1. Parigi è per gli innamorati
Parigi è per gli innamorati. Forse è per questo che ci sono rimasto solamente per trentacinque minuti.
— Linus Larrabee, Sabrina (1954)
Autunno 2019
Parigi è sempre una buona idea, dicono.
A meno che tu non abbia il cuore spezzato e nessuna possibilità di riscatto.
Allora la Ville Lumière, città di innamorati e sognatori, è l'ultimo posto in cui vorresti stare.
Parlo per esperienza, visto che, fino a un mese fa, appartenevo anch'io a entrambe le categorie; anzi, credevo di essere a un passo dal coronare tutto ciò per cui ho lavorato in questi anni, con un avanzamento di carriera e una proposta di matrimonio.
Sino a trenta giorni fa, infatti, ero Marina Benedetti, trentacinquenne dottoressa di ricerca in Filosofia Morale, in possesso di tutti i requisiti richiesti per un incarico da maître de conférences in una delle università più prestigiose al mondo, la Sorbonne, che conosco come le mie tasche. Dopo anni trascorsi tra i suoi corridoi, la consideravo ormai una seconda casa, perciò nulla di strano, almeno così pensavo, che fossi tra i candidati più quotati a ottenere l'incarico nonostante la giovane età in relazione all'ambiente accademico.
Secondo il mio piano perfetto, in seguito alla soddisfazione professionale sarebbe arrivata quella sentimentale.
Jean Paul Moreau, mio ragazzo da un numero sufficiente di anni perché fosse ammissibile portare la nostra relazione a un livello successivo, mi aveva proposto di andare a cena in uno dei bistrot più alla moda della città, nei pressi della Tour Eiffel. Chissà che non avesse saputo dal padre - Gerard Moreau, un'eminenza grigia dell'università nonché mio mentore dacché lo scelsi come relatore della tesi di dottorato - del mio probabile successo lavorativo, decidendosi dunque a coronare anche il nostro sogno d'amore.
La nostra storia, tra alti e bassi, aveva avuto inizio a Montmartre, di domenica pomeriggio, durante i miei primi tempi nella capitale francese. Chiedendo il permesso di ritrarmi, immaginava fossi una turista qualunque così come io lo ritenevo uno dei tanti artisti di strada bazzicante in pianta stabile l'omonimo quartiere.
Invece, conoscendolo meglio man mano che il dipinto andava formandosi sulla tela, seppi che aveva abbracciato i ritmi sregolati da bohemien, ripudiando i propri natali borghesi per evadere dalle costrizioni sociali di una prigione dorata, testuali parole.
Peccato che la versione maudit si rivelò essere ben poco tormentata quando riuscii a confrontarla con quella fornita dal genitore accademico, il quale affermò senza mezzi termini di aver messo alla porta la prole perdigiorno e scansafatiche.
Sebbene abbia sempre tentato di tenere separati i due ambiti - lo sanno tutti che mescolare la vita privata e professionale, alla lunga, danneggia una delle due o entrambe, come nel mio caso - durante il corso del nostro rapporto ho più volte assunto il gravoso compito di mediatrice tra i due, tentando di aggiustare le cose tra quelli che, in fin dei conti, sono stati gli uomini più importanti della mia vita per moltissimo tempo. E ritenevo pure di esserci riuscita, dato il tiepido riavvicinamento tra padre e figlio notato di recente.
Con ogni evidenza però, l'operazione di riallineamento delle posizioni è andata talmente bene da portarli a scaricarmi lo stesso giorno, seppur per motivazioni differenti in ambiti opposti.
L'incarico di maître de conférences è andato infatti a un candidato apparentemente più qualificato, provvisto di più titoli e pubblicazioni scientifiche rispetto a me.
Comunicandomi la notizia, Moreau padre ha per di più accennato alla spiacevole circostanza secondo cui il mio assegno di ricerca, prorogato sin dalla scadenza della borsa di studio post dottorato, non lo sarebbe più stato, invitandomi dunque a raccogliere al più presto le mie cose per lasciare il posto a nuove, promettenti leve, depennandomi così, di fatto, dalla lista di sue collaboratrici più fidate.
Distrutta dalla piega presa dagli eventi, mi ero dunque recata a Montmartre, dove mi illudevo di trovare rifugio e conforto nelle braccia del mio ragazzo, decisa a godermi quella che, nelle mie fantasie di donna innamorata, sarebbe in ogni caso stata una serata indimenticabile.
E, in definitiva, lo è stata davvero, perché la sera che avrebbe dovuto sancire il coronamento del rapporto sentimentale più rilevante della mia vita parigina ne ha, al contrario, determinato la fine.
‹‹Voglio unirmi alla causa del Tibet libero e diventare monaco buddhista››.
Jean Paul ha sganciato la bomba subito dopo una cena sottotono, mentre stavamo in cima alla torre simbolo per eccellenza dell'Amore.
Ero scoppiata a ridere, ritenendola una delle stravaganti battute del mio ragazzo il quale, bisogna ammetterlo, ha sempre avuto un senso dell'umorismo un po' particolare.
Eppure, questa volta, era serio.
Dopo avermi accusata di scarsa sensibilità verso i mali del mondo in cui viviamo e di cui, a parer suo, mi ostino a far parte anelando, in maniera piuttosto disperata, a ottenere un posto al tavolo dei poteri forti, mi ha mollata lì, senza nemmeno concedermi diritto di replica.
Dal momento che aborre ogni forma di moderna tecnologia, sono andata a cercarlo nella squallida soffitta buia che mi risultava essere il suo domicilio e, trovandola vuota, ho persino infranto la regola autoimposta di non contattare mai il professor Moreau al di fuori dell'orario di lavoro, per ricevere in cambio un vago accenno a circostanze che avrebbero messo a dura prova il sistema nervoso del povero Jean Paul e il caldo suggerimento di non richiamare ancora.
Stanca, frustrata, delusa, inquieta, ho trascorso i giorni seguenti all'incredibile rovescio di fortuna capitatomi vagando sulle rive della Senna, riflettendo sulla strana ironia della sorte che, il più delle volte, se ne infischia dei nostri progetti per imporci i propri.
Cosa mi avrebbe riservato ancora, la dea Fortuna, il Fato, la Provvidenza o chi per loro? Mi trovavo esattamente a un altro giro di boa, l'ennesimo della mia esistenza, anche se, paradossalmente, sembravo essere tornata al punto di partenza, o meglio, di arrivo a Parigi, nelle stesse condizioni, anni prima.
E poi, d'un tratto, una vecchia edizione dell'Eneide, abbandonata su una panchina della Rive Gauche del fiume, ha fatto scattare l'eureka.
L'idea di tornare a Roma - la città in cui sono nata e cresciuta finché, sedotta dalle promesse della romantica terra francese, non l'ho lasciata – ha infatti messo radici nella mente e nel cuore fino ad apparire l'unica scelta praticabile.
Prenotare il volo che dall'aeroporto Charles De Gaulle mi riporterà a Fiumicino, dunque, è stato l'ultimo atto visibile di una catarsi interiore.
È tempo di tornare a casa.
Sarà il mio anno zero.
Spazio autrice
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