Capitolo 11
Il ragazzo si avvicina sempre di più mentre continua a guardarsi intorno e a battere prepotentemente le sue Jimmy Choo contro il pavimento. Lo studio attentamente mentre cerco di definire l'ammontare di soldi speso per completare il suo outfit; probabilmente non esisterebbero abbastanza zeri.
La mia bocca è semiaperta e il mio braccio fermo a mezz'aria nella speranza di riprendere la frase che stavo cercando di formulare qualche istante prima, ma lui decide di superarmi e spingermi leggermente al suo fianco.
<<Madame, j'ai un rendez-vous avec monsieur Bourbon, dis-lui que son étudiant préféré est déjà arrivé>> (Mia cara, ho un appuntamento con monsieur Bourbon, digli che il suo studente preferito è già arrivato) esordisce con voce calda e pacata.
La segretaria cerca di replicare: <<c'était à lui avant vous>> (era il suo turno). Con un gesto della mano indica il povero scemo rimasto impassibile in un angolo dell'atrio, ovvero me. Il ragazzo mi ispeziona dalla testa ai piedi con uno sguardo del tutto contrariato, quasi come se mi stesse giudicando. <<maintenant, c'est à moi>> (adesso, tocca a me) risponde con fare intimidatorio. Nell'attesa che la ragazza alzi la cornetta per informare il professore, tira fuori il suo iPhone Xs dalla tasca e con la fotocamera interna del cellulare si assicura che i suoi capelli siano al posto giusto e che il septum sia posizionato in modo tale da rispettare le linee del suo naso fino. Lei ignora il suo carattere, mi guarda delusa con lo sguardo di chi non può far altro che arrendersi e chiedere scusa con gli occhi. Io alzo le spalle.
<<D'ailleurs il sera très heureux de me voir>> (D'altronde sarà molto contento di vedermi) continua mentre la ragazza aspetta impaziente al telefono.
<<Contento come una Pasqua>> bisbiglio sarcasticamente. Lui si gira di scatto e si avvicina verso di me lanciando un'occhiataccia, punta un dito contro il mio petto e mi guarda fisso negli occhi. <<Non azzardarti mai più a borbogliare alle mie spalle e a prendermi per il culo perché so parlare fluentemente sette lingue e so mandarti a fanculo anche nelle restanti sei>> dice tutto d'un fiato. Sono paralizzato, non so come comportarmi, non mi sarei mai aspettato una reazione del genere.
<<Io ... io non>> balbetto. Lui accenna un sorriso. <<Stai tranquillo, l'importante è che tu abbia afferrato il concetto>>. Annuisco ripetutamente.
Ridacchia, poi continua: <<per questa volta ti perdono dato che mi hai gentilmente concesso di passare davanti a te>> fa l'occhiolino.
Si allontana di qualche centimetro dal mio corpo, riprendendo le distanze di prima. <<Maximilian Ciccone, ma puoi chiamarmi Max>> tende la mano in maniera simile alle donne di corte. La stringo ancora in stato di imbarazzo.
<<Ciccone?>> chiedo.
<<Sì, è inutile che ti spieghi che sono un lontano parente della Santissima Veronica, non hai notato la somiglianza?>> non dico nulla per qualche istante, poi riprendo: <<In realtà ... >> interrompe a metà la mia frase: <<e tu? Avrai un nome, no?>>.
<<Sono Michael, ma tutti mi chiamano Mike>> faccio una smorfia.
Lui si accarezza il mento, come se stesse valutando qualcosa. <<Che ne dici di Mich? Mi piace molto di più>> propone.
<<Non penso sia una buona idea cambiare soprannome dopo ventiquattro anni, mi suona strano>> spiego. Lui ci pensa per qualche secondo. <<Hai ragione, vada per Mike>>.
<<Monsieur Bourbon m'a dit d'aller dans son bureau>> (Monsieur Bourbon mi ha detto di raggiungerlo nel suo ufficio) ci interrompe la segretaria.
<<Merci Madame>> dice Max, poi si gira verso di me: <<hai visto che sopracciglia? Dovrei consigliarle una buona estetista, non credi?>>. Io ridacchio senza attirare l'attenzione della ragazza.
Cerco di soffocare i miei sghignazzi mentre Max mi chiede: <<E tu, straniero? Come mai sei qui?>>.
Gratto la testa. <<Sono arrivato ieri per un programma di ricerca tesi, devo incontrare il professor Kavanaugh>> spiego.
<<Ti accompagno io, so dov'è il suo ufficio. Lascia perdere questa tipa, impiegherebbe anni prima di riuscire a contattarlo>>. Mette sulle spalle il suo zainetto firmato Michael Kors e mi fa segno di seguirlo.
Percorriamo il lungo corridoio retrostante all'atrio. Lui continua a camminare come se sapesse perfettamente dove andare. Io mi sento spaesato, quasi perso nell'immensità di questa costruzione. Ammiro gli angoli di questo posto a me nuovo per cercare di memorizzarne ogni singola sfumatura, ogni singolo centimetro; ma è più probabile che diventi milionario. Un turbinio di emozioni si instaura nel mio ventre, nella mia testa, nel mio cuore. Cerco di prestare attenzione a ciò che mi sta dicendo Max, ma come sempre preferisco viaggiare con la mente.
<<Ma sei sordo?>> Max mi distrae dai miei pensieri con un tono di voce eccessivo.
<<Scusa, stavo pensando ad altro. Dicevi?>> chiedo.
<<Di dove sei?>>. Mi volto verso di lui. <<Sono di Palermo, ma vivo a Trento già da diversi anni>> spiego.
Lui sembra essere sorpreso. <<E tu?>> continuo.
Lui ci pensa per qualche istante, sembra essere abbastanza incerto sulla risposta che vuole dare. <<Sono nato a Francoforte, ma mia madre è un'importante businesswoman e possiede una catena di cosmetici; di conseguenza mi ritrovo a viaggiare molto spesso. Ho vissuto in Italia, Giappone, Australia e adesso anche in Francia>> spiega.
Provo un po' di invidia nei suoi confronti. <<Wow>> è l'unica cosa che riesco a formulare.
<<Sì, è abbastanza figo. Mi reputo una puttana del cosmopolitismo>>. Mi fa l'occhiolino.
Sento i calzini fradici. <<Da quanto tempo vivi a Parigi?>> chiedo.
<<Ci siamo trasferiti meno di un anno fa>> spiega.
Annuisco mentre continuo ad ammirare i suoi occhiali da sole posti sul capo.
<<Posso farti una domanda?>>.
<<Certo, ma solo se è sensata>> risponde.
<<Perché usi gli occhiali da sole? Fuori sta diluviando>>.
Lui sorride e sospira. <<Per lo stesso motivo per cui dico di chiamarmi Maximilian Ciccone e di essere un lontano parente di Madonna. Non c'è nessun motivo, è solamente figo>>, si ferma per qualche istante. <<E poi, gli occhiali possono sempre servire>>.
<<Per cosa?>> chiedo.
<<Per ripararmi dai flash dei paparazzi. La vita è imprevedibile, potrei diventare improvvisamente la nuova Fallon Carrington>>.
Saliamo le scale per arrivare al secondo piano. Il mio senso dell'orientamento, come previsto, ha deciso di abbandonarmi. Non riesco nemmeno a ricordare la strada che abbiamo appena fatto. Max mi assicura che col tempo riuscirò a orientarmi facilmente, la grandezza del dipartimento è tutta apparenza.
<<Io sono arrivato>> dice indicando una porta in legno con una targhetta che riporta il nome del professor Bourbon e la materia di insegnamento: linguistica tedesca. <<L'ufficio del professor Kavanaugh è in fondo al corridoio a sinistra, non puoi sbagliarti. Ha un'enorme bandiera arcobaleno affissa sulla porta>> continua. Annuisco trattenendo l'agitazione, anche se il pensiero di un professore gay-friendly mi entusiasma parecchio.
<<Grazie per avermi accompagnato, è stato un piacere conoscerti>>. Tolgo la sciarpa per il troppo caldo.
<<Senti>> esordisce. <<Ti lascio il mio numero, così per qualsiasi informazione o aiuto, saprai chi contattare>> continua.
Prendo il cellulare dalla borsa a tracolla e glielo do. Lui digita velocemente il suo numero e lo memorizza con il nome "MaX".
<<Come mai la x maiuscola?>> chiedo per mera curiosità.
Lui sorride e aggiusta il folto ciuffo ossigenato. <<Prometto che te lo spiegherò, ma non adesso. Non vorrei arrivare in ritardo all'appuntamento>> si ferma per qualche secondo, guarda l'orologio, <<ah, già lo sono in realtà. Fa nulla, lui è abituato ad aspettarmi>>.
Ci salutiamo in maniera amichevole.
Proseguo lungo il corridoio fino a quando non noto la presenza di una bandiera arcobaleno che sormonta la porta di un ufficio. La targhetta mi assicura di essere nel posto giusto. Il mio cuore comincia a battere all'impazzata. Provo a bussare, nessuna risposta. Aspetto qualche secondo prima di bussare un'altra volta. Niente di niente. Accosto il mio orecchio per cercare di captare qualche suono. Proprio in quel momento qualcuno apre la porta improvvisamente. Un uomo alto dalla stazza abbastanza massiccia e una barba folta mi sorride a trentadue denti.
<<Monsieur Miller?>> chiede. Io annuisco senza proferire parola. <<Bonjour, enchanté de faire votre connaissance. Je vous en prie, asseyez-vous>> (buongiorno, lieto di fare la sua conoscenza. La prego, si sieda), mi stringe la mano prepotentemente. Faccio una smorfia di dolore. Mi siedo difronte la sua scrivania.
Monsieur Kavanaugh ha trentotto anni, anche se sembra essere più giovane di me, è di Avignon e si è laureato in letteratura inglese e francese, per poi continuare i suoi studi nell'ambito del dandismo ed estetismo. Lo so perché ho letto il suo profilo online, non sono uno stalker. Preferisco informarmi su chi lavorerà insieme a me.
Il suo ufficio è un vero e proprio disastro. Le pareti sono ricoperte da poster che pubblicizzano seminari ed eventi a tematica LGBTQ+, gli armadietti sono stracolmi di libri e cartacce, il colore del pavimento si riesce a vedere a stento a causa dei tappeti persiani e dei volumi che occupano gran parte dello spazio. La sua scrivania presenta un pc portatile, tre tazze vuote, svariate penne e fogli di carta strappati e sparsi di qua e di là. Ciò che cattura la mia attenzione è un gufo dal colorito porpora. È inquietante perché continua a fissarmi. Cerco di guardare altrove, ma i suoi occhi sembrano seguirmi.
<<C'est un cadeau de mon frère, il l'a acheté à New Delhi. Ça représente un hibou grand-duc, un symbole d'égalité totale, parce que le seul élément qui peut t'aider à reconnaître le sexe est la dimension du volatile, rien d'autre>> (è un regalo di mio fratello, l'ha comprato a Nuova Delhi. Rappresenta il gufo reale, un simbolo di uguaglianza, dato dal fatto che puoi riconoscere il sesso del volatile solamente dalle sue dimensioni, nient'altro) si accorge che lo stavo fissando. Cambio prospettiva e comincio a prestare attenzione al professore, noto che ha gli occhi azzurri.
<<Je ne voulais pas être indiscret>> (non volevo essere invadente) mi scuso.
Lui sorride. <<la curiosité n'est jamais indiscrète, mais enrichissante>> (la curiosità non è mai invadente, ma arricchente) spiega.
Lui mi fissa per qualche istante, mi sento in imbarazzo.
<<Bien, on peut passer à votre mémoire>> (okay, possiamo passare alla sua tesi) dice, sbatte le mani sulla scrivania. Sobbalzo leggermente. <<dites-moi un peu sur quoi vous avez déjà travaillé>> (mi dica un po' su cosa si è già concentrato) chiede, indossa un paio di occhiali, unisce le mani creando una sorta di appoggio per il mento. Io continuo a guardarmi intorno mentre tiro fuori dei documenti dalla mia borsa.
<<j'ai surtout travaillé sur l'aspect authentique et formel de la définition du Camp>> (ho lavorato soprattutto sull'aspetto autentico e formale della definizione del Camp) spiego. Lui osserva impaziente i documenti che gli porgo, li sfoglia velocemente ma presta attenzione senza esitare un attimo. Accenna un sorriso.
<<Bien, il me semble important de souligner deux éléments>> (bene, mi sembra opportuno dover sottolineare due cose) sussurra, comincia a digitare qualcosa al computer. Io rimango in silenzio nell'attesa che continui a parlare. <<Pour commencer: on doit changer l'ordre des paragraphes. À mon avis ça marche mieux de cette manière>> (per cominciare: bisogna cambiare la disposizione dei paragrafi. Secondo me funzionerebbe meglio così) mi mostra cosa intende. Comincia a cancellare pagine intere con grandi scarabocchi di penna, mentre io cerco di mantenere la calma nel vedere settimane e settimane di duro lavoro andare a puttane in meno di tre secondi.
<<Si vous préférez, je peux ...>> (se preferisce, posso ...) lui mi interrompe alzando l'indice, come se volesse chiedermi di aspettare.
Un altro scarabocchio sulla mia tesi, un altro colpo al cuore.
<<C'est un dommage ...>> (che peccato) continua a ripetere a sé stesso. Io sono confuso, la mia mente cerca, invano, di placare la mia rabbia. Mi basta un'ultima goccia per far traboccare il vaso: l'ennesimo scarabocchio che potrebbe farmi sbiellare. Tento di respirare profondamente.
<<Qui a dit cette chose là? Vous devez mentionner la personne>> (chi ha detto questa cosa? Deve menzionare la persona) si riferisce a una citazione della terza pagina, ma è come se continuasse a parlare da solo. Vorrei solamente scappare via o, meglio, sapermi imporre di più, soprattutto con determinate persone. Vorrei esprimere il mio dissenso per ciò che ha appena fatto davanti ai miei occhi. Ho impiegato giornate intere a leggere la bibliografia che mi ha consigliato il mio relatore di Trento, ho riscritto e riletto queste pagine un centinaio di volte, ho pianto difronte al mio pc giorno e notte per paura di non star facendo qualcosa correttamente.
<<C'est super>> (la adoro) dice ad alta voce. Io spalanco gli occhi incredulo per ciò che ho appena sentito. <<Pardon?>> (mi scusi?) chiedo per un'ulteriore conferma.
<<J'adore votre style d'écriture>> (adoro il modo in cui scrive) si ferma per qualche istante, sorride ripetutamente mentre io cerco di rimandare giù la rabbia accumulata nei secondi precedenti. Annuisco a mo' di ringraziamento, non so cosa dire. <<Avez-vous déjà pensé à écrire un livre? je l'achèterais, sans aucun doute>> (ha mai pensato di scrivere un libro? Io lo acquisterei senza dubbio) continua.
<<Merci monsieur, mais je n'aime pas beaucoup les romans, je préfère les lire>> (la ringrazio professore, ma non amo particolarmente i romanzi, preferisco leggerli) commento.
Lui sorride per l'ennesima volta mentre stampa alcuni fogli. <<Je vous conseille d'y penser, vous avez le talent qui sert pour écrire un très bon livre. Il faut seulement un peu d'imagination>> (le consiglio di pensarci su, possiede il talento giusto che serve per scrivere un buon libro. Ciò di cui ha bisogno è solamente di un po' di immaginazione) spiega, mi porge la lista appena stampata. La osservo attentamente, notando alcuni libri e saggi che avevo già deciso di prendere in considerazione per la stesura della tesi, tra cui Notes on Camp di Susan Sontag, risalente al 1964.
<<Si vous changez d'avis, je serai très heureux de vous aider>> (se doveste cambiare idea, sarei molto felice di aiutarla) conclude, tossisce per qualche secondo.
Piego i fogli che mi ha appena consegnato e li ripongo nella mia borsa a tracolla.
<<En ce qui concerne votre mémoire, je vous conseille d'aller voir les clubs gay qu'il y a dans les environs. Les performances drag sont magnifiques>> (per quanto riguarda la sua tesi, le consiglio di visitare i club gay nelle vicinanze. Le performance delle drag queen sono magnifiche).
Sbatto le palpebre ripetutamente per realizzare ciò che è appena successo. Il mio relatore mi ha appena consigliato di fare la puttanella in un club gay per trovare ispirazione? A quanto pare sì, è andata proprio così.
Sorrido nell'imbarazzo della situazione. Continuo ad annuire cercando di capire come tutto ciò possa essere utile per il mio studio. Probabilmente è solamente un modo per spronare i suoi studente a "sperimentare" concretamente ciò di cui vogliono occuparsi.
Per qualche istante immagino come sarebbe passare una serata in un bar gay con il professor Kavanaugh. Sarebbe uno dei bear più acclamati del locale. Caccio via dalla testa la vocina che continua a sussurrarmi di invitarlo a uscire con me una di queste sere; non è professionale, non è eticamente corretto.
È da disperati.
Si aggiusta la cravatta, beve un sorso di quello che dovrebbe essere caffè, anche se mi sembra si tratti di acqua sporca. Guardo fuori dalla finestra mentre lui continua a elencarmi alcune persone da poter intervistare per rendere il mio elaborato finale ancora più interessante. Fingo di prendere nota. In realtà osservo il cielo cupo di Parigi. Sta ancora piovendo e ciò mi riempie il cuore di gioia nonostante io abbia le scarpe fradicie da svariati minuti.
Penso al fatto che io sia qui da quasi trentadue ore e non mi sembra vero. Continuo a soffermarmi su questo aspetto come se si potesse viaggiare con la mente e, il mio, fosse solamente un viaggio astratto.
Aspetto questo momento da tutta la vita o, almeno, da quando sono venuto a conoscenza dell'esistenza della capitale francese, ma tutto ciò continua a sembrarmi surreale.
<<Ça suffit pour aujourd'hui. Je vous enverrai un e-mail pour choisir le prochain rendez-vous. Maintenant vous pouvez vous concentrer sur ce que j'ai dit>> (penso sia abbastanza per oggi. Le invierò un'email per stabilire il prossimo incontro. Nel mentre, si può concentrare su ciò che le ho detto) conclude il suo monologo. Da un lato sono sollevato; dall'altro, ho ascoltato solamente un quarto di ciò che mi ha detto. Perché mi succede sempre? Dovrei cercare di prestare più attenzione a ciò che mi dice la gente. <<Mais d'abord: il y a une merveilleuse ville à découvrir qui vous attend>> (ma prima di tutto: c'è una città meravigliosa da scoprire che la attende) aggiunge. Mi sorride per l'ultima volta.
Mi alzo dalla sedia, recupero i miei documenti e gli stringo la mano ringraziandolo ripetutamente per il tempo che ha deciso di dedicarmi e, soprattutto, per aver accettato di supervisionare il mio lavoro durante questi mesi. Lui sembra essere felice di lavorare con me e io non posso che esserlo altrettanto. Mi consiglia per l'ennesima volta di pensare a ciò che mi ha detto sulla scrittura di un ipotetico libro, gli prometto che ci penserò. Prendo la mia borsa e mi dileguo dal suo ufficio.
Attendo qualche istante nel corridoio per fare mente locale di ciò che mi aspetterà nei prossimi mesi.
"Prima di tutto: c'è una città meravigliosa da scoprire che la attende" è la frase che continua a rimbombarmi nella testa. Di solito, chi arriva in una città straniera tenta di esplorare almeno una piccola parte delle bellezze locali, ma io mi sono limitato all'ipermercato in rue de la Mare.
Sono a Parigi, cazzo. Non posso sprecare nemmeno un singolo secondo inutilmente. Ho bisogno di conoscere ogni angolo di questa metropoli per poter realizzare di averci vissuto realmente.
Comincio ad accelerare il passo nella speranza di raggiungere l'uscita il prima possibile; l'aria è diventata irrespirabile, il colletto della camicia comincia a soffocarmi. Respiro profondamente raggiungendo la rampa di scale. Improvvisamente sento il cellulare vibrare nella mia tasca. Riconosco un numero familiare al quale non ho voglia di rispondere momentaneamente. Voglio solamente uscire da qui.
A passo ancora più svelto scendo i gradini. Percorro uno scalino dietro l'altro mente spengo il cellulare per riporlo nella borsa a tracolla. Proprio in quel momento le mie caviglie perdono l'equilibrio e cado giù dalle scale come un sacco di patate. Rimango a terra per qualche secondo prima che qualcuno possa arrivare in mio soccorso, chiudo gli occhi per abbandonarmi al dolore. Dopo qualche istante, sento la voce di un ragazzo che mi chiede: <<ça va, mons...>> (va tutto bene, sign...) si interrompe. Io tento di aprire gli occhi per capire cosa fosse appena successo, perché avesse smesso di parlare; ma il dolore è troppo forte.
<<Tu?>> chiede lui.
<<Io cosa?>> chiedo a mia volta. Cerco di mettermi in ginocchio per avere una visuale completa e più chiara. I gomiti mi vanno a fuoco e la testa comincia a provocarmi delle fitte continue. Apro gli occhi per ritrovarmi, all'improvviso, difronte all'uomo più bello che abbia mai visto dagli occhi color ghiaccio, profondi come l'immenso, luminosi come le stelle, ma diversi dall'ultima volta e non so perché. Rimaniamo in silenzio per qualche istante prima di cominciare a ridere come dei pazzi; come se i miei documenti non fossero sparsi per tutto l'atrio; come se non fossi appena caduto da una rampa di trentacinque scale; come se noi non ci fossimo appena rincontrati con una probabilità su un milione.
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