Adestes fideles

Eccomi qui! In tempo per Natale e per questa speciale ricorrenza! ❤️😄Una storia scritta in poco tempo e un esperimento linguistico che spero vi piaccia! Nel dubbio chiedo scusa a tutti gli umbri, ma soprattutto a tutti i medievali😂

Assisi - dicembre 1223

A Piccardo piace la neve.

Gli piace quando il cielo e la terra si perdono nella farina bianca, il tempo ghiaccia e il respiro si condensa in getti di fiato. Ama quei granuli fioccanti da cumuli di nubi bianche e vaporose. Impazzisce per le slitte scivolanti sulla patina di ghiaccio e le lacrime congelanti in cristalli sulle guance rubiconde.

La neve è sinonimo di Natale.

Il Natale sinonimo di festa.

E si festeggia insieme, in compagnia, tra parenti e amici attorno a ricche tavole imbandite, addobbate con ghirlande e drappi rossi, con candele e mazzi d'aghi di pino, spicchi d'arancia essiccata e dolciumi al caramello e alle mandorle. I nobili, arroccati nei loro castelli impenetrabili, si divertono in baruffe di sbronzi e danze e canti e si risveglia in loro lo spirito di carità. Girano per il possedimenti, ispezionano i loro feudi e, se sono bravi, ripagano le fatiche dei loro vassalli con birra e vino e sacchi di frumento. Se sono manigoldi o ubriachi fradici - papà sostiene che sia più frequente la seconda - compiono irruzione nelle capanne, approfittano delle donne dei loro uomini, aggrediscono gli indifesi e li sfidano in ordalie violente.

Gli aristocratici ardiscono sempre più di quanto il loro stato imponga. Papà li reputa gente con un po' tutti la mosca saltata sul naso. Fannulloni, oziosi, che si menano tante arie da importanti signori e poi non concludono un accidenti. Il nonno condivide. Non tutti, lui mica generalizza e fa di tutta l'erba un fascio, no, non sia mai.  Si enumerano molte eccezioni e strappi a quest'ufficiosa regola. Sorella Chiara era nobile, quando dimorava nel secolo, e lei è la persona più buona, gentile, altruista, generosa, compassionevole, pia, garbata e amorevole che Piccardo conosca!

A Natale, poi, nelle apparenze, in teoria, dovrebbero essere tutti più buoni.

In teoria.

E nelle apparenze.

La neve li camuffa.

Volteggia lenta sopra Assisi, un manto ondulato e soffice, monotono e poetico, fiotti fendenti la coltre di nuvole. Si deposita sui tetti, imbianca i comignoli, soffia con lame gelide sulle facce e scarnifica gli alberi, ossuti rami schiacciati e oppressi dal carico. Il vento geme, un lamento lugubre e sibilante, come l'ululato d'un lupo.

Un lupo, paragone calzante.

Quale animale saprebbe cogliere lo zio di sorpresa, alle spalle, meglio di un lupo?

La piazza è gremita di bambini esonerati dalle giornate a scuola, un putiferio di pupazzi di neve e palle di neve e fortini di neve e mille mila giochi ideati con la forza del pensiero e della fantasia. Zio Francesco risalta nel cuore nevralgico della parapiglia, salito in città, su, qua, nella piazza del duomo, livido dal freddo. Come fa a non procurarsi un coccolone con indosso solo uno stinto e logoro saio permane un mistero insolvibile. È accompagnato da Frate Leone e Frate Bernardo.

Li sta cercando con lo sguardo, lui, Giovannetto e magari anche altri, ma non li individua nel marasma di pesti e pestiferi. Per forza: Piccardo, con il fratellino e altri amici, lo spia da dietro un muro a ridosso degli uffici amministrativi.

Un buon agguato richiede discrezione.

«Gimo?»

«Dai Piccardo, becchiamo 'l Santarello!»

«Uffa! Fa freddo!»

Giovannetto lo tira per la manica, spazientito. «Lo prendiamo lo zio di sorpresa sì o no? So' stufo di aspettare!»

So' al posto di sono, più preciso e forbito e grammaticalmente corretto. Masino l'avrà influenzato di nuovo, anzi, de novo, come dice lui.

Masino sì, Tommaso, Tommasino, insomma - 'nsomma - Masino, il figlio del Crispino, il capofilanda di una delle filande di proprietà del papà in centro Assisi. Parla con una prepotente cadenza dialettale e declina quasi tutto nel volgare umbro. Come 'l su' babbo, il suo papà. Ecco, adesso anche Piccardo n'è contagiato.

È affascinante la parlata umbra. Ne' toscana, ne' romana, non un meticcio delle due e non altrettanto possente. Si accuccia nella loro ombra, umbra, appunto, in questo disomogeneo, inconstante e volubile scalcagnato vagabondo che l'è l'italiano. Il volgare italiano, che si - se, se va - che se va assestandosi lentamente, subendo non poche interferenze dai cugini d'oltralpe, con il loro provenzale ricco e abbondante e viaggiatore di regno in regno, di regione in regione, in peripezie dove un ruolo determinante lo svolgono i giullari e mimi, i guitti e le maschere carnascialesche, i ciarlatani, i pellegrini e i clerici vagantes, gli studenti girovaghi, insigniti degli ordini minori - sennò che clerici l'erano? - e godenti dei privilegi derivati da quest'ordini.

Un embrione dell'italiano. Sebbene l'Italia sia un ombrello accogliente tante realtà diverse e belligeranti. Un'armatura spiantata e arrugginita assemblata in maniera rabberciata e grossolana, ecco.

Il maestro nella schola di San Giorgio ha costruito un'immagine brillante affinché i suoi allievi capiscano 'l segreto del vernacolo de lo volgo.

De lo volgo, così lo pronuncia la plebaglia.

L'italiano l'è como un carro coi buoi, aggiogato coi buoi, che non si ferma mai, mai si stabilizza. Forse accadrà un giorno, non lo sappiamo. Al momento procede imperterrito e macina miglia e, man mano che scorre, il suo conducente falcia i diversi tipi di grano intravisti lungo la via e li ammucchia sul carro. Non c'è un covone identico all'altro. Sono diversi, germinati in terreni differenti. Uno sassoso. Uno ghiaioso. Uno arido e uno fecundo. Uno nevoso, tipo oggi. Uno sabbioso. A nostra insaputa, prima del passaggio del carro, un refolo di vento ha scosso una spiga e ha trasportato le sue sementi nel campo d'un'altra, contaminando il raccolto.

Simile è la nascita e l'evoluzione dell'idioma nostro, spiega Padre Oreste, il naso adunco e le sopracciglia folte. Ma 'l volgare rimane confinato nelle strade, nelle bettole, nella vita quotidiana e nei cavilli di tutti i giorni, nelle fiere e negli spettacoli dei teatranti itineranti. Il latino è monopolio della Sancta Madre Chiesa.

Essa si impegna con solerzia e dedizione nella conservazione e riproduzione dei monumenta, memorie dell'antichità classica e cristiana. Virgilio, Orazio, Ovidio, Boezio e Cassiodoro. I suoi documenti circolano all'interno del mondo dei chierici che li producono, sono destinati alle biblioteche ecclesiastiche e in rari casi a quelle d'istituzioni laiche.

Piccardo non l'ha mai vista una biblioteca.

Se per questo non ha mai manco visto un monastero dall'interno.

Non li capisce i canonici e la loro gelosa detenzione del sapere. Perché non può essere appannaggio di tutti? Va bene, il contadino deve curare le colture, ma il contadino non c'intende una fava del latino dei preti!

Piccardo preferisce il suo volgare, se proprio è costretto a scegliere, triturante l'eloquenza dei dotti e mangiante gli articoli.

Suona bene pensare ad Assisi, ad esempio, come lu centru delu munnu.

Sebbene, solo un appunto, Giovannetto prima d'imparare a parlare volgare dovrebbe imparare a parlare...

«Allora?» Suo fratello scalpita, impaziente.

'Sto - questo mangiato - 'nverno non sembra una cipolla a strati. La cuffietta in bisso con nappine dorate contiene a malapena la selva indomabile di riccioli biondi. Il mantello blu foderato in pelliccia dovrebbe compensare. Masino, rintanato alle sue spalle, otto anni contro i sei di Giovannetto, non sguazza nell'oro come i suoi amici e il suo vestiario ne soffre le penuria. Rattoppato, povero de' guanti, gli stivaletti in pelle gliel'ha regalati il papà, a lui e agli altri bimbi aiutanti in filanda.

Gli altri, rispondenti ai volti e agli attributi di Tessa, Riccardo, Lapo e 'l Meo, cioè Bartolomeo accorciato. A nessuno gliene frega ch'abbia dodici anni o giù di lì, uomo fatto o quasi, si ostinano a ricordarlo come Meo.

Come pontifica l'adagio? Quello cum cui Masino se l'era uscito l'altro giorno?

Meju n'amicu che centu parenti.

C'ha ragione. Veritiero. I detti popolari si fondano sulla saggia verità.

Piccardo monitora lo zio, trattenuto a erigere la pancia tondeggiante d'un pupazzo di neve con alcuni suoi coetanei. Distratto. Ottimo. Assaltarlo sarà una passeggiata.

«Silenziosi, mi raccomando.» istruisce i suoi. «Dobbiamo parere invisibili.»

«Dobbiamo parere lupi!» Giovannetto snuda i denti da latte, la loro corona di gengive rosee. «Temerari e livorosi!»

Una rara volta in cui Piccardo non ha dovuto ripetersi. «Il lupo di Gubbio.»

L'esemplare aggressivo e feroce, il Satanasso peloso, terrorizzante Gubbio e paesi confinanti. Son dovuti ricorrere all'intervento dello zio per placare quella furia, falcidiante greggi e sterminante uomini. Un'anomalia. I lupi sono belve gregarie, non abbandonano mai il branco, non disertano i loro simili. Cos'aveva combinato quel lupo per rompere le barriere tracciate tra le ispecie e i confini che dividevano la su' tana dalle casupole dei poeri homini?

Per rovesciare sulla città castigo, uggia, livore e sangue?

Se voleva vendica' il lupo forse?

Piccardo deve chiederlo allo zio, finché ce l'ha fresco in testa.

«Silenziosi.» ribadisce l'ordine Piccardo.

Fuoriescono allo scoperto, avventurandosi sul tappeto scricchiolante, spolverando neve con i passi, neve candida, farinosa, scintillante come le stelle. Il pulviscolo si attacca ai guanti, i fiocchi si dissolvono sulla lana. Costeggiano l'ingresso del duomo, acquattandosi tra le dune di neve, un reggimento di crociati in Terra Sancta.

Lo zio, ignaro, voltato di spalle, è concentrato nella creazione dell'homo di neve. Liscia e pialla le imperfezioni, le dita bluastre e intirizzite limanti il ventre. Rebecca, la vera ideatrice, l'artefice del pupazzo, gli passa una manciata di pietruzze con cui abbottonare il poveretto, che altrimenti rimarrebbe indecorosamente ignudo.

Con la pancia ghiacciata, Piccardo si sforza di pensare come un lupo.

Un lupo attaccante.

Ma... che pensieri formula un lupo? Affranti per l'inverno? La naturale, istintiva pulsazione della fame da appagare? La caccia?

Annusa e saggia l'aria, un lupo, un lobo, sfrutta il suo olfatto finissimo e sviluppato!

Ritto, quasi in arcione, Piccardo dilata le narici, se le figura aperte e umide come il tartufo canino. Gli dicono che forse... forse c'è. Davanti a lui sosta 'n uomo, un homo. Ah, homo! Orribile criatura dominante su questa terra, sulla sua terra di lupo! Ha arato campi, segnato confini, segato alberi, sancito limiti di illimitate praterie.

Ah, homo! Artigiano dell'impossibile, padrone e devastatore! Ha addomesticato il fuoco, domato i giorni e ridotto la luce a una cattività perpetua.

Manca il ringhio. I lupi ringhiano. Grrrrr... homo!

È entrato nella parte. La compagine attende, trepidante, un segnale.

«Ora!»

S'avventano, lanciando ululati. Colto alla sprovvista Francesco piomba sulla neve, abbattuto dalla supremazia puerile. In uno scroscio di risa i bambini si arrampicano sul corpo venerabile del millantato santo cittadino, schiacciandogli il diaframma. Lo zio emette uno sbotto di fiato, sprigionando una nuvoletta svaporante nel cielo immobile e pallido, e riprendendo subito a ridere tra gli schiamazzi.

«I lupi si vendicano!» strilla Piccardo.

Giovannetto, assonante, ulula e fa finta d'azzannare, interpretando un lupo affamato e solitario, sbranante la sua preda. «Sei la mia merenda!»

Lo zio si presta al gioco. «Mi hanno accerchiato!» geme strozzato, il corpo sconvolto da tremiti e spasmi volutamente esagerati. Accentua lo sbigottimento per la fine imminente, sopraggiunta sì prematura. «Muoio! Perisco!»

Piccardo balza sul torace dello zio, a cavalcioni, placcandolo a terra.

«La vendetta di Gubbio!»

Masino ci pepa col suo. «Non c'è dubbiu, ogni mattu ven de Gubbiu!»

Francesco esala un rantolo fragoroso, espettorando una tosse da moribondo e tirando fuori la lingua, cascando morto. «Muoio stecchito. Addio.»

Che morte veloce e indolore! È buffissima l'espressione da schiattato dello zio, con le braccia riverse, aperte, lui esamine e gli occhi rivoltati nelle orbite. Il vento scuote la chioma di Piccardo, si sfila il berretto rivestito di pelliccia e lo piazza in faccia allo zio.

Un morto impeccabile per il commiato finale.

«Ecco.» proclama. «Ci siamo vendicati.»

«Non su Frate Leone!» Giovannetto salta all'incursione, addosso al povero fraticello.

«Sono un leone sdentato!» Tenta maldestramente di difendersi, mentre Bernardo da Quintavalle, Frate Bernando, nel tempo passato 'l primo compare dello zio, ride a crepapelle. «Non ruggisco! Non graffio!»

Piccardo sta per buttarsi a capofitto nella mischia, quando un tonfo morbido lo colpisce nel retro della nuca, lasciando un'impronta bagnata.

Una palla di neve.

Si volta, ghignando furfantesco.

Una palla di neve partita dallo zio, rimessosi in piedi e rifornito con un arsenale di palle... dal papà. Innocentemente, i due lestofanti distolgono lo sguardo, vagante, fischiettando con artefatta disattenzione.

La vendetta alla vendetta. Piccardo, Giovannetto, Masino e gli altri serviranno la vendetta contro la vendetta alla vendetta.

Su' babbo non la farà franca.

Raccoglie un pizzico di neve, compattandolo nei guanti. «Battaglia!»

Il papà non chiedeva altro. Appallottola pugni di neve, comprimendoli in munizioni minuscole e insidiose. «Fratelli minori contro i maggiori!»

Giovannetto muta schieramento, cambiando casacca, avverso Piccardo.

«La mia occasione papà!»

«La nostra figliolo!»

Che facciano con comodo. Non canteranno vittoria. Piccardo dalla sua conta lo zio Francesco. Un santo. E un santo l'è un magno homo, come ne sparlano nelle stamberghe dei villani! Non si scordino che lo zio ha ammansito il tremendo terrore flagellante Gubbio! E imbastisce sermoni per gli uccelli!

«Vi scuoieremo e ne ricaveremo pellicce da voi lupastri traditori!» giura, munendosi d'armi con cui contrattaccare.

Masino, ch'è figliolo unico della sua etade, s'unisce alla sua fazione. «Chi vò vive e stà sanu, dai parenti stia lontanu, m'ha impartito il mi' babbo.»

Piccardo concorda: starsene lontano dal blaterare di Giovannetto e dalle sue strampalate insulsaggini, certe volte, gli gioverebbe molto, crede.

«Tu' zio sta con noi?»

Che domande. «Sì, perché?»

Masino ammassa un cumulo di neve, il loro riarmo. «Curiosità. Bisogna starci attenti co' quellu, che'l Cesco l'è capace d'evocare mezza fauna.»

Uccelli, lupi, agnelli, fagiani, pesci, cicale... la solfa Piccardo l'ha memorizzata.

«Lo so Masino, lo s-»

«Beccato!» Giovannetto esulta. L'ha centrato, una sfera di neve molle, friabile.

Eh no eh. Eh no! Acciderbolina, questo l'è barare! Chi ha dato il via?

Nessuno. Il bello di queste epiche battaglie e guerriglie su terreni immacolati. Piccardo sferra il colpo, ponendosi sulla difensiva. Folate frustano, graffiano le gote e assorbono il calore. I piedi violacei, le membra contratte dal freddo. Frate Leone è bersagliato da una pioggia di palle, i bambini tuonano, Tessa e Meo lo eleggono a loro vittima prescelta. Bernardo s'aggrega a Francesco, nipotino, Masino e l'altri e, in brevis, la piazza del duomo è teatro d'un macello esorbitante, tutti contro tutti, l'anarchia e lo sbaraglio degni d'un pandemonio, d'un raduno di matti.

Matti ridenti, strepitanti. Piccardo schiva un proiettile di Giovannetto, s'appiattisce raso terra, striscia a carponi, lo raggiunge e gli scaglia la sua arma letale, uno scaglione di neve solidificata, appuntito e scivoloso.

Suo fratello lo disintegra in un calcio, i frammenti volano.

«Era la tu' scorta fratellone?»

Giovannetto dovrebbe prestare attenzione a proteggersi bene le spalle, poiché Masino esce in avanscoperta e lo bracca, da dietro. Giovannetto si divincola, corre via, Masino lo riacciuffa e lo tiene fermo, mentre Piccardo s'avvicina.

Raggranella un cumulo di neve vergine, novella, accostandoglielo alle labbra.

«Lecca.» gl'impone, autoritario.

«Magna.» Masino s'intromette. Non vale! È lui il capo dello squadrone!

«Lo deve leccare Masino!» Piccardo non transige. «Ubbidisci Giovannetto.»

Suo fratello adempie al comando stranamente con un insolito piacere dipinto suoi tratti del visetto paffuto. «Bona

Davvero? L'umiliazione beffarda di Piccardo non ha raggiunto nel segno.

«T'è garbata?»

«Molto!» ammette contento suo fratello. «Ma quella gialla l'era più saporita.»

Quella gialla... Piccardo ritrae la mano, colmo di ribrezzo. Il mucchietto si sgretola.

«Che schifo Giovannetto! Mi disgusti!» La neve giallognola puzza di pipì!

«Dici il vero, forse difettava un po' di sale.»

Certo, ovvio, era questo il problema! Sorvoliamo sul fetore e il sapore di pipì! Masino mima un conato, liberando Giovannetto dalle sue grinfie. Su' fratello gli caccia fuori una lingua indecorosa da schiaffi, trotterellando nel putiferio.

Giovannetto che usa un linguaggio comprensibile, forbito e decoroso... da commemorare sui calendari. «Strano.»

Il suo fratellino è un'unica stranezza vivente, una matassa senza bandolo.

«Cosa?» Gli s'affianca Masino.

«Ha adoperato un linguaggio... decente.»

Masino l'è poco scettico, a differenza sua. «Ecco, fa come i perugini che pe' fa i fini dal pane je dicono 'i pène

Giovannetto fine e altezzoso come un perugino? Nell'era dell'impossibile.

I fiocchi turbinano, sollevando la neve, il vento intinto e spennellante, mulinante in piccoli vortici, il piazzale in stracci leggeri. Gli alberi, scheletrici, gemono, e i rami scoppiano, troppo carichi e troppo tormentati, spezzandosi.

Il sentore d'inverno è pungente, lo iorno un esangue sudario sopra lo mondo.

Piccardo occhieggia Masino, il carceriere di suo fratello, e gli germoglia un'idea, 'n poco villana e crudele magari, ma, perlomeno, quellu 'mpara.

«Giovannetto è scappato.» gli comunica cerimonioso e solenne. «La colpa l'è tua, quindi farai penitenza.»

Masino sbuffa. «Ancora? Lo sto imparando lo latinu!»

Piccardo è deciso, lotta contro il sorriso spontaneo. «Penitenza ho detto!»

Masino non va a schola, occupato com'è nella filanda del papà. Piccardo s'è reso disponibile a impartirgli lezioni gratuite, inevitabilmente sfocianti in sedute di gioco e svago, ma questu l'è 'naltro discorso. Mastica i primi rudimenti di latino il suo amico, ha appreso l'alfabeto e Piccardo gli presta il suo abbecedario, ripassando con lui le locuzioni della lingua antica sul salterio. Negli angoli in penombra del fondaco, circondati da pezze, sciamiti e damasci, broccati e sete, resuscitano nomi e luoghi d'un passato lontano, s'inceppano su pronunce arcaiche, scandiscono verbi e tempi e declinazioni ostiche e impegnative per le loro labbra, stuprando dittonghi e suoni.

È più agevole homo che vir, più immediato focu che ignis.

Masino - il broncio d'uno c'ha affontato mille volte questa buffonata - s'inginocchia nella neve. Piccardo si dimostrerà indulgente. Non lo tratterrà tanto. Un Masino coi reumatismi e i geloni non l'è un Masino iocundo et bellu.

«Recita la formula.» gli ordina con fare da saputello.

Masino rotea gli occhi, sbuffando di nuovo. «Uffa.»

«Eddai!» C'ha impiegato mesi a ficcargliela in quella sua crapa testona!

«Va bene...» cede 'l suo amico. «Ma che sia l'ultima!»

«Lo giuro!» Però si divertono entrambi. Masino è inutile che provi a negarlo.

Masino tossicchia, schiarendosi la gola, giungendo le mani.

«Domine, mea culpa. Confessu so ad me senior Dominideu et ad mat donna sancta Maria et ad sanctu Mychael archangelu et ad sanctu Johanne Baptista et ad sancti Petru et Paulu et ad omnes sancti et sancte Dei, de omnia mea culpa et de omnia mea peccata, ket io feci da lu batismu meu usque in ista hora, in dictis, in factis, in cogitatione, in locutione, in consensu et opere, in perjuria, in omicidia, in aulteria, in sacrilegia, in gula, in crapula, in commessatione et in turpis lucris

Suona esagerata, molto tirata per i capelli. Masino non ha mai accoppato o derubato nessuno. Peccato d'adulterio figuriamoci, ridicolo, manco c'ha una donzella o una fidanzatina. Sacrilegio e insozzare la sacralità di Sancta Romana Chiesa inaudito da parte sua. L'è divertente però, storpiare e deformare il latino ampolloso della liturgia, le formule e i riti a cui Piccardo viene esposto ogni giorno, e riproporli nel loro latino grezzo, contaminato, accozzaglia d'italiano e parlata dei progenitori.

Soddisfatto, offre a Masino una mano per rialzarsi.

«Sei migliorato.» si complimenta. «Bravo, bravo, bravo. Potresti andare a Roma!»

Masino, il ciuffo corvino infarinato di stelle bianche, di fiocchi, dissente.

«Preferisco de no.»

«Come mai?» Roma è un faro, una metropoli, la capitale delle opportunità!

«Sai como dicono no? Roma viduta, fede pirduta. Quella l'è una fogna, una babilonia di lussuria e smarrimento, puzza como 'na latrina. 'Sti principi de la Chiesa predicano de castitate et humilitate et povertate, ma poi fornicano con sgualdrine e pute e scodellano fili de pute e bastardelli porporati.»

Lo zio ha raccontato tutt'altro! Il Cardinale Ugolino e la sua cerchia non spiccheranno sul podio dei simpaticoni, ma Piccardo non dubiterebbe mai sulla loro morale e non infangherebbe mai la loro irreprensibile condotta! Masino ha mai assistito coi suoi occhi a queste perverse trasgressioni? No! Sono fandonie atte a screditare il bel volto del seggio petrino. A Roma nuotano nell'opulenza, è provato, ma i cardinali amici e patroni dello zio Francesco si distinguono per una solida integrità morale!

Esemplare! Rompono, acidi e insistenti, ma non offendono i voti assunti!

«Blateri scemenze.» lo accusa Piccardo, i pugni lungo i fianchi.

«So' vere te dico!»

«Ah sì? Sulla base di quali prove? Mi' zio-»

A proposito... lo zio?

La foga s'è chetata. Lo zio, seduto su uno dei leoni scolpiti vigilanti il portale del duomo, spazzando la neve imbiancante la sua criniera, ha arringato la piccola folla di scalmanati e bricconcelli. Frate Leone si scrolla i granelli dal cappuccio. Bernardo lascia, beato, che un pupo di pochi anni giochicchi con il suo cordone.

Che s'inventa adesso lo zio Francesco?

Incuriosito, Piccardo dimentica il diverbio con Masino e raggiunge Giovannetto, appostato incantato ai piedi dello zio.

«Se smetto di chiamare la margherita con il nome assegnatola da Dio.» dice lo zio e anche papà, ansante e accaldato dallo scontro infuriato, s'accovaccia 'n terra per ascoltarlo. «Si modificherà la sua natura? La sua entità di margherita?»

Giovannetto espone diretto il suo parere. «No, fiore resterà sempre.»

«E cesserà forse di emanare la sua delicata fragranza?»

«No zio!»

«No Francesco!»

«No Messer Santarello!»

«Le parole sono paraventi.» illustra lo zio, placido. «Scudi e involucri del seme del significato. Dorme finché noi non gli attribuiamo un senso, finché non infondiamo uno scopo alla parola che desideriamo pronunciare.»

«Quale scopo?» Piccardo vuole sviscerare bene questo concetto.

«Quello di esistere.»

«Esistere per cosa?»

Lo zio Francesco lo fissa intensamente e un brivido serpeggia lungo la spina dorsale di Piccardo. «Questo spetta a noi scoprirlo.»

«Ma nessuno esiste con lo stesso destino!» Un broccato non ricopre la stessa funzione d'un filato in tramatura di lino o un damasco non verrà tagliato e confezionato per fabbricarne dei copriletti come invece succederà a un panno di seta delle Indie. «Siamo tutti diversi!»

Nullu homo è uguale, gemello del suo fratello!

Lo zio gli appioppia un'altra delle sue risposte rompicapo, dilemmi e indovinelli.

«Sta proprio in questo il bello Piccardo.»

Piccardo non c'ha compreso una mazza.

Giovannetto - probabilmente s'è verificato un allineamento cosmico dei pianeti, sennò non se lo spiega - pare di sì.

«Il pappo.» Nel linguaggio infantile indica la pappa. «Se gli cambi nome sempre commestibile rimane. Uguali sono i dindi.» Il denaro maneggiato dai grandi.

Lo zio se la fa bastare come spiegazione. «E la pappa ha lo scopo di sfamarci.»

Sui soldi non apre bocca. Gli sono avversi, rifiutati e scongiurati, fonte di divisioni, separazioni, liti, fratture e discordie. Piccardo c'ha capito anche meno di prima se possibile, lo zio non se ne cruccia e anima l'atmosfera.

«Noi siamo poeti e i poeti sono sarti ricamanti arazzi di parole meravigliose, evocative e musicali. Le sapete inventare?»

Sta interrogando dei professionisti in merito.

«Schiumorzolo!»

«Pastrocco!»

«Bisticcio! Ah no, questa esiste già... gustriccio allora!»

«Borboccolo!»

«Ciucciaspuzza!»

«Ch'è? Il nome d'una puzzetta?»

«No, ma ci può stare!»

Qualcuno propone di giocare a mosca cieca. Lo zio, ridendo, accetta, uno sbotto de fiato dalle labbra screpolate. La risata dello zio Francesco è un suono argentino, particolare, riscaldante le membra infreddolite. Piccardo ne va pazzo.

Rebecca lo benda, annodando ben bene. «Ci vedi?»

«Niente.» assicura lo zio, una risatina sommessa. «Non vedo niente.»

«Niente niente?»

«Come se fossi cieco.»

Lo zio si sfrega spesso li oculi in effetti, sono irritati. Papà racconta che, da quanto ha sentito, Francesco dovrebbe aver contratto un glaucoma in Oriente. Un glaucoma l'è un'infezione agli occhi, a li bulbi, una parente della congiuntivite.

«'Namo!» decreta Masino, saltellante.

E vanno, vanno! Balzellano intorno allo zio, un tripudio di risate, di boccacce, di gridolini e strilli, lo toccano, lo spintonano, lo disorientano. Lui gira su se medesimo, incappa in una voce, poi l'è attratto da un'altra e un'altra ancora.

Ride! Ride di cuore! Ah, che bello quando lo zio ride!

Le campane rintoccano, rimbombi lenti, pulsanti, battiti d'un core fuso che si disperdono nel cielo annuvolato. La neve ammanta, cancella le divisioni, unifica la città e la campagna in un irragionevole, amoroso abbraccio candido. I fiocchi danzano nell'aria pura, monda dai problemi, dai miasmi, dalle manchevolezze della vita umana. I sonagli sui lacci delle giubba di Giovannetto propagano un trillo limpido, squillante, duettanti con i campanellini tintinnanti sulle estremità delle cordicelle del mantello di Piccardo. Che bella giornata.

Che spettacolare, fantasmagorica, eccelsa giornata! Strabiliante!

Hodie l'è una giornata da ricordare.

La neve che sfavilla, cadendo dolcemente, sommergendo lo mondo un fiocco alla volta, una spruzzata alla volta. Che la pioggia isterica e bellicosa impari dalla pacifica neve. I fiocchi sono piume d'angelo, ricorda Piccardo. L'è una vecchia storia. Gli angeli, d'inverno, fanno la muta, spennacchiandosi in paradiso e buttando le piume sulla terra. La neve proviene dal paradiso, è il cambio di guardaroba dei messi celesti, un soffice piumaggio angelico.

«Prendimi!» esorta Giovannetto lo zio, brancolante in avanti. «Prendimi!»

Lo zio ruggisce, un verso grottesco, spassoso.

«Vengo a papparvi tutti!»

«Non se noi scappiamo!» E Giovannetto mantiene fede alla parola data, sviando lateralmente, salvo venire intercettato dallo zio. Scalcia per liberarsi, captivo nelle sue grinfie. «Lasciami! Dai lasciami!»

«Ti ho preso!»

«Lasciami!» si sganascia Giovannetto.

Lo zio si affloscia a terra in un mare di risate, i diavoletti si accalcano su di lui, montandogli in groppa, salendogli sul saio, inzuppandogli il cappuccio di nevischio.

«Bambini!» li scoraggia Frate Leone, preoccupato. «Non tediate Francesco!»

Francesco non ne sembra minimamente scandalizzato. «Lasciali fare Leone!» Sfilandosi la benda, si acciglia in una smorfia da bestia ringhiante, arcuando le dita a uncino. «Vengo a perseguitarvi! So' il vostro flagello!»

Tentano di scappare, si avventano sullo zio, precipitandosi a confonderlo, a tirargli il cordone e a ridere, ridere e ridere. Giovannetto s'introna a cavalcioni sulle sue spalle, spalancando le braccia, pretendendo di volare.

«Sono un uccello!»

«Sanza chiavistello repelle lo augello!» rima lo zio, buffone.

Chiavistello? Chiavistello di quale serratura? Deve trattarsi di una serratura disdicevole, siccome Leone arrossisce fino alla punta delle orecchie e il papà si blocca, impalato come un ghiacciolo.

«Francesco!» lo redarguisce, mettendocela tutta per non scoppiare a ridere.

Ma cos'hanno da imbarazzarsi? Perché lo trovano divertente?

Gli uccelli non utilizzano chiavistelli, catenacci o ferraglie!

Sopraffatto, Francesco crolla nella neve, condannato al supplizio del solletico.

«Siete spietati! Ahahahahaha! Senza cuore! Sangu-ahahaha!»

Sì, tutti addosso allo zio! Piccardo gli casca addosso, gli preme sul diaframma, infierendo con il solletico in angoli nevralgici. La vendetta della vendetta della... quante vendette hanno architettato? Vabbè, non importa.

Rincara quanto proferito prima: hodie l'è un giorno memorabile!

Scemata la furia, lo zio boccheggiante, le lacrime del riso affilate in cristalli sulle guance candide e fiocchi impigliati nella barba, cosparsa di brina, si ristabilisce seduto, le braccia riposanti sulle ginocchia, imboccandosi d'aria.

I piccoli, loschi aguzzini si trastullano con altri diletti: pupazzi da completare, fortilizi da fortificare, montagnole da erigere, cumuli da ammonticchiare, palle e pattini e slittini con cui scivolare lungo i vicoli ghiacciati d'Assisi.

Masino scruta lontano, sulla cima imbacuccata del Subasio.

«Compatisco quelli de Folignu.»

Piccardo si acciglia. Che c'entrano gli abitanti di Foligno? «Come mai?»

Masino arriccia le labbra violacee dal freddo. «L'ho dice il detto.»

«Quale?» Ce ne sono a bizzeffe, a palate!

L'amico elargisce un'altra delle sue perle di saggezza popolare.

«Si lu Suvasiu c'ha lu cappéllu, fulignate pia lu mantéllu!»

Se il Subasio s'è incappucciato con un cappello innevato il Folignate farebbe meglio a prepararsi un mantello in caso di perturbazioni.

Il papà aiuta lo zio a raddrizzarsi su due piedi, scambia con lui un'occhiata e poi 'sti due se la ridono all'improvviso, simili a complici, a monelli patentati. La ruga di perplessità sulla fronte di Piccardo si estende.

Ma quanto sono incomprensibili gli adulti?!

«Spero che verrete a Greccio questo Natale.» riferisce loro lo zio, pulendosi il saio da grumi biancastri. «Ho una sorpresa in serbo per voi. Per tutti voi.»

Giovannetto si tende sull'attenti, Piccardo inclina il capo. Una sorpresa? A Natale poi? Da parte dello zio? Mirabolante! Greccio, quel villaggio sperduto, rustico e pittoresco abbarbicato nella valle Reatina, rocciosa e selvatica, aspra e contadina, un pugno di case contrastanti il grigio crestato e sporgente delle rupi e dei crepacci.

Un villaggio di pecorari.

Masino l'è scettico. «Fino a Greccio Cesco? E che dovemu fa'?»

Non si affievolisce l'allegria dello zio. «Vedrete.»

A Masino non gli pare furba l'idea d'invitare tutti fin là, sul pinnacolo del monte.

«Va bene, ma che ce potemu fa' intra li pecorari?»

Francesco s'illumina, radiante ne li occhi come se gli stesse manifestando Dominiddio in persona nel suo secondo avvento.

«Tante cose può fare un bimbo.»

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