Capitolo 1
Mi sveglio in preda all'ansia. Sento il pigiama impregnato del mio sudore. Continuo ad ansimare cercando la fonte di aria più vicina, ma non riesco a respirare. Le gambe sono bloccate dalle coperte attorcigliate e sento le mani intorpidite. Non riesco a muovermi.
Decido di calmarmi per qualche secondo e riprendo a respirare dopo esser tornato con i piedi per terra. L'ennesimo sogno. L'ennesimo colpo al cuore. L'ennesimo disastro dentro la mia testa. Riesco a recuperare la sensibilità alle mani e afferro il cellulare come se volessi chiamare qualcuno... ma chi?
Sono le tre e quarantadue del mattino. Tra meno di quattro ore dovrei svegliarmi per andare al lavoro, ma ormai sono abituato agli sbalzi di umore durante il sonno. Mi chiedo solo se questa tortura avrà una fine, prima o poi.
Cerco di stabilire una situazione di pace interiore dentro la mia testa. Cerco di scacciare le immagini orribili che il mio inconscio proietta ogni notte. Cerco. Cerco qualcosa.
Qualche ora dopo mi sveglio con la capacità reattiva di un orsetto lavatore. Non ho chiuso occhio per il resto della nottataccia. Mi alzo dal letto, scorro le tende, apro la finestra per fare entrare un po' d'aria pulita. Fuori è novembre e, come ogni novembre che si rispetti qui in Trentino, sta piovendo. Di sicuro la voglia di dover togliere il pigiama e infilare dei jeans freddi è alquanto irrintracciabile, soprattutto di venerdì mattina. Tutti sono convinti che il lunedì sia traumatico, ma nessuno ha mai fatto caso al venerdì? È quel giorno in cui non sai se voler morire per l'ennesimo giorno di merda o se esultare perché il fine settimana è alle porte. Io, nel dubbio, faccio entrambe le cose.
Mi dirigo verso il bagno, faccio scorrere un po' d'acqua affinché diventi calda. Mi guardo allo specchio e vedo due grandissime occhiaie. Occhiaie che possono essere distinte in due modi: per chi è in hangover o per chi non ha dormito un cazzo, tipo me.
Faccio la solita smorfia di chi è preoccupato per ciò che gli aspetterà durante la giornata. Niente che una doccia calda non possa soddisfare, ma, ahimè, la caldaia ha deciso di non funzionare e la doccia purificante si trasforma in un: anche oggi una gioia domani.
Esco dalla doccia già incazzato per non aver portato a termine il mio rituale mattutino. Prendo un po' di crema idratante, la spalmo sulla faccia per poi ritrovarmi a dover utilizzare ciò che ho sempre odiato di più: il fondotinta. Ma almeno lui mi darà più colore sul viso. Ne spalmo un po' sotto agli occhi e sulle guance un po' arrossate dal freddo. Risulto quasi decente.
Ritorno in camera mia per decidere cosa indossare, anche se il mio guardaroba non lascia molta scelta in quanto a colori. Diciamo pure che sono fissato con le varie tonalità di nero, a tratti con un po' di blu e verde militare. Opto per un maglione dolcevita nero e dei jeans scuri strappati alle ginocchia, anche se fuori la temperatura sarà più o meno pari ai quattro gradi centigradi. Il freddo non mi ha mai spaventato, almeno credo.
Mentre aspetto che la mia tisana ai frutti rossi sia abbastanza intensa da poterci affogare dentro, preparo dei documenti e delle carte da dover portare più tardi all'università.
Mi accorgo che tra esattamente venti minuti dovrei essere al bar per il turno della colazione. Esco con la tazza della tisana in mano, corro verso la fermata quando esattamente in quel momento vedo il bus girare verso la strada di fronte alla mia. Le mie urla non servono a niente. Gli autisti trentini sono stronzi, se non sei lì quando passano dalla fermata, non si fermano mica poi.
La giornata inizia imprecando in maniera abbastanza eccessiva, l'ennesimo ritardo non sarebbe stato perdonato. Fortunatamente dopo esattamente tredici minuti passa un altro autobus. Un aspetto positivo del Trentino è che qui è tutto puntuale, non si sgarra sul tempo e sulla puntualità.
Arrivo in centro, corro il più velocemente possibile verso il bar con la solita vecchietta che mi urla «g'as pressa putel?» (hai fretta giovincello?) ed io sorrido educatamente.
Entro nel bar cercando di non farmi vedere dal capo quando sento una mano che mi si poggia sulla spalla. «Sei in ritardo anche oggi, Mike», è la voce di Ernesto, il direttore. Mi giro verso di lui con un sorriso improvvisato e mi giustifico: «in realtà è l'autobus che era in ritardo, non io». Lui alza un sopracciglio, mi guarda per qualche secondo e poi alza le spalle e gli occhi al cielo. Sarò un caso umano, ma riesco a farmi volere bene.
«Antonio è nei casini in sala. E' pieno di operatori che si lamentano per la lentezza. Mettiti il grembiule e corri!». Non riesco a capire se doverlo interpretare come un rimprovero o meno, so solamente che ho deciso di mettere la coda tra le gambe e andare dritto in cucina. Prendo il mio grembiule, saluto tutti e mi dirigo verso la sala. Una fila immensa di persone scazzate anima allegramente l'entrata del locale. Strike a pose: sorriso finto, gentilezza e correttezza e via con: «in quanti siete? Prego, seguitemi».
Una volta placata la calca mattutina, la situazione sembra essere abbastanza tranquilla nel bar. Antonio continuava a correre come una gazzella nel deserto, anche se era tutto abbastanza sotto controllo, l'unico a non esserlo era lui.
Antonio è uno dei miei colleghi preferiti, la persona con cui poter parlare di tutto, ma la persona con cui non dover sgarrare nel lavoro. E' devoto a ciò che fa e lo ammiro tanto per questo. Oggi è più carico di sempre; sembra dover raggiungere un obiettivo senza una meta stabilita, anche se so qual è il suo obiettivo. Ernesto tra qualche settimana andrà all'estero per dei meeting di lavoro per collaborare ad un evento che vedrà coinvolte moltissime realtà del settore culinario e Antonio spera di essere uno dei prescelti per seguirlo in questa avventura.
Antonio ha venticinque anni. E' alto e tonico, capelli lunghi, scuri e lisci. Si atteggia come se avesse qualcosa da nascondere, ma in realtà è solamente molto riservato e introverso. Ogni tanto mi piace scherzare con lui perché è l'unico del team che riesce a cogliere il sarcasmo, eppure vado d'accordo con tutti, o almeno quasi tutti. Il mio rapporto con il resto del team è perlopiù professionale perché non mi piace il clima di competizione che tende a crearsi in periodi di calca come questi. Ma nonostante ciò li ammiro per la professionalità in ogni ruolo ricoperto.
Io amo questo lavoro, ma spero di non rimanere qui per sempre. Ho altri piani. Ho cominciato a lavorare qui due anni fa per poter arrotondare con le spese dell'affitto e dell'università. Qui tutti lavorano, così ho dovuto adattarmi anche io.
Ho ventiquattro anni e sono al terzo anno di intermediazione linguistica per turismo e imprese. Se Dio me la manda buona, tra qualche mese dovrei laurearmi e magari puntare a qualcosa di più retribuito. E' tutto così faticoso ed è tutto così frenetico che ho dovuto cambiare stile di vita. Uno stile di vita al quale un terrone come me non era abituato.
Fino a tre anni fa la mia grande metropoli era Palermo. Adesso mi ritrovo a vivere in una piccola cittadina di centodiecimila abitanti e qualche pecora sparsa di qua e di là. Senza fraintendimenti, io amo Trento. E' una città così piccola ma che riesce ad offrirti veramente tanto, soprattutto per chi non è abituato a ritmi del genere. Qui c'è un solo modo per andare avanti: o sopravvivi o vieni lasciato indietro. Ed io ho deciso di non voler essere lasciato indietro.
Il periodo di adattamento è ancora un work in progress, ma bisogna sempre fare un aggiornamento se non si vuole rischiare l'emarginazione sociale. Eppure penso di essere riuscito nella mia impresa. Mi sono fatto degli amici, mi sono fatto dei ragazzi, ho trovato un lavoro, un appartamento e a breve avrò anche un foglio di carta con su scritto il mio nome per poterlo appendere sulla parete di camera mia e ricordarmi costantemente le crisi isteriche e di pianto che ho avuto in questi tre anni eterni ma brevi.
Tre anni fa ero un ragazzino impaurito, abbandonato a sé stesso e in cerca del suo essere un unicorno pieno di luce. Adesso chi sono non l'ho ancora capito, però ci riuscirò.
«Terra chiama Mike». Antonio mi risveglia dal viaggio spaziotemporale sulla mia vita.
«Sono qui. Smettila di agitare quella mano». Gli blocco il braccio e gli do uno schiaffo sulla spalla.
«Ti va di andare in giro dopo lavoro? E' il black Friday oggi e vorrei comprarmi un paio di cuffie» dice esaltato.
«Non posso oggi, devo andare all'università. Today is the day, altro che black Friday». Alzo gli occhi al cielo nella speranza che non inizi a farmi la solita ramanzina.
«Sei ancora preoccupato? Sarai andato benissimo, ne sono certo. E poi perché non dovrebbero prendere te? Ho letto il resoconto sulla tua tesi. Se non ti scelgono sono solo degli stronzi incapaci che dovrebbero cambiare lavoro». Sorrido. Non so come fa, ma riesce sempre a risollevarmi l'umore.
«È normale essere preoccupati, no? Significherebbe molto per me poter vincere il viaggio all'estero per ricerca tesi. Però è alquanto improbabile perché c'è solamente un posto disponibile e sai quanti morti di figa ci sono pronti a prendere il mio posto? Troppi». Ho fatto di tutto per non pensarci ma il suo commento mi ha fatto ritornare in mente le paranoie che cercavo di scacciare.
«Pensi che dei mangia patate possano veramente competere con un mangia banane come te?» scherza alzando un sopracciglio.
«Loro non sanno però che sono un mangia banane» sto allo scherzo.
«Non hanno bisogno né di chiedertelo né di saperlo. Te lo si legge in faccia. Il taglio alla Adam Lambert e la tua compilation di cd di Lady Gaga dicono tutto».
«Il fatto che un eterosessuale come te conosca Adam Lambert mi stupisce» lo prendo in giro. «E comunque vaffanculo. Non è così evidente».
«E anche se lo fosse? Che problema ci sarebbe?» chiede.
«Nessun problema. E' solo che ci tengo a vincere questa borsa di studio e non vorrei che la mia frociaggine possa rovinare tutto» spiego.
«Smettila di fare il complessato, Mike. Vedrai che li avrai conquistati tutti. Era un colloquio orale, no? A quanto pare tu sei molto bravo nell'orale».
«Devi farti mandare a fanculo ogni volta?» gli do uno schiaffo sulla spalla.
«Ci vediamo stasera per un brulé, va bene? Così festeggiamo» conclude.
«Se ci sarà qualcosa da festeggiare» sentenzio. «Antonio!», lo chiamo mentre si dirige verso la cucina.
«Che c'è?» si gira di scatto.
«Grazie» dico accennando un sorriso.
Lui ricambia il sorriso e ci scambiamo un saluto militare. Alzo gli occhi al cielo sperando di non dover pensare all'ansia da graduatoria che, tra qualche ora, mi travolgerà ogni senso possibile e immaginabile. Mi alzo e vado a prendere l'ordinazione di tre ragazzi seduti ad un tavolo vicino alla finestra.
L'ultima mezz'ora di lavoro è passata abbastanza in fretta. Dire di non aver pensato continuamente a ciò che avrei dovuto affrontare tra qualche ora sarebbe inutile, oltre che sciocco. Ho preferito, però, concentrami sul mio lavoro nonostante Ernesto continuasse a provocarmi con le sue ramanzine sui miei ritardi.
Antonio ha continuato a guardarmi con la coda dell'occhio per tutta la mattina, probabilmente per assicurarsi che non avessi un crollo mentale da un momento all'altro, ma stavo bene in fin dei conti. Forse.
La tensione continua a farsi sentire, forse sarò esagerato? Sensibile? Un po' troppo noioso? Può anche darsi, ma una cosa è certa: ucciderei per essere in quella graduatoria. Ciò significherebbe cambiare radicalmente la mia vita e poter, finalmente, aggiungere nel curriculum un'esperienza all'estero dato che, i risparmi che non ho mai avuto, non mi hanno permesso di partecipare a un vero e proprio programma erasmus. Forse dovrei solamente tranquillizzarmi, prendere una boccata d'aria, inspirare ed espirare e rendermi conto che magari credere in sé stessi fa anche bene ogni tanto, no?
Chi voglio prendere in giro? Si sa che nella vita si cerca di essere pessimisti solamente per scaramanzia. Sono il primo che, alla domanda: "com'è andato l'esame?", risponde con un netto: "ho paura di non averlo passato", e so, dentro di me, di star mentendo; un po' come per tutta la mia vita.
Basta. Ho deciso di dare un taglio a questa tensione, a quest'ansia, a quest'insicurezza. Non merito una vita del genere, né tantomeno delle rughe precoci per l'apprensione perenne. Relax, take it easy. Non mi lascerò abbattere dalle mie inutili paranoie.
«Non avrò superato il colloquio orale. Ne sono certo. Il professore continuava a guardarmi dall'alto in basso come se non avesse mai visto un ragazzo con un papillon rosa e arancione» comincio a lamentarmi. Nel frattempo la mia vocina interiore sta cercando di farmi cambiare idea, ma gli omini paranoici riescono sempre ad averla vinta.
«Un papillon rosa e arancione, seriamente?» sbotta Antonio. Alza gli occhi al cielo.
«Cosa c'è di male? Taylor Swift ha indossato un top arancione e una gonna fucsia ai Grammy di quest'anno, perché io non posso portare un semplice papillon?» sorrido. «Tu non sei Taylor» fa una smorfia. «Non ancora» sentenzio.
Continuo a percorrere gli stessi passi mentre Antonio sta lì ad ascoltarmi lamentare sulle solite cose che gli avrò già detto altre mille volte. Ma lui è sempre lì.
«... poi continuava ad agitare la sua penna e a scrivere qualcosa sul block notes. Aveva un'aria stufa, continuava a sbuffare come se non fosse il suo lavoro e poi...», «... continuava ad interromperti mentre parlavi. Ma che maleducato» Antonio finisce la frase per me.
«Scusami». Abbasso la testa rendendomi conto di quanto io sia ridicolo. «Per cosa?» chiede. «Per averti ripetuto lo stesso discorso per la...», «... diciassettesima volta? Non preoccuparti ci sono abituato. E poi questa volta hai aggiunto il particolare del papillon». Entrambi sorridiamo.
«Cambiamo discorso: com'è andata con quella ragazza?» chiedo.
«Abbiamo passato una bella serata. Lei è una ragazza molto intraprendente e spiritosa, rideva anche alle mie battute». «Allora è persa di te» lo interrompo. Lui sorride, poi continua: «Ma non penso possa funzionare». Sbuffo all'ennesima delusione sentimentale di Antonio, «perché? Cos'ha che non va questa volta?». Lui inarca un sopracciglio e alza le spalle. «Nulla, è solo che mi sembrava un po' troppo diretta».
Prima di pensare bene a cosa dire questa volta, lo scruto con attenzione, il suo sguardo non lascia trasparire niente, sembra incerto su qualcosa.
«Cosa intendi con "troppo diretta"? Non ti avrà mica chiesto di sposarla?» sorrido.
Lui sembra essere nervoso, mette le mani dentro alle tasche.
«Antonio, cosa succede? Dimmi la verità» metto le mani sui fianchi. Lui sembra essere ancora più preoccupato, ad un tratto capisco tutto. «Sei vergine?» abbasso il volume della mia voce per evitare che i passanti mi sentano. Lui guarda in alto e accenna un sorrisetto nervoso.
«Sei vergine?» ripeto con un tono più marcato. Lui mette una mano sulle mie labbra e mi dice di stare zitto. «Non penso che alla signora anziana con il dobermann interessasse della mia inattività sessuale» sussurra, poi toglie la mano.
«Ma com'è possibile? Pensavo che con Stefania avessi già ... ehm ... consumato» adesso sono nervoso anche io. Mi mette sempre un po' di agitazione parlare della vita sessuale degli etero. «Siete stati insieme per più di un anno, è impossibile che non sia successo nulla» continuo. Lui arrossisce un po' e passa una mano sui suoi capelli nero corvino.
«In realtà non è mai successo niente. Solamente preliminari o altro» il suo tono di voce è ancora più basso.
«Com'è possibile?» chiedo infastidito dalla sua mancanza di fiducia per non avermi detto una cosa di fondamentale spessore.
«E' semplice. Non era quella giusta. Non per forza bisogna consumare dopo due ore dal primo "ciao". Non tutti sono Mike Miller» dice sbottando.
«Non giudicarmi. Qui non stiamo parlando di me, ma di te. Antonio, hai venticinque anni» lo guardo negli occhi. Lui sembra essere contrariato.
«A dire il vero tra qualche mese ne avrò ventisei, ma non è una questione di numeri. Mike, se non è mai successo ci sarà un motivo, non credi?» cerca di giustificarsi. Non volevo che si giustificasse. Non lo sto accusando di qualcosa, sto solamente cercando di farlo uscire dal guscio protettivo nel quale cerca sempre di rintanarsi.
«Certo, ma infatti non ti sto giudicando, sto solamente cercando di farti capire» penso di aver formulato male la domanda.
«Farmi capire cosa? Non basta guardare il profilo di grindr per innamorarsi di una persona e capire che è quella giusta. Ripeto che non siamo tutti come te. Quando arriverà, arriverà. Adesso ti prego, chiudiamo qui il discorso» sentenzia.
Aspetto che si calmi un po', lo guardo ancora negli occhi e accenno un sorriso. «Cosa c'è?» chiede. «Mi hai giudicato. Avevamo detto che non l'avresti più fatto sennò ti sarebbe toccato pagare pegno, quindi stasera pagherai il brulé». Entrambi ridiamo.
Rientriamo nel locale con la speranza che questo discorso venga lasciato alle spalle e che Antonio capisca cosa volevo dire veramente. Purtroppo ho la brutta abitudine di non riuscire mai ad esprimermi bene. Antonio mi conosce, sa che non ferirei mai i suoi sentimenti e, soprattutto, sa che non lo giudicherei mai, come lui farebbe lo stesso con me. Se ogni tanto va in preda al panico e se ne esce con delle sfuriate è solamente perché non vuole affrontare la realtà. Io cerco di fare del mio meglio, lui lo sa, io lo so, è per questo che siamo grandi amici.
«Io vado, ci vediamo stasera» dico ad Antonio. Lui alza la mano e mi saluta.
Mentre mi accingo ad uscire dal locale sento il mio cellulare vibrare: una chiamata in arrivo. Spalanco gli occhi incredulo dal nome che appare sullo schermo. In quel momento mi rendo conto che il detto è proprio vero: chi non muore si rivede, ma io avrei preferito tu fossi morto.
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