❥ 𝕱rozen
Non ero mai stata grande amante della vita sociale, anche perché il Chernobyl non aveva nulla di stimolante da offrire sotto quel punto di vista.
In realtà non aveva nulla di stimolante da offrire, punto.
Ma per quanto riguardava lo svago riusciva addirittura a superarsi in quanto a schifo: il cinema era stato chiuso dai NAS nove anni prima per essere diventato la sala parto di intere colonie di topi, un teatro non era mai esistito, di discoteche neanche l'ombra.
Per farla breve, anche il più morigerato dei santi, a vivere lì, avrebbe cominciato a drogarsi, non essendoci nient'altro di meglio da fare.
Ciononostante, quel venerdì, la signora Biggi sembrava aver piantato i rampini della tenda nel mio salotto, con la scusa di aiutare mia madre a farsi la tinta - ché adesso era colpa di quei cattivoni dei capelli bianchi che quel concentrato di neuroni con le convulsioni non riusciva a trovare uno straccio di lavoro, mica della crisi o del territorio che non offriva nemmeno una merdosa opportunità. No, erano i capelli bianchi il problema.
A sentire i loro discorsi, avevo buttato gli occhi al cielo così tante volte che temetti una sincope e quando le due mi chiesero di unirmi a loro a guardare per la quindicesima volta Patrick Swayze uscire dal suo guscio di bel tenebroso per salvare a colpi di bacino danzante un'orrida ragazzina altolocata da una vita facile e agiata sotto la campana di vetro di suo padre, capii che era proprio arrivato il momento di uscire.
Biascicai un saluto stentato nel momento in cui stavo per varcare la soglia e non mi sfuggì il modo in cui mi squadrò la vecchia arpia. Si vedeva chiaramente che stesse aspettando solo che mi richiudessi la porta alle spalle per sperticare commenti velenosi su di me, su come mi ero vestita, sul fatto che uscissi da sola, senza neanche più quel drogato del dirimpettaio ad accompagnarmi. Chè meglio un drogato a fianco che niente, visto che nella sua mente bacata bastava avere un pene per diventare un cavaliere dalla scintillante armatura d'argento.
Certo, come no. O forse la vecchia megera del piano di sopra era solo invidiosa che io fossi un'adolescente non cerebrolesa, mentre il suo penedotato figlio unico e prediletto preferiva rinchiudersi in casa a consumarsi di VHS di porno tedeschi, piuttosto che avere cose normali. Tipo gli amici, ad esempio.
Il quartiere era pieno di scarti umani ed edilizi, ma questo non impediva agli esseri umani - quelli normali, almeno, non il figlio della Biggi - di scialacquare il proprio denaro per credersi non troppo diversi da chi abitava solo due chilometri più in centro. In un modo o nell'altro, il venerdì sera si davano una lustrata e scemavano verso quella direzione, illudendosi, per qualche ora almeno, di essere giovani cittadini come tutti gli altri, pettinati come Brandon Walsh o Kelly Taylor, e rincorrendo paradisi artificiali simili a quelli che ti procurava Seb, solo più costosi perché, ehi, è pur sempre venerdì.
Pensare di trascorrere un'altra serata da sola appesa a un'altalena, a dondolarmi tra l'estasi e l'ischemia cerebrale, era fuori discussione allo stesso modo di seguire la massa in quella migrazione da lobotomizzati verso quella finta normalità patinata.
Per quelli come me che non temevano di andare all'inferno per essere rimasti nel perimetro del Chernobyl nonostante - udite, udite - fosse venerdì, c'era un unico luogo che l'ufficio igiene non avesse ancora chiuso dove potersi ubriacare: l'Irish Pub.
Nonostante il nome così tradizionale, non era nient'altro che il basso di una palazzina a due piani che teoricamente avrebbe dovuto ospitare diversi negozi, mentre, in pratica, il pub non aveva un beneamato nulla al suo fianco, se non una misera tabaccheria. Da anni si vociferava che il comune volesse aprirci anche una farmacia, ma fino alla sei di sera la tabaccheria continuava a restare solitaria e smunta, almeno fin quando l'Irish non apriva i battenti, ospitando prevalentemente ragazzi senza una lira che bevevano solo grazie al servizio di ricettazione che Dante e Uby tenevano al tavolino di plastica del tabaccaio.
L'intensa insegna verdearancio dell'Irish faceva letteralmente a pugni con la desolazione che lo circondava. Dentro era grande e orrendamente illuminato come tutti i pub che si rispettino, ovunque ci si impuzzava di patatine fritte e crocchette di pollo dozzinali. Solo la birra era decente, perchè la compagna del padrone era cecoslovacca e aveva strappato un prezzaccio per la fornitura di Pilsner Urquell direttamente dal birrificio, portata in Italia da suo fratello, un ultras nazista del Dukla Praga, o almeno così dicevano.
A me la birra non faceva impazzire, con le sue bollicine e la schiuma che rimaneva sulle labbra, ma la preferivo alla salmonella che si rischiava con gli altri prodotti del locale. Perciò avevo parcheggiato la bici con l'idea di berne un paio e magari fumare a sbafo da qualche ex collega di mio padre, tra quelli più giovani, a cui avrei fatto tenerezza in quanto orfana.
Non andò come previsto: appena entrai, facendo tintinnare il campanello sulla porta, i pochi clienti stravaccati sulle panche di legno scuro e un po' consumato si erano a malapena voltati, regalandomi soltanto sguardi vacui.
Sola, con la bottiglia che mi dondolava tra le mani, non avevo trovato nulla di meglio da fare che guardare sfidarsi, sul biliardo punteggiato di macchie, due tizi ormai stempiati, uno con il codino e uno con i baffi ingialliti dal fumo che ricordava l'uomo della Birra Moretti. Più che biliardo era motocross, ma a loro sembrava andare bene comunque.
Ad un certo punto, sull'altro lato del tavolo di gioco, in penombra, comparve Luca. Aveva la solita aria indolente sebbene lo sguardo fosse tutt'altro. Era come se il resto del corpo fosse sereno, mentre le sue orbite sguazzassero nel pieno dell'ansia.
Quando mi parve di incrociare i suoi occhi, non li distolsi, giusto per fargli capire che nonostante la luce da cripta gotica, avevo visto che era lui. Non smisi di fissarlo neanche un attimo, neanche mentre facevo ruotare distrattamente la poca birra rimasta nella bottiglia, o mentre percorrevo con le dita le lettere delle dediche incise con le punte dei coltelli nel legno ultracentenario del tavolino. Finché non si decise a fare il giro, con una lentezza esasperante, per appollaiarsi sullo sgabello accanto al mio.
Passò due volte gli incisivi sul labbro inferiore prima di aprir bocca.
«Per chi fai il tifo?» chiese ingollando in un sol sorso metà del contenuto del suo bicchiere, senza guardare me, ma il tavolo da biliardo.
«Mi godo solo lo spettacolo.»
«Ah. Non fai più preferenze neanche in questo.»
Mi diede fastidio quella frase, o forse fu solo il modo dispregiativo con cui le parole gli uscirono dalla bocca, e mi diede ancora di più fastidio il fatto che, guarda caso, attorno a quel tavolo di biliardisti sgangherati, si fossero già radunate almeno un paio di ragazzette di seconda superiore, che avevano evidentemente rubato la trousse alla madre di una di loro, dimenticandosi però di leggerne le istruzioni d'uso.
«Almeno io non volto le spalle.» lasciai scorrere un paio di secondi di studiata pausa ad effetto. «Al biliardo.» sputai fuori, rimarcando tra i denti quella parola.
«Melodrammatica.»
Luca si strinse nelle spalle, raschiando via dalla superficie del tavolo una gocciolina di birra colata dal suo bicchiere, con l'aria di uno che ci teneva più a prestare attenzione alla pulizia che a me. Stronzo.
«Almeno in questo non sei cambiata.»
Quel sorriso di scherno che gli fiorì sulle labbra, sotto agli occhi nervosi, fu la goccia che fece traboccare il vaso della mia pazienza.
«Come credi.» mugugnai con sufficienza, per non dargli nemmeno la soddisfazione di vedermi incazzata.
Se c'era una cosa che Luca Morelli odiava, nel bene e nel male, era l'indifferenza. E io lo conoscevo troppo bene per non approfittarne. Feci tintinnare la mia birra contro la sua, mi alzai da quello sgabello che iniziava a essermi comodo come le scarpe della prima comunione e gli diedi le spalle per uscire a prendere una boccata di quell'aria che sembrava sempre più mancarmi.
«Stai facendo le serali per diventare una stronzetta supponente? Eri meglio quando ti limitavi a oh sì, oh ti prego, oh di più.»
I miei piedi si bloccarono di colpo.
Mi voltai a guardarlo appena da sopra una spalla, livida. «Fanculo.» fu tutto quello che sibilai e, un attimo prima di dargli la schiena e andarmene, quasi mi parve di scorgere uno strascico di rammarico nel modo in cui si ficcò entrambe le mani nelle tasche scolorite dei Levi's. Jeans palesemente rovinati da qualche lavaggio sbagliato, ma comunque di marca.
L'aria che mi investì in pieno petto varcando la soglia del locale, mi destabilizzò. Da brava masochista non avevo indossato le calze e fuori c'erano sì e no dieci gradi, anche se nessun freddo era paragonabile a quello che sentivo dentro. Era sempre una lotta, con Luca, fra la gioia di rivederlo e l'esasperazione a cui riusciva a condurmi con due parole in croce, sempre sballottolata tra gli opposti delle mie stesse sensazioni, una battaglia senza quartiere tra la delusione di ciò che eravamo diventati e la soddisfazione di averlo smosso almeno per un attimo dalla sua apatia.
Me ne stavo ad armeggiare con la cerniera della borsa sfasciata che s'incastrava la metà delle volte e l'altra metà mi rimaneva in mano, sbuffando come una locomotiva, quando scorsi Seb. Il venerdì sera lasciava le altalene per posizionarsi in un posto più strategico per il suo business. Il suo preferito, era il retro di quella palazzina, in fondo alla piccola rampa di scale che scendeva verso un bugigattolo. Doveva essere il magazzino dell'Irish, ma vi assicuro che l'unica roba decente che aveva visto quel luogo era quella di uno spaccino, e nemmeno dei migliori. E questo lascia perfettamente intendere la qualità dei distillati che si potevano trovare nell'unico pub di tutto il Chernobyl.
«Ehi.»
«Ehi, Pulce. T'è piaciuto il viaggio, poi?»
«Mh.»
«Ti sei ripresa, mi pare.» Seb tirò su col naso e mi fece scivolare addosso uno sguardo.
Divorai avidamente quell'occhiata, che forse, ripensandoci, non aveva nulla di particolarmente lascivo o insistente, ma, in quel preciso momento, quello sguardo interessato per me fu come trovarmi davanti una torta al cioccolato dopo mesi di dieta ipocalorica. Disprezzavo Seb, spesso mi intimoriva con quella sua aria da cattivo ragazzo con i suoi anelli, la cicatrice che lo marchiava dal sopracciglio fin sotto lo zigomo e quei suoi occhi grigi che lo rendevano insondabile.
Ma non quella sera.
Tirai fuori dalla borsa dalla chiusura nevrastenica un pacchetto di sigarette ancora sigillato. «Mi fai compagnia?»
«Per?» Seb sollevò un sopracciglio, seguendo con lo sguardo gli scatti sconnessi delle mie mani sulla pellicola del pacchetto, sulla linguetta di plastica.
«Fumiamo. Una birra dopo, magari.»
«Pulce, ma che c'hai 'sti giorni?» chiese interrogativo, stringendosi nelle spalle. Non si mosse, rimase nella penombra di quel quadrato di cemento frastagliato in fondo alle scale.
«Dai, Seb.» insistetti. Avevo fretta, ma con quella mente ingolfata di Seb non era facile. Un'altra scatola cranica con l'eco.
Così mi toccò fare qualcosa per rendere il messaggio più esplicito.
Dopo una rapida prima boccata alla mia sigaretta, mi abbassai maldestramente, o forse no, e mi misi a sedere sul gradino più alto, fornendo al pusherino una buona visuale sul grado di accuratezza della mia ceretta all'inguine.
«Dai, Seb.» ripetei quasi in un miagolio, battendo la mano sul cemento accanto a me.
Lui rise, forse non sapeva nemmeno lui se più per incredulità o per nervosismo. Gli bastò distogliere da me lo sguardo una frazione di secondo, per riappiccicarmelo addosso acceso dalla malizia di una nuova consapevolezza: quella di una conquista facile.
«Vieni giù tu, Pulce. Troppi spifferi là sopra...»
Mi alzai, scesi le scale lentamente, lo vidi tastarsi in un gesto automatico il cavallo dei pantaloni, squadrandomi. Quando fui abbastanza vicina mi autoconvinsi perfino che non fosse così male: certo non era Bobbi, ma magari ci avrei rimediato almeno una canna gratis. E non era neanche Luca, ma almeno non mi disprezzava.
Mi spalmai addosso a lui senza tante cerimonie, seno contro torace, fiato che sapeva di alcol da discount, pelle che non rispondeva, un sapore che non conoscevo.
Non so se stavamo per baciarci, ma sicuramente avevo le mani nella zona giusta quando due parole ci calarono come una mannaia sulla testa.
«Stasera nevica.»
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top