il colore dei loro occhi. Ricordavo tu li avessi castani; adesso sembrano diversi» spiego.
Lui sorride formando due fossette sulle sue guance. «È una storia un po' buffa, in realtà».
«Ovvero?» chiedo.
«Tempo fa feci un casting per un noto brand francese che produce occhiali. Stranamente sono stato preso» si ferma per qualche istante. Nella mia mente il termine "stranamente" risulta inappropriato, è un vero e proprio Bronzo di Riace.
Riprende: «poi venni contattato per fare un photoshoot di prova, il quale si è svolto ieri. Il direttore della fotografia non amava particolarmente i miei occhi perché mi disse che "sono fin troppo particolari da distogliere l'attenzione sul prodotto"» enfatizza sull'ultima frase.
Ha ragione. Sono ipnotici.
«Quindi mi hanno fatto indossare delle semplici lenti castane. Probabilmente quando ci siamo incontrati le avevo ancora addosso. Lo so, è un'assurdità» sbuffa.
«Beh, lo è. I tuoi occhi non hanno niente che non vada» dico rendendomi conto del messaggio implicito della mia affermazione. Arrossisco al solo pensiero di lui che travisa quanto detto.
Accenna un sorriso. «Grazie».
Penso che la mia temperatura corporea abbia raggiunte un livello fin troppo elevato. Comincio ad avere caldo nonostante i sei gradi affermati.
«Mi hanno pagato, quindi ho fatto finta di non ascoltarli. Non ho nessun problema col mio corpo, figuriamoci col mio viso. Di certo, un incapace del genere non comincerà a farmi dubitare di ciò che la natura mi ha voluto donare» spiega. Io lo ascolto attentamente. Sembra essere così sicuro di sé stesso da fare invidia. So che è assurdo pensarlo, ma tendiamo a giudicare le persone in forma e di bell'aspetto come sicure di sé, quando in realtà l'aspetto fisico ha ben poco a che fare con tutto ciò. Se non ci si crede, non lo si diventerà mai, a prescindere dal fatto che si indossi una taglia S o una XL. Io so cosa vuol dire. Ho passato l'intera adolescenza a confrontarmi con modelli di Abercrombie e angeli di Victoria's Secret, prima di poter realizzare che tutto ciò di cui avevo bisogno era amore per me stesso. Ho passato ogni singolo giorno del liceo a odiare le mie curve, le maglie extralarge e la dentatura alla sorriso d'argento. Ho passato ogni singola estate a evitare di andare al mare con i miei amici per paura di espormi ed essere giudicato. Ho evitato lo sguardo di ragazzi carini per paura di non essere abbastanza. Tutto ciò non è stato vano, mi ha aiutato a diventare la persona che sono oggi: un ragazzo di ventiquattro anni che circa sei anni fa ha perso venti chili e si è iscritto in palestra per volersi bene una volta per tutte. Il percorso è stato difficile, ma i risultati sono appaganti.

Continuiamo a camminare per le gelide strade di una Parigi grigia e cupa. Le temperature hanno ridotto l'affluenza urbana. Éric continua a guardarsi intorno e io continuo a domandarmi dove cazzo abbia parcheggiato. È da circa venti minuti che girovaghiamo a vuoto. Di certo, non ho un ottimo senso dell'orientamento, ma ho la netta impressione che ci siamo persi.
«Tutto bene?» chiedo per comprovare la mia tesi.
Lui sbatte le palpebre, ma non mi guarda dritto in faccia. «Sì, perché me lo chiedi?»
«Sei sicuro di sapere dove stiamo andando? Non è che ci siamo persi?»
Lui esita per qualche istante. «Ero sicuro che la mia macchina fosse qui, non pensavo di avere la memoria corta».
«Magari potresti dirmi che macchina è, posso aiutarti a cercarla» propongo.
«Un'Austin Rover Mayfair blu scuro» mette le mani dentro le tasche del cappotto.
«Sei un amante del classico?» chiedo. Lui sorride. «Non propio, ma le macchine d'epoca hanno un certo fascino» spiega.
Distolgo lo sguardo dal suo viso per concentrarmi sulle macchine che costeggiano Boulevard Saint-Michel, una delle strade principali che consentono di raggiungere il quartiere latino. In realtà il mio aiuto è quasi inutile dato che mi distraggo al minimo luccichio dei palazzi e, persino, dei supermercati. È tutto così nuovo e affascinante che sembra impossibile non prestarvi attenzione. Tiro fuori il cellulare per fare qualche foto, evitando lo sguardo di Éric affinché non veda che, in realtà, non lo sto aiutando per niente.
«L'ho trovata» urla dall'altra parte del marciapiede mentre tira fuori le chiavi di quella che pare essere la sua macchina. Lui mi guarda attentamente mentre un cittadino dall'animo buono rallenta e mi lascia attraversare, nonostante non fossi sulle strisce pedonali. Éric mi fa segno di salire sull'auto mentre lui si allaccia la cintura e studia gli specchietti retrovisori affinché siano ben posizionati. Mi siedo sul sedile del passeggero e allaccio la cintura a mia volta. Le sue mani sono attorno al volante, lo sguardo fisso sulla strada, il sorriso accennato sempre presente. Mi scruta per qualche istante prima di dare gas al motore e sfrecciare con il suo piccolo bolide tra le strade della città più incantata del mondo. Accende la radio, passano I turn to you di Christina Aguilera.
«Adoro questa canzone. La voce di Christina è sensazionale» esordisce, per poi cominciare a  mimare egregiamente il testo della canzone. Io annuisco mentre sussurro la melodia. «Non fare il timido, scommetto che anche tu conosci a memoria questa canzone» continua.
Sorrido imbarazzato mentre distolgo lo sguardo dai suoi occhi fissi su di me. «Non è la mia cantante preferita, ma di certo non la disprezzo» spiego.
«E allora cosa aspetti a farmi sentire come canti?» chiede. Le mani sempre fisse sul volante mentre attraversiamo il ponte di Saint-Michel e raggiungiamo l'Île de la Cité. Ammiro per qualche istante quella che, se la memoria non mi inganna, dovrebbe essere la Conciergerie. Sulla destra, invece, uno dei due campanili di Notre-Dame sembra toccare il cielo.
«Chi ti dice che io sappia farlo?» riprendo la conversazione nonostante le bellezze storiche di Parigi non smettano di catturare la mia attenzione.
«Ho un sesto senso per queste cose, perché non ti lasci andare?» chiede mentre comincia a cantare a squarciagola il ritornello della canzone: «for a shield from the storm. For a friend, for a love to keep me safe and warm, I turn to you ... dai, canta» mi incita. Sono in imbarazzo, anche se solitamente non ho nessun problema a sbraitare le canzoni delle dive degli anni 2000. Forse ciò che mi inquieta è che l'ho sempre fatto da solo e dovermi esporre a tal punto con uno sconosciuto mi terrorizza.
Scaccio via ogni pensiero che dà adito alla mia insicurezza. Chiudo gli occhi e schiarisco la voce: «for the strength to be strong, for the will to carry on. For everything you do, for everything that's true, I turn to you».
«Hai visto che avevo ragione?» mi distrae dal mio assolo. Apro gli occhi in preda al panico, ma più rilassato rispetto a prima. «La tua voce non è per niente male» continua. Le labbra sembrano essersi seccate tutto d'un tratto. Annuisco con l'imbarazzo che, probabilmente, avrà cambiato il colore del mio viso.
Éric abbassa il volume della radio e si rivolge verso di me: «parlami un po' di te. Sei molto silenzioso».
Cerco di scacciare di dosso l'agitazione e comincio a parlare: «in realtà sono una persona chiassosa, devi darmi tempo».
«Tutto il tempo che vuoi» continua.
«Cosa vuoi sapere?» chiedo mentre attraversiamo Boulevard de Sébastopol.
«Tutto ciò che c'è da sapere per non dire in giro di aver portato uno sconosciuto in macchina con me» scherza. Entrambi sorridiamo. «In realtà, potrei anche denunciarti per rapimento» continuo.
«Non è un rapimento se è consenziente».
Osservo attentamente il suo bicipite destro scolpito. «Ho ventiquattro anni e sono italiano. Prima vivevo a Palermo, ma poi mi sono trasferito a Trento per ... per necessità» balbetto. «La mia più grande passione sono le lingue e le arti in particolare, soprattutto il teatro, anche se è da parecchi anni che ho smesso di frequentarlo» continuo.
Lui mi ascolta attentamente mentre con gli occhi presta massima attenzione alle strade.
«Come mai hai deciso di lasciarlo?» chiede.
Comincio a sudare freddo, probabilmente non avrei dovuto dire niente. «Cause di forza maggiore, basta sapere questo» cerco di glissare l'argomento. Lui sembra capire, non insiste.
«Adesso tocca a te» lo incoraggio.
«Non c'è molto da sapere. Vivo a Parigi già da parecchi anni, ma sono di origini egiziane. Sono nato e cresciuto al Cairo, ma a diciannove anni mi sono trasferito per cominciare i miei studi. Parlare francese non è stato difficile dato che i miei genitori mi hanno spronato, sin da piccolo, a impararlo. Dieci anni fa sono arrivato qui e mi sono trovato un lavoro, una casa, ho studiato e ottenuto i titoli che volevo conseguire, e adesso continuo per la mia strada» spiega tutto d'un fiato.
«La tua famiglia è qui con te?» chiedo per pura curiosità.
Lui esita per qualche istante. «No, mia madre è morta tre anni fa a causa di un male incurabile. Mio padre, invece, gestisce una piccola azienda di famiglia insieme a mio zio al Cairo».
«Mi dispiace» sussurro. Mi sento in colpa.
«Nessun problema, non potevi saperlo» mi tranquillizza.
Non domando nient'altro, aspetto che continui lui, ho paura che questa conversazione possa turbarlo.
«Ho anche un fratello che ha deciso di rimanere in Egitto per non lasciare mio padre da solo. Nel mentre sta studiando per diventare chirurgo» continua.
«Wow, una persona veramente audace» commento.
Lui sorride. «Assolutamente. Nonostante lui sia più piccolo di me di quasi sette anni, se non fosse stato per lui la nostra famiglia non avrebbe superato la mancanza di mia madre».
Comincio a tremare per il modo in cui lui si stia aprendo con me. Non mi succedeva da un'eternità con un ragazzo.
«È stata dura per tutti, ma mio fratello ci ha dato la forza per andare avanti. Io volevo trasferirmi nuovamente a casa per non lasciare papà da solo, ma lui mi costrinse a ritornare in Francia. Non lo ringrazierò mai abbastanza per questo».
«Posso solamente immaginare ciò che avete dovuto affrontare» mi si stringe il cuore.
«Fortunatamente mia madre è sempre vigile su di noi. Ed è ciò che importa» si passa una mano sul lato sinistro del petto.
«Basta parlare di me. Pensavo che questo caffè sarebbe stato più gradevole» scherza. Io sorrido.
«Com'è stato il tuo trasferimento a Parigi? Sei riuscito ad ambientarti subito?» chiedo. Sento il bisogno di conoscere di più questo ragazzo.
Lui non sembra infastidito dal fatto che io non voglia cambiare argomento. «Dire che è stato tutto rose e fiori sarebbe ipocrita da parte mia. Ovviamente ti ritrovi in un'altra città, in un'altra nazione con nuove abitudini e senza l'appoggio di nessuno. Il tutto messo alla prova da frivola nostalgia e un rifiuto dopo l'altro da parte di manager incompetenti e senza scopo nella vita» si ferma per qualche istante per decidere quale strada imboccare. «Io, fortunatamente, avevo uno scopo e non mi sono arreso dopo qualche tentativo».
«Come sei riuscito a trovare lavoro?» chiedo.
«Un giorno conobbi una donna sulla cinquantina che viveva nel mio stesso condominio. Continuava a osservare ogni singola parte del mio corpo. Io chiesi il perché di così tanta curiosità. Lei mi rispose dicendomi che avevo l'attitude giusta per fare l'attore o il fotomodello» comincia a ridere, ma non capisco il perché. «Io le risi in faccia pensando mi stesse prendendo per il culo. In realtà, mi fissò un appuntamento per diventare il volto di una piattaforma di noleggio auto».
Improvvisamente mi si illumina la lampadina. Ecco perché mi sembrava così familiare, hanno passato quello spot pubblicitario per mesi.
«La pubblicità con quel jingle fastidioso?» chiedo per avere conferma. Era una melodia davvero insopportabile ma talmente catchy da rimanere in testa.
«Esatto, ma nonostante il jingle, lo spot sembrò funzionare. Dopo quell'incarico mi arrivarono altre proposte per marchi ancora poco conosciuti. Non cercavo la fama, avevo solamente bisogno di un lavoro per camparmi. E, adesso, mentre studio continuo a fare la bella statuina in servizi fotografici e spot pubblicitari. Nonostante tutto, però, ho sempre avuto il supporto da parte della mia famiglia, seppur a distanza» conclude. Continua a sorridere.
Io penso al coraggio che abbia avuto nel ricostruire daccapo la sua vita, senza nessuno a supportarlo, senza una spalla su cui piangere. Senza risposte concrete ma solamente porte sbattute in faccia. Ammiro il modo in cui non si sia mai arreso nonostante il fato non sia stato gentile con lui. Mi spaventa il fatto che sembriamo essere così simili, ma lui non lo sa. Nessuno lo sa. Forse nemmeno io, forse sto solamente cercando qualcuno che riesca a esternare ciò che ho bisogno di sentirmi dire.
«Com'è stato per te? Anche la tua famiglia ti ha supportato nelle tue scelte?» chiede. Ristabilisco il contatto con la terra. Mi sudano le mani e la mia voce è tremolante mentre rispondo alla sua domanda.
Una domanda che nessuno aveva mai osato farmi. «In realtà io non ho più una famiglia».

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