❥ 𝕿oy Story

Luca non era mai stato uno di quelli concentrati e presenti a scuola, aveva sempre dato l'idea, da quando mi ricordavo, di uno mentalmente altrove.

Ma nei giorni successivi a quella sua dichiarazione sul volersi ritirare, fu altrove anche fisicamente. Io, a malincuore, iniziai a entrare nell'ordine di idee che avrei dovuto frequentare almeno un altro anno e mezzo di alberghiero, rassegnandomi al fatto che il suo posto accanto al mio sarebbe rimasto inesorabilmente vuoto.

Così, quando il desiderio di nicotina si fece troppo impellente per poter essere trattenuto oltre, presi la porta e mi avviai verso il bagno delle ragazze.

Ci avevo perso l'abitudine, lo ammetto, perché i veri bisogni tendevo a farli a casa mia e non certo nei cessi di quel posto. L'Alberghiero era una scuola relativamente recente. Era stato costruito nel 1977 per trovare posto agli studenti sfrattati dalla precedente struttura lesionata nel terremoto del 1976. Era un edificio brutto e funzionale, privo di memoria antecedente agli anni '80. Il fatto che non avesse anima, ma solo pareti impregnate di odore di soffritto e ormoni, nei giorni di brutto tempo lo rendeva a dir poco disperante.

Varcare la soglia del bagno femminile mi fece scoprire un posto di cui mi ero dimenticata, dove i lavandini di ceramica dozzinale erano comunque tutti al loro posto e non semidivelti, gli scarichi sembravano esserci ancora tutti e il puzzo di urina era talmente leggero che quasi non si notava sotto l'odore forte del disincrostante usato dai bidelli.

Mi chiusi nell'ultimo cubicolo, feci scattare la rotellina dell'accendino avvicinandolo alla sigaretta e, annoiata da quella solitudine nuova e forzata, mi soffermai a leggere le scritte fatte a pennarello indelebile che imbrattavano la porta. Infatti, mentre nel bagno dei maschi la rozzezza e l'analfabetismo dilagante prendevano forma in una serie infinita di cazzi di tutti i tipi, forme e dimensioni, solitari o puntanti vagine e seni stilizzati, in quello delle femmine c'erano per lo più scritte, da quelle più innocenti e inoffensive che erano semplici iniziali circondate da cuori, ai commenti piuttosto espliciti sui ragazzi più appetibili della scuola e i loro peni. Apprezzamenti più delicati del tipo "Marco sei bono" cedevano il passo a parolacce a caso e a frasi dal contenuto decisamente meno innocente, in cui le autrici dettagliavano cosa avevano fatto o si erano fatte fare dal proprio lui, o anche cosa avrebbero voluto farci. Incappai addirittura in un disegno così crudamente particolareggiato che ebbi la sensazione che l'avrei avuto davanti agli occhi per tanto tempo.

Finché lo sguardo non venne attirato da una frase telegrafica che mi riguardava in prima persona:

ᴘᴜʟᴄᴇ 6 1 ᴛʀᴏɪᴀ

Ora, tralasciando l'uso improprio dei caratteri alfanumerici, mi ritrovai a riflettere su quella frase. Non era la prima volta che mi trovavo a essere bersaglio di quel tipo di insulti, dettati per lo più dall'invidia e dalla gelosia di essere da sempre stata culo e camicia con Luca, il quale, a quanto leggevo, era ancora molto gettonato nonostante le sue ultime defezioni e, soprattutto, i suoi mutati gusti in termini di partner. Così, quel graffito, anziché offendermi, ebbe in quel momento un effetto completamente diverso.

Sentii, violenta, la sua mancanza, come mai prima.

Una lacrima, una sola, si ribellò alla prigionia delle ciglia e scese muta, senza neanche un singhiozzo.

Qualcuno bussò alla porta. «Occupato.» gracchiai e sentii poco dopo la porta del cesso accanto chiudersi e la ragazza urinare. Quando ne uscì, evidentemente, doveva aver trovato una sua conoscente subito fuori, perché dopo un rapido saluto, tra le due si levò un chiacchiericcio che mi fu difficile non origliare a causa del loro ottovolante di toni.

«Ti porti a casa un altro otto all'interrogazione, stronza fortunata.»

«Amò, mica si tratta di fortuna. Si tratta di doti innate, piuttosto.»

«Ah, quindi mo' scemunire quel porco del professore con la scollatura si chiama "dote innata"?»

«Ma smettila, sei solo invidiosa che tu la materia prima non ce l'hai.» ridacchiò. «E poi, se anche fosse che mi guarda le tette, chi se ne frega, le guardano tutti, almeno con lui mi portano il vantaggio di beccare voti decenti. Ne servirebbero un paio in più di professori pervertiti così.»

Sorrisi ironica, quelle erano mediamente le mie colleghe di scuola, ragazze al servizio di professori rapaci.

Poi però mi resi conto che non c'era un cazzo da sorridere: eravamo circondati da rapaci, e non solo professori. Persone che usavano il loro potere per soddisfarsi i sensi e le voglie approfittando dei propri sottoposti.

Alla fine era tutta una questione di potere.

Automaticamente pensai a Bobbi, pensai a quanto lui ricadesse nella categoria di quelli che si soddisfano usando la propria posizione.

Ripensai al suo cazzo.
Ripensai ai suoi soldi.

Ritenermi superiore a quelle due era pura idiozia, alla fine ero sulla loro stessa barca. Se non peggio: in fondo, per quanto non le stimassi, non erano così prive di amor proprio da inginocchiarsi davanti all'uccello di qualche professore depravato.

O almeno, lo sperai per loro. Non ne valeva la pena, a mio avviso.

«A proposito di pervertiti, lo sapevi che Fava è libero? Pare che Vale, quella della quarta B, l'amica di Sara, hai presente? Beh, pare che lei l'abbia scaricato.»

«E ci credo! S'è scopato perfino Pulce nello stanzino del posto dove hanno fatto l'alternanza.»

«Ma davvero se l'è scopata? Io sapevo solo di pompini.»

«Eh no, servizio completo. Adesso sei fortunata che non ti venga una qualche strana malattia venerea solo a guardarlo.»

Che scherzo del cazzo mi giocava il destino: mi raggiungeva anche quando ero alla ricerca di un riparo dalla mia mente. Ma nessuna distrazione sarebbe stata più salubre dello schianto in quella realtà, così mi alzai e, vestita di una serenità forzata, uscii dal cesso.

Perché se c'era una cosa che vivere in un posto come il Chernobyl mi aveva insegnato era che o stavi bene, o fingevi di star bene, o affondavi.

Le due persero un paio di toni di autoabbronzante cadauna nel vedermi spuntare fuori dal cubicolo alle loro spalle. Comparvi nel loro campo visivo attraverso il riflesso dello specchio dentro cui si stavano sistemando il trucco pesante, che le illudeva, forse, di non essere anche loro dei mostri sotto la pelle.

Poverine. Non so quale problema avessero, può darsi che non fossero state allattate abbastanza al seno dalle loro madri, qualunque cosa fosse era chiaro che traessero gioia dalla sofferenza altrui, ma solo al riparo dell'anonimato. Perché in quel momento, con i miei occhi appiccicati addosso, tutta la loro cattiveria sembrava evaporata sotto i raggi cocenti della vergogna. Non dissero nulla, non sembravano nemmeno respirare.

Quasi mi sembrò di aver infierito su di loro già abbastanza con la mia sola apparizione, eppure mi facevano così pena per non aver capito che in fondo eravamo tutte imbrigliate nella stessa guerra dei poveri dove si vinceva solo la priorità nell'essere sfruttate, che decisi di regalare a quelle due qualcosa su cui, non senza difficoltà, avrebbero potuto riflettere.

O forse no, considerato lo spessore intellettivo pari a quello di un foglio A4, ma comunque io una reputazione da difendere non ce l'avevo mica, quindi agii semplicemente sulla base del fatto che non avevo nulla da perdere.

«Mi fate pena. A guardarvi, viene da pensare che è meglio essere troie piuttosto che ipocrite come voi.»

Tornai in classe più incasinata di come ne ero uscita.

Quando c'era Luca non succedeva.

Bobbi mi raggiunse attraverso Mannoni, il quale mi intercettò per consegnarmi un fascicolo. Riportava il logo della Fondazione e, in allegato, un invito ufficiale per una cena il venerdì seguente. Al suo interno, era contenuto un prospetto di tre pagine che recitava "Progetto Alimentazione e Movimento" e una busta da lettere sigillata. Quando la aprii, non senza una certa dose di trepidante curiosità, lo ammetto, apparve ai miei occhi un biglietto vergato a mano da lui, che mi invitava a studiare bene il progetto e presentarmi alla cena senza usare un abbigliamento formale.

Era quindi in programma un'altra di quelle serate all'apparenza non calcolate, in cui lui sarebbe stato lì, pronto a placare per un po' i miei problemi. Eppure lo sapevo, sapevo che non c'era niente della sua vita che Bobbi non avesse studiato minuziosamente: io ero l'anima errabonda, lui l'ago, la direzione da seguire per emergere dal mare di melma in cui navigavo da tanto, troppo tempo. Da sempre, praticamente.

Mannoni mi guardò strano.
«Mi ha piacevolmente sorpreso il tuo spirito di iniziativa, Baccini. Non avrei mai pensato che fossi capace di presentare un progetto a una fondazione, sono davvero stupito. Brava, ci vediamo venerdì sera.»

L'apprezzamento espresso dal professore, di solito avarissimo di complimenti, mi lasciò ancora più interdetta. Era talmente entusiasta che mi strinse addirittura la mano e io mi chiesi se questo non mi avesse fatto entrare improvvisamente nella schiera dei secchioni. Il dubbio, unito al mio rimuginare spasmodico sulla situazione, mi fece uscire dalla scuola con un passo ancora più strascicato.

Mi catapultai in camera mia non appena varcata la soglia di casa, così esausta che gettai a terra lo zaino e rimbalzai direttamente sul materasso. A malapena ero riuscita a sfilarmi le scarpe, volevo solo chiudere gli occhi e dimenticarmi dell'immenso casino che era la mia vita. Prima che potessi farlo, però, lo sguardo venne attirato dall'angolo giallo del fascicolo che sbucava dallo zainetto consumato, abbandonato mezzo aperto sul pavimento.

Me l'ero quasi dimenticato.

E così il sonno se ne scappò a gambe levate.

Andai avanti a leggere i dettagli di quel progetto per più di un'ora, sommersa da termini burocratici che capivo a stento. Ma se c'era una cosa cristallina, che quei fogli stretti tra i miei pugni tremanti raccontavano, era una: c'era in ballo la realizzazione di qualcosa di concreto.

Il progetto esisteva davvero, ed era anche una di quelle cose per cui valeva la pena impegnarsi un minimo, visto che puntava a recuperare alcuni simboli del degrado del quartiere per trasformarli in qualcosa di diverso, in vere e proprie risorse, attrattive, punti di ritrovo e, quindi, anche nuovi posti di lavoro.

Era un'idea allettante e ben congegnata e più andavo avanti nella lettura, più mi davo mentalmente della stupida per aver pensato, all'inizio, che fosse solo una semplice scusa campata in aria da parte di un uomo per entrare nelle mie mutandine.

Che idiota, come se Bobbi ne avesse avuto bisogno, tra l'altro: a ben vedere, ero sempre stata io a offrirmi a lui, senza neanche troppi giri di parole. Non ero la giovane fanciulla caduta nella trappola del predatore, ero solo una che aveva voglia di trastullarsi con qualcuno, per noia, per rabbia, per un lancinante bisogno di attenzioni, a seconda delle occasioni.

Eppure, quella strana sensazione di essere stata un po' abbindolata, nonostante fosse un'idea del tutto fantasiosa, non mi abbandonò neanche con gli occhi piantati sull'inchiostro di quelle parole. Ancora una volta pensai di essere io il problema, diciassette anni e già più disillusione che sangue a scorrermi nelle vene, ma che potevo farci, io alla favola di Pretty Woman non ci avevo mai creduto.

Suonai a casa di Bobbi alle otto di sera di venerdì, con un leggero ritardo dovuto allo schifo cosmico dei mezzi pubblici piuttosto che all'impegno che ci misi nel prepararmi. E meno male, perché arrivai trafelata, spettinata a causa della corsa che avevo dovuto fare appresso all'ultimo autobus disponibile e vestita con le prime cose che mi erano capitate sotto mano – un vestito in cotone di un verde militare improbabile, un cardigan beige, le solite All Stars bianche e una piccola borsa rossa a tracolla in finta pelle che aveva sicuramente visto anni migliori. Eppure, quando Bobbi venne ad aprirmi, quel suo sorriso sornione ebbe la capacità di farmi sentire presentabile, per non dire addirittura carina. Non disse nulla di preciso, ma è come se i suoi lineamenti, fino a poco prima contratti, si fossero distesi vedendomi.

Il lato positivo di arrivare in ritardo, fu di trovare già seduti gli altri commensali, ossia la moglie di Bobbi e Mannoni, e i domestici già pronti a servire gli antipasti. Mi chiesi in quale galassia parallela si potesse considerare informale una cena dove era prevista la presenza di domestici, ma a farmi salire ancora di più l'ansia fu la curiosità con cui Ursula continuava a esaminarmi.

Non lessi in quel suo sguardo dai colori autunnali nulla di giudicante, nessuna ostentata spavalderia e nemmeno l'ombra di un qualche sospetto, sembrava piuttosto pura e semplice curiosità.

Fu proprio lei a esordire, dopo i convenevoli e un bicchiere di prosecco dal costo di un'intera scopata con suo marito. «Professor Mannoni, le confesso di essere rimasta molto, ma molto stupita, quando mio marito mi ha detto che c'era un progetto che coinvolgeva la sua scuola che tuttavia non veniva dalla sua scuola.» Incrociò le mani fresche di manicure sotto al mento, facendo bella mostra della fede nuziale che faceva coppia con quella che solo qualche giorno prima sfregava impunemente contro il mio clitoride.

«Non lo dica a me, sono rimasto anche io molto sorpreso. Ma in fondo penso che a volte si tenda a sottovalutare la capacità di iniziativa dei nostri ragazzi. E delle nostre ragazze, in questo caso.»

E così, mi invitarono a illustrare il progetto.

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