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ehilà!
benvenuto nella mia prima ff lunga. spero che ti piaccia; ci sono molto affezionata in quanto ci ho speso intere nottate per cercare di migliorare il mio stile di scrittura. Accetto (uh aceto lmao, e allora anche olio) volentieri critiche e pareri di ogni genere, su qualsiasi cosa, e ancora con più gioia commenti o stelline, se vi è piaciuta.

conteggio parole: 1487 caratteri, questa prefazione inclusa.

Buona lettura!

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Il ragazzo camminava piano verso la porta di ferro del balcone, nella stanza più vicina alla porta d'ingresso, facendo passi lunghi per non far svegliare i suoi - che dormivano nella stanza a fianco - col rumore dei piedi un po' appiccicosi che si staccavano dal pavimento, e imprecando mentalmente ogni volta che andava a sbattere al buio contro qualche mobile o gli scricchiolava l'osso della caviglia - per quel che riusciva a ricordare, fin da piccolo gli scricchiolava la caviglia sinistra quando camminava, e puntualmente quando doveva essere particolarmente cauto, anche se forse era una sua impressione dovuta al silenzio che caratterizzava i casi come quello.

Piano piano alzò verso l'alto la maniglia e sgusciò fuori il più silenziosamente possibile, espirando con sollievo nel sentire l'aria fredda della mattina presto sul viso accaldato. Il cane dei vicini due piani più in alto, anch'esso fuori al balcone, abbaiava dietro a qualche poveretto che usciva dal cancello del parco e che si era probabilmente alzato presto per andare a lavorare; poi tutto fu silenzio, tranne che per il ronzio nelle orecchie del ragazzo assonnato che sembrava dirgli "Ma sei stupido o cosa?, domani hai scuola, tornatene a letto", ma che naturalmente sentiva, o meglio, aveva l'impressione di udire, soltanto lui.

Nell'area si avvertiva l'umidità del temporale che aveva funestato il giorno prima e gli faceva arricciare i capelli dietro al collo sudaticcio, le nuvole grigie coprivano ancora le stelle, di solito abbastanza brillanti fuori dalla metropoli - lo stesso faceva il tetto del palazzo con la luna - ed un paio di lampioni diffondevano un crudo bagliore giallo acceso che illuminava una figura magra e abbastanza alta a piedi scalzi, che aveva i capelli di un colore assurdo - castano chiaro? Rosa? Castano rosa? - tagliati in una maniera altrettanto assurda - una specie di frangetta, ma corta, ed io voglio conoscere il senso del portare la frangetta corta - gli occhi marroncino, e delle sopracciglia praticamente inesistenti - come si conciano certi giovani, oggi.

Ogni tanto, ricominciava a piovigginare.

Calma e tranquillità.

Il ragazzo si sedette per terra a gambe incrociate, appoggiando la fronte sulla ringhiera di ferro freddo e umidiccio e stringendo le mani intorpidite sul metallo. Meno di quattro ore e si sarebbe dovuto preparare per le lezioni del giorno, gli ricordò di nuovo il ronzio fastidioso che era troppo stanco anche solo per mettere a tacere.

Aspetta un secondo, ma lui si era già preparato. Si era svegliato venti minuti prima, colpito da un'idea folgorante come un raggio di pura luce, che l'aveva svegliato come se fosse stato vero, si era alzato dal letto tra i lamenti delle molle e - sempre lei - della sua dannata caviglia che si piegava coi suoi passi, si era infilato al buio i primi vestiti che aveva sentito sotto le mani tese alla cieca nell'armadio, ficcando confusamente nelle tasche chiavi, telefono e cuffiette presi dal comodino lì accanto - che poi, in verità, lui sapeva che si era messo il jeans nero strappato con la catena e la felpa color pesca senza il cappuccio, perché erano le ultime cose che aveva posato, giusto il pomeriggio prima, sotto ordine, e implicita minaccia, della madre, che conosceva il suo disordine e la sua pigrizia - ed era uscito di lì.

Perché lo aveva fatto? Ah, già, sempre per l'illuminazione notturna. Certo che, con tutto il sonno da recuperare che gli gravava sulle spalle, quell'idea aveva scelto proprio un pessimo momento per manifestarsi. Ma ormai la frittata era sul fuoco, lui era lì che rifletteva sul fatto che nessuno avrebbe mai scoperto una sua eventuale piccola escursione notturna e che, in fondo, non aveva neanche senso promettersi di dormire fino a tardi il giorno dopo - perché no sapete, anche sabato sveglia non programmata all'alba senza un motivo meglio specificato - e non aveva più neanche tanto sonno.

L'adrenalina lo aveva svegliato come l'odore di una buona tazza di caffè sotto il naso.

Poteva andare, non c'era neanche da farsi tutti quei problemi e pensieri.

Aspetta un altro secondo, non aveva calzini, scarpe, giubbino e pennarello.

Due minuti dopo aveva rimediato; dopodiché aveva scavalcato la ringhiera al piano terra, si era accucciato dalla parte sbagliata del poggiamano, - ma proprio quella giusta, se ti volevi procurare un trauma cranico cadendo - aveva abbassato le mani e tolto cautamente i piedi dal cornicione di marmo senza farci sbattere le ginocchia.

Era abbastanza alto. (Lui, non il balcone).

Non era certamente tanto sconsiderato da saltare in piedi ma, in quella posizione, il divario dalla pianta dei piedi al piccolo sentiero di mattoni, incassato nel terreno, che conduceva alla la porta d'ingresso attraverso dall'erba umida del prato, era di una trentina di centimetri.

Lasciò la presa e aprì il cancello con come unico testimone oculare il jack russell terrier del non troppo anziano impiegato alle poste di sua conoscenza che viveva un paio di piani più su, che lo salutò abbaiando di nuovo.

Immagino che, a questo punto, vi starete chiedendo chi sia questo non tanto misterioso, se leggete la prefazione di questa storia, ragazzo con gusti discutibili in fatto di capelli, ma di certo non vi toglierò l'opportunità di osservare e studiare per bene, se vi va, il suo carattere nel corso di questa storia.

A volte non c'è nulla di più noioso della verità, vero? O almeno di quando il mistero è già spiegato all'inizio.

Carattere che, fondamentalmente, non è nulla di più, né di meno, di quello di un classico sedicenne indeciso con i suoi demoni e i suoi piccoli motivi di gioia - come i profiteroles freschi di forno della signora Morisuke, che gli facevano venire l'acquolina in bocca anche solo a scrutarli attraverso la vetrina che esponeva tutte le bontà della sua paradisiaca pasticceria. Oh, per essi sarebbe tranquillamente potuto finire nel girone infernale dei golosi per il resto dell'eternità senza lamentarsi troppo.

Vi basti sapere che il nostro studente si chiamava Takahiro Hanamaki, ma che tutti, sotto sua richiesta - «Fa più figo, no?» aveva detto il primo giorno di liceo, tre annni prima, quando c'erano state le traumatiche presentazioni con i suoi compagni di classe da quel momento in poi - lo chiamavano Makki. Tutti eccetto quel gran rompipalle del suo amico, Oikawa, che ogni volta che ne aveva l'occasione lo esauriva con un "Hana-chan!" e, fidatevi, se Shittykawa voleva rompere il cazzo a qualcuno era proprio l'universo che lo aiutava.

Ma torniamo alla nostra più specifica serata - ormai mattina presto-- quasi invernale.

Ora, non aspettatevi qualcosa di straordinario o misterioso dalla fuga notturna di un anonimo, classico, sedicenne in cerca di sé stesso coi capelli rosa-marrone-strano - okay forse proprio questo non si vede tutti i giorni - con un pennarello nero indelebile nella tasca sinistra e una barretta kinder vecchia di millenni in quella destra del piumino celeste con le cerniere nere.

Percorse la stessa strada illuminata dagli alti lampioni alternati a fragili alberelli potati senza molte foglie - piccolo spoiler: siamo in autunno. Eh, già. Autunno inoltrato, per la precisione, quel periodo di passaggio per l'inverno in cui si è costretti a fare il cambio dei vestiti stagionale e le foglie sono già tutte cadute dagli alberi - che avrebbe ricalcato tra quasi, appena, tre ore e mezzo, con lo zaino giallo tutto scritto di indelebile - ma che casualità, proprio come quello che fino ad ora vi ho descritto nella sua tasca - in spalla, accompagnato dai suoi amici di sempre, che si era trascinato dietro fino alle superiori.

Frequentava l'artistico: era abbastanza bravo a disegnare e, soprattutto, a dipingere con le bombolette.

Era in fin dei conti un ragazzo normale, in un liceo qualunque di una periferia familiare e dimenticata, che appariva semideserta a quell'ora, - naturalmente senza contare i piccoli gruppi di teppistelli e ragazzi in giro anche alle tre di notte, i giovani sono la rovina di questo mondo - sotto l'ombra dei lampioni che dirigevano il comune ordinario ragazzo alla sua sopracitata scuola dai muri gialli intitolata a Robert Rauschenberg.

Oh, già, i muri gialli. Non aveva, per caso, un indelebile in tasca, quel ragazzo che giusto ora si fermava davanti ad uno di essi, di fianco della scuola e si guardava per bene attorno, prendendo il pennarello e togliendo il grosso tappo?

Tranquilli, non lo aveva di certo deturpato come certi incivili che, oggi, si trovano dappertutto in giro. A testimonianza della strana missione che vi ho descritto con talmente tanta cura, forse anche esagerata, una singola parola nera in stampato - perchè il suo corsivo faceva invidia alla scrittura assurda dei medici, ve lo dico io - spiccava sull'intonaco giallo un po' schiarito:

Ciao.

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