Capitolo 4
Ero seduta davanti al bancone come una qualsiasi cliente, chiacchierando con Frank. C'eravamo infervorati da banali discorsi su star cinematografiche, disquisendo sulla loro bravura o su coloro che, in realtà, usurpavano la fama che li rendeva celebri. Fummo raggiunti da Julia e Jack che si unirono a noi e alla nostra conversazione, animata quasi da sembrare un dibattito. In tarda serata, nelle ore più calme, ci riunivamo per giocare e far passare il tempo, in attesa che gli ultimi clienti se ne andassero. Prendevamo un qualsiasi giornale o una rivista e si sceglieva una notizia a caso, per poi aprire una discussione e toccò a Frank annunciare l'argomento della serata.
- Ehi, ragazzi, quale nefasto argomento vi fa accendere gli animi stasera? Leila crede che non ci siano più attori americani in grado di recitare decentemente....
Iniziò un animato contraddittorio: tutti elencarono una sfilza di artisti, celebrità che avevano scritto la storia del cinema americano. Li contavano sulla punta delle dita, prendendosi gioco di me, mentre Julia si divertiva da matti. Stetti al loro gioco e con un sorriso ironico li rilanciai.
- Vi siete dimenticati di un certo... Robert De Niro, che è stato qui, stasera, a cena...
Tutti annuirono facendo cenno con la testa, ciondolando le mani e additandomi. In realtà ero stata travisata: non ritenevo che non ci fossero più grandi attori, le asserzioni di Frank non facevano una grinza, ma non rispecchiavano in pieno il mio pensiero. Il mondo del cinema era diventato una sorta di business e a volte il talento era trascurato a scapito della bellezza. Si ricorreva, troppo spesso, a uno smodato ricorso a effetti speciali, con il precipuo scopo di attirare un pubblico vasto, abbacinato a tal punto da non riuscire più a distinguere il talento puro dal trash spettacolare. Jack, ormai coinvolto nell'animata conversazione, mi chiese cosa pensassi di Tom Cruise, Brad Pitt o Leonardo Di Caprio. Asseriva che attraverso la loro bellezza e il loro fascino erano entrati nei sogni sia delle teenager, sia delle donne mature. A quell'affermazione risposi con sarcasmo, esprimendo il mio disappunto.
- Molti attori sono degni di attenzione, ma il loro talento è oscurato dalla bellezza, scambiata per la medesima cosa. Per alcuni è più facile sfondare nel mondo dello spettacolo, agevolati dall'aspetto fisico: ma il vero talento emerge quando sinterpretano ruoli in cui si deve entrare nella drammaticità del personaggio.
Jack, sempre più interessato, intervenne in difesa del proprio sesso: suo padre, uno dei migliori avvocati newyorkesi, non avrebbe potuto far meglio. Non era d'accordo con il mio giudizio, accusandolo di "leggerezza" e per non aver usato gli stessi parametri per le attrici. Gli diedi ragione, limitatamente alla seconda parte del suo discorso, giacché i migliori registi si affidano solo al talento puro delle interpreti, trascurando le doti fisiche. Nel conto, va messa anche la pressione esercitata dai produttori cinematografici, divenuti sensibili solo ai richiami del "botteghino" e che, di conseguenza, impongono la scrittura di attrici talentuose e belle per attirare un pubblico maschile sempre più sensibile alle "curve" di una bella donna, oltre al talento, naturalmente. A sfuggire a questa regola aurea, rimangono sul mercato ben poche attrici.
- Whoppi Goldberg, Susan Sarandon o Meryl Streep, che sono riuscite a imporre un fascino del tutto particolare. Nulla ha a che vedere con la bellezza canonica di Demi Moore o della Kidman... molto brave comunque, ma indubbiamente avvantaggiate, specialmente agli inizi della loro carriera.
Rimasero tutti in silenzio, compreso Jack, mentre Frank, un po' irritato, depose le armi dopo essersi strenuamente battuto per imporre le proprie idee. Un mio sorriso sghembo in segno di vittoria ruppe quel silenzio, poi guardandoci negli occhi ridemmo a lungo per quei discorsi da bar, stucchevoli e oziosi. Frank prese un bicchiere e mi versò il solito drink, preparato durante il dibattito. Stavo per portarmi il bicchiere alla bocca quando, a un tratto, una risatina divertita attirò la nostra attenzione. Non eravamo soli, qualcun'altro aveva indossato i panni dello spettatore: eravamo talmente infervorati, da non accorgerci di quell'anonima intrusione. Ci voltammo a guardare, ma non riuscimmo a intravedere il suo volto. In seconda serata le luci del locale venivano abbassate per creare un'atmosfera più soft e l'anonimo individuo si trovava quasi al margine destro del bancone, dove la luce era più fioca, a circa due metri e mezzo da me. Frank si diresse verso lui, chiedendogli cosa desiderasse da bere. Uscendo dalla penombra, gli andò incontro, avanzando con passo deciso, fiero, come un falco pronto a spiccare il volo e depredare, come solitamente fanno gli uccelli rapaci. Il suo corpo si spostava con andatura leggera, su due lunghe gambe robuste: un braccio scendeva tenue lungo un fianco, mentre l'altra mano era parzialmente nascosta allinterno di una capiente tasca dei jeans. Contraendolo, sintravedeva, dal risvolto della manica della camicia, una poderosa muscolatura. Uscendo completamente dall'ombra, ordinò una Budweiser, senza bicchiere. Incuriosita, forse più degli altri, ero impaziente di scorgere il suo viso. Rimasi impressionata alla sua vista, senza però darlo a vedere. Il suo corpo era perfetto: capelli corvini, leggermente lunghi che scendevano fino alla nuca. Indossava un cappello nero, una fedora simile a quello di Marlon Brando nel film "Il Padrino", incorniciando un viso ben delineato: zigomi alti, mascella leggermente volitiva e labbra sottili. Quello che più mi colpì fu il sorriso, dai denti bianchissimi e il volto illuminato da occhi di un blu intenso, come due miniature di laghi in cui sarebbe stato splendido immergersi e lo sguardo profondo che esprimeva un grande desiderio di comunicazione. Indossava un paio di jeans scuri leggermente sbiaditi, a vita bassa, che gli ricadevano perfettamente sui fianchi e una camicia bianca a coste, che aderiva perfettamente sul torace. La parte superiore era leggermente aperta, facendo intravedere un sottile laccio di cuoio nero intorno al collo, con un piccolo ciondolo che poggiava sulla pelle chiara: un cerchio con una stella all'interno, in cui era inciso il segno zodiacale dell'ariete. A poco servivano i vestiti, li consideravo inutili orpelli su un corpo che lasciava libero sfogo all'immaginazione. Strano a dirsi, dopo aver snocciolato tutta una serie di preconcetti sulla bellezza. Afferrò la birra che gli servì Frank. Poi, avvicinandosi, si voltò a guardarmi, sedendosi sullo sgabello posto al mio fianco. Era evidente che costituivo la sua preda: mi ero talmente abituata che, ormai, lo davo per scontato. Rimaneva, solo, da capire quali fossero le sue reali intenzioni. Cercai di snobbarlo, ma il suo sguardo era ipnotico e provocatorio. Ad un tratto, fui attraversata da un flash. "...E finirono i libri, l'amicizia, i tesori accumulati senza tregua: tutto cessò desistere tranne i tuoi occhi", scrisse Pablo Neruda. I suoi occhi mi rimasero impressi in quella frazione di secondo, quando il pirata della strada stava per investirmi, quella stessa sera. Mi domandai come mai si trovasse qui: era venuto per scusarsi o si trattava di una semplice coincidenza? Rimasi in silenzio cercando di decifrare l'arcana presenza e la sardonica risata. Intanto quella carogna di Frank, indossando i panni di un allibratore, accettava scommesse. Piccole quote naturalmente, tra i venti e cinquanta dollari, correlate al tempo impiegato da me a liquidare il malcapitato di turno con il consueto gesto del dito medio. Il mio tempo record si aggirava a poco più di due minuti. A un tratto, lo sconosciuto aprì bocca.
- Sai... potresti scrivere per il New York Times... magari in terza pagina, sulle recensioni culturali!
Affermazione ironica, espressa con tracotanza tale da non passare inosservata ai più. Ciò bastò a suscitare in me unistintiva avversione nei suoi confronti. I ragazzi rimasero ad ascoltare in silenzio, scambiandosi sguardi di complicità, seguiti da sorrisetti soffocati. Evidentemente, loro sapevano qualcosa di cui non ero a conoscenza: di sicuro erano in attesa di vedere il dipanarsi del dialogo tra me e lo sconosciuto e, considerato il tono con cui si era rivolto e il mio carattere poco affabile, tutto lasciava presagire alla disputa di un match dai contenuti pirotecnici. Non comprendevo ancora i motivi di cotanta spocchia, ma di una cosa ero certa: aveva fatto male i suoi conti. Per Julia, Jack e Frank la situazione cominciava a prendere una piega interessante. Lo avvertivo dai loro sguardi, divertiti e ammiccanti. Il loro atteggiamento contribuì a irritarmi ulteriormente, soprattutto se sottintendevano di essere a conoscenza di qualcosa che ignoravo. Sortiva sempre notevole preoccupazione il dovermi imbattere in qualcosa che sfuggisse alle mie capacità cognitive. L'intruso, perché altri non era, continuò imperterrito.
- Non puoi avere l'assoluta certezza che quanto asserito, sia corretto.
- Non ho mai preteso che tutto fosse vangelo: i miei sono pareri del tutto personali. Mi chiedo, però, come mai tutto questo interesse?
Il trio malefico continuava ad assistere divertendosi alle mie spalle, mentre lui non demordeva. Tutt'altro, sembrava quasi divertito, non mostrando alcuna intenzione di mollare la presa. Frank mi guardava con aria soddisfatta piena di sé, nonostante i fatidici due minuti già trascorsi. Quella sera ci avrebbe rimesso un centinaio di dollari, ma felice comunque che qualcuno fosse finalmente riuscito a mettermi in difficoltà e questo per lui rappresentava una vittoria personale. Non ci sarebbe stata cifra al mondo che pareggiasse quella piccola soddisfazione.
- Finalmente qualcuno che ti tiene testa, mi sa che hai trovato pane per i tuoi denti!
Lo guardai accigliata, meravigliando tutti per una schermaglia durata troppo a lungo: in altri momenti, avrei liquidato la "pratica" in un batter di ciglia. Lo sconosciuto aveva, saldamente, in mano linerzia del match, bofonchiando frasi con scarsa propensione delle mie orecchie ad ascoltarlo. Ero talmente irritata, che non ci pensai due volte a inveire a strenua difesa delle mie convinzioni. Con falso disinteresse e per mettere fine a quel dialogo stucchevole e fastidioso tagliai corto. Per un istante, però, sembrai riflettermi in quel carattere, talmente simile al mio da farmi rimanere senza parole. In quanto a testardaggine non conoscevo rivali: dandogliela vinta, avrei sfatato la fama di grande "STRONZAPERENNE" che mi ero guadagnata sul campo. Mi rivolsi ai ragazzi, ormai stufa e stizzita, chiedendo chi cavolo fosse quel tizio, certa che sapessero qualcosa, senza curarmi, affatto, che lui mi stesse sentendo. Frank, con aria sbigottita per il modo con cui mi ero espressa, mi fissò come se avessi commesso chissà quale crimine. Frattanto, "l'intruso" si concesse una risata di scherno, compiacendosi per avermi spiazzato. Julia, con un sorriso si avvicinò a me, bisbigliandomi che ero la sola a non sapere chi mi stesse di fronte.
- Quel tizio è un "certo" Ethan Halder.
Scossi leggermente la testa, sgranando gli occhi e facendo spallucce, comunicando di non avere la più pallida idea di chi fosse. Dal suo aspetto e dal suo atteggiamento lo avevo già catalogato nella categoria dei "belli, ricchi e arroganti" e questo bastò per tracciarne il profilo. Avevo una scarsa considerazione per gli uomini. In genere, li ritenevo ipocriti e bugiardi e conoscitori di ununica verità, "la loro", mutevole secondo il soggetto trovato di fronte. Ma c'era qualcos'altro nel suo sguardo, di più profondo, d'indecifrabile e di terribilmente oscuro. Per anni, ero rimasta in silenzio a osservare la gente, studiandone ogni minimo gesto, ogni movenza: il corpo e gli sguardi spesso parlano al loro posto ed io, col tempo, avevo imparato a percepirne i pensieri prima ancora che aprissero bocca. Mi riusciva naturale: ma con lui non accadde. Dovetti affrontare una stupida discussione per cercare di decifrarlo e, ancora, non mi era del tutto chiaro perché si fosse introdotto in un argomento così futile, senza neanche essere stato invitato. Portai il bicchiere, col drink preparato in precedenza da Frank, sulla bocca. Lucy stava per raggiungerci: la osservai, immaginando già cosa volesse chiedermi. Prima che ci raggiungesse, poggiai il bicchiere sul bancone, rivolgendomi a lui con la speranza di chiudere la conversazione in modo definitivo. Era chiuso in difesa, ma pronto a ripartire di rimessa, ignaro che non gli avrei dato altra opportunità di replicare.
- Sai cosa penso? Quando un uomo rischia di investire una donna non dovrebbe fuggire come un codardo, altrimenti non è affatto un uomo!
Nessuno capì a cosa mi riferissi, ma lui intuì subito a quale circostanza e, come prevedevo, non gli uscì la benché minima replica. Si appoggiò con un gomito al bancone, mentre con l'altra mano teneva la bottiglia di birra, sorseggiata di tanto in tanto. Guardandomi con un sorriso sbieco, mi apostrofò con sarcasmo, indicando il mio bicchiere.
- Ti consiglio di alleggerire il tuo cocktail. Lalcol eccessivo impiega poco a raggiungere il cervello.
Non badai per nulla alle sue parole provocatorie. Conoscevo bene il contenuto del mio drink, preparato da Frank, con il quale scambiai subito un cenno d'intesa. Mentre gli altri rimanevano in un discreto silenzio, suggerii a Frank d'approntarne uno identico al mio. Mi voltai a guardarlo dritto negli occhi, prima di allontanarmi, lanciando un'ultima provocazione.
- Offro io, bevilo alla mia salute... spero ti piaccia!
Senza fiatare Frank ne preparò subito uno e glielo mise davanti, poggiandolo su un sottobicchiere, immaginando la reazione che avrebbe avuto nello scoprirne il contenuto. Lucy, stanca della serata, si avvicinò a me allungandomi le mani, con un sorriso implorante, chiedendo se me la sentissi di suonare qualcosa per lei, al pianoforte. Accettai volentieri, ricambiandole il sorriso, felicissima che me lo avesse chiesto. Avevo appena avuto una discussione snervante e sarei riuscita a rilassarmi solo suonando qualcosa. Non era l'argomento in sé a farmi infervorare, ma l'atteggiamento borioso di quel tizio. Si trovava, ancora, a qualche centimetro da me: naturalmente aveva ascoltato tutto, pur mostrando totale indifferenza. Ripose la bottiglia sul bancone, prese il bicchiere del drink da me offerto e lo sollevò in aria, alla mia salute. Si arrestò immediatamente al primo sorso, guardando prima il bicchiere e poi me, rimanendo senza parole, accennando un sorriso. Frank, dopo un lungo silenzio poté dire la sua, fornendogli la formula del drink.
- Acqua naturale, succo di limone, ghiaccio e foglie di menta, il drink preferito da Leila. Bere alcolici non fa per lei... ehi amico non prendertela, piuttosto considerati un uomo fortunato.
- Perché mai?
- Leila non si ferma mai in chiacchiere per più di due minuti, soprattutto con persone che non conosce. Ti faccio comunque i miei complimenti, sei stato il primo a tenerle testa. Fino ad ora nessuno c'era mai riuscito... ci ho rimesso anche cento dollari e se non la conoscessi bene, penserei che l'abbia fatto di proposito, per indurmi a perdere.
Mi sentii abbastanza soddisfatta e compiaciuta, a prescindere da ciò che Frank gli aveva appena riferito, anche se una vendetta la meritava, sul serio. E accennando lo stesso sorriso sghembo, mi avviai al pianoforte: quello era il mio momento topico. Tutto scompariva, rimanevamo soli io e lo strumento. Presi un fermaglio dalla tasca dei jeans e mi legai i capelli in una lunga coda: una ciocca ribelle cadde delicatamente sul mio viso. Non diedi soverchia importanza al fatto che apparisse un gesto studiato, per far lievitare il mio fascino. Presi postazione e scricchiolando le nocche, iniziai l'esecuzione di uno dei miei pezzi preferiti Kiss the rain, di Yiruma, un compositore giapponese. Le dita, esageratamente sottili, pigiavano leggiadre sulla tastiera, come se avessero una propria anima. Immersa in quel dolce suono, mi feci trasportare con la mente, in luoghi lontani. Chiusi gli occhi, lasciandomi cullare dalla melodia e l'immagine di un ruscello dalle acque cristalline mi apparve improvvisamente, circondato da una distesa di erba ondeggiante, cullato dalla dolce brezza estiva. E poi tramonti che donavano al cielo un colore variopinto, riflettendosi in uno specchio d'acqua, separato dalla linea dell'orizzonte. Quello era il luogo dei giorni più felici della mia infanzia. A metà del brano riaprii gli occhi e notai che "l'intruso" mi stava osservando: ma in modo diverso, con ammirazione, sorpreso, forse, dalla delicatezza della mia performance che non rispecchiava per niente il mio carattere. Con lo sguardo fisso, si avvicinò, finché i suoi occhi non incrociarono i miei. Me lo ritrovai di fronte e con un cortese cenno della mano chiese il permesso di sedersi accanto a me. In piena agitazione annuii con la testa: qualcosa d'indefinibile mi aveva addolcito in quel momento. Lo vidi, con mossa felpata, farsi spazio sullo sgabello del pianoforte per sedersi, imperterrito, al mio fianco. I nostri corpi si sfioravano a malapena: emanava un calore mai provato prima, una sensazione strana, come se il subconscio si fosse imbattuto in ciò che da tempo attendeva. Allungò le braccia e con fare deciso iniziò a suonare, dando il LA a un inedito duetto. Dopo un po' allontanai le mie mani dalla tastiera per lasciar posto alle sue che, febbrilmente, continuarono a eseguire il pezzo. Entrambi sembravamo proiettati in una dimensione surreale. Adesso la sua espressione era cambiata: un'angosciante malinconia subentrava all'ostentata sicumera. Quali pensieri sfioravano la sua mente per rendere affascinante, anche, quellinusitata e singolare sofferenza dipinta sul volto? Rimasi a guardarlo, estasiata dalla sua bravura, osservando le dita che impazzavano frenetiche sulla tastiera in una sorta di danza dervisci, corruscata, estenuante, ma paradossalmente quieta nei tocchi. Fui molto sorpresa che conoscesse quel brano, noto soltanto ai profondi cultori del jazz. Quando terminò, alzò lo sguardo su di me, con un'espressione statica, irreale, ma profondamente terrena. Portò la mano al mio viso e le sue dita, che un attimo prima accarezzavano la tastiera, sfiorarono la mia guancia. Avanzando delicatamente, fin dietro il mio orecchio, rimise a posto la ciocca ribelle. Non dissi nulla, il mio cervello era talmente paralizzato da non riuscire a formulare alcun pensiero, poi rinsavì: mi ero esposta fin troppo e non m'interessava continuare. Ci sarebbe voluto molto più di un'esecuzione al pianoforte per farmi cambiare l'opinione che avevo degli uomini, e, comunque, non avrebbe avuto alcun senso. Lui rimaneva pur sempre un'estraneo. Distolsi abilmente lo sguardo dal suo, schermendomi. Dopodiché, mi allontanai dandogli le spalle. Improvvisamente mi sentii afferrare il polso da una mano levigata e calda, una stretta forte e decisa: mi voltai con piglio aggressivo e, senza dargli il tempo di aprire bocca, dissi che per me si era fatto tardi e che era giunta l'ora di rientrare a casa. Allentando la presa, liberò subito il polso, lasciandomi andare, senza trattenermi un minuto di più. Mi unii ai ragazzi che avevano assistito a tutta la scena, come fosse stata quella di una fiction, senza lieto fine. Nessuno diceva nulla, rimasero tutti in un silenzio imbarazzante. Ci penso Lucy a farmi uscire da quell'impasse, ringraziandomi per la riuscitissima esibizione. Julia non si astenne da un personale commento, asserendo che, forse, era merito dell'inedito duetto. La considerai un'allusione piuttosto azzardata. Mi voltai a dare un'ultima occhiata: era ancora lì, al centro della sala con una mano nella tasca dei jeans e con l'altra ad aggiustarsi il cappello. Continuava a osservarmi come un Giano bifronte: da un lato compiaciuto per la riuscita performance, dall'altro visibilmente deluso per non essere riuscito a far breccia su di me. Rivolgendomi ai ragazzi, augurai la buona notte, presi al volo qualche zolletta di zucchero posta sul bancone e andai via. Stavo percorrendo la 2nd Avenue per rientrare a casa e osservando le insegne ancora accese, mi faceva sempre un certo effetto costatare un turnover senza soluzione di continuità: mentre io rientravo dal lavoro, altri uscivano da casa per dirigersene. Rimanevo sempre sorpresa della vivacità della gente, nonostante l'ora tarda: ma d'altronde vivevo a New York City, la metropoli che non dorme mai. Ero solita anche guardarmi intorno, a osservare attentamente i viandanti, sempre vigile su eventuali incontri di un certo tipo o indesiderabili rendez-vous. A quel punto, non potei fare a meno di ripensare alla stranezza della serata appena trascorsa: non riuscivo a capire come mai quell'uomo fosse tanto interessato a un argomento così futile, lui con quell'aria da professorino universitario "so tutto io". L'atteggiamento più soft assunto in un secondo tempo, lo assolveva solo parzialmente. Perché continuare a giudicarlo? E poi chi mai poteva essere questo Ethan Halder?
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