Capitolo 1: Avversione per il freddo
Paura. Un uomo che mi rincorre con un coltello. Poi il fuoco. Fumo. Calore. E infine la morte. Questo è quello che mi torna alla mente mentre guardo la città scorrere veloce attraverso il piccolo finestrino ovale.
A vederla dall'alto sembra una cittadina come un'altra, nessuno immaginerebbe che appena qualche giorno fa potesse essere lo scenario di un incubo.
Sì, decido che sembra proprio innocente, con le sue costruzioni ocra un po' vecchiotte che mi ricordano tanti castelli di sabbia, le strade strette e trafficate e il sole che la illumina anche in pieno inverno, che va a creare un particolare effetto color oro sui muri delle case. E ovviamente, in lontananza, il mare, un'immensa distesa cristallina che si estende in tutte le direzioni a perdita d'occhio.
Tutto questo mi mancherà come non mai. Questa è la mia isola, la terra dove sono nata e cresciuta, quel posto nel mondo che chiamerò sempre casa, ovunque io vada.
Per non parlare, poi, di quanto soffrirò per via della lontananza di tutte le persone che ho incontrato qui, dai parenti, agli amici, ai compagni di scuola che, con il passare degli anni, hanno fatto l'impossibile per me. Ognuno di loro avrà un posto speciale riservato nel mio cuore.
Ma lo so bene, ormai non potevo restare qui un minuto di più, non dopo tutto quello che è successo. Odio fuggire, l'ho sempre fatto. Ma non avevo scelta.
Una lacrima mi scivola lungo una guancia mentre ripenso a tutto ciò che quelle persone hanno fatto per me. Mi mancheranno immensamente perché tutti loro hanno significato tanto per me.
Erano loro, sempre con il sorriso sulle labbra e le braccia pronte a stringermi in un abbraccio confortante, a tirarmi su quando il mondo mi crollava addosso, pezzo dopo pezzo. Quelle persone erano il mio sorriso, mi si spezza il cuore solo all'idea di dovermi separare da loro.
Tiro fuori dal portafoglio la mia fotografia preferita, nella quale io e Nicole ci abbracciamo, io ancora collegata al rullo, in pedana, spada alla mano, dopo aver vinto la mia prima gara importante, gli italiani under 15 di Foggia.
Era stato un giorno di felicità allo stato puro, quello: avevo tirato benissimo, nonostante le gambe molli per la tensione e l'ansia che mi stringeva lo stomaco in una morsa. Nicole mi era rimasta accanto per tutto il tempo, nonostante stesse gareggiando anche lei; nelle pause tra un assalto e l'altro veniva a vedere la mia gara e aveva fatto il tifo per me fino alla fine, anche quando ero sul punto di crollare dalla stanchezza e i muscoli delle mie gambe tremavano per lo sforzo e per la fatica.
Quando poi ho rifilato la tanto combattuta stoccata vincente alla mia avversaria, c'è stato un momento di silenzio assoluto, l'unico rumore udibile in tutto il palazzetto era il trillo del segnapunti che testimoniava la mia vittoria.
Subito dopo era risuonato il grido di giubilo della mia migliore amica, che si era fiondata sulla pedana della finale ancora prima che io potessi strapparmi di dosso la maschera e sfogare tutta la tensione con un urlo liberatorio, come noi schermidori siamo soliti a fare.
Mi aveva abbracciato con tutta la forza che aveva in corpo ed è esattamente così che siamo state immortalate dal fotografo: io con le lacrime agli occhi dall'incredulità, lei che mi stringe sprizzando fierezza da tutti i pori.
Altre lacrime mi scorrono silenziose sulle guance mentre l'aereo prende ancora quota. Riportare alla memoria questi ricordi ha un effetto terribilmente doloroso sul mio cuore, perché so che momenti così carichi di spensieratezza molto probabilmente non li vivrò più.
Mi asciugo una volta per tutte le lacrime, che hanno attirato l'attenzione del mio corpulento vicino di volo, e decido di rilassarmi contro il sedile di finta pelle blu perché in fondo, come dice mia cugina Samantha, nulla capita senza una ragione precisa. La mia decisione - l'unica, in realtà, non è che avessi poi molta scelta - l'ho presa, ora non si torna indietro.
Ignorando il penetrante odore di disinfettante e prodotti chimici che caratterizza il velivolo, accendo il cellulare - rigorosamente in modalità aereo, come mi raccomanda l'hostess bionda che mi passa accanto - mi metto le cuffiette e faccio partire Never Give Up di Sia, una canzone che rispecchia davvero molto bene questo momento particolarmente difficile della mia vita.
Sulle note della melodia, mi accorgo delle tante somiglianze: anche io ho combattuto demoni che non mi lasciavano dormire. Mi sono rivolta al mare, ma mi ha abbandonato. Ma non ho mai mollato, no, mai. E non permetterò che qualcuno mi abbatta, mi rialzerò ancora, anche quando finirò a terra e mi ridurrò in mille pezzi per la centesima volta.
Chiudo gli occhi e mi lascio scivolare in uno stato di semi-incoscienza. Penso distrattamente che ho appena compiuto i tanto attesi diciotto anni e ho passato quel fatidico giorno in una dimensione distaccata dalla realtà, molto simile a quella in cui mi trovo ora. Non riuscivo in alcun modo a formulare un pensiero di senso compiuto, ero nel delirio più totale a causa della moltitudine di farmaci con la quale mi avevano imbottito. Non me ne sono neppure resa conto, non avevo idea di che giorno fosse.
Una volta tornata cosciente mi è dispiaciuto, ma del resto fino a pochi giorni prima le mie priorità erano altre, di importanza ben superiore all'organizzare un'epica festa di compleanno.
L'unica cosa per cui provo tutt'ora rimorso è che quel giorno il mio letto d'ospedale era accerchiato da amici e parenti, venuti per starmi accanto, per me, ma io non ho potuto nemmeno godermi la loro compagnia, troppo persa nel buio baratro popolato da incubi silenziosi nel quale le medicine mi avevano gettato.
E ora sono qui, diciottenne per un soffio, finalmente indipendente e libera dalla custodia della mia povera zia. Nonostante il rapporto strettissimo che ci ha sempre legate e il bene dell'anima che ci vogliamo, sono relativamente felice di non essere più sotto la sua responsabilità e di potermene andare dove mi pare, lontano da quella casa e dal passato che da anni mi perseguita.
Dopo tutto quello che abbiamo passato, l'ultimo, terribile episodio è stato davvero troppo per lei. Non oso nemmeno immaginare il suo stato di shock nel trovarmi stesa sulle mattonelle fredde del bordo piscina, priva di sensi e con una casa in fiamme alle spalle.
Lentamente, mi lascio scivolare in un sonno leggero, che non mi abbraccia e non mi consola come vorrei, ma mi coglie di sorpresa alla gola e mi trascina nelle profondità di quel baratro nero che, sfortunatamente, conosco bene. Gli incubi si insinuano infimi nella mia testa, mi tappano la bocca e mi immobilizzano in una morsa letale. Mi obbligo ad aprire gli occhi, ma non ci riesco.
Mi sveglio di soprassalto quando le ruote dell'aereo toccano terra. Il cuore batte all'impazzata e del sudore freddo mi appiccica i capelli alla fronte e, per quanto ne so, potrei anche avere urlato.
Lancio uno sguardo al mio vicino di posto, che mi scocca un'occhiata preoccupata in risposta, e lascio ricadere la testa sul sedile. Notando i suoi occhi puntati sulle mie mani tremanti, le nascondo sotto le cosce.
- Ti senti bene? - mi chiede, lanciando un'occhiata alla hostess che si sta avvicinando lungo il corridoio. Annuisco, troppo concentrata a calmare il mio battito cardiaco per prestargli più attenzione.
Osservo la pista di atterraggio dell'aeroporto di Pescara e mi lascio alle spalle anche quei brutti ricordi, li scaccio lontano, anche se avrei preferito sbarazzarmene direttamente, magari chiudendoli in una scatola a prova di bomba e seppellendoli ai piedi di uno degli olivi che si trovavano nel giardino dietro casa mia.
Scendo dall'aereo per ultima, quando tutti gli altri passeggeri hanno già percorso l'intero corridoio. Al controllo documenti, porgo le varie carte all'impiegato senza sfiorare nemmeno per sbaglio le sue mani grandi e robuste. Mi ricordano tanto quelle guantate che popolano i miei incubi, quelle che mi tappano rudemente la bocca e stringono in pugno una pistola carica.
Sento nuovamente il cuore accelerare la sua corsa e mi sforzo di respirare con calma, adesso non può più succedermi nulla. Sono al sicuro, cerco di convincermi. Sono lontana da loro quasi mille chilometri, ma saranno sufficienti? Saranno abbastanza per permettermi di vivere la mia vita senza il costante terrore di venire ammazzata?
Scuoto la testa con decisione, non posso crollare e farmi prendere dal panico qui, in aeroporto, in mezzo a tutta questa gente. Ingoio coraggiosamente il terrore e cerco di stamparmi in viso un sorriso cordiale, tradito però dalle pupille che, lo so, sono dilatate dalla paura.
Anche l'impiegato sembra notarlo, dato che si avvicina preoccupato alla lastra di vetro che ci separa. Si toglie gli occhiali e mi squadra senza pudore, inarcando un sopracciglio. Faccio istintivamente un passo indietro, per sicurezza, anche se so che a dividerci c'è comunque quel sottile pannello trasparente.
- Signorina, si sente bene? C'è qualcosa che non va? - domanda preoccupato.
- Non si preoccupi, sto bene - mento, afferrando dalla finestrella nella vetrina i miei documenti e ficcandomeli in tasca. - Arrivederci - mi congedo, stritolando la cinghia del mio zaino tra le dita e voltandomi di scatto per andarmene. È un gesto che faccio spesso, per darmi coraggio anche se dentro sto andando nel panico.
Con il cuore in gola, mi fermo accanto a una delle grandi vetrate del terminal e mi guardo in giro in cerca dell'uscita.
Vengo distratta da un movimento proveniente da fuori, che il mio occhio attento capta immediatamente; quando mi rendo conto che è solo un'auto che fa strada a un aereo in prossimità di decollare, ho modo di affacciarmi fuori e vedere un primo spicchio di questo mondo nuovo, completamente diverso da quello dal quale provengo: all'esterno si scorgono un cielo grigio e, in lontananza, un paesaggio coperto di piante spoglie, certo, ma con germogli verdissimi sui rami, già pronti a spuntare sotto un sottile strato di brina.
Tutto decisamente diverso dal paesaggio brullo e secco della Sicilia, a cui sono abituata.
Appena fuori dalla sala arrivi scorgo Samantha che, come promesso, è lì ad aspettarmi. È bella e un po' appariscente, come al solito; indossa una giacca di pelle rossa e dei jeans strappati sulle ginocchia cosparsi di brillantini, abbinati a un paio di stivali al ginocchio. Mi mancavano il suo stile stravagante, il suo sorriso dolce e i suoi occhi attenti, capaci di scrutare anche l'anima.
Se ne sta seduta su una di quelle squallide sedie grigie e bucherellate, tipiche delle sale d'attesa degli aeroporti; non appena mi vede, salta in piedi e mi corre incontro.
- Luna, tesoro! Sei sempre più bella, quanto mi sei mancata! - esclama, parlando con il suo accento un po' americano. Sorride calorosamente e mi stampa due grossi baci su entrambe le guance che io non gradisco molto, ma mi costringo a sopportare.
Nonostante Samantha sia nata e cresciuta in America, le sue radici italiane si fanno decisamente sentire, soprattutto nei suoi modi di fare aperti e festosi.
- Come stai? - sussurra, scostandomi dalla faccia una ciocca di capelli castani che mi è sfuggita da dietro le orecchie.
Io sobbalzo lievemente, sia per la repulsione istintiva che prova il mio corpo per qualsiasi contatto con un altro essere umano, sia perché quella semplice domanda basta per mettere a rischio l'equilibrio che a stento sono riuscita a mantenere da quando ho lasciato la Sicilia.
Tuoni e fulmini infuriano nel mio stomaco, si abbattono contro le costole in cerca di una via di fuga, come vento crudele che frusta le fronde degli alberi.
Una domanda così ovvia, alle volte scontata, di circostanza, ma alla quale non rispondo sinceramente da anni. Quando è stata l'ultima volta in cui ho detto "sto bene" e le mie parole erano veritiere? Nemmeno lo ricordo più.
- Luna? - sussurra Samantha, prendendomi il viso tra le mani e costringendomi a guardarla negli occhi.
- Sto bene - mi affretto a rispondere, mentendo com'è mio solito fare. Ormai sono diventata così brava a dire bugie che spesso finisco con il crederci anche io.
Ma Samantha sa, anche se non riesce a vederlo dai miei occhi perché ho assunto la mia tipica espressione impenetrabile, comprende che non dico la verità.
- Rispondi sinceramente, Luna. Non è una domanda di circostanza, io voglio sapere come ti senti davvero. Come stai? - insiste, non distogliendo lo sguardo neppure per un secondo.
La odio per questo. Adesso la odio. La odio per il suo essere così cocciuta, per il fatto che non posso manipolarla come gli altri, perché lei non si accontenta delle mie bugie.
- Male. Sto male, Sam. Come dovrei stare? - sbotto tagliente, divincolandomi dalla sua presa e allontanandomi di un passo.
Sento le lacrime pungere agli angoli degli occhi, ma mi rifiuto di lasciarle scendere. Le lacrime le ho finite, le ho lasciate tutte in Sicilia, lontano, nel passato. Non posso più permettermi di piangere.
Lei, però, in fondo al cuore sa già tutto quello che non riesco a dire a parole, so che riesce a percepire il peso schiacciante di quelle parole che, se librate nell'aria, diverrebbero insopportabili. Nonostante in questo momento la stia odiando per avermi costretta a dire la verità, so che comprende quanto sia difficile trascinarsi dietro tutto questo.
Mi abbraccia di slancio e io glielo lascio fare, anche se non riesco in alcun modo a ricambiare il gesto. Dopo quello che è successo, trovo difficile pensare che qualcuno di cui posso fidarmi mi è rimasto davvero.
Sam mi stringe a sé e mi accarezza delicatamente la testa, come faceva quando da piccola mi sbucciavo un ginocchio cadendo dal monopattino. Fa scorrere le sue dita lunghe e sottili tra le ciocche dei miei capelli e, quando si accorge che ne mancano alcuni centimetri, si scosta e fissa di nuovo i suoi occhioni grigi nei miei.
- Li ho dovuti tagliare - rispondo fredda, anticipando la domanda che sta per farmi. Distolgo lo sguardo e torno a creare una distanza di sicurezza tra di noi.
- E perché mai? Tu odi tagliarti i capelli - riprende lei, alzandomi il mento in modo da guardarmi negli occhi.
Di nuovo, sento che in questo momento la odio. Perché non si accontenta delle mie bugie? Perché non pensa che abbia voluto semplicemente cambiare look, come farebbe chiunque altro?
Evito il suo sguardo apprensivo e cerco di allontanarmi da lei, non voglio la sua compassione così come non voglio quella di nessun altro.
Sam non accetta le bugie perché mi vuole bene; con lei è inutile mentire, mi conosce troppo bene, mi rispondo. La sua non è compassione, ma preoccupazione autentica per la mia persona. Non la odio, non potrei mai.
Sam mi si avvicina di nuovo e, dopo aver capito che non ho nessuna intenzione di darle una risposta - il motivo per cui ho dovuto tagliarmi i capelli è piuttosto ovvio, visto l'incidente che ho avuto -, mi circonda le spalle con un braccio e afferra il manico della mia valigia al posto mio. In silenzio, usciamo dal terminal.
Solo dopo qualche minuto di silenzio mi concedo di guardare anche io le ciocche brutalmente recise. Samantha ha ragione, i capelli erano il mio più grande orgoglio e per questo fin da piccola ho sempre odiato tagliarli.
Da sempre quella dei capelli lunghi è stata una nostra fissazione. Fin da quando eravamo bambine nelle nostre rispettive case si scatenavano lotte infinite quando giungeva il momento di tagliarli. In parte era sicuramente colpa dei troppi cartoni della Disney che guardavamo assieme, con tutte quelle principesse dalle lunghissime chiome, un po' perché ci piacevano e basta.
Ho sempre invidiato Sam e i suoi boccoli color dell'oro, che ancora oggi cura come se fossero vivi. I miei, invece, sono completamente diversi, ma non per questo meno belli: con la loro particolare sfumatura che varia dal castano chiaro al rosso aranciato non sono mai passati inosservati, soprattutto per la loro lunghezza.
Quando però c'è stato l'incidente, le punte si sono bruciacchiate appena, ma è stato abbastanza da richiedere necessario un taglio drastico, riducendoli di parecchi centimetri; ora mi sfiorano appena la schiena, all'altezza delle scapole.
So bene che, in confronto a tutto quello che è successo, il taglio dei capelli è da considerarsi una sciocchezza. L'importante è che io non mi sia fatta male, dicono, ma non sanno quanto in realtà io mi senta spezzata dentro. Non per i capelli, certo, quelli ricresceranno prima o poi, ma per tutto l'insieme di cose. È stato tutto troppo.
Recuperato il bagaglio in stiva dal nastro trasportatore, camminiamo fino al parcheggio sotterraneo e io non faccio altro che guardarmi intorno stranita. L'aeroporto è completamente diverso da quello da cui sono partita. Questo è molto più moderno, più pulito, più nuovo, profuma di detersivo per pavimenti e brioches, quelle che vendono nel bar accanto ai cancelli d'imbarco.
Ci sono grandi vetrate ovunque e, all'ingresso, c'è una specie di enorme rosone di vetro lucido e trasparente su cui campeggia, a caratteri cubitali ben leggibili, il nome che gli è stato affibbiato.
Una volta arrivate all'auto rossa di Sam, lei mi aiuta a caricare nel piccolo bagagliaio le due pesanti valigie. Pesano parecchio, ma se ci penso in realtà dentro non c'è quasi niente. Tutto quello che avevo è andato perso, in un modo o nell'altro, mi restano solo poche cose che ero solita tenere a casa dei nonni per quando andavo a dormire là.
Sospiro. Sono solo beni materiali, Luna, ne comprerai di nuovi, cerco di tranquillizzarmi. Ma serve a poco, perché la verità è che dei vestiti e degli oggetti non me ne importa assolutamente niente. Erano i ricordi che ci vivevano, dentro quegli oggetti, a essere di inestimabile importanza per me, e di quelli non ne posso comprare altri.
Durante il viaggio in auto, che in realtà non dura nemmeno molto, cerco di scacciare i pensieri che continuano ad assalirmi. Mi obbligo a staccare la spina del cervello e non pensare, seguendo con lo sguardo il paesaggio che scorre fuori dal finestrino.
Sam mi calma mettendomi ogni tanto una mano sul ginocchio, per ricordarmi che non sono mai sola in questa lotta. Non parliamo molto, non sono dell'umore giusto per farlo; probabilmente lei avrebbe molte cose da raccontarmi e da domandarmi, ma so che ha paura di tirare fuori per sbaglio l'incidente... E sa bene che io odio quell'argomento con tutta me stessa.
Quando qualcuno inizia a parlare di quello che è successo quella notte, mi innervosisco e inizio ad avere una forte sensazione di claustrofobia e di vertigine. Spesso sono costretta ad appellarmi a tutte le mie forze per non urlare nel sentire la terra mancarmi sotto ai piedi e la testa girare come una trottola. A quel punto vorrei solo stendermi a terra e gridare, gridare fino a strapparmi le corde vocali tutta la mia frustrazione.
Guardo di sfuggita la strada grigia che corre svelta nella direzione opposta alla nostra, come se avesse fretta di arrivare a un appuntamento importante, e me ne sto per i fatti miei, ascoltando distrattamente ora le canzoni ora le notizie trasmesse dalla radio, che fa da sottofondo e riempie il silenzio senza appesantirlo.
Qui fa decisamente più freddo rispetto alla temperatura che c'è in Sicilia in questo periodo dell'anno. È febbraio, ci sono all'incirca due gradi, secondo il termometro dell'abitacolo. Rabbrividisco nel constatarlo, stringendomi addosso la leggera giacca a vento e Samantha, che se ne accorge, accende il riscaldamento al massimo sorridendomi comprensiva.
Cerco di abbozzare un sorriso a mia volta, ma con la coda dell'occhio vedo dello specchietto retrovisore che mi è uscita una specie di smorfia tirata, per cui rilasso di scatto i muscoli facciali.
Rassegnata, osservo assorta l'orizzonte, dove i profili appena accennati di lontane montagne incappucciate di neve sembrano farsi beffe di me e della mia avversione verso le temperature basse. Non sono mai stata abituata al freddo: in Sicilia le temperature minime arrivano raramente sotto i cinque gradi, per non parlare della Florida, dove ho vissuto per un periodo, dove l'inverno per come lo conosciamo noi nemmeno esiste.
Più o meno sei anni fa, dopo essersi trasferita qui, Sam mi raccontava infatti dell'aria frizzante che c'era a ottobre mentre io, nella calda terra baciata dal sole, vestivo ancora le magliette a maniche corte. Per lei quelle temperature erano già fin troppo basse, abituata com'era al caldo soffocante di Cape Coral, Florida, ma alla fine ci si è adattata.
Sam è tornata in Italia dopo tanti anni per dedicarsi alla sua innata passione per l'arte, in tutte le sue forme. La sua casa, adesso, è un monolocale in una cittadina tranquilla, dove le distrazioni e il chiasso della città arrivano ovattate. Ed è proprio qui che sono venuta a nascondermi, a cercare rifugio dal trauma che sono stati gli ultimi mesi.
Il posto mi è subito sembrato sicuro e accogliente, con le sue villette praticamente in riva al mare e le pinete ovunque, come a creare una barriera protettiva dal crudele mondo esterno.
Il viaggio mi ha sfibrata completamente, l'ansia che mi ha divorato per tutto il tempo si è presa tutte le mie forze e le ha divorate con gusto in un sol boccone. Così, non appena appoggio la testa sul vetro freddo, le palpebre mi si fanno pesanti e, nel giro di pochi secondi, cado nel sonno più profondo.
Gli incubi mi assaliscono feroci, come bestie voraci che bramano solo di affondare i denti aguzzi nelle carni della loro preda. Il freddo di una pistola puntata alla tempia, la sua risata agghiacciante che mi frantuma i timpani, la sua mano guantata che mi tappa la bocca e mi impedisce quasi di respirare, i suoi occhi freddi e spietati. Mi pizzico il braccio nel tentativo di svegliarmi e urlo forte, con tutto il fiato che mi resta nei polmoni.
Angolo autrice
Ciao a tutti e benvenuti nella mia prima storia!
Vi avviso già da subito che per me è la prima volta che pubblico qualcosa di mio, per cui non aspettatevi grandi cose. Nulla, che dire? Spero che questi primi due capitoli vi siano piaciuti o che abbiano stuzzicato almeno un po' la vostra curiosità. Fatemi sapere se, per adesso, la storia è di vostro gradimento, se trovate errori segnalatemelo senza problemi e se avete consigli o critiche sono entrambi sempre ben accetti.
Per ringraziarvi del vostro coraggio nell'intraprendere questo burrascoso viaggio assieme a me, vi troverò, ovunque voi siate, e vi manderò per posta qualcuno dei miei famosi biscotti... Voi quali preferite? Quelli alla glassa di zucchero o quelli al cioccolato?
A presto ❤️
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