❥ 𝕳ansel e 𝕲retel
Appena si rese conto che ero rimasta lì impalata, Bobbi si limitò a una lieve pressione sui fianchi. Il sorriso dipinto sul suo volto spigoloso, a metà tra l'ironico e lo spazientito, fu come una secchiata d'acqua gelida, ma non riuscì comunque a ridestarmi da quella trance in cui ero profondamente caduta. I miei piedi sembravano essersi incollati al terreno, gli occhi ancora fissi sul punto del corridoio oltre il quale Luca era sparito.
Non riuscivo a muovermi. La mia mente deragliava, testarda, sul binario delle domande scomode, interrogandosi a ripetizione su cosa ci facesse Luca lì e, soprattutto, per quale motivo mi avesse completamente ignorata, scantonando via come se non mi conoscesse nemmeno, come se non fossimo stati una cosa sola da quando eravamo nati e per fare pace bastava intrecciare i mignolini.
Poi eravamo finiti per intrecciare molto di più e allora le cose erano diventate più complicate. O forse ero io a essere rimasta troppo semplice, o magari troppo cogliona, ma, cazzo, evitarmi in quel modo era davvero troppo.
«Ma cosa...» balbettai senza riuscire a terminare la domanda, perché Bobbi, con fare urgente, mi abbrancò un'altra volta il polso e riprese a camminare, costringendomi ad arrancare dietro il suo passo di marcia per non cadere.
Peggio di un disco rotto, riuscivo solo a pensare a quanto fosse assurdo che quella notte Luca fosse proprio là, l'eco della sua presenza mi aveva letteralmente gelato il sangue. Istintivamente mi guardai intorno, pronta a incrociare il suo sguardo nascosto in angoli ciechi, tanto che, a un certo punto, smisi persino anche solo di provare a capire dove mi stesse portando Bobbi. Lasciai che traghettasse il mio corpo, mentre i miei pensieri continuavano a scivolare in un baratro senza via d'uscita e silenzio e fiele mi si impastavano nella bocca. Il mio accompagnatore non disse una parola e mi chiesi come fosse possibile che uno che millantava così tanto di capirmi, non si fosse accorto dell'uragano che mi imperversava dentro nel frattempo.
Il resto lo facevano l'alcol e le luci ipnotizzanti di quella casa con così tante stanze che avrebbe potuto ospitare un esercito. Era come se tutto, attorno a me, fosse sommerso in una nebbia dentro la quale non riuscivo più a orientarmi. Un susseguirsi continuo di facce che mi sembravano tutte uguali, tirate, sfatte, allucinate. Pupille dilatate e sorrisi da Joker, odore di sesso, di sudore, musica sempre più assordante e dai bassi profondi.
Mi persi, letteralmente.
Non sapevo più dove mi trovassi, se non fosse stato per Bobbi mi sarei di sicuro accucciata in un angolo qualsiasi e avrei imprecato a fior di labbra per non essermi lasciata dietro qualche traccia, come Pollicino con le sue briciole di pane, qualsiasi cosa pur di riconoscere la strada di casa. Ma Bobbi c'era eccome, mi era vicino quasi più di quanto riuscissi a tollerare, una presenza sempre più marcata. Il suo tocco sempre meno gentile mi trascinava attraverso quello che mi parve il più intricato dei labirinti, le sue parole assumevano un sapore sempre più amaro – devi essere più malleabile, Pulce. Non puoi tirarti indietro ora, Pulce. Devi essere disposta a tutto, Pulce.
Arrivava ovunque, Bobbi, come una medicina iniettata dritto in vena, eppure certi vuoti restavano impossibili da colmare.
Nausea.
Era quella l'unica sensazione che mi teneva ancorata al mio corpo, per il resto sentivo solo un'enorme voragine.
«Bobbi, devo andare in bagno, non mi sento bene.» biascicai. Mi staccai di colpo dalla sua presa con uno strattone quando non ce la feci proprio più a sentire la bile corrosiva risalirmi in gola. Non mi curai minimamente di aspettare una sua replica, subito mi catapultai a percorrere il corridoio a ritroso alla ricerca di un bagno, piantandolo in asso lì, con parole inespresse sulla sua bocca distorta dal disappunto. Mi misi a correre, meccanicamente, senza neanche rendermene conto.
Magra consolazione, il bagno, almeno, fu facile da individuare: era l'unica stanza che teneva fuori la porta una fila scompigliata di persone. Sgusciai in mezzo a un gruppetto di fanciulle più svestite che vestite, un tizio di mezza età che aveva tutta l'aria di essere in preda a una crisi d'astinenza da manuale e una coppia di uomini che stava dando spettacolo a ridosso della parete, palesemente impazienti di entrare per smettere di limitarsi a far frizionare le rispettive erezioni soltanto contro i tessuti dei loro pantaloni eleganti.
Li superai tutti, con una mano davanti alla bocca che mi impediva di chiedere permesso, oltre che di riversare il contenuto del mio stomaco direttamente sulle lastre pregiate di Carrara. Ignorai le catene montuose di coca sparse sul ripiano dei lavandini e mi fiondai al gabinetto, senza preoccuparmi neppure di chiudere la porta alle mie spalle, piegandomi così di fretta che mi sbucciai le ginocchia.
Sentii il mio stomaco contrarsi, comprimersi e svuotarsi in uno spasmo al limite del doloroso.
Pensai che tutta l'ansia per la storia del progetto che mi aveva accompagnata nei giorni precedenti fosse la vera responsabile del mio malessere, acuito ancora di più dallo champagne e, mentre mi ripulivo maldestramente la bocca con il dorso della mano, sperai di aver rigettato via anche la paura che tutta quell'aria malsana mi si attaccasse addosso, dentro, negli interstizi delle cellule, crescendo e progredendo come un cancro.
Avevo il fiato corto e gli occhi che mi lacrimavano per lo sforzo. O almeno questa è la ragione che gli attribuii in quel momento.
Per riprendermi, mi accasciai un attimo con la schiena al muro e mi rannicchiai con le ginocchia al petto, poggiandoci sopra la testa. Chiusa a riccio, come a ridurre la realtà a un piccolo spazio senza mura, grande quel poco che bastava perché ci stessi soltanto io.
«A chi cazzo è venuto in mente di portare quella?»
«Lascia perdere. Sai che non puoi rovinare la festa per una cosa così...»
«Non è una "cosa così", Giò. È un'intrusa!»
«Ma chissenefrega, dai. Hai mica visto il mio perizoma?»
«Eccolo, tieni. Mandala via, Giò. Parla con quella cazzo di Monica e mandala via.»
Le parole mi giunsero smorzate, ma comprensibili. Colsi distante lo sbattere della porta e l'eco ovattato della musica. Un dolore martellante mi assaliva le tempie, e avevo ancora quel saporaccio acido in bocca. Non so quanto tempo fosse passato, forse mi ero addormentata, oppure svenuta. Sapevo solo che avevo le gambe indolenzite per essere stata troppo tempo ferma nella stessa posizione e la preoccupazione che Bobbi mi stesse dando per dispersa mi pungeva sottopelle.
Il suono di una risata sottovoce mi ridestò. «Gesù, Luca, ma perché ti scaldi tanto? È una come tante, scrollatela.»
«Non è capace. Fidati, lo dico per esperienza. Nemmeno un pompino decente sa fare.»
Non fu nemmeno necessario, a quel punto, sentire di nuovo il suo nome. Avrei riconosciuto quell'accento, quella cadenza strascicata tipica del Chernobyl tra mille.
Avrei riconosciuto la sua voce, tra mille.
Forse fu quella a farmi trovare la forza di aprire gli occhi. Il gelo mi vibrava nelle ossa; ancor prima che potessi pormi delle domande, nella mia mente s'innescò un frenetico meccanismo di difesa.
Mi alzai a fatica, reggendomi contro il muro, e solo quando fui in piedi la mia immagine disastrata si riflesse nell'enorme specchio che ornava la parete opposta, al di sopra del lavandino, scontrandosi con lo sguardo intriso di malcelato sbigottimento di Luca e quello confuso del suo amico mezzo nudo che si stava applicando in maniera magistrale l'eyeliner.
Fu un attimo, perché l'odore che avevano i miei pensieri quando deflagravano su di lui, Luca sapeva riconoscerlo.
Rimanemmo a fissarci attraverso lo specchio, immobili, probabilmente entrambi in attesa che fosse l'altro a fare la prima mossa, a parlare per primo.
Mi guardò a lungo, con quei suoi occhi stupidi. Odiavo quegli occhi quando erano stupidi in quel modo, quando dicevano qualcosa e la negavano al contempo. Non c'era traccia di rimorso per aver riferito a me quei suoi discorsi di merda, ma la consapevolezza che io avessi inteso tutto, che lo avessi colto in flagrante, quella c'era eccome.
«Okay, io me la batto. Non voglio essere una vittima innocente del vostro remake di Mezzogiorno di Fuoco, cocchini.» la voce acuta e incoerentemente graffiante del tizio truccato s'infiltrò tra le nostre scambievoli minacce silenziose. Poi si voltò a guardarmi: aveva lunghi capelli castani, tatuaggi tribali sulle parti del corpo visibili sotto una folle canotta trasparente e un paio di pantaloni di pelle in puro stile Iggy Pop. Mi rivolse un sorriso, un cenno divertito di saluto a Luca, e sparì, chiudendosi la porta alle spalle.
«Così, eccoci qua. Senza pubblico, come piace a te.» Era concentrato. Scandagliava ogni tratto di me come volesse decifrarmi.
«Difendi il tuo palo come le puttane.» sbraitai disgustata dall'espressione incolore che Luca si cucì addosso; il suo sguardo era ghiaccio, avvertivi solo freddo incrociandolo.
Spezzò l'aria con la sua risata bassa, macchiata da vacua ironia, e si voltò a guardarmi con calma solenne – come chi non ha fretta e gusta ogni attimo come il più prezioso dei vini.
«Sei nel posto sbagliato.»
«Solo perchè è il tuo?»
La cosa terribile non era che lui stesse agendo come una puttana che difende lo spazio conquistato, ma che io lo affrontassi sullo stesso piano e con il medesimo linguaggio. Ma, in quegli attimi convulsi, non mi passò nemmeno per l'anticamera del cervello che stavo giocando il suo stesso gioco.
«Evitiamo le solite insinuazioni del cazzo, Pulce. Qui non ti ci voglio, punto.» replicò, con uno sguardo durissimo dietro alle ciocche ondeggianti, digrignando i denti.
La mia calma non vacillò. Colma della mia voglia di rivincita, pensai al progetto, al fatto che io fossi lì con uno scopo ben diverso dal suo, di gran lunga più elevato che fare pompini. Che lui mi ritenesse poco brava in quello o in qualunque altra cosa avessimo fatto insieme, poco importava, perché io, a differenza sua non ero lì per vendermi.
«Non credo proprio che questa sia una decisione che ti riguarda. Io sto dove mi pare.»
«Cos'è? Ora che ti sei trovata quello, il tizio del matrimonio, hai finalmente il lasciapassare per questa bolgia che tanto dici di rinnegare e che in realtà ti piace da matti?»
«Non sono qui per fare servizietti come te, quindi smettila! Bobbi non è questo, lui...»
«Lui cosa, Pù?» mi interruppe bruscamente. Il profilo squadrato della mascella gli s'indurì, negli occhi solo oro in fiamme: il solo nome di Bobbi sulle mie labbra aveva detonato anarchia nel suo sguardo spietato.
«Quanto ti dà?» aggiunse, consumando qualche passo verso di me. Tutto urlava che non era il solito teatrino, la solita litigata che finiva con una birra calda tra le mani da berci un sorso ciascuno con i culi appoggiati su un qualsiasi cofano scassato giù al Chernobyl. No, quello era uno squarcio, probabilmente troppo grande per poter essere rattoppato.
«Cos'è questa, mh? Cos'è, Luca? Invidia? O sei solo geloso che mi scopo un altro?»
«Non fare la cretina con me! Forse quel coglione ci ha creduto che eri vergine quando te lo sei fatto, ma io sono un po' più intagliato di così.»
«Non mi paga per scopare. Ti brucia solo che io, a differenza tua, ho trovato una persona a cui interesso veramente, che mi apprezza per le mie idee, per l'impegno che ci sto mettendo nella realizzazione di un progetto importante! E se mi dà dei soldi è solo perché magari non vuole che intanto io muoia di fame o mangiando marmellate al botulino mentre mia madre pensa ai pergolati!»
Quell'esplosione di verità e silenzi, ci condannò al nostro solito destino, quello di non capirci mai. Luca assorbì le mie parole, poi aggrottò lo sguardo, macchiato del solito bacio di fiamma, e rise.
Una risata che rimbombò direttamente nella mia cassa toracica.
«È questa la favoletta che ti racconti, allora? Davvero non capisci? Quello che pensi tu, è ininfluente. Ti sta solo usando e, quando si stuferà, tornerai a sguazzare nella solita merda. Vattene da 'sto giro, Pulce, fidati. Che forse un'alternativa c'è ancora, per te.»
«Un'alternativa?» La mia voce subì un'impennata, travolta dall'esasperazione. «Lascia che ti illumini: l'unico ad avermi sfruttato, ad avermi trattato come una puttana, l'unico capace di farmi sentire peggio di un virus mortale... quello sei tu.»
Il suo sguardo fuggì altrove. «Non è come credi.»
«E dimmi a cosa dovrei credere, invece!»
«Non capiresti.»
«Non darmi della stupida.» imperai, ma la voce uscì tremolante, rendendo evidente che si trattasse solo di un'implorazione nascosta male.
Luca mi guardò a lungo, niente più che la mera rappresentazione di se stesso, prima di ripetere: «Non capiresti.»
Le mie mani tracciarono nell'aria un gesto frustrato. «Ne ho abbastanza. Io me ne vado.»
Riuscii a staccarmi dall'orbita vuota che Luca portava con sé, gli diedi le spalle e poggiai la mano sulla maniglia per uscire definitivamente da quella stanza, con la stessa foga con cui lui mi aveva cacciata fuori dalla sua vita.
«Guardami.» la sua intimazione eloquente mi raggiunse e mi bloccò sul posto.
«Non perderò altro tempo con te, Lù.»
«Guardami, ho detto.»
Mi voltai, seppur controvoglia. Luca si fece avanti, guardandomi negli occhi, e si fermò a pochi centimetri dalla mia bocca. Così pochi che, nonostante tutto, avrei voluto che li annullasse completamente. Silenzio, sospiri e distanza in rapida diminuzione, mi fecero addirittura socchiudere gli occhi.
Ma sul filo delle labbra, a schiantarsi furono nient'altro che altre parole velenose.
«Questo è il mio mondo, Pulce, non il tuo. Vattene da qui, e poi fottiti tu e tutti i viaggi che ti fai.»
La delusione fu un boccone amaro da buttare giù, e fu impossibile non farla trasparire da ogni singola sfumatura della mia voce.
«Sei patetico, ancora a difendere il tuo pezzettino di marciapiede, nonostante ti abbia ripetuto più volte che io non sono come te. Non mi faccio fottere per soldi, io.»
«Se credi davvero a quello che dici, allora sei stupida, oltre che geneticamente troia.»
Lo schiaffo fu fulmineo, netto. Una traccia rossastra comparve sulla sua guancia.
Il tempo divenne fluido tra le mie dita e il silenzio magma. Luca levò di nuovo lo sguardo su di me, con estrema lentezza e la sua voce uscì cavernosa dal recinto dei denti.
«Sei qui con un pedofilo ed è me che prendi a schiaffi. Complimenti, Pulce.»
Era veleno, quello che sentivo arrampicarsi inesorabile lungo le vene, fino a esplodermi nelle membra?
Il conato arrivò fortissimo, talmente forte che ebbi l'impressione di dover rigettare l'intero organo del mio stomaco nel lavello di design che riuscii a raggiungere per un pelo.
Non ebbi neanche il tempo di rialzare la testa, però, che sentimmo bussare alla porta e non fummo più solo io e lui.
Un finale inaspettato, ma, forse, prevedibile.
«Pulce, sei qui dentro? Tutto bene?» la voce di Bobbi aldilà del pannello di legno arrivò ovattata; mi sembrò quasi di sentire il velluto del suo respiro.
Pedofilo.
Quella parola continuava a pulsarmi nella testa, a conficcarsi come una scheggia tra i tessuti molli dei miei organi.
Pedofilo.
Avrei voluto dire "tutto okay, B", ma mentire non sarebbe servito a liberarmi dalla paura che tutto si rivelasse l'ennesimo valzer di maschere.
Pedofilo.
Non sentendo nessuna mia risposta, Bobbi irruppe nella stanza, mani nelle tasche, sguardo che saettava a intermittenza tra me e Luca.
«Stai bene? Ero preoccupato.»
«Adesso sì, ho solo bevuto troppo champagne.» La sua voce era macchiata di una fragile calma, la mia, invece, era come ghiaia.
Mi scrutò in viso, forse alla ricerca di un qualsiasi segno che confermasse la mia versione, e non trovando nulla che mi smentisse, lanciò un'ultima occhiata diffidente a Luca. Se ne stava immobile a pochi passi, come se si trovasse lì, chiuso con me in quel bagno, solo per caso. Poi Bobbi mi aiutò a rimettermi dritta e mi sorresse, scortandomi fuori.
Stava tutto precipitando, lo sentivo dentro di me, stava precipitando tutto in un gorgo nero. Volevo un appiglio, ma l'unico che mi si parava davanti era Bobbi, la persona su cui avevo riposto le mie speranze e che ora, dopo le parole di Luca, vedevo sotto una luce diversa.
Ma a chi dovevo credere?
Al mio ex amico stravolto dalla sua stessa sete di denaro? O a colui che più volte mi aveva scopato per scoparmi, ma che mi aveva regalato un progetto e delle speranze, alimentate con il suo interesse?
A quello che mi aveva voltato le spalle, o a chi mi stava anche in quel momento tendendo la mano, sorreggendomi?
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