Capitolo 7
"Emma me lo devi dire!"
"No che non lo farò! Qualcuno mi dica perché tra le poche cose che ricordo di stanotte ci sia proprio questa!", disse esasperata, mentre tagliava elegantemente la sua pizza con il coltello.
"Davvero Emma fidati, voglio solo saperlo, non gli farò nulla."
"L'hai chiamato pezzo di merda solo un'ora fa, come posso fidarmi?."
"Ma cosa posso fargli? Sono su una carrozzina."
"Desiderate un'altra bottiglia d'acqua?", chiese gentilmente un cameriere dall'aria seria e pomposa con in mano una bottiglia di acqua minerale.
"NO!",
"Sì grazie!
Rispondemmo io ed Emma contemporaneamente, lasciando il cameriere con un'espressione dubbiosa e incerta.
"Passo più tardi.", disse stringendo le labbra nervoso e in imbarazzo, andando ad importunare un altro tavolo con la sua richiesta.
"Sembrate una coppietta cinquantenne che discute su cosa prepare a cena.", si intromise Raul nella conversazione.
"Zitto tu!", esclamammo all'unisono io ed Emma tanto che il moro mise le mani indietro.
Eravamo in un ristorante poco distante da casa mia in cui ero solita andare con i miei, specialmente perché il pizzaiolo era Napoletano e bisogna ammetterlo pure carino. La sala era grande e colma di famiglie che mangiavano una pizza o un piatto di pasta, come é normale che fosse in un comune sabato sera. Io e i miei due migliori amici eravamo seduti in fondo alla sala, lontani dalla pista da ballo dove alcune coppie anziane si stavano cimentando in un noiosissimo lento. I miei genitori, per mia grande letizia, avevano deciso di andare a casa a mangiare, lasciandoci così soli in quella che ormai stavo considerando come la mia vera festa di compleanno: in compagnia dei miei amici più stretti a fare quello che mi piaceva fare di più: mangiare la pizza.
"Tenetevi i vostri segreti, ho capito! Ma sappiate che scoprirò da sola chi ci ha provato con mia madre."
I miei due migliori amici alzarono gli occhi al cielo con un piccolo sorriso divertito stampato sulle labbra, mentre io cominciai a mangiare la mia pizza margherita che ormai era diventata fredda.
"Comunque voi non sapete cos'è successo!?", esordì improvvisamente Emma mantenendo il suo sguardo fisso sulla pizza davanti a sé. Passarono dei secondi che mi parvero interminabili, in cui non disse più nulla ed io mi chiesi se avesse perso improvvisamente l'uso della parola.
"C'è gente che è morta aspettando questa risposta.", disse Raul serio come non l'avevo mai visto. Avrei dovuto ringraziarlo perchè la mia battuta sarebbe stata decisamente più pesante.
Emma alzò gli occhi al cielo decisamente scocciata per la pressione che le stavamo mettendo. Raul con le parole, io con uno sguardo che era capace di dire tutto ciò che la mia bocca avrebbe voluto.
"Allora sapete che Giada era venuta per provarci con Raul?, disse molto tranquillamente, mentre l'unico maschio del nostro tavolo si strozzò con la coca-cola che stava bevendo.- Diciamo che se non avessi detto che lei poteva provarci con te non sarebbe venuta. E sappiamo tutti che se lei non c'è ad una festa la maggior parte dei maschi non viene."
"Stai scherzando Emma?", disse Raul con occhi spalancati dall'incredulità.
Prima di continuare con la narrazione di quella che so essere una conversazione piena di gossip, vorrei fare delle precisazioi sul miomigliore amico. Assodato che è un ragazzo bello da togliere il fiato e che tutte le ragazze della mia scuola, e non solo, gli corrono dietro con la bava sulla bocca, bisogna specificare che egli non se ne rende nemmeno conto. Se Emma è quella tonta del gruppo nella vita, Raul vince sicuramente il premio per tonto per eccelenza in campo amoroso. Potrebbe avere ai piedi tutte le ragazze del mondo, ma la verità è che vive senza sapere tutto ciò, sminuendosi e non sapendo che una ragazza mi pagherebbe una pizza solo per parlare con lui. È successo: mi sono fatta pagare una pizza da una ragazza cotta di Raul, ma se poi lui non l'ha degnata di uno sguardo quando gliel'ho presentata non è colpa mia, no?. La verità è che lui non ha occhi per nessuna, nemmeno per Giada che da come ha detto Emma è la più sognata dal genere maschile nella scuola. Tuttavia anche la sua innaturale bellezza, che devo riconoscere anche se non andiamo molto d'accordo, non è riuscita ad aprire gli occhi al ragazzo più in vista e desiderato dell'intero istituto. Raul, il ragazzo più bello che non è consapevole di tutto ciò, non ha mai avuto una ragazza. Nemmeno alle elementari barrava la casella del sì su quei bigliettini che avevano fatto più danni che altro alla nostra intera infanzia, ma si limitava ad andare dalla povera sventurata che pensava di essere la sua prescelta a dirle in modo gentile e garbato che non era interessato. Insomma un ragazzo d'altri tempi che non aveva ancora trovato la ragazza giusta a cui donare tutto il suo cuore.
"Non sto scherzando e lo sai anche tu che una festa senza ragazzi non è una festa!"
"Emma taglia corto! Qual è lo scoop?", mi intromisi io precedendo il moro prima che continuasse con la sua indignazione nei confronti della mia migliore amica.
"Lo scoop, vero! Stavo dicendo. Giada era venuta per te, ma quando ha visto che non eri interessato è corsa in bagno a piangere e indovinate chi ha trovato nel tuo bagno a fare cose?"
"Ti prego non dirmi Giovanni perchè allora devo subito andare a disinfettare!", dissi alludendo al mio ex con cui ero stata per qualche mese abbondante, fino a quando non capì che non usasse il deodorante.
"Non c'era Giovanni.", disse Raul.
"Che gli Dei siano lodati! Posso godermi la cena in santa pace."
"Non capirò mai perchè dici che gli dei siano lodati!", disse Emma muovendo la testa prima a destra poi a sinistra, sancendo disappunto per le mie affermazioni così fuori dal comune.
"Semplice! Ho il nome di una dea e dicendo quella frase mi sto auto-lodando per la mia dote immortale di non aver permesso al mio ex di pomiciare nel mio bagno. Ci faccio la doccia lì, che schifo!"
Il cameriere che ci aveva interrotto prima, dopo aver disturbato tutta la sala con la sua domanda a cui non nessuno aveva risposto positivamente, la bottiglia di acqua era infatti ancora sigillata, passò in quel momento e sgranò gli occhi turbato dalla mia affermazione, per poi dirigersi a passo svelto verso le cucine.
"L'ho spaventato?", chiesi ingenuamente e con un piccolo sorriso sulle labbra.
"L'unica persona che non spaventi sei te stessa Artemide."
"Come posso spa-"
"LO SCOOP!", urlò Emma interrompendomi sul più bello e facendo girare verso di noi l'intera sala e i camerieri, tra cui il mio preferito che dagli occhi a palla che si ritrovava era palese che non volesse più venire al nostro tavolo a disturbarci. Ero stata interrotta per una giusta causa.
Quando le persone decisero che era più interessante parlare fra di loro che continuare a fissarci come se fossimo degli animali da zoo in procinto di fare un'esibizione, la bionda rilassò le spalle e disse finalmente chi aveva pomiciato nel mio bagno mentre io ero agonizzante sul pavimento gelato.
"Sara e Stefano!", disse tutto d'un fiato come se avesse già previsto che quello era l'unico momento buono per dirlo senza essere interrotta.
Mi portai teatralmente davanti alla bocca la mano destra, mentre lasciai cadere il coltello fragorosamente sul tavolo fingendo tutto il mio stupore. Il cameriere, o dei che pena infernale avete attribuito a questo mortale, passò per la seconda volta nel momento sbagliato e spaventato dal rumore del coltello sul tavolo sussultò e fece cadere la sua amata bottiglia d'acqua sul pavimento, rompendola in mille pezzi di vetro scintillanti. Per mia grande fortuna avevo la mano destra sulla bocca e così potei lasciarmi andare ad una risata liberatoria da sotto di essa, mentre agli occhi delle altre persone presenti in sala potevo sembrare semplicemente spaventata dal rumore del vetro che si era infranto.
Diventò tutto rosso nel silenzio generale e nervosamente guardò nella mia direzione, ma io subito spostai lo sguardo sul mio bicchiere pieno di tè alla pesca che era improvvisamente diventato molto interessante.
Il mio migliore amico mi guardò truce, sapendo benissimo la causa della mia risata non così silenziosa come avevo programmato, mentre Emma subito si precipitò ad aiutare il povero cameriere come se fosse stata tutta colpa sua.
Tornò dopo pochi minuti e subito precisai
"Lo sai che sono fidanzati vero?"
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"Quindi fatemi capire....Ci hanno cacciato dal ristorante dopo che Artemide ha fatto cadere per terra la forchetta per la terza volta?"
"Erano unte ovvio che continuavano a scivolarmi dalle mani!", mi difesi dalle accuse di una Emma incredula che fissava un punto imprecisato fuori dal finestrino della macchina di Raul. Era un catorcio con una verniciatura blu tale che la faceva apparire agli occhi degli altri come un immatricolata vecchia non più di qualche anno; cosa che io sapevo non essere, essendo l'auto di suo nonno che era morto solo qualche anno prima.
"Ditemi che non è vero!", disse aprendo il finestrino della macchina e aspirando aria a pieni polmoni.
"Tranquilla quella che ci ha rimesso di più sono io visto che non ho finito la mia pizza!"
"Se non avessi parlato e disturbato quel povero cameriere che faceva solo il suo lavoro per tutto il tempo forse l'avresti finita!", mi rimproverò serio Raul dalla postazione del guidatore, mentre con disinvoltura accendeva la macchina girando la chiave. Io dai posti dietro mi limitai a sbuffare e a sorridere ricordandomi di quanto mi fossi divertita quella sera con quel cameriere così strambo.
"Va bene, forse è colpa mia! Ma mi stavo divertendo troppo per smettere!"
Dagli specchietti retrovisori vidi gli sguardi accusatori dei miei amici.
"Ho ammesso i miei errori, ora se dovete guardarmi così per tutta la sera tanto vale che accendete la radio!"
"Per..?", mi chiese Raul con un sorrisino che non prometteva nulla di buono.
"Perchè mi state mettendo ansia con i vostri sguardi da mamma e papà che guardano la figlia strana."
"Per favore! Così doveva rispondere la mia figlia strana!", esclamò Raul cacciando gli occhi per l'ennesima volta verso il cielo.
"Non è una bambina!", intervenne in mia difesa la mia cara amica Emma, che avevo definitivamente perdonato per avermi costretto con un gesso fin troppo pesante alla gamba.
Raul accese la macchina e successivamente la radio, sintonizzandola sulla prima satzione che non trasmettesse una canzone vecchia come la sua macchina. Vecchia poiché non appena mise piede sull'acceleratore essa, con uno sbuffo sonoro, si spense e così anche la musica.
Dopo svariati tentativi in cui ero già pronta con il mio cellulare a chiamare il carroattrezzi, la macchina si decise finalmente a partire, soprattutto per la gioia del proprietario che si stava innervosendo non poco.
"I know you moved on someone new, oh life is beautiful...", Emma, con la sua bellissima voce che teneva nascosta quando erano anni che le suggerivo di iscriversi a un corso canoro, intonava una delle mie canzoni preferite che non so per quale miracolo la radio aveva deciso di trasmettere proprio in quel momento.
La macchina correva lungo la città buia illuminata solo dai lampioni e dalle luci delle case, dove sicuramente si stava svolgendo la cena. Appoggiai la testa al finestrino e lasciai che le altre macchine e il rumore intorno a me mi liberassero completamente la mente dai pensieri, mentre in sottofondo Emma continuava ad intonare strofe sempre più vere.
"I know someday we will sit down together and laugh with each other about these days, these days..."
Il paesaggio mutò nel giro di pochi minuti, nei quali ormai la canzone stava giungendo al termine, divenendo sempre meno urbano e più rurale grazie alle villette del mio piccolo paesino. Passammo davanti ad un cancello in ferro grande come un portone e alla sua vista mi accinsi a guardare l'orologio per vedere se ero ancora in tempo. Le 22.47; avevo tutto il tempo necessario.
"FERMO!", urlai improvvisamente e Raul frenò di colpa sul viale fortunatamente deserto.
"We wish we could go back to these days, these days!" e così la radio intonò le ultime frasi di una canzone che in quel momento volevo fosse vera, ma che le circostanze e quello che stavo per fare mi spingevano nuovamente alla realtà, delineando in modo netto come quei "These days" potevo davvero solo sperare che tornassero, quando però in cuor mio sapevo che non lo avrebbero fatto con la stessa persona.
Emma si girò con sguardo interrogativo, ma vedendo il cancello che si ergeva immobile alle mie spalle i suoi occhi divennero improvvisamente consapevoli di quello che avrei fatto di lì a poco. Raul, dal canto suo, mi guardò direttamente dallo specchietto retrovisore accennando con le labbra il fatto che avesse capito anche lui. Mise in retro la macchina e parcheggiò nel piccolo piazzale davanti al grande cancello, che da più vicino era sempre più intimidatorio e diceva chiaramente con il suo color ruggine di andarsene.
Mandai giù il groppo che mi si era formato in gola, mentre il moro era andato a prendere la carrozzina per poi posizionarla proprio sotto la mia portiera. Aprì quest'ultima e subito un vento gelido, così differente da quello che doveva soffiare nella stagione quasi primaverile, mi scompigliò i capelli.
"Lascia, non entrerò là dentro senza camminare."
"Vuoi che ti accompagnamo?", chiese Emma dopo poco con occhi grandi e le mani nelle tasche della sua giacca per proteggersi dal gelo.
"Sì,- dissi con un filo di voce- mi piacerebbe."
Raul mi prese in braccio e mi posizionò eretta, così da avere la gamba malata piegata in modo tale da non toccare il terreno sassoso.
Emma si avvicinò verso di me, scrutando curiosa il gesso all'altezza della coscia. La guardai interrogativa, ma lei mi liquidó con un sorriso rassicurante che mi fece pensare che potevo avere sulla gamba anche un ragno gigante, ma che in quel momento non avrebbe avuto alcuna importanza.
Si misero uno da una parte, una dall'altra, sostenendomi e cercando di farmi camminare sulla gamba sana. Non appena davanti al cancello l'aria si fece ancora più prepotente e impetuosa, come se ci stesse in quel momento invitare ad andarcene, a rimetterci in auto e ad andare a casa nostra sotto le calde coperte del nostro letto. Emma si sporse in avanti e con la mano libera aprì finalmente il cancello, il quale con un rumore stridente e rugginoso ci diede il lieto e caldo benvenuto in quel posto che da alcuni mesi a questa parte avevo evitato con un tale accuratezza che era come se se ne fosse accorto, e indignato mi stava accogliendo nel modo in cui si accoglie un ospite poco gradito.
Piano piano varcai quella soglia che ritenevo così insoporbassibile, da non rendermi conto che non stava aspettando altro che lo facessi.
Il cimitero in tutto il suo splendore era davanti a me con le sue lapidi in sasso e legno, le quali sembrava mi giudicassero ad ogni mio gesto. Mi sembrava così ampio dall'ultima volta che lo avevo visto che mi chiesi quante persone erano morte dalla sua morte: quante di loro avevano trovato l'eterno riposo improvvisamente, senza il loro consenso, quante erano morte vivendo la vita appieno in tutte le sue sfaccettature, quante avevano distrutto le vite di chi gli voleva bene. Non avevo la risposta e non l'avrei mai avuta e in fondo è giusto così. Impossibile è avere le risposte ai quesiti di tutto il mondo, illuso è chi crede di averle in quanto la maggior parte di loro muoiono con i loro stessi creatori.
Camminammo lentamente, i miei accompagnatori verso destinazione ignota, io verso un punto di quell'infinito spazio che non avevo dimenticato. Girammo al terzo incrocio verso destra, per poi immetterci nella quarta fila di lapidi fino ad arrivare alla settima. Era tutto come l'avevo lasciato, se non per i fiori che mia madre aveva portato solo qualche giorno prima sulla sua lapide bianca. Erano cinque rose gialle, messe in una vaso alto di vetro circondato da un tessuto del medesimo colore che andava a formare un fiocco elegante, il quale si muoveva qua e là a causa di un leggero venticello che in quel momento soffiava. La sua foto era la stessa, quella che avevo scelto io perchè vedendola mi avrebbe sempre rammentato il suo sorriso caldo e perfetto. I capelli biondo scuro erano fuori controllo come lo erano sempre stati, con alcuni ricci ribelli che gli ricadevano sugli occhi azzurro mare. La foto l'avevo fatta io, avendolo di nascosto immortalato in una calda estate mentre cercava di allontanarsi un riccio dal viso senza riuscirci; infatti non appena provava a toglierlo esso subito si riposizionava al suo posto. Il tutto lo faceva sempre con il suo sorriso ampio, simile a quello di papà, che aveva stampato in viso per tutto il giorno, anche nelle semplici cose come quella.
Apollo Leoni
17 anni
Così recitava la sua lapide bianca. Nessuno sa in quel momento quanto avrei voluto cambiare quel sette in un bell'otto che sapeva di maturità e rinascita. Ma Apollo purtroppo non sarebbe mai più cresciuto come stavo facendo io, sarebbe sempre rimasto bloccato a 17 anni, nel fiore di quello che le persone ritenevano il periodo più bello della vita.
Nella mia mente si susseguirono velocemente le immagini del funerale avvenuto solo qualche mese fa: la sua bara bianca rivestita di rose rigorosamente gialle che veniva trasportata giù dalle scale della chiesetta del piccolo paese in cui vivevo dai suoi amici più cari, mentre le campane emettevano rintocchi lenti e vuoti e mia madre voleva solo aprire quella bara e riabbracciare per un'ultima volta suo figlio dagli stessi capelli dorati. Mi sciolsi dall'appoggio dei miei due amici e lentamente, cercando di non far toccare alla gamba malata i ciottoli del terreno, mi inginocchiai vicino alla sua tomba. Raul di fianco a me cominciò ad accarezzare teneramente la sua foto con gli occhi lucidi, mettendo in un secondo momento gli occhiali da sole, mentre Emma dietro di me assisteva alla scena silenziosamente. Presi un biglietto giallo dalla tasca della giacca, dove era rimasto da così tanto tempo che ormai era stroppiciato, e lo misi sulla sua bara. Al suo interno una semplice frase: buon compleanno.
"Auguri Polo!", dissi semplicemente io con il sorriso più vero che avrei mai potuto fare.
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