❥ ?'era glaciale

Parapiglia di merletti e lustrini. E in mezzo Luca a dispensare sorrisi a una specie di Cerbero con tre teste attempate e un unico desiderio sotto la gonna.

Ero sul punto di masticare il filtro. Mi sarebbe piaciuto poter guardare quella scena come si fa con i film nonsense quando sei strafatta, l'unica occasione in cui riesci a cogliere l'ironia anche se non ce n'è per niente e ridi a prescindere. Ma, purtroppo, in quel momento non solo non avevo fumato nemmeno la cicoria, a quanto pareva ero pure la sola persona a capire veramente la situazione. Ed era raccapricciante.

I soldi, cazzo, sempre i soldi erano il problema. Erano un problema per i genitori senza lavoro, per i nostri desideri, forse erano un problema persino per le vecchie con la puzza sotto al naso che ne avevano troppi e faticavano a scambiarli con qualcosa che ricordasse loro di essere ancora vive.

Guardavo da lontano Luca, là che faceva il suo sporco lavoro da piazzista marchettaro: ormai non ci ragionava neanche più, era in modalità pilota automatico, con le inibizioni abbassate al minimo. E sapeva muoversi - Dio, se sapeva muoversi - come un felino che bracca la propria preda nel suo territorio. Un felino esperto, rodato. Ormai erano semplici automatismi imparati a memoria, azioni ben impresse per quante volte le aveva ripetute, di questo ne ero consapevole. Ma, cazzo, lui faceva sembrare tutto dannatamente reale.

E appiccava incendi ormonali anche a chi degli ormoni ormai aveva solo i fossili.

Me ne stavo lì, in disparte, a contemplare tutto questo come una di quelle spastiche con il gusto del macabro, finché, con la coda dell'occhio, non vidi una scintilla pizzicare il buio.

Mi ritrovai a fianco un tizio sulle sue. Appoggiato mollemente con una spalla contro il muro, sembrava molto annoiato da tutta quella baraonda. Stava fumando anche lui, ma la sigaretta se la gustava in una maniera parecchio differente da come la divoravamo noi di solito nei cessi della scuola. L'unico contatto con la festa sembrava essere il suo dito medio che tamburellava il ritmo della musica sul bicchiere che reggeva tra indice e pollice lungo la coscia.

Quello strano mix di disinteresse e musica tenuta a tempo finì per catalizzare del tutto la mia attenzione su di lui.

Fin quando non mi stanò a guardarlo.

Tirò su l'angolo della bocca in una specie di sorrisetto e si sentì autorizzato ad occhieggiarmi in silenzio, con un'insistenza malcelata. O meglio, non celata affatto.

«Ho finito i popcorn, se no te li offrivo.» lo apostrofai acida. Solo allora mi concessi un esame più approfondito: belloccio, sulla trentina, con un certo charme e quell'eleganza, per niente scontata, da persona sicura di sé e della propria presenza scenica.

«Ti sei imbucata?» mi chiese secco, ignorando di sana pianta la mia battuta antipatica e senza fare più niente per nascondere un sorriso divertito.

«E tu, ti sei imbucato?»

«Diciamo che non faccio parte degli invitati.»

«Nemmeno io, e me ne vanto.» replicai, azzardando forse più del dovuto con uno che era più simile a loro che a me, di sicuro.

«Fai bene, tieniti fuori dal branco il più a lungo possibile. C'è gente famelica.» piantò gli occhi in una direzione che mi parve essere proprio quella delle tre oche sulla sessantina con Luca in mezzo a fare il galletto. «E la fame a volte ti fa perdere la dignità.»

A quel punto, il sospetto si trasformò in certezza: si stava riferendo di sicuro alle signore che in quel momento alzavano i calici verso il mio amico d'infanzia, per poi abbeverarcisi senza staccargli gli occhi di dosso. Non mi veniva in mente nulla di diverso dall'aggettivo "patetiche" a guardare quel gruppetto, capeggiato da un'ossuta vegliarda. Aveva evidentemente fatto il tagliando mammellare e ostentava con orgoglio quell'anacronismo dentro un abito che costava cifre con troppi zeri.

«Ma chi, la vecchia baldracca col vestito color pesca?»

«È mia madre.»

Provate a immaginare che probabilità ci potesse essere di fare quella leggendaria figura di merda. Ma in fondo siamo semplicemente la somma delle coincidenze che ci sono capitate, no?

Il mio rossore improvviso stonò molto con la camicia bianca. Non ebbi il coraggio di dire nulla, il cervello era impegnato a capire perché ero stata così cogliona a spingermi a una battuta così recisa con un perfetto sconosciuto.

«Ehi, tranquilla. Chiunque dotato di occhi sta pensando quello che pensi tu. Ha messo corna a mio padre fino all'altro giorno. Adesso fa la vittima perché lui è in Thailandia per "lavoro". Si sa, chi semina vento raccoglie tempesta.»

E lui rise.
E anch'io risi.

Avevo appena dato della puttana a sua madre perché il mio migliore amico con buona probabilità se la sarebbe scopata insieme ad altre due racchie e lui stava ridendo, e io stavo ridendo.

«Beh, alla fine è una vittima allegra.»

«Povero camerierino, non lo molleranno facilmente.» affogò il commento in un lento sorso del liquido ambrato nel suo bicchiere. L'alcol gli inumidì lo spinoso sorriso che mi rivolse.

«Purtroppo non credo che che a lui dispiaccia.» mormorai tra i denti.

«Ah, fare il cameriere è più un hobby?»

«Non proprio. Diciamo che è più una copertura.»

«Peccato, perché, se proprio esiste una cosa che non ha prezzo, è esattamente quella per cui chiede soldi. E non ti parlo di amore, sia chiaro, ma secondo me ci deve essere comunque qualcosa. Attrazione, desiderio, persino rabbia, a volte.»

«Rabbia?» chiesi, interrogativa.

«Mai fatto sesso per rabbia?»

«No.»

Mi si avvicinò un po' con il busto. «Io lo trovo addirittura terapeutico.» soffiò a pochi centimetri dal mio orecchio, facendo arrivare una folata di calore in punti che credevo fossero andati in letargo da un po'.

Avevo mentito al tizio. In realtà il gioco del chiodo scaccia chiodo lo avevo fatto eccome, diverse volte. La cosa si era rarefatta semplicemente perchè ero passata da "passabile" all'inizio delle superiori, a "ripassabile" alla soglia della maggiore età, e in fondo non mi andava di essere diversa fuori da come mi sentivo dentro.

Attraversammo il giardino a una distanza che non lasciasse intendere che io lo stavo seguendo e che lui mi avesse chiesto di seguirlo; entrammo nella villa, dove c'erano alcune persone che, in piedi o sedute comode su divanetti di vera pelle, facevano stupide chiacchiere da salotto. Nessuno sembrava accorgersi di noi, forse perché era più importante commentare gli orribili orecchini di Tizia, o l'abito poco chic di Caia, o il pessimo profumo di Sempronia. Salimmo le scale, sempre lui davanti a me e io dietro di lui, che con un movimento lento del polso aveva già cominciato a slacciarsi l'orologio. Naturalmente un Rolex d'oro bianco e acciaio edizione limitata, dove ogni modello è numerato.

Non appena fummo entrambi dentro, chiuse la porta a chiave e mi fu addosso in un tempo così breve da non farmi accorgere che aveva una gran fretta di cominciare e, forse, anche di finire.

Una cosa tipo voglio tutto e subito, vedi di darti una mossa.

Farmi scopare dal tizio vestito bene, con la sua cravatta che mi strusciava sul collo e le sue belle scarpe di vernice che scricchiolavano sul pavimento di graniglia lucidata del bagno della villa, non so se fu terapeutico, ma mi diede un buon passatempo per arrivare alla fine di quella giornata infinitamente inutile. Quando fremette e si sfilò centrando in pieno con i fiotti gli ottoni brillanti del porta asciugamano, pensai addirittura che fosse una specie di giornata fortunata, per non doversi ritrovare al pronto soccorso a chiedere una pillola del giorno dopo a un medico dallo sguardo indagatore.

Ci stavamo rivestendo davanti allo stesso specchio della toilette, ma ciascuno per conto proprio. Io mi riabbottonavo la camicia, lui si sistemava la cintura, ognuno con la faccia dritta verso il proprio riflesso, come due sconosciuti in un ascensore.
Finii per prima di darmi una rassettata, visto che il mio contegno era talmente poco che avrebbe potuto essere misurato in gocce. Subito dopo posai la mano sulla maniglia e feci per uscire.

«Posso farti un regalo?» mi bloccai sull'uscio. Ancor prima di metabolizzare il senso della domanda, mi voltai a sufficienza per vederlo tirare fuori il portafogli dalla tasca posteriore.

«Io non mi faccio pagare, stronzo.»

«Facciamo così.» storse le labbra in un sorriso divertito e lo aprì. «Facciamo che ti pago per dirmi il tuo nome.»

Mi porse delle banconote, impossibile indovinare la cifra esatta, ma sembravano davvero tanti, tanti soldi. E mi servivano. Mi venne in mente mia madre e tutti gli sbattimenti, la casa, e lei che ancora ci provava a trovare un lavoretto con cui tirare a campare. Allungai la mano quasi in maniera inconscia, ma lui ritirò i soldi un attimo prima che potessi afferrarli. Allora lo guardai male, davvero male. Lui continuò incurante a ghignare.

«Allora? Mi dirai il tuo nome?»

«E tu mi dirai il tuo?»

«Va bene» disse.

«Va bene» gli feci eco.

Lasciò andare i soldi, me li ficcai in tasca senza nemmeno contarli.

Lo guardai. Mi guardò.
Aspettò, e io lo feci aspettare.

«I miei amici mi chiamano Pulce.» sputai fuori più acida del dovuto.

«Pulce?»

«Pulce.» ripetei.

Si mise a ridere, con le braccia incrociate al petto e la testa bassa. Poi alzò i suoi occhi scuri come caffè per guardarmi.
«Mia moglie mi chiama Bobbi.»

Ritenendola una cosa equa, girai i tacchi e me ne andai, con quelle che poco dopo scoprii essere trecentomila lire. Sei carte da cinquantamila nuove di zecca, sembravano essere state stampate la mattina stessa.
Pensai solo che con quelle ci avremmo campato fino al mese successivo. Nient'altro.

Filippo, a cui avevo lasciato il bar, appena vi feci ritorno mi guardò incazzato come una pantera.
«Ti sei fumata una quercia intera, stronza. Ma stai sicura che glielo dico a Mannoni.»

«Digli quello che ti pare, Fettina Panata. Sei riuscito persino a mozzarti un dito con l'apribottiglie.» indicai con il mento la lacerazione che copriva due sue nocche, ancora fresca, «Sei patetico.»

La nostra discussione fu troncata dal passaggio di due nostri compagni che smoccolavano sotto il peso della torta nuziale che stavano trasportando: una torre di babele ricoperta di pasta di zucchero. Sarebbe stata sufficiente a uccidere un diabetico anche senza tutti quegli stucchevoli ghirigori sopra, che barocco seicentesco siciliano spostati proprio.

Seguimmo con lo sguardo Tiozzi e Ferroni fino a vederli poggiare la torta sul tavolo centrale, dietro al quale la sposa si era già posizionata e sorrideva in una posa plastica. Lo sposo lo stavano cercando.

Mannoni tirò un sospiro di sollievo quando vide che quello scempio alla panna era arrivato a destinazione tutto intero, i due si fecero due passi indietro come brutte copie di corazzieri e, dopo un tempo abbastanza lungo da causare ansia a qualcuno, anche lo sposo raggiunse quella grande meringa bianca che non era la torta, ma sua moglie.

E fu come se una nuova era glaciale mi avesse congelato, lì sul posto.

Qualcuno gridò "Viva gli sposi!" e quelli sparsero sorrisi come se fossero due star di Hollywood davanti ai loro ammiratori nella notte degli Oscar. Tutti alzarono i calici, perfino Luca, capace anche stavolta di inserirsi bene nell'ambiente.

Solo io restai immobile, incapace di distogliere gli occhi dal novello sposo.

Era lui, Bobbi, senza alcuna ombra di dubbio, e fu piuttosto imbarazzante notare la macchia biancastra sulla sua scarpa di vernice.

I novelli sposi tagliavano la torta tutti felici, io intanto precipitavo in un vortice di pensieri.

Scopata terapeutica.
Mi era sfuggito il piccolo particolare che la terapia non era destinata a me, ma a lui. Io al massimo ero stata l'infermierina che si era prestata.

Il teatrino si spostò poco lontano, con la sposa che lanciava il bouquet a un gruppetto di cagne sbavanti. L'intero matrimonio poteva essere perfettamente riassunto in quella scena del tutto senza senso.

Mi ritrovai di fianco Luca, non sapevo che cazzo dirgli dopo quell'ultima ora così assurda, ma cercai di ricompormi perché sentivo di avere una faccia che si avviava verso lo sconvolto. Lui invece era maledettamente perfetto, nonostante si ostinasse a sistemarsi in modo convulso le ciocche di capelli mentre quelle negazioniste della terza età ammiccavano verso di lui.

«Pu', essere adulti fa più schifo che i cessi di scuola nostra.»

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