Insidiato nel buio

[ATTO 1]
[Capitolo cinque]

"Insidiato nel buio"

<<” Dichiarazione di Joshua Gillespie, riguardante il periodo in cui è stato in possesso di una bara apparentemente vuota. Dichiarazione originale rilasciata il 22 novembre 1998. Registrazione audio di Jonathan Sims, Capo Archivista dell'Istituto Magnus, Londra.
Inizio della dichiarazione.”>>

Joshua Gillespie al tempo era in viaggio ad Amsterdam con un paio di amici. Come già si potrebbe immaginare, avevano vent’anni ed erano in cerca di forti emozioni, e quale posto migliore per darsi alla pazza gioia se non quello in cui la cannabis era legale?  In quel periodo, era davvero difficile beccare un momento in cui loro fossero completamente sobri, e probabilmente era in una di quelle sbornie che Joshua era uscito quella mattina, da solo, per farsi un giro lungo le belle strade di Amsterdam, accorgendosi purtroppo troppo tardi di non essersi portato dietro una mappa o una cartina per orientarsi. Quando iniziò a cercare la via per tornare alla casa noleggiata che lui e il suo gruppo stavano abitando, era tardo pomeriggio circa, ma data la sua scarsa capacità di parlare l’olandese, quando ritornò ad Elandsstraat il buio era già calato. Era stato a quel punto che Joshua, stressato e stanco, aveva deciso di fare sosta in un Cafè nei paraggi, prima di ricongiungersi con la sua comitiva.  Entrò, ordinò, e si mise seduto a godersi il meritato riposo, ma ben presto si rese conto di non essere al tavolo da solo. Joshua non sapeva descrivere con precisione l’uomo che si era accomodato senza proferire parola sulla sedia vacante davanti a lui, e più si sforzava di ricordarlo, più l’immagine sfocava nella sua mente, probabilmente per colpa delle droghe che aveva assunto. L’uomo era basso, molto basso, e secondo le parole di Joshua, aveva “una strana densità”, e capelli castani, corti, niente barba. Vestiti e viso non particolarmente degni di nota.  Disse di chiamarsi “John”, e chiese al giovane come stesse. Joshua gli rispose in maniera incerta, cercando di non dare a vedere la sua inquietudine, e l’uomo gli disse, molto amichevolmente, che anche lui era un inglese in terra straniera, e che veniva da Liverpool, nonostante non avesse alcun tipo di accento del posto. Aggiunse poi che stava cercando “un amico che potesse fargli un favore”. Ora, nonostante fosse completamente fatto, Joshua si insospettì e non poco di quella situazione, e cominciò a scuotere la testa, cercando un modo di alzarsi ed andarsene, senza però essere scortese. John lo fermò immediatamente, assicurandogli che non sarebbe stato nulla di gravoso, che si trattava solo di tenere d’occhio un pacco per lui finché non avrebbe mandato due suoi amici a recuperarlo, e sopratutto che avrebbe pagato bene. Joshua pensò subito si trattasse di spaccio, contrabbando, e fece per rifiutare nuovamente, quando John appoggiò una busta di carta sul tavolo. Dentro ad essa... ben 10.000 sterline, Joshua le contò più e più volte, incredulo. Al ragazzo tornarono in mente le parole di un suo amico, tale Richard, su come fosse semplice far passare una libbra di hashish dalle dogane olandesi, e tutti quei soldi… Sapeva che sarebbe stata una mossa stupida, ma accettò. John sorrise, lo ringraziò, promise che si sarebbe fatto sentire, e uscì dal bar, lasciando Joshua nello sgomento riguardo a ciò a cui aveva appena acconsentito. Nei giorni successivi, per quanto il ragazzo volesse godersi la sua vacanza, non riuscì a smettere di pensare a John, e fu molto attento nel non spendere i soldi che l’uomo gli aveva dato. Quando lo avrebbe rivisto, si sarebbe scusato, gli avrebbe detto che aveva commesso uno sbaglio nell’accettare la sua richiesta, e gli avrebbe restituito tutto, così si ripeteva.  Ma John non si fece più vivo, e nonostante i controlli ossessivi di Joshua, non riuscì a rintracciarlo, e dunque tornò in Inghilterra, con i suoi amici ancora fatti e 10.000 sterline nella giacca del cappotto. La situazione era surreale.
Iniziò a spendere i soldi soltanto quando si sentì abbastanza sicuro, poco più di un anno dopo. Il giovane si era ormai trasferito a lavorare per un piccolo studio di architettura a Bournemouth, sulla costa Sud, ma l’affitto di un appartamento per sé era decisamente fuori budget per il suo stipendio iniziale, pertanto aveva deciso di utilizzare un po’ del denaro ricevuto ad Amsterdam, sicuro che ormai John non sarebbe più riuscito a rintracciarlo. Dopotutto, se davvero era un trafficante di droga, 10.000 sterline per lui sarebbero state niente, non valeva certo la pena di rintracciarlo così lontano. Inoltre, si era fatto anche crescere la barba, era impossibile riconoscerlo ora, no? Quindi Joshua spese un po’ di quel denaro per un appartamento con camera da letto nel Triangle, vicino al centro città, e si trasferì lì quasi immediatamente.
Una settimana dopo, però, iniziarono i problemi. Mentre il ragazzo era in cucina a tagliare della frutta, il campanello suonò. Quando aprì la porta, si ritrovò davanti due fattorini dal volto arrossato, e accanto a loro un pacco immenso, che avevano evidentemente faticato a portare su per le scale del palazzo.  Gli chiesero se fosse Joshua Gillespie e, quando lui annuì, dissero che avevano una consegna per lui, ed entrarono nell’atrio. Non indossavano una divisa di alcun tipo di ditta di consegne, ed ignorarono le domande del povero Joshua, lasciando il pacco del suo appartamento e andandosene senza proferire parola.  Erano entrambi alti un metro e ottanta, e molto imponenti, quindi Joshua non avrebbe potuto fare niente neanche se avesse voluto, e ben presto rimase solo con il pacco. Lo  osservò attentamente, intimidito: era lungo circa due metri, e largo ad occhio un metro e mezzo della stessa profondità, sigillato con scotch da pacchi, con scritti sul lato superiore il proprio nome, cognome e indirizzo, in spesse lettere arrotondate. Non vi era però l’indirizzo del mittente, né un qualche tipo di timbro postale. Joshua stava ormai facendo tardi al lavoro, ma anche quello era passato in secondo piano, doveva assolutamente scoprire cosa c’era all’interno del pacco. Prese dunque un coltello dal bancone della cucina, e tagliò lo scotch che teneva chiusa la scatola. 

Dentro c’era una bara. 
Il coltello cadde a terra per lo stupore, con un sonoro tintinnio, mentre Joshua osservava l’oggetto davanti a sé, il suo pallido legno giallo non verniciato, e la spessa catena di metallo intorno ad esso, che lo teneva sigillato, dal pesante lucchetto in ferro. La serratura era chiusa, ma conteneva la chiave al suo interno. Joshua fece per girarla, quando notò due cose una volta avvicinatosi alla bara. La prima era un foglietto di carta, appallottolato su sé stesso, e la seconda erano invece due parole, incise goffamente in profondità nel legno, in lettere alte tre pollici:

“NON APRIRE”

Joshua ritirò la mano dal lucchetto immediatamente, incerto su cosa avrebbe dovuto fare. Si sedette sul pavimento, appoggiato con la schiena contro il muro, sgomento, ad osservare prima la bara, poi il pezzo di carta ancora nella sua mano. Lo aprì, solo per trovarvi scritto sopra “consegnato con gratitudine. -J”, e fu solo allora che ricollegò il pacco all’uomo incontrato ad Amsterdam. Era questo il favore che cercava? Qualcuno che tenesse d’occhio un cadavere per lui? Chi sarebbe tornato a prenderlo? E quando?
Joshua chiamò al lavoro, dicendo di essere malato, e rimase a fissare la bara per quelli che sarebbero potuti essere minuti, o anche ore. Alla fine, si fece coraggio, avvicinò il viso fino a pochi centimetri dal coperchio, e trasse un respiro profondo. Niente. Nessun odore. Se c’era un cadavere lì dentro, allora non aveva ancora cominciato a puzzare. Era inizio estate, dopotutto, quindi avrebbe scoperto molto in fretta se davvero vi era un morto all’interno della bara. Joshua fece per alzarsi, quando sfiorò la cassa con la mano, e si rese conto che era davvero molto calda, bollente, quasi come se fosse rimasta al sole per ore. La cosa gli fece accapponare la pelle, quindi decise di farsi una tazza di the, lontano da quella... “cosa” all’ingresso. Non si mosse dalla cucina nemmeno dopo aver riempito la tazza, voleva semplicemente stare lì ed ignorarla. Sfortunatamente, una volta finita la sua bevanda, la bara era ancora lì, immobile. 
Alla fine, afferrò rapidamente il lucchetto, rimuovendovi la chiave dall’interno e appoggiandola sul tavolo d’ingresso, vicino alla porta. Poi prese la bara, ancora con quello strano calore ad aleggiarle intorno, nonostante la catena fosse fredda e immobile, e la spinse più in profondità nel proprio appartamento, nel salotto, e contro il muro, più fuori dai piedi possibile. Tagliò la scatola di cartone nella quale era arrivata, e la gettò nella spazzatura. E dunque, a quanto pare, Joshua iniziò a vivere con una bara in casa.  
Non iniziò mai a puzzare, quindi era evidente che non ci fosse nessun corpo al suo interno, quindi Joshua si convinse che fosse semplicemente piena di droga. Non aveva idea del perché tenerla in un posto così evidente, o perché affidarla a un completo sconosciuto come lui, ma decise che non erano fatti suoi, e non se ne impicciò. Nei giorni successivi, evitò il salotto, ma col passare del tempo, il peso del nefasto carico diminuì.
Una settimana dopo l’arrivo della bara, Joshua riprese ad utilizzare il salotto, principalmente per guardare la televisione, e una volta fu anche così spavaldo da usare l’indesiderato oggetto come tavolino per il succo. Vi aveva posato un bicchiere ricolmo sopra, come in maniera meccanica, senza nemmeno rendersene conto, almeno finché non aveva sentito un movimento sotto ad esso.   Joshua si bloccò, ascoltando attentamente, convinto di esserselo immaginato, ma poi successe di nuovo. Un lento, leggero, ma insistente grattare, proprio sotto a dove aveva appoggiato il bicchiere. Ovviamente, Joshua era terrorizzato, qualsiasi cosa fosse rimasta nel suo salotto per più di una settimana, non aveva mai dato segno di essere viva, ed era improbabile che lo fosse ancora. Sollevò lentamente il bicchiere, e il grattare si fermò immediatamente. Joshua rimase immobile, a riconsiderare le sue scelte di vita, per poi appoggiare nuovamente il bicchiere sul lato opposto del coperchio. Il grattare riprese dopo quattro secondi netti, più arrabbiato ed insistente, e non finì per altri cinque minuti dopo che il ragazzo tolse del tutto il bicchiere di succo dalla bara. Joshua decise di smettere di fare esperimenti, e prese la decisione conscia di ignorare ciò che era appena successo. Dopotutto le sue opzioni erano o aprire la bara e controllare da sé cosa c’era al suo interno, o seguire le istruzioni incise su di essa. Magari era un codardo, ma di certo non era stupido, e decise che avrebbe interagito con la bara il meno possibile, e che non la avrebbe aperta per niente al mondo. 
La sua scelta si rivelò essere quella giusta  la prima volta che si mise a piovere, e Joshua sentì la scatola cominciare a….gemere. Era un sabato, e il ragazzo lo stava passando da solo a leggere in camera propria. Aveva pochi amici a Bournemouth, e diciamo che avere una bara inquietante in salotto non aiutava la voglia di creare relazioni o di invitare gente a casa propria, quindi era solo la maggior parte del suo tempo. Quindi, Joshua era intento a leggere Il Mondo Perduto, di Michael Crichton, quando aveva cominciato a piovere. La pioggia era forte, pesante, che cadeva dritta al suolo senza che il vento potesse contrastarla, e il cielo era diventato in poco tempo grigio e scuro, nonostante fosse a malapena mezzogiorno. Era così cupo che il giovane si era dovuto alzare ad accendere la luce, e fu allora che lo sentì. Era un rumore basso, lieve, un gemito, ma non come quello magari di un mostro in un film di paura. No, era quasi...melodico, un canto flebile, come se qualcuno sepolto sei metri sotto terra stesse intonando una melodia. Inizialmente, Joshua pensò che potesse provenire da uno degli altri residenti nel suo palazzo, ma sotto sotto era consapevole della provenienza di quel suono, semplicemente lo sapeva.  Camminò fino al salotto e si fermò sulla porta, guardando la bara sigillata, mentre continuava a gemere il suo delicato rumore alla pioggia.  No, non la avrebbe aperta, e non aveva intenzione di ripensarci. Semplicemente, tornò in camera sua, e alzò la musica abbastanza da soffocare tutti gli altri suoni. 

Andò avanti così per un paio di mesi. Qualsiasi cosa ci fosse nella bara, grattava a qualsiasi cosa le venisse appoggiata sopra, e gemeva quando pioveva. Suppongo questa sia la prova che ci si può abituare a qualsiasi cosa, per quanto bizzarra sia. Ogni tanto, Joshua pensava di liberarsene, o di chiamare qualcuno a investigare, ma alla fine si decise che aveva più paura di chi gli aveva affidato la bara più che della bara stessa, quindi rinunciò a cercare di fare qualsiasi cosa. L’unico problema concreto che gli causava, era nel dormire. Joshua era sicuro che gli facesse fare incubi, ma non si ricordava mai i suoi sogni, quindi non sapeva di che tipo. Però si svegliava continuamente in preda al panico, stringendosi la gola e faticando a respirare. Poi cominciò il sonnambulismo. La prima volta che successe, fu il freddo a svegliarlo. Era pieno inverno, e Joshua si ritrovò in piedi, nel buio del suo salotto, sopra alla bara. La cosa più preoccupante, però, era che in mano stringeva la chiave del lucchetto. 
Provò ad andare da un medico, che lo reindirizzò ad una clinica del sonno dell’ospedale vicino, ma i problemi non si presentarono lì. Joshua decise allora di nascondere la chiave in posti sempre più difficili da raggiungere, ma ogni notte si svegliava con la chiave nella serratura, in procinto ad aprire il lucchetto. Bisognava trovare una soluzione.
Alla fine, Joshua trovò un metodo, forse un po’ elaborato, ma funzionante. Mise la chiave in una ciotola d’acqua, e poi la mise nel freezer, rinchiudendola in un solido blocco di ghiaccio. Ogni notte, il freddo del ghiaccio lo svegliava sempre prima che potesse farci qualcosa, e alla fine divenne solo un’altra parte della sua routine. 

Visse così per un anno e mezzo. E’ buffo come la paura possa diventare quotidianità, come la fame. Alla fine, lo accetti e basta. 
Un giorno piovette, e ci fu silenzio. Il tempo di Joshua con la bara stava per terminare. Non se ne rese conto subito, visto che ormai era tradizione accendere la musica appena iniziava a piovere, ma dopo qualche minuto si rese conto che non c’era alcun suono da sovrastare. Il salotto era silenzioso. E poi qualcuno bussò alla porta, e il rumore rimbombò nel vuoto come un tuono. John e i due fattorini erano lì fuori. 
Joshua non era sorpreso di vederli, ma loro erano molto sorpresi di vedere lui. Sembravano quasi increduli, e lo squadrarono dalla testa ai piedi. Il ragazzo chiese se fossero lì per ritirare la bara, e loro annuirono. John disse che sperava non fosse stata di troppo disturbo, e Joshua gli urlò se sapeva dove poteva infilarsela quella bara, ma l’uomo non sembrò avere risposta a quello. Sembrava sinceramente colpito, però, quando tirò la chiave fuori dal freezer. Joshua non lasciò nemmeno si scongelasse, gettò il blocco di ghiaccio a terra e lo lasciò frantumarsi. Non seguì John e i due fattorini, non voleva vedere cosa avrebbero fatto con la bara. Non voleva vedere se l’avrebbero aperta. E, quando le urla cominciarono, non voleva vedere chi stava urlando o perché. Lasciò la cucina solo quando i due fattorini portarono la bara oltre la porta. Li seguì sotto la pioggia battente, mentre la chiudevano in un furgoncino con la scritta Breekon&Hope Deliveries.
Poi guidarono via.
Non c’era traccia di John. 
<<Fine della dichiarazione.>> Jon poggiò il foglio scritto a mano sulla scrivania, per poi tirare fuori dalla cartelletta accanto ad esso una pletora di fogli riguardanti ricerche varie da parte di Tim e Sasha. 
<<E’ sempre bello sentire che la mia città natale non è completamente priva di strani incidenti e storie misteriose. Gelati, spiagge e noia sono una bella cosa, ma sono contento di sentire che Bournemouth ha almeno un paio di apparizioni da rivendicare. Detto ciò, il fatto è che la dichiarazione del signor Gillespie inizia con uso di droghe e continua con la mancanza di testimoni che la confermino come tema centrale, il che significa che una storia misteriosa è tutto ciò che è. >>
Ridicolo. Altro spreco di tempo. Non ci sono prove, non può essere accaduto.
<<Quando l’Istituto indagò la prima volta, non sembra venne trovata una singola prova a supporto dell’esistenza di questa bara graffiante, e ad essere onesto non penso che valga la pena sprecare il tempo di nessuno vent’anni più tardi….Tuttavia...>>
Ecco, la nota dolente. L’unica cosa che si frapponeva tra lui e il dimenticare per sempre questa testimonianza.
<<L’ho accennato a Tim ieri, e a quanto pare ha scavato un po’ per conto suo. Breekon&Hope è davvero esistita, era un servizio corriere che operò fino al 2009, quando andarono in liquidazione. Avevano base a Nottingham, e se tenevano registri delle loro consegne, ora non sono più disponibili.>>
Jon sospirò. Non era abbastanza per veridicizzare la dichiarazione, ma abbastanza per lasciargli il dubbio. 
<<Inoltre...riguardo all’appartamento di cui il signor Gillespie fornì l’indirizzo quando tutto accadde...La cooperativa edilizia che lo gestiva tiene registri sugli affittuari anche risalenti a quaranta o cinquanta anni fa. Tim ha trovato quello di Joshua, e sembra che per i due anni del suo soggiorno, fosse l’unico residente dell’intero edificio, con gli altri sette appartamenti completamente vuoti. Nessuno si trasferì lì dopo la sua partenza, e il palazzo fu demolito poco dopo. Nonostante gli sforzi di Tim, non abbiamo trovato spiegazioni del perché, in un edificio di quelle dimensioni, mr. Gillespie passò quasi due anni a vivere completamente da solo, eccetto che per una vecchia bara di legno.
Fine della registrazione.>>
Ancora una volta, il registratore venne spento bruscamente, e la cassetta estratta in tutta fretta. Qualsiasi sensazione negativa stesse aleggiando nella stanza fino a poco prima, era ormai scomparsa. Jon sospirò, sollevato alla prospettiva di aver finito le sue registrazioni della giornata, e ripose con cura la cassetta nel fascicoletto del caso, per poi scrivervi attentamente sopra con un pennarello indelebile “Caso #9982211- Do Not Open”. 
Ora non restava che concludere formalmente l’investigazione, e decise di non aspettare neanche un secondo per farlo. Aveva fin troppo lavoro da fare ancora.

<<February, dove sei?! Voglio solo parlarti!!>> Persy si lasciò sfuggire un  lamento seccato alla mancanza di risposta da parte della...”creatura”? Come avrebbe dovuto definirlo? Uno spettro? Uno strano fenomeno??
Qualsiasi cosa fosse, non le stava rispondendo. Il giorno prima, era rimasta a piagnucolare sul divanetto della libreria per ben venti minuti, come una bambina, prima di venir riportata nuovamente alla realtà da un’altra impiegata,  preoccupata per lei, e solo allora si era resa conto del fatto che February fosse scomparso nel nulla. Aveva provato a cercarla, ma niente da fare, e quindi aveva passato la serata nel suo appartamento, a crucciarsi sul se l’avesse offesa, o sul motivo di quella scenata che aveva fatto. 
“Congratulazioni, Persephone. Hai ferito i suoi sentimenti. Bravissima” 
Persy tirò un calcetto ad un mobile lì nei paraggi, mormorando insulti rivolti a sé stessa, nervosamente. Se non avesse risolto a breve quella situazione, non se lo sarebbe mai perdonata. Era troppo empatica per permettersi di far stare male le persone. 
<<Andiamo, Febbie, non puoi farmi ques->>
<<Come mi hai chiamato,    scusa?>>
Persy trasalì. Si girò istintivamente e, davanti a lei, si ergeva la figura del ragazzo, ancora nello sgargiante abito giallo del giorno prima. Il suo chignon sembrava ancora più disordinato, e il pallore della sua pelle si era addirittura amplificato, dandogli un’aria debole e malaticcia. Riusciva a malapena a tenere lo sguardo fisso su di lei, e in verità non sembrava essere del tutto presente. Era...normale per una creatura come lui?
<<Ah! Eccoti! Uh, Febbie è un soprannome, posso chiamarti così o-?>>
<<Mh-hm. Perché no.>> L’essere rispose in maniera distaccata, quasi  impaurita, distogliendo lo sguardo continuamente per non fissare la giovane dritta negli occhi. Barcollò leggermente sui suoi piedi, come se faticasse a stare dritto. 
<<...Perché sei tornata a cercarmi?>> Chiese poi, con l’espressione più seria che Persy gli avesse mai visto fare.
<<Perché volevo scusarmi! Non avrei dovuto fare così ieri, tu non hai idea di cosa mi abbia ricordato->>
<<Posso immaginare. Non sono arrabbiata, non preoccuparti. Però forse è più sicuro per te se...mi stai alla larga.>> Febbie assunse in volto uno sguardo rassegato, colpevole. Persy si sentì nuovamente stringere il cuore, ripensando alle parole che gli aveva rivolto il giorno precedente, su come non avesse amici e fosse sempre solo.
<<Te lo scordi.>> Rispose quindi la ragazza, poggiandosi con fare risoluto le mani sui fianchi, <<Devo farmi perdonare, quindi che te ne pare di darmi una mano a catalogare i libri fuori posto della biblioteca? Avrei giusto bisogno di qualcuno con cui scambiare due chiacchiere.>>
February sembrò...sorpreso, in un primo momento, ma ben presto i suoi occhi si riempirono di apprensione.
<<No, no, non potrei- Ti disturberei, e-..E poi forse...Ti spaventerei, non posso farlo.>>
<<Non dire sciocchezze, non mi disturbi.>> Persy afferrò dolcemente la mano del ragazzo, con l’intenzione di portarselo dietro, ma d’un tratto si fermò. Era...leggera al tatto, ma qualcosa non andava con la sua consistenza. Le dita erano vuote, quasi nulle, non sembravano essere davvero lì, e il palmo invece era freddo e duro, come fosse un sacchetto di pietre. Ma la cosa più strana era che, dal proprio polso fino al gomito, Persy sentì strane presenze posarvisi sopra. Erano appuntite, come se qualcuno stesse premendo dei frammenti di vetro conto il suo braccio, ma non nel tentativo di farle del male. La punzecchiavano, ma in maniera lieve, dolce. Persy mollò la presa immediatamente, e prese a fissare February, in un forte stato di confusione. Lei sembrò spaventarsi ancora di più, e prese a scusarsi profusamente.
<<Mi dispiace tanto, ti ho fatto del male?>>
<<No, no, non mi hai fatto niente. Solo...è stato strano, cos’era quello?>>
La ragazzina sembrava...insolitamente tranquilla, e Febbie lo notò immediatamente. Non era spaventata, come in passato erano state le altre persone che avevano provato a prendere la creatura per mano, ma sembrava essere perlopiù incuriosita, affascinata quasi. Stava osservando il proprio braccio, massaggiandolo dolcemente nei punti in cui aveva provato quella strana pressione, come se lo stesse studiando, il suo sguardo crucciato immerso nei propri pensieri.
Febbie rimase quasi come ipnotizzato a fissarla per svariati secondi, prima di riscuotersi e rispondere alla domanda che Persy gli aveva posto con uno sbrigativo: 
<<Ah, niente...Di importante. Però dovresti davvero andartene, o almeno avvisarmi prima di prendermi per mano.>>
Persy annuì con un severo movimento della testa. Non sapeva perché quello strano essere stesse cercando così disperatamente di cacciarla, o di cambiare il discorso. Ma ormai era decisa a farlo venire con lei, e così avrebbe fatto.
<<Ti avviserò. L’offerta per venire con me è ancora valida.>>
Febbie sembrò pensarci su, incerta. Persy mantenne la mano tesa, come un invito, ed eventualmente, la creatura sospirò, e fece qualche passo in avanti, nella sua direzione. Lo stomaco della creatura diede un leggero gorgoglio di protesta.
Sapeva che se ne sarebbe pentito amaramente, e che avvicinarsi a qualcuno non avrebbe portato altro che guai per lui, ma tutti quei pensieri passarono in secondo piano molto velocemente. Magari per quel giorno avrebbe potuto smettere di essere così terribilmente solo. Forse quella sarebbe stata la sua ultima possibilità.
<<D’accordo. Ma se qualcosa di brutto succede->>
<<Non succederà nulla, promesso.>> 
February allungò le mano, e strinse con una precisione chirurgica quella tesa della adolescente. Quando aveva il tempo di prepararsi per il contatto fisico, era una delle cose che più apprezzava. Nonostante fossero probabilmente anni che, oltre alla occasionale stretta di mano professionale, nessuno lo toccava più. Gli mancava la presenza calda e rassicurante della carne umana.  Persy contraccambiò la stretta di mano, e lo tirò leggermente a sé, facendogli cenno di seguirla.  E i due si diressero dunque verso la biblioteca, chiacchierando del più e del meno.
La porta che la ragazza stava per aprire per uscire dalla piccola stanza in cui i due si trovavano non era una porta normale. Ma lei non avrebbe mai fatto in tempo a notarlo, February realizzò questo quando Persy, tutta emozionata nell’avere un amico appresso, strinse con forza la maniglia. Dopotutto, le porte che Febbie usava per spostarsi da un posto all’altro avevano quasi un aspetto normale. Il colore era leggermente sbagliato, ma una persona di fretta non avrebbe mai notato questa differenza a primo impatto. E soprattutto, la loro particolarità più importante era che, oltre al fugace secondo in cui esse venivano aperte da qualcuno, quelle porte non esistevano. Non erano mai esistite, e probabilmente non sarebbero esistite mai più. Chiunque le attraversasse poteva considerarsi perso per sempre, condannato a vagare nella parte più melodicamente distorta della realtà fino alla sua eventuale morte. E questo ci porta all’utilizzo secondario di queste porte: raccogliere prede fresche per poter mangiare. Perché sì, Febbie era comunque un mostro, nonostante facesse del suo meglio per non uccidere mai nessuno. E in questo particolare momento, era persino più affamato del solito, soffrendo la sua decisione di aver smesso di mangiare per pura bontà personale, e necessitava di qualcuno abbastanza ingenuo e ignaro del pericolo incombente che si perdesse nel labirinto all’interno delle sue porte. Persy, però, dal canto suo, avrebbe stuzzicato l’appetito di qualsiasi creatura come lui, con la sua “salda stretta sulla realtà” e il suo “raziocinio”.  Per nutrirsi, Febbie avrebbe dovuto sbarazzarsi di quelle due sue qualità, e quale miglior modo se non spedirla attraverso una porta inesistente che raggiunge un corridoio infinito e impossibile da navigare, che ti porta alla pazzia totale in meno di una settimana?  Quindi, in breve, Febbie aveva fame, Persy era un pranzo perfetto per lui, e Febbie era un mostro. 
La ragazza si apprestò a posare allegramente la mano sulla maniglia argentata della porta, ignara della vera natura di essa e delle intenzioni del ragazzo, e February seguì con lo sguardo la scena, poco più dietro di lei. Quando l’adolescente prese a girare il pomello, però, la creatura, quasi come con un gesto automatico, fece un passo verso di lei, e d’istinto le parò un braccio davanti. Non sapeva nemmeno lei perché, ma si rese presto conto di essere spaventata.
<<Hey, guardami un secondo.>> Disse, con la voce tremolante, tirando gentilmente indietro la ragazzina con il gomito, allontanandola dalla porta. Lei si girò nella sua direzione.
<<Che hai, che ti prende?>>
<<Ah...nulla, mi dispiace. Oggi sono un po’ assente. Scusami.>> Febbie tolse il braccio da davanti a lei, e fece di nuovo un altro passo indietro. Persy, piuttosto stranita, decise semplicemente di ignorare i suoi strani comportamenti, e si girò nuovamente verso la porta, aprendola con uno scatto.
Un normalissimo corridoio. February trattenne il respiro, per poi rilasciarlo in maniera quasi sollevata. Aveva spostato appena in tempo la propria porta, non c’era più alcun pericolo per la ragazzina.
<<Vieni?>>
<<Arrivo subito!>>
Ora, February non aveva più amici da decenni oramai. Non aveva mai avuto il coraggio o la capacità di portare avanti delle connessioni significative, ma nel lontano passato,  quando ancora poteva essere definito vivo, e quando la sua mente non era ancora un labirinto inesorabile, aveva qualcuno al suo fianco, qualcuno a cui lei teneva più della sua stessa vita. Ma ora quel qualcuno non c’era più, era andato avanti, e lei era rimasta nella più inevitabile solitudine. Non aveva mai nemmeno più provato a legare con qualcun altro, dopotutto perché avrebbe dovuto? Era un mostro, un abominio, una creatura orribile, e non avrebbe mai potuto rovinare l’esistenza di qualche altra persona decidendo di affiliarsi ad essa. Ma Persephone, lei era… un caso raro. Febbie lo percepiva. Non avrebbe dovuto, non avrebbe potuto essere ancora viva. E per quanto ancora lo sarebbe stata? Perché questa adolescente era così a suo agio nel dondolare attaccata al al filo che distingueva la vita e la morte? Ne era almeno a conoscenza?
Troppo anomalo, troppo strano. Per questo February decise di lasciarla in vita quel giorno. Curiosità? Può essere. Voleva per caso vedere dove la sua testa sarebbe caduta di lì a poco? Possibile. Ma, in un qualche modo, avrebbe odiato se una cosa del genere le fosse successa. February non poteva permettersi di tenere a qualcuno, ma forse poteva ancora proteggerla da ciò che sapeva le sarebbe capitato.
Perché era la stessa cosa capitata a lui.

<<E con questa, sono venti. Tieni, Stoker, felice adesso?>> Hel mise nelle mani del ragazzo filippino una banconota stropicciata, mentre lui si limitò a ridacchiare ed intascare i soldi, con un sorrisetto idiota stampato sul viso.
<<Dai, non fare così, non puoi lamentarti, me li dovevi da mesi ormai. Da prima del tuo viaggio in...Dov’è che sei stata per tutto questo tempo?>>
<<Norvegia. Viaggio di studio, sono tornata a inizio settembre.>> 
<<E non hai fatto neanche una foto? Nemmeno una cartolina per noi?>> Sasha si mise scherzosamente le mani sui fianchi, con fare offeso. Si volse in direzione di Tim, con un gesto drammatico e decisamente esagerato.
<<Hai sentito, Tim? Neanche un magnete per il frigorifero a noi due! Ai suoi cari amici!>>
<<Ho sentito eccome, Sasha!>> Tim mise un braccio intorno alle spalle della ragazza dagli occhiali rotondi, e fece finta di svenirle addosso dal dolore, cosa che la fece scoppiare a ridere a crepapelle <<Ah, tradimento! Ti condanno a morte per aver tradito la nostra fiducia, come hai potuto!!>>
Hel si limitò a guardarli, sorridendo. 
<<Piantatela di fare i cretini, ho avuto solo molto da fare con il college, nemmeno a Jon ho preso nulla.>>
Tim e Sasha smisero di rigettarsi l’uno addosso all’altra, solo per portarsi entrambi la mano alla bocca e guardarla con espressione stupita.
<<No, non posso crederci.>>
<<Neanche a Jon? Impossibile.>>
<<Già, il tuo amichetto del cuore.>>
<<Lo preferisci persino a noi!>>
Detto questo, i due scoppiarono nuovamente a ridere, ed Hel iniziò a ridere con loro.
Era strano per lei pensare a quanto tempo fa li avesse conosciuti. Quando era stato? Quattro anni prima? Per forza, si ricordava chiaramente di aver avuto diciannove anni all’epoca, e ora ne aveva ben ventidue. Era andata all’Istituto per dare una testimonianza su un proprio...”problema personale”, diciamo, ma in nemmeno dieci minuti si era ritrovata ad avere un attacco di panico sui gradini del posto, ed era stato allora che Jon le si era avvicinato per la primissima volta. Le aveva offerto dell’acqua, avevano parlato. Prima che potesse rendersene conto, avevano iniziato a vedersi regolarmente, lui lavorava come ricercatore e lei veniva a punzecchiarlo spesso e volentieri, ed eventualmente lui la aveva presentata ai suoi migliori amici, Timothy Stoker e Sasha James. Hel teneva a loro in maniera particolare, visto che aveva avuto problemi per tutta la vita a stringere amicizie durature, sempre per via del suo “problema”, che l’aveva portata a Londra in cerca di una soluzione. E Jon era l’unica persona al mondo, oltre ai suoi genitori, alla quale lei si era sentita di rivelare la sua triste condizione. Si fidava di lui, si fidava di lui più di chiunque altro, e la sua fiducia si era solo rafforzata quando lui aveva iniziato immediatamente a cercare metodi per aiutarla, e quattro anni dopo era ancora deciso a riuscirci.  Tim e Sasha erano ancora all’oscuro della sua strana situazione, ma non per questo lei non teneva a loro, anzi, ormai li conosceva alla perfezione. Tim era sempre stato come il “fratello maggiore del gruppo”, attento agli altri, premuroso, buffo, a volte un bastardo che ti rubava gli orsetti gommosi dallo zaino (ed Hel quel furto se lo era proprio legato al dito), insomma, un simpatico spaccone che si divertiva ad arruffare i capelli viola della ragazza ogni volta che la vedeva per strada. Sasha? Sasha era intelligente. E, visto il quoziente medio della gente con cui aveva deciso di associarsi, non era cosa da poco. Era il genere di persona che portava il pranzo doppio perché sapeva già che qualcuno lo avrebbe dimenticato, o che metteva in valigia i cambi di vestiti quando si partiva per il campeggio.  Ovviamente ciò non significava che fosse prudente o pacata, anzi, era quella che più probabilmente ti avrebbe disegnato sulla faccia col pennarello se finivi ad addormentarti con lei nei paraggi. 
<<E’ un peccato che Jon non sia voluto venire fuori a pranzo con noi. Questo locale è probabilmente l’unico con prezzi non astronomici in tutta Chelsea.>> Hel diede un morso al suo calzone farcito, per poi iniziare ad agitare le mani in maniera spasmodica:
<<CAZZO, SE SCOTTA-!>>
<<Cerca di non ustionarti il palato, genio>> commentò Sasha, trattenendo una risatina, per poi tornare a sorseggiare il proprio frappè alla fragola, aggiungendo <<Comunque non offenderti, doveva registrare non so che cosa. Sai com’è quando bisogna lavorare.>>
<<Fortuna che noi non lo facciamo mai!>>
<<Parla per te, Stoker, sono io poi che devo fare- Hai finito tutte le mie patatine?!>>
<<Le nostre patatine, Alessandra.>>
Sasha sospirò, per poi tirare uno schiaffetto amichevole sulla spalla del ragazzo sorridente.
<<Idiota. Ti ucciderei qui ed ora, ma temo che la nostra pausa pranzo sia finita, dobbiamo tornare all’Istituto.>> La ragazza alzò il proprio telefono, per fare in modo che tutti quanti al tavolo vedessero l’orario, a caratteri cubitali sullo schermo acceso del dispositivo.
<<Ah, hai ragione. Beh, ora di andare.>>
<<A domani, voi due?>>
<<A domani, Hel! Visto che Tim ha deciso di appropriarsi del mio cibo, domani offre lui.>> Sasha ignorò le proteste di Tim e raccattò la propria borsa, alzandosi dal tavolo e portando con sé il proprio frappè. I due salutarono la giovane dai capelli viola, e uscirono fuori dal locale di corsa, nel tentativo di non fare ritardo, e di evitare la sgridata da parte del loro capo se ciò fosse dovuto succedere.
Hel rimase sola, con i propri pensieri, e con il proprio calzone. Alla fine, decise di pagare e di terminare il pranzo andando a fare una passeggiata per le strade circostanti. Stare ferma troppo a lungo non le piaceva, e ancora di meno quando non c’era nessuno con lei, quindi in poco tempo si ritrovò fuori dal locale, mangiucchiando il suo panzerotto caldo e godendosi il freddo e il cielo grigio tipici di Londra. Si guardò intorno, osservando le persone che camminavano lungo il marciapiede nei suoi paraggi, un signore anziano con un cappello, una ragazza cieca con un paio di occhiali scuri e che si orientava con un bastone, un bambino con i suoi genitori, eccetera eccetera... Quando il pub dove lei e i suoi amici avevano pranzato, il Casa Manolo, fu lontano, Hel decise di tagliare per  Dovehouse ST, fino ad arrivare in King’s Road. Contava di fare un salto in un paio di negozi locali, per poi tornare alla fermata del bus e prendere il primo per Lewisham, il quartiere dove lei viveva, ad un’ora da Chelsea. Mentre passeggiava, lanciò un’altra occhiata nei suoi dintorni. Ora i genitori col bambino non erano più visibili, mentre il vecchietto col cappello si stava sedendo giusto in quel momento su una delle panchine del parco vicino. L’unica persona a camminare ancora nella sua stessa direzione sembrava essere la ragazza cieca. Arrivata nel centro di King’s Road, Hel fece un salto veloce a Clothes Live UK, per comprarsi un nuovo paio di jeans, e anche lì si ritrovò la ragazza cieca appresso, che tastava i tessuti delle magliette nello scaffale accanto al suo. Poco male, pensò Hel, decidendo tra sé che si trattava solo di una coincidenza e che non c’era niente di sospetto o strano. Dovette ricredersi, però, quando si diresse all’interno di un altro negozio su King’s Road: The Waterstones, una libreria. In un primo momento, Hel si perse immediatamente nell’odore della carta stampata, e prese a frugare allegramente tra gli scaffali, alla ricerca  di qualche volume, dello spessore di un mattone, come piacevano a lei, riguardante la filosofia, sua grande passione. Poi la sua immersione venne bruscamente interrotta da un gran vociare al bancone, e quando alzò la testa per vedere meglio, rimase allibita. La ragazza cieca era lì, e sembrava essere anche parecchio arrabbiata. Se la stava prendendo con la donna alla cassa, ma Hel non riuscì a sentire per intero le parole che le due si stavano scambiando. Capì solamente vaghe frasi riguardo ad un “libro molto importante” da ritirare, e sul fatto che fosse “essenziale per lei”, e che sarebbe “già dovuto essere arrivato”. L’unica frase che Hel riuscì ad ascoltare per intero fu l’ultima pronunciata dalla ragazza, prima che si dirigesse fuori dalla libreria:
<<Quando arriverà, fatelo ritirare a nome Wynn.>>
La ragazza dai capelli viola rimase interdetta per un po’, osservando la porta dalla quale la giovane col bastone era uscita in tutta fretta, confusa dalla scenata alla quale aveva appena assistito, per poi riscuotersi velocemente e tornare alla propria ricerca personale di qualche libro mentalmente stimolante per riempire i suoi pomeriggi. Dopo aver optato per un volume bello corposo, “A New History of Western Philosophy”, Hel pagò il proprio acquisto e si diresse all’uscita, pronta a dirigersi verso la fermata del bus per tornare a casa. Fu allora che, però, realizzò con orrore una cosa, semplicemente gettando una occhiata fugace alle sue spalle: la ragazza cieca era ancora lì, e camminava nuovamente nella sua stessa direzione. Non c’era più alcun dubbio ora, la stava per forza pedinando, era rimasta in quella libreria almeno altri venti minuti dopo che lei se n’era andata. Hel iniziò ad agitarsi, ed accelerò il passo, ma la ragazza, pochi metri dietro di lei, fece lo stesso. La ventiduenne allora, ormai nel panico, decise semplicemente di proseguire finché non avrebbe trovato un centro gremito di gente, dove avrebbe potuto confondersi tra la folla e far perdere le sue tracce, notando però solo dopo qualche minuto di camminata frenetica che le strade intorno a lei sembravano essersi svuotate, ed era evidente che le uniche due persone in quel posto fossero solamente lei e la sua misteriosa stalker. Hel continuò a proseguire, superando la fermata del bus che avrebbe dovuto prendere. Fermarsi non era sicuro per lei, visto che il passo della ragazza cieca si fece ancora più veloce, quasi come se volesse raggiungerla ad ogni costo, e la giovane dai capelli viola aveva ormai troppa paura per processare i propri pensieri in maniera coerente e razionale. Oltrepassò una zona residenziale, cercando di far aumentare il più possibile la distanza tra sé stessa e la stalker, e poi prese a correre in maniera disperata. La misteriosa pedinatrice rimase ferma per un attimo, interdetta sul da farsi. Non avrebbe potuto correre, non vedeva nulla dopotutto, e sarebbe soltanto finita col farsi del male. Hel rimase sollevata nel vederla rallentare, ma la sua allegria durò poco, perché si rese conto con orrore che il sole stava ormai tramontando, e che era inspiegabilmente già pomeriggio inoltrato. Evidentemente, il suo giro per negozi era durato parecchio più del dovuto, visto che le file di lampioni disseminati in ordinata fila sui vari marciapiedi iniziarono ad illuminarsi uno dopo l’altro. La ragazza cieca rimase immobile, quasi come se potesse percepire la luce intorno a sé, e ne fosse rimasta pietrificata. Hel, esausta dall’aver corso, ed essendosi accertata di essere ormai ben distante dalla sua inseguitrice, rallentò leggermente il passo, e si voltò ad osservare lo strano comportamento di quest’ultima. Lei rimase ferma, girando la testa di lato di tanto in tanto in maniera scattante, ripetitiva, stringendo saldamente il bastone da passeggio in una mano e tenendo l’altra tesa in avanti. Poi, nell’aria iniziò ad esserci qualcosa.  Un suono? Sì, un suono! Un leggero ronzio elettrico, Hel lo percepiva sfrigolare e sibilare tutt’intorno a sé. Si mise sull’attenti, indietreggiando e guardandosi intorno in maniera maniacale, nell’attesa che qualche lampione avesse un malfunzionamento, o che saltasse qualche cavo della corrente, o qualcosa del genere.
Invece, la ragazza cieca fece un passo in avanti. Poi un altro. E poi iniziò a correre. A correrle incontro.
Hel non capì immediatamente cosa stesse succedendo in quell’esatto momento, sentì solo il rumore dei vetri infranti.  Lanciò uno sguardo terrorizzato in direzione della stalker, ed osservò immobile una scena a cui lei stessa faticava a credere. Man mano che la ragazza correva verso di lei, dietro a sé lasciava una scia di lampioni distrutti, i loro cocci di vetro cadevano al suolo solo per infrangersi ulteriormente, appuntiti e affilati come rasoi. Al passaggio della ragazza, qualsiasi luce sul suo cammino finiva in frantumi in maniera quasi immediata, creando alle sue spalle uno spesso muro di oscurità impenetrabile, che sembrava avanzare con lei.
Hel iniziò nuovamente a correre, nonostante le sue gambe doloranti la implorassero di fermarsi, mossa da un misto di terrore e disperazione, urlando per la propria vita nella speranza vaga che qualcuno la sentisse e venisse a salvarla. Nessuno venne, ovviamente, e lei rimase a dover fuggire in una strada vuota, che man mano calava sempre di più nel buio più nero, con i polmoni in fiamme dalla fatica e dai suoi gridi disperati. Hel corse per quelle che le sembrarono ore, ma che probabilmente furono solo una manciata di secondi, prima che i suoi passi iniziarono ad essere lenti e pesanti, come se stesse cercando di muoversi all’interno di un qualche specchio d’acqua. Ed effettivamente, quando guardo giù, si rese conto che ciò era esattamente quello che stava succedendo. Sembrava che il muro d’oscurità alle spalle della ragazza cieca, che non accennava a voler rallentare il passo, si fosse sciolto, inondando la strada di un liquido nero pece, viscoso e pesante, che immergeva la povera Hel fino alle caviglie, e le rendeva difficile camminare. Nonostante tutti i suoi sforzi per continuare a correre, la presa della sostanza scura e gommosa  era davvero troppo forte da contrastare, e fece scivolare la ventiduenne, che si ritrovò a sprofondare in quel lago di catrame, sempre più in profondità, come fossero sabbie mobili. Non avrebbe potuto nemmeno gridare, poiché fare ciò le avrebbe tolto tempo prezioso  per respirare, cercando di evitare che la sostanza scura le finisse in bocca, o peggio ancora, nei polmoni.
Quando la ragazza cieca la raggiunse, Hel era ormai immersa in quel liquido torbido fino al torace, ma nonostante ciò, cercava ancora disperatamente di continuare a muoversi in avanti, nonostante la stanchezza iniziasse a farsi sentire nelle sue ossa, facendola ansimare e singhiozzare, impaurita. La stalker, inaspettatamente, rallentò, finché non si fermò esattamente in piedi davanti alla ventiduenne terrorizzata. La sostanza non sembrava farla affondare, anzi, quando lei ci camminava sopra sembrava fosse una normalissima superficie solida. Quando la ragazza cieca si accovacciò alla sua altezza, Hel, nonostante la paura attanagliante e il suo faticoso arrancare nel liquido scuro, poté osservarla più attentamente: sembrava essere asiatica, forse coreana, ma aveva una pelle troppo pallida, quasi cadaverica da quanto chiara fosse, e i capelli neri raccolti in una coda di cavallo alta.   Aveva svariati piercing argentati, due rotondi accanto ai lati della bocca, un anello al naso, e diversi alle orecchie, e sulle labbra portava un pesante rossetto color pece. Indossava un paio di occhiali scuri, probabilmente per motivi medici, una giacca blu e una maglietta color pantano, un paio di jeans e scarpe da ginnastica ormai logore. Il bastone da passeggio era al suo fianco, rimasto inutilizzato da quando i lampioni avevano iniziato ad infrangersi, e anzi, nella totale oscurità della strada la ragazza sembrava muoversi in maniera molto più semplice e naturale. Addirittura, Hel prese a chiedersi come mai riuscisse a vederla così bene solamente in quel momento, quando qualsiasi fonte di luce nei paraggi si era ormai distrutta, ma la sua domanda non ebbe mai risposta, perché fu allora che notò una cosa che catturò molto di più la sua attenzione: al collo, la stalker portava una collana, un ciondolo legato ad un filo, raffigurante una mano argentata e protesa verso il basso, con incisa su di essa quello che sembrava essere un occhio chiuso. Hel trasalì. Conosceva abbastanza bene quel simbolo da comprendere cosa stesse per succedere, o perlomeno chi effettivamente fosse la ragazza misteriosa, ma prima che potesse reagire, lei parlò:
<<Hel Brais, giusto?>>
Hel non rispose. Stava ancora lentamente sprofondando in quella pozza oscura, e aprire la bocca per lei sarebbe potuto significare annegare, o ingoiare fiotti di quel liquido tenebroso. Si limitò ad osservare la ragazza, spaventata, implorando con lo sguardo che lei la lasciasse in pace.
<<Ti stavo cercando da un po’. Credo tu sappia per conto di chi.>>
Hel pensava di saperlo. Il suo bruttissimo presentimento fu confermato quando la stalker pronunciò molto lentamente le parole
<<Miss Ennis. Chiedeva di te.>>
Ah, ovviamente. Chi altri sarebbe mai potuto essere, dopotutto? Hel pensò di essere stata una sciocca ad aver pensato che si sarebbe arresa tanto facilmente, e che abbassare la guardia era stata una pessima idea. Provò a dire qualcosa, qualsiasi cosa per togliere quel sorrisetto dalla faccia di quella stronza dai capelli neri, ma tutto ciò che uscì dalla sua gola fu un verso strozzato. La ragazza rise.
<<Non vuole ucciderti, rilassati.>>
Ben poco rassicurante.
<<Vuole reclutarti.>>
Ancora meno rassicurante!
<<Non fare quella faccia imbronciata, è la cosa migliore. Sia per te che per noi, credimi. Potremo riprovare, tutti insieme.>>
<<Sta...zitta….>> Hel ghignò a denti stretti, prima di annaspare faticosamente quando la cosa la fece sprofondare di un’altra spanna nel liquido nero.
<<La tua scelta è questa. O ti affogo qui e ora, o vieni con noi.>> Il sorriso che la stalker le rivolse la fece quasi vomitare da quanto mieloso fosse. Il suo piano era ormai mettersi a gridare ed agitarsi, ed affogare completamente, semplicemente per non dargliela vinta, ma quello che la ragazza cieca disse subito dopo le diede, diciamo, “un’illuminazione”, <<Dopotutto non potresti fare altro nemmeno se volessi. C’è solo buio qui. Per chilometri e chilometri.>>
Hel rimase immobile, riflettendo attentamente sul dà farsi. Le parole della stalker le avevano riportato alla mente un dettaglio importante, che lei aveva completamente rimosso dalla propria mente fino a quel momento, ma che se usato bene avrebbe potuto salvarle la vita.
<<...La tua offerta- ah!>> Hel sprofondò nuovamente di una spanna nel liquido nero, che ormai la teneva intrappolata fino alle spalle, e lanciò un piccolo urlo per la sorpresa. Doveva parlare in fretta se voleva evitare di morire in questa maniera. Lentamente e faticosamente, infilò la mano nella tasca della sua giacchetta di jeans.
<<La tua offerta mi interessa, affogare non è una opzione che voglio scegliere.>>
La stalker sembrò genuinamente sorpresa, tanto che si avvicinò ancora di più al viso della giovane dai capelli viola, nel tentativo di ascoltare meglio le sue parole.
<<Ripeti.>> ordinò, con tono secco.
<<Non sono felice di questa scelta,>> Hel cercò di ignorare la sostanza scura, che ormai la stava ricoprendo fino al collo, e non sembrava dare segno di volersi fermare, mentre la mano nella propria tasca afferrò lentamente il suo cellulare, <<ma non voglio morire. Sono stanca di correre continuamente da voi.>>
La stalker avvicinò ancora di più il proprio viso a quello della ragazza, con ciò che sembrava un misto tra un ghigno e un’espressione sorpresa.
“E’ il momento!!”
Hel mosse velocemente il proprio braccio, in modo che il suo cellulare riuscisse a uscire dalla pozza oscura in cui il resto del suo corpo era bloccato, ma fare ciò causò il suo sprofondamento in essa, fino al naso. Tenendo la bocca serrata, Hel trasse un respiro profondo. Prima che la stalker riuscisse a capire cosa stesse succedendo, o che potesse agire in maniera concreta, Hel accese la torcia del cellulare, inondando la giovane cieca di luce bianca. Non era particolarmente forte o potente, ma a quanto pare fu abbastanza per consentirle di mettere in atto la sua fuga: la stalker lanciò un grido ed indietreggiò, cadendo al suolo di schiena, coprendosi il viso come se qualcuno le avesse appena bruciato mezza faccia, e con lei, il liquido nero prese a indietreggiare velocemente e a ritrarsi alle sue spalle, come il mare prima di uno tsunami. Hel, dal canto suo, si ritrovò seduta sull’asfalto, incredula di come il suo piano fosse davvero stato un successo. Ma non aveva tempo per rimanere lì a riflettere, e dunque si mise subito in piedi e prese a correre nuovamente. La stalker, dietro di lei, lanciò un urlo che di umano aveva ben poco, più somigliante al gracchiare di un corvo, ma distorto e ripetuto abbastanza da sembrare disperato, e Hel sentì quello che identificò come il liquido, ribollire e gorgogliare, probabilmente in procinto di raggiungerla come un’onda.
Lei non si girò, non voleva girarsi, non voleva vedere cosa stava accadendo alle sue spalle, e si limitò a correre con la torcia del telefono a farle strada. Finché c’era luce, non potevano farle del male, o almeno, così si ripeteva, spaventata e sull’orlo del pianto.  Corse e corse, fino a non sentire alcun suono dietro a sé, fino a che i suoi polmoni le parvero star per scoppiare, finché qualsiasi organo del suo corpo iniziò a implorarla di smettere, di fermarsi, ma lei non ubbidì. Eventualmente, si ritrovò in una piazza dove sembrava essere in corso un mercato notturno, e finalmente, alla vista di altre persone, poté fermarsi a recuperare fiato. Ovviamente, prese immediatamente a singhiozzare, com’era prevedibile, un po’ per la paura, per la stanchezza e per l’adrenalina che stava ormai andando a scemare, tanto che un paio di persone si le avvicinarono per accertarsi delle sue condizioni, e lei poté chiedere indicazioni per il Magnus Institute.  Fece tutta la strada a piedi, piangendo e guardandosi le spalle al limite della paranoia, e nel frattempo, accendendosi anche una sigaretta, ma alla fine, quando vide il familiare edificio bianco, la gettò al suolo e corse dentro, sbattendo la porta mentre entrava. Jon, Sasha e Tim erano in procinto ad andarsene, già con i cappotti addosso, e quando la videro scendere negli archivi, fregandosene altamente degli altri dipendenti che le dicevano che non era autorizzata ad essere lì, rimasero allibiti e confusi.
<<Co- Hel?! Come caspita sei conciata?! Tutto apposto?!>> Tim fu il primo a riprendersi dallo shock e andarle incontro, e solo allora Hel si rese conto di essere un disastro: i suoi occhi erano arrossati, suoi capelli erano in disordine, e i suoi vestiti erano macchiati di quello che sembrava essere inchiostro nero. La domanda di Tim la fece solo sentire peggio, e quasi scoppiò nuovamente a piangere davanti ai suoi amici. Fu Jon a dover intervenire, prendendola da parte del proprio ufficio e chiedendo a Martin di prepararle una bevanda calda. La fece accomodare sulla propria sedia girevole e le portò di mano propria la tazza di the.
<<Okay, dimmi che è successo.>>
<<Eh…? Io...Non...non...>>
<<Helena. Parla.>>
Hel rimase in silenzio per qualche momento, sorseggiando il the caldo, prima di decidersi a dire qualcosa.
<<Una...Una stalker. Non..non ho ben capito nemmeno io che è successo..Era...Poteva..rompere i lampioni e...e il mare nero….>> Boccheggiò, guardando fissa nella tazza semivuota, con le mani che le tremavano.
Jon non fece una piega, e aspettò pazientemente che Hel si calmasse un pochino prima di chiederle nuovamente qualcosa, in quanto realizzò che era ancora troppo scossa per poter spiegare cosa le fosse capitato.
<<Una stalker dici? Sapresti descriverla?>>
<<...Cieca, occhiali scuri, bastone da passeggio e tutto...Aveva i capelli neri..credo..e..e una collana. Una collana con un occhio chiuso sopra ad una mano.>> Hel sputò le parole in maniera sconnessa e quasi delirante, ancora in preda al terrore, e Jon non disse nulla, se non appuntarsi la approssimativa descrizione su un taccuino.
<<Ti giuro, Jon, non era umana! Mi..Mi ha quasi affogata in..in un lago nero.. e...e l’ho allontanata solo con la torcia del telefono!>>
<<...Hm-mh. Mi sembra..alquanto improbabile, forse hai solo i ricordi scombussolati per via della esperienza?>>
<<...Mi stai dando della bugiarda?!>>
<<No, no… Senti, domani proverò a vedere se trovo qualcosa che si possa collegare a lei, okay? Normalmente considererei questa storia una idiozia assurda, ma visto che sei tu...ti darò fiducia, per ora.>>
<<Wow, grazie davvero.>>
<<Vedo che la paura non ti ha tolto il sarcasmo, huh?>>
Hel non sapeva cosa provare. Era impaurita? Confusa? Un po’ ferita nell’orgoglio perché Jon sembrava non credere alla parte paranormale della sua esperienza di stalking? Forse un po’ di tutto. Ma onestamente, non era sorpresa, Jon era sempre stato un maledetto scettico, e forse avrebbe avuto bisogno di qualche prova per farsi credere da lui. Aveva così tante cose ancora da raccontargli su quello che le era successo, prima tra tutte la menzione di “Miss Ennis”, probabilmente anche il libro da ritirare “A nome Wynn”, ma al momento Hel non riusciva a dire nulla, solo parole sconnesse e singhiozzi. Decise quindi di attendere il giorno successivo per iniziare a cercare di fare ordine tra i suoi pensieri, ora voleva soltanto andare a casa e….
<<Cavolo, io ho perso il bus per casa però!>>
Jon sospirò. Prese la tazza di the, ormai vuota, dalle mani dell’amica, e si diresse verso l’uscita dell’ufficio, con un veloce <<Dammi un attimo, ci penso io.>>
Appena fece capolino dalla porta, Tim e Sasha lo accerchiarono immediatamente, chiedendo come stesse Hel e cosa le fosse successo.
<<...Una stalker, a quanto pare, l’ha pedinata per tutto il pomeriggio e ha provato a ferirla. E’ scossa, ma non sembra essersi fatta del male>>
<<Ah, grazie al cielo...>> Tim trasse un sospiro di sollievo, portandosi una mano al cuore.
<<L’unico problema è che non abbiamo idea di dove farla stare stanotte, ha perso il bus per Lewisham e non mi fido a farla rimanere da sola dopo tutto questo.>> Jon abbandonò la tazza vuota di the su un tavolo nei paraggi, sapendo che Martin sarebbe arrivato presto a ritirarla e riportarla nella sala pause, e poi tornò a fare ciò che stava facendo prima dell’arrivo di Hel, ovvero mettersi il cappotto.
<<Dimmi un po’, Sasha, non ti vanti sempre di avere un appartamento bello grande?>> fece Tim, dando una pacca sulla spalla della ragazza.
<<Ah! Certo! Certo, la ospito io, ho la macchina qui fuori!>> Sasha allontanò la mano del ragazzo filippino con uno schiaffetto amichevole. Jon sospirò.
<<Grazie Sasha, sapevo di poter contare su di te. Cerca di non lasciarla da sola. Io oggi non avrei potuto. Ho una cosa molto importante di cui occuparmi.>>

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