❥ 𝕴l gatto con gli stivali
Luca Morelli consumava le scarpe da ginnastica sempre nello stesso punto e aveva visto il mare una volta sola, a sei anni, quando aveva ancora una famiglia accettabile. Stipati tutti nell'utilitaria che suo padre faceva sistemare da un amico per una stecca di sigarette e una bottiglia di grappa distillata di nascosto in cantina, avevano raggiunto la costa e una volta mi confessò di essersi letteralmente incantato a osservare il rincorrersi delle onde. Mi disse che niente lo aveva più fatto sorridere come quando quei granelli dispettosi gli si erano incastrati tra le dita dei piedi nudi piantati nella battigia.
Ho visto quel bambino svanire piano piano, il suo corpo che si assottigliava, si allungava, i lineamenti indurirsi e affilarsi, che smontavano e rimontavano espressioni nuove, diverse, deragliate. La divinità della vita adulta si era presentata a Luca troppo presto, spintonandolo a suon di schiaffi e pugni per mano di suo padre, ma niente era riuscito a renderlo meno bello.
Ha consumato l'ordine delle trenta paia di Converse da quel giorno, l'ultimo felice della sua vita, a detta sua. Le riordinava dalla più consumata alla più integra, le mischiava, le buttava solo quando la suola si scollava dalla stoffa e i messaggi che gli scribacchiavo sopra con il pennarello, mentre fumavamo erba sul muretto sbrecciato dietro il suo palazzo, si scioglievano in macchie scure di frasi di canzoni e punti di sutura emozionale. Martoriate, slabbrate e squarciate dalle fughe, dalle sigarette spente sotto la suola, dai calci ai muri e dallo strascicarsi ubriaco alle quattro di mattina.
Quando suo padre si sfracellò al suolo cadendo da un'impalcatura, lui non aveva battuto ciglio. Nemmeno quando i medici gli avevano detto che era in coma e che probabilmente non si sarebbe più risvegliato.
Mi ero presentata alla sua porta, quella sera, con un brodino di pollo fatto da mia madre che mi scottava le dita attraverso il contenitore di plastica, la prima e ultima volta che ho messo piede in casa sua. C'era ancora l'albero di Natale, nonostante fosse marzo inoltrato, con la sua plastica finta mezza bruciacchiata, spoglio e sbilenco nell'angolo vicino a una tv che a malapena avevano i soldi per accendere.
Solo dopo mi ricordai che fu proprio il giorno di Natale di parecchi anni prima che sua madre se ne era andata via, senza più tornare.
«L'erba cattiva non muore mai, Pulce.» mi aveva detto, il tono piatto e asciutto di chi ha perso tutto, anche le speranze, in risposta alla mia domanda sulle condizioni di salute di suo padre, relegato in terapia intensiva.
E, alla fine, i medici avevano dato ragione alla sua teoria.
Suo padre si era miracolosamente salvato, anche se la rottura di più vertebre lo avrebbe costretto per sempre su una sedia a rotelle. Gli dissero che avrebbe dovuto prendere un farmaco per il resto della sua vita per continuare a campare, un vasodilatatore o roba simile. Peccato che certa roba, per quanto costi poco per la gente disagiata, non te la diano gratis se lavori in nero e non hai nessun tipo di assicurazione sanitaria. Figurarsi, quel mostro non avrebbe nemmeno saputo metterle in fila parole come "assicurazione" e "sanitaria".
Tutto era iniziato come un gioco, per Luca. A quattordici anni era già un ragazzo particolare anche se acerbo, un sorriso furbo e accattivante e due occhi penetranti che di banale avevano solo il colore, nocciola. Piaceva terribilmente alle donne e lo aveva capito sin da ragazzino, quando si era accorto che con un paio di ammiccamenti alle insegnanti riusciva a uscire da situazioni scolastiche terrificanti, o che gli veniva naturale come respirare circuire e titillare con velati complimenti le compagne di classe per farsi aiutare nei compiti o durante le interrogazioni. Perfino la fruttivendola del mercato ne era affascinata e ogni volta che lo vedeva passare gli regalava una mela o qualche altro frutto, dicendo che era bello e fresco come lui.
Era un perfetto Gatto con gli Stivali.
Gli era venuto naturale trasformare questa sua qualità in una risorsa economica. Gli riusciva facile, divertente, neanche ci pensava che stava vendendo il suo corpo, pensava solo al suo obiettivo: riuscire a far stare dritta quella coppia male assortita formata da lui e suo padre, con al seguito quelle cazzo di costose medicine.
Non voleva che morisse, e non per un qualche vago rigurgito di amore filiale.
Me lo aveva detto chiaro e tondo, il perché, Luca: «Non deve morire, sarebbe troppo facile. Deve soffrire, inerme, immobilizzato su quella carrozzella. Deve vivere senza poter più alzare le mani, condannato a restare immobile, e sapere che è da me che dipende quella sua vita merdosa, da chi ha sempre maltrattato. Restando consapevole tutto il tempo che potrei smettere da un momento all'altro.»
La morte non avrebbe soddisfatto la sete di vendetta di Luca, la sofferenza invece sì.
Fine Pena Mai, come dicevano quelli che finivano al 41 bis.
Il fatto che fosse una cosa semplice come infilare l'uccello da qualche parte a fargli ottenere in cambio i dolci servigi della Dea Nemesi, per lui era la perfezione.
«Basta chiudere gli occhi, Pulce.» aveva buttato fuori come la più banale delle ovvietà quando gli avevo chiesto come facesse. A me proprio non andava giù che il mio amico - per cui avevo una cotta stratosferica, tra l'altro - facesse quel tipo di vita.
Che ci fossero altre mani, altra pelle, altri occhi a posarsi su di lui.
Mani, pelle e occhi che non lo amavano quanto lo amavo io.
Poi mi è passata.
Forse.
Almeno finché un improbabile cocktail di pillole non ci ha fatto finire con l'incastonarci di nuovo l'uno dentro l'altra, come ritagli di cartapesta che ritrovano finalmente la propria dimensione, in barba a sentimenti ventriloqui che non comunicano, eutanasie di battiti e attese mascherate di indifferenza.
Peccato però che poi, dopo averlo soltanto appena incrociato il giorno seguente, Luca fosse completamente sparito.
Al netto del mio maledetto stage quasi totalizzante, più passavano i giorni, più mi convincevo che lo stesse facendo apposta a evitarmi, e più ci pensavo più mi irritavo. Era la dimostrazione lampante della scarsa considerazione che aveva di me, considerata alla strega di un mero buco dentro cui svuotarsi e non la sua migliore amica, quella con cui era cresciuto e che avrebbe messo ancora una volta da parte i propri sentimenti pur di salvare il nostro legame, di qualsiasi natura esso fosse.
Mi sentivo così sfigata in quel momento che vidi perfino nell'alternanza scuola-lavoro una buona distrazione dai miei problemi e dalle mie turbe mentali.
Si chiama alternanza scuola-lavoro perché si alternano la fatica e le ore come in un lavoro vero, e ti pagano come a scuola, cioè zero.
E io che pensavo che a scuola si andasse per diventare persone adulte, e non schiavi. Che sciocca.
A fare il bello e il cattivo tempo, sempre lui, il nostro amato vicepreside Mannoni, che, tra le altre cose, deteneva anche il potere di spedirci a fare lo stage dove meglio credeva. Ergo, i migliori della scuola venivano mandati in locali di un certo livello, quelli che se la cavavano facevano gli onesti sparecchiatori in qualche trattoria dove non si andava per il sottile, mentre la feccia veniva usata come carne da cannone in qualche locale dove a tavola apparecchiavano sempre un posto in più per far sedere qualche vecchia amica come Salmonella o Escherichia Coli.
Io avrei dovuto far parte a occhi chiusi di questo terzo gruppo, lo ammetto senza problemi, ma poiché a Mannoni ero risultata una studentessa modello offrendomi volontaria per il matrimonio del tizio col nomignolo orrendo, il prof mi fece automaticamente destinare a uno dei ristoranti di livello più alto. Roba di classe, nouvelle cousine in odore di menzione Michelin. Il che faceva presupporre una parvenza di decenza nel modo in cui avrebbero trattato gli stagisti.
Ma, si sa, se la fortuna è cieca, la sfiga ci vede benissimo. E ha anche un'ottima mira, perché, infatti, assieme a me capitò anche il Fava.
In realtà sospettavo che la sorte c'entrasse ben poco stavolta, e che fosse stato proprio il Fava a oliare qualche compiacente professore per finire nella mia stessa brigata di sala, giusto per potermi stare appresso nello spogliatoio, a tavola post servizio e sperare di ricevere qualche mia "attenzione speciale" nel tornare a casa.
«Pulce, questo sì che è un posto figo.» esclamò eccessivamente galvanizzato non appena ci incontrammo fuori l'ingresso del ristorante. Neanche eravamo ancora entrati ed era già l'ennesima volta che mi buttava il braccio attorno alle spalle. «Sembra uno di quei posti dove i tipi portano le escort.» Poi lasciò un breve intermezzo teatrale, prima di far calare la mannaia. «Facile che una di 'ste sere ci troviamo seduto il tuo amico a uno dei tavoli e ci toccherà pure servirlo, adesso che anche le vecchie riccone vanno a puttani.»
Feci semplicemente spallucce, anche se quelle parole mi pesarono non poco.
«Cos'è? Sei passata da essere culo e camicia a chi non se l'incula?» chiese insospettito dal mio atteggiamento indifferente.
«Ho già abbastanza casini di mio, per occuparmi di quelli degli altri.»
«Se vuoi ti consolo io.» mi soffiò all'orecchio, abbracciandomi da dietro, premurandosi di farmi sentire qualcosa di diverso dalla mancanza di Luca: la sua indesiderata erezione, strusciandosi col bacino contro di me che neanche un cane in calore.
I primi servizi furono una mezza tortura cinese. Da una parte i camerieri veri ci davano ordini secchi e perentori, riprendendomi tutte le volte che non apparivo inappuntabile nella divisa che mi avevano assegnato; dall'altra il Fava, che mi ronzava continuamente attorno. Con quella falsa disinvoltura che io odiavo e che lui adottava automaticamente ogni qualvolta ne avesse l'occasione, mi si avvicinava, mi fissava, mi sfiorava, mi palpeggiava. Più passavano i giorni, più lui si spingeva sempre un po' più oltre e io continuavo a sottomettermi ancora e ancora al suo sguardo sporco e alle sue mani leste, all'inizio solo perché mi sentivo completamente incapace di ribellarmi, ma poi fui spinta a stare al gioco da qualcos'altro.
«Ma ci sta proprio con la vecchia?» mi chiese, dopo tre giorni, il mio laido compagno di stage.
Lo guardai come si guarda un film concettuale polacco in lingua originale.
Lui, senza demordere, riprese.
«Ci va tutte le sere, sempre con la stessa. O ci sta insieme, o mi sa che quella deve pagare proprio un botto. In ogni caso, Luca dovrebbe proprio darsi una ripulita.» stiracchiò un po' le labbra, in un sorrisetto da maniaco sessuale in rodaggio.
«Una "ripulita"?» chiesi, con aria particolarmente indifferente, lucidando una forchetta già lucida da far schifo.
«Luca sarà anche bravo a scopare le vecchie, ma in quanto a stile è sciatto. Dai, Pulce, ammettilo che a stile gli do la paga!»
Luca era piuttosto trasandato, era innegabile. Fava era presentabile, e lo sapeva, e non perdeva occasione di ironizzare su questo aspetto. Nei bagni, quando arrivava, si atteggiava sempre a macho latino con il cazzo sempre sull'attenti, e io ne avevo la prova in prima persona. Ma in quanto a magnetismo, il primo giocava in serie A, il secondo annaspava nel campionato della parrocchia. Fava faceva continuamente allusioni agli aspetti dove si riteneva migliore di lui, sempre in una maniera esasperatamente spocchiosa. Questo, negli ambiti in cui ci avevo avuto a che fare, lo rendeva insopportabile e, spesso, anche ridicolo.
Tuttavia, pur di tagliare corto, avevo annuito vigorosamente alitando su un coltello per migliorarne ancora di più la lucentezza. Persino la Regina Elisabetta ne sarebbe rimasta soddisfatta.
«Be' se non ritrova un po' di stile, non può fare il puttano di alto bordo a tempo pieno.» continuò imperterrito.
«Guarda che per lui è un lavoro come un altro, mica la sua massima aspirazione.» cercai di partecipare al suo monologo, mentre la bocca dello stomaco andava stringendosi per il disappunto.
«È questo che ti ha raccontato? Sveglia! Luca vuole il cash, mica come me, a cui bastano i sentimenti.» di nuovo il suo pesante appoggiarsi alla mia spalla con il braccio, con tanto di complice scrollatina e tastata della patta.
Fava, che uomo al limite inferiore della decenza.
Eppure iniziai stoicamente a tollerare tutte quelle indesiderate attenzioni, perché quasi giornalmente Fava mi regalava qualche minuto a parlare di Luca. Era un rapporto asimmetrico, in cui lui godeva del potermi mettere le sue mani addosso senza trovare gli ostacoli che avrebbe meritato, e io ricevevo qualche notizia sul mio vicino di casa desaparecido.
Ormai io e Luca non ci incrociavamo nemmeno per sbaglio da giorni. Il fatto che non mi avesse mai cercata, che non si fosse mai più materializzato alla mia finestra da quella sera in cui avevamo fatto sesso, la diceva lunga su quanto ci tenesse al nostro rapporto.
Facendo quell'alternanza, io non avevo modo di vederlo a scuola e quindi era completamente assente dal mio campo visivo. Purtroppo non dalla mia mente, nonostante la mia vita in quel periodo fosse una corsa continua: finivo i servizi dello stage, galoppavo a casa, mi docciavo sperando che il sifone non mi cascasse in testa, e tornavo per quelli della sera che il padrone del locale mi (sotto)pagava.
Aveva apprezzato subito il mio lavorare in estremo silenzio, la mia totale mancanza di esuberanza e il fatto che alla proposta di rimanere anche la sera pagata, non avessi fatto come prima domanda «Pagata quanto?».
A me bastava fossero soldi, ma non avevo considerato che la sera il lavoro era ben diverso, molto più serio. Meno pranzi con vecchie cariatidi abitudinarie, e più cene di livello, persone esigenti, spesso arroganti, ben consapevoli della differenza tra chi serve e chi si fa servire.
Sabato fu un giorno particolarmente complicato, lungo, faticoso. E non fu facile, per me, resistere a tutto quel tempo in piedi a sentirmi abbaiare ordini. Non erano infrequenti, nei piccoli ambienti di quel ristorante storico della città, i tavoli dove personaggi facoltosi, portavano fuori ragazze ben più giovani di loro, strizzate in abiti succinti.
«Vero amore.» ironizzavano i camerieri tra di loro mentre si incrociavano nelle zone lontane dai clienti. Le loro risatine mi lasciavano con un po' di amaro in bocca, mentre pensavo che, a ogni apertura della porta, potesse entrare una qualche cariatide con il mio amico d'infanzia appresso, magari ben vestito e con uno sguardo meno apatico di quello che gli avevo visto dipinto in faccia l'ultima volta in cui l'avevo incrociato.
Mi sembrava assurdo che un ragazzo come lui non potesse fare diversamente per tenere in vita quel cumulo di merda che per anni lo aveva menato a sangue, ma mi sembrava altrettanto, se non più assurdo, che questo dovesse totalizzare la sua esistenza.
Che avesse ragione quello stronzo di Fava? Che Luca, così avulso da provare veri sentimenti, così duro emotivamente, si fosse davvero convertito a puttano di alto bordo non per bisogno, ma per vocazione? Che vendesse il proprio corpo perché il frusciare del denaro gli dava una scossa mentale più forte di tutto il resto, compreso stare con una persona come me, che lo aveva salvato mille volte in quegli anni?
Chiesi di fare una pausa di cinque minuti, immaginando di finire a frignare per le ultime considerazioni che mi ero fatta, e subito uno dei lavoranti della cucina mi allungò un sacco enorme che nemmeno Babbo Natale. «Visto che ci sei, approfittane per buttare l'immondizia, allora.» mi ordinò.
Caracollai svogliatamente verso i bidoni sul retro del ristorante, dove c'era l'ingresso del garage sotterraneo ricavato dalle vecchie cantine di quel palazzo signorile dove sgobbavo come una serva della gleba. Mentre gettavo l'immondizia, un paio di fanali mi accecarono, al punto che dovetti ripararmi gli occhi con una mano per guardare meglio in quella direzione. Vidi la macchina girare per infilarsi nel parcheggio e fu allora che la luce del lampione illuminò il conducente.
Bobbi.
Mi sembrò quasi di sentirlo il rumore della mia mascella frantumarsi contro il pavimento.
Dopo tutta quella fatica, quei pensieri pesanti e quel malessere che già di mio mi portavo dietro, pensare a lui dentro il locale mi diede un'ulteriore mazzata. Strisciai verso i bidoni, soppesando la possibilità di fingere di non sentirmi bene, inventare una chiamata da parte di mia madre, o una qualsiasi cosa che mi desse la possibilità di svignarmela da quel luogo seduta stante.
Ma a ben vedere, pensai, era lui quello che aveva più da perderci nell'incontrarmi casualmente in un ristorante. Magari era con sua moglie, magari mi sarei potuta gustare qualche scena di puro disagio da parte sua, nel vedere gironzolare per il locale la ragazzetta a cui aveva sganciato trecentomila lire in cambio di un sorriso post orgasmo da sfoggiare nelle tradizionali foto dietro la torta nuziale con tanto di ignara consorte, appena mezz'ora dopo averle messo l'anello al dito.
Ero talmente soprappensiero che a stento mi accorsi di essermi tagliata un dito con il coccio di una bottiglia di vetro che fuoriusciva dal sacco di plastica nero.
«Sei la solita Pulce imbranata.» mi avrebbe detto Luca.
Peccato che lui non c'era.
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