Capitolo 2

Ero morta.

Non ci potevo credere di essere morta senza aver mai messo un piede sull'acceleratore.

Non ci potevo credere.

Tuttavia più provavo ad aprire gli occhi, più questi rimanevano ben fissi e attaccati tra loro.

Una luce accecante stabilì infine che non ero affatto morta. Anzi dall'urlo che lanciai non appena capii dove mi trovassi capii di essere più viva che mai.

Ero sdraiata su un lettino relativamente comodo, le gambe e le braccia bloccate da delle cinture di sicurezza. Se non avessi visto l'infermiere accanto a me che provava invano a farmi stare ferma sul lettino, avrei giurato di essere appena entrata in qualche film horror.

Ero su un'ambulanza che sfrecciava a gran velocità per le strade di Roma, mentre cercavo invano di liberarmi dalle cinture di sicurezza.

"Ehi ragazzina calma, così farai peggio!"

L'infermiere lo disse con una tale arroganza che se avessi avuto gli arti liberi il suo "ragazzina" glielo avrei fatto rimpiangere senza alcuna esitazione.

Mi calmai solo quando capii di non avere altre scelte più dignitose, se non quella di starmene inerme mentre mi portavano davanti alle porte della morte. Inspirai ed espirai chiamando a me tutta la calma di cui disponevo, relativamente poca se ve lo steste chiedendo, e chiesi il più gentilmente possibile:

"Perché sono in ambulanza? Non vede che io sto bene!"

Devo ammetterlo, ringhiai le ultime parole, così per ribadire meglio il fatto che stessi benissimo e che l'ambulanza era più che esagerata come regalo da diciotessimo. L'infermiere mi guardò in malo modo, per poi voltarsi e frugare all'interno del suo borsone da primo soccorso, forse in cerca di qualche sonnifero da rifilarmi. Disse qualcosa ad una radiolina e l'ambulanza cominciò a rallentare la corsa, mentre l'infermiere tanto simpatico si voltò verso di me con un di quei sorrisetti falsi che avrebbe fatto invidia ai cartelloni pubblicitari dei dentifrici.

"Stai benissimo, sei sicura?- chiese come se stesse spiegando qualcosa ad una bambina poco intelligente- Perché allora non riesci a muovere la tua gamba destra?"

"Si che riesco a muo...."

Le parole mi morirono in gola quando constatai che l'infermiere aveva ragione: non solo non riuscivo più a muovere la gamba destra, ma non la sentivo nemmeno più. Proprio come quando dal dentista mi davano l'anestesia ad un dente e magicamente quest'ultimo andava in una sorta di mondo parallelo.

Passai l'intero viaggio fino all'ospedale a provare ripetutamente a muoverla, principalmente per non dare la soddisfazione all'infermiere di avere ragione, purtroppo invano.

Prima di entrare nel pronto soccorso dell'ospedale, l'ambulanza prese in pieno l'ennesima buca e la mia barella quasi si rovesciò.

Il portellone dell'ambulanza si aprì e alcuni infermieri presero la mia barella e la portarono all'interno del pronto soccorso.

"Per favore,- implorai- non vede che sto bene?"

L'infermiera a cui mi rivolsi mi scrutò con sguardo accusatorio per un istante, per poi proseguire a guardare la strada davanti a sé, ignorandomi completamente.

Mi girai verso l'altra infermiera che si trovava alla mia sinistra, la quale mi sembrava più benevola e comprensiva.

"La prego almeno lei, mi faccia scendere!"

Mi guardò con sguardo comprensivo, come a dire che non poteva farci niente e continuò anche lei per il suo cammino.

Sistemarono la barella al centro di un'area d'attesa e se ne andarono, lasciandomi legata come un salame.

"ALMENO TOGLIERE LA CINTURA NO EH? STAREI SOFFOCANDO!?", urlai loro tanto forte che dovettero tornare indietro. Non le ringraziai, non si meritavano in alcun modo la mia gratitudine, nessuna di loro aveva la minima intenzione di portarmi fuori da questo posto.

Mi sedetti in modo dignitoso su quella barella, muovendo leggermente la gamba con l'aiuto della braccia, ma subito sentii un dolore pungente partire dal piede e pervadermi fin sopra il ginocchio. Constatai che forse non era solo un leggero gonfiore. Tuttavia non mi volevo arrendere e continuai a ripetermi mentalmente che fosse una semplice storta, che in alcuni giorni di riposo e con un po' di ghiaccio potesse tornare come nuova.

Frugai tra le tasche del mio giubbotto in cerca del cellulare, ma non appena mi accorsi di avere solo l'accendino che avevo usato poche ore prima esplosi.

"GIORNATA DI MERDA!", scaraventai violentemente quel maledetto accendino il più lontano possibile da me.

Mi accorsi solo troppo tardi che, sebbene fossero le tre e mezza del mattino, alcune persone erano presenti nel pronto soccorso. Più precisamente: una donna incinta che sembrava lì lì per partorire davanti ai miei occhi e un ragazzo tanto pallido da far invidia agli imbianchini che hanno appena fatto l'affare del secolo. La donna mi guardò truce e un secondo dopo lanciò un grido di dolore. Immediatamente un medico e un'infermiera accorsero, per poi portarla lungo il corridoio da cui ero arrivata.

Il ragazzo pallido alzò il viso verso di me, facendo scorgere due grosse occhiaie sotto i suoi occhi scuri un po' spenti.

Si alzò dalla sua sedia e andò a raccogliere l'accendino che avevo lanciato poco prima.

"Grazie, mi serviva un accendino!", disse per poi metterselo in tasca.

Lo guardai incredula riprendere il suo cammino verso la sua sedia, mentre la rabbia fino a lì difficilmente contenuta esplose.

"Mi prendi in giro forse?", dissi sprezzante guardandolo dall'alto. Si perchè una cosa buona di essere seduti su una barella era la postazione più alta del mio solito scarso metro e sessanta.

Non si mosse alle mie parole, anzi, alzò le spalle con indifferenza e disse:

"Pensavo non lo volessi più, ma se lo vuoi indietro te lo restituisco.", prese l'accendino dalla tasca della sua felpa nera e avvicinandosi alla mia barella me lo porse con un sorriso che non sapevo se catalogare come canzonatorio e derisorio. Fui per la seconda opzione.

Presi con foga l'accendino dalle sue mani e lo tirai nuovamente, stavolta verso i bidoni della spazzatura che si trovavano in fondo alla sala, così che non gli venisse l'idea di andarlo a riprendere.

Con i suoi occhi, che da così vicino potevo senza dubbio catalogare come marrone quercia, quel marrone in cui diventa difficile distinguere l'iride dalla pupilla, seguì la traiettoria dell'accendino. Cadde fragorosamente sopra il bidone della carta, per poi rimbalzare e rompersi sul pavimento bianco del pronto soccorso. Sorrisi soddisfatta.

"Hai appena rotto la mia unica via di fuga, te ne rendi conto?", disse incredulo.

"Non era la tua via di fuga, ok? Era solo uno stupido accendino giallo!", dissi sulla difesiva, mentre alzò un sopracciglio scettico alle mie parole.

Mi guardò intensamente come a volermi sfidare. Non mi tirai indietro: cominciai a guardarlo nel medesimo modo con la braccia incrociate al petto, cosa che mi donava ancora più credibilità e soggezione.

Alzò anche il sopracciglio sinistro, cosa che imitai, aggiungendo anche un piccolo arricciamento del naso. Strinse gli occhi a due fessure, come se volesse rendersi più intimidatorio, ma io non mi tirai indietro e serrai le labbra talmente strette che sono sicura divennero bianche. Mi guardò allora intensamente le labbra, riportò lo sguardo sui miei occhi serrati a sfida, per poi scuotere la testa, andando a sedersi sulla sedia della sala d'attesa il più lontano possibile da me. Mi chiedo ancora se l'avesse fatto apposta a sedersi proprio vicino alla caduta rovinosa dell'accendino. Prese il telefono dalla tasca, si mise un paio di cuffie nelle orecchie e non ci rivolgemmo più la parola, solo qualche sguardo sprezzante di tanto in tanto.

Nella piccola sala si era venuta a creare un'aria pregna di tensione, non saprei dire se dalla mia rabbia non ancora esplosa del tutto o se dall'aurea di delusione che trasmetteva il ragazzo.

"Leoni Artemide, sei tu?", chiese un'infermiera un po' bassa e dagli occhiali più grandi del suo viso.

"Sì, sono io.", risposi con un sorrisetto falso che aveva lo scopo di far trasparire tutta la mia impazienza di andarmene finalmente da quel posto.

"Va bene, tra cinque minuti arriverà il medico per visitarla.", e senza dire altro sparì in un corridoio alla mia sinistra.

"Così la nostra distruttrice di accendini si chiama Artemide.- interruppe quei minuti di tensione, come appena risvegliatosi dal mondo dei morti- Non dirmi che hai anche un gemello di nome Apollo!?"

Alle sua ignorante ironia la rabbia esplose. Cercai qualcosa sulla barella che potesse fungere da bomba da lanciargli contro, ma l'unica cosa che trovai fu la cintura che mi aveva quasi soffocato. Provai a scendere ma un dolore lancinante alla gamba destra mi bloccò in principio.

"Ma tu non stavi con le cuffie?", gli chiesi con fare più minaccioso possibile.

"Possibile, ma possibile anche il contrario."

"Beh cerca che sia possibile!"

"Scusi, non volevo importunarla con un qualcosa che avrebbe potuto cominciare un discorso noiosissimo, ma che purtroppo è l'unica cosa che si può fare tra queste quattro mura così anonime.", mise le mani in avanti con fare teatrale, per poi mostrarmi lo schermo del suo cellulare, da cui fece partire questa volta per davvero della musica.

Sospirai frustrata, l'ultima cosa che volevo fare quella notte era socializzare, ma mi resi conto che aveva ragione: eravamo in un ospedale alle tre del mattino. Io senza telefono e lui solo dotato di un paio di cuffiette con cui passare il tempo.

Odiavo dare ragione alle persone, soprattutto se queste facevano scherzi che nessuno si azzardava a fare da tempo sul mio nome. Tuttavia feci qualcosa che stupì anche me.

"Eh va bene, mister "Ho bisogno di parlare con qualcuno perché sennò potrei socializzare con il bidone della carta", - mimai le virgolette con le mani nell'aria- di cosa vorresti parlare?"

Alzò lo sguardo dal suo angolino e increspò le labbra in un sorriso sincero che era da tempo che non vedevo. Tutti a fare sorrisetti falsi solo per farsi compiacere e ottenere quello che vogliono. Quello invece lo trovai puro e sincero, seppur molto semplice nel suo insieme. Si tolse le cuffie e mi mostrò lo schermo del suo telefono, su cui era chiaramente raffigurato che anche stavolta non stava per niente ascoltando della musica.

"Ti piace origliare la gente eh?", chiesi ironica e con un leggero inarcamento delle labbra, che subito mi apprestai a riportare alla loro linea sottile originaria.

"Mi piace solo ascoltare cosa accade attorno a me. Da quanto ho capito però tu non sei una persona tanto loquace.", disse con sicurezza.

"Non potevo mica parlare con la cintura delle barella, sarei sembrata pazza!", mi difesi abbastanza divertita dalla piega che stava assumendo la conversazione tanto angosciata.

"Su questo non ci sono dubbi, anche se dopo aver lanciato un accendino addosso al muro di un ospedale per due volte, mi capirai se ti ritengo tale."

"Io non sono pazza!", dissi profondamente offesa, mentre il ragazzo rise divertito.

"No, solo leggermente fuori dal comune!"

"Esatt-, dissi primi di rendermi conto dell'errore- Ehi, ma sono la stessa cosa?!"

"Lo so"

Rimasi esterrefatta davanti alle sue parole così dirette, senza sapere più cosa aggiungere. Erano rare le volte in cui non sapevo come continuare un discorso o in cui non sapevo cosa ribattere, la maggior parte delle quali ero intenta in qualche difficile interrogazione di chimica o fisica.

"Puzzi di alcol- se ne uscì poco dopo-, ne sei consapevole? Perché non penso tu abbia la maggiore età e qui sono abbastanza fiscali quando si parla di questo genere di cose."

Mi stava prendendo in giro, non c'erano altre spiegazioni per cui uno sconosciuto prima insista tanto per avere una conversazione per passare il tempo con la sottoscritta, ma poi passi la maggior parte del tempo di esso ad insultarmi senza motivo. Soprattutto dopo avergli esplicitato gentilmente che volevo solo starmene per le mie.

"Si da il caso, pallido sapientino, che io abbia appena compiuto 18 anni. Quindi potrei bere anche una cassa di birre e vodka e nessuno potrebbe comunque dirmi niente!"

Strano come nella realtà dei fatti io a quella festa fossi stata l'unica a non aver bevuto una goccia di sambuca. Non sono astemia, ma trovo particolarmente stupido e immaturo bere ogni volta che se ne trova l'occasione. Bevo insomma solo quando ne ho davvero bisogno, e non quando i miei amici indicono l'ennesimo festino illegale.

"Sembravi più piccola, ti avrei dato 16 anni!"

"Vuoi finire male stasera?"

"Sai di essere invalida vero? Non riesci neanche a spostarti da quella barella, figuriamoci se riesci a venire qua a darmi un calcio nelle palle!"

Aveva ragione, per l'ennesima volta, mentre la mia rabbia cresceva vicino ad un punto di non ritorno.

Quando vide che stavo cercando di staccare la cintura dalla barella per tirargliela, si fece visibilmente preoccupato, mentre io ormai stavo per cadere per lo sforzo.

"Calma, calma ok?- disse alzandosi dalla sedia e venendomi incontro con le mani avanti, come se avesse a che fare con qualche matto da manicomio- Non volevo offenderti, ok? Volevo solo sapere se lo sapessi....insomma avrei potuto comprirti con il medico dicendogli che te lo avevo dato io l'alcool. Anche io sono maggiorenne per la cronaca"

Furbo il ragazzo, ma se pensava che gli credessi e non sapessi già benissimo che si era inventato tutto solo per salvarsi la pelle, non mi conosceva affatto.

Ero riuscita a staccare la cintura dalla barella, stavo per colpirlo e dare finalmente fine a quella amabile chiacchierata che stavamo civilmente facendo, quando un medico chiamò il mio nome.

"Artemide Leoni!", disse guardando ancora la sua cartella, senza per fortuna aver visto l'assassinio che stavo per compiere. Posai velocemente la cintura sulla barella e dissi il più ingenuamente possibile:

"Sono io!"

Il medico guardò la scena che gli si parava dinnanzi, inizialmente un po' scettico per poi scortarmi sulla la barella nel suo ufficio.

"Per la cronaca: Artemide è nome favoloso!", sentì dietro di me urlare quel ragazzo.

Stava certamente cercando di farmi arrabbiare di meno con quell'affermazione che sapevo essere falsa, a nessuno piaceva il mio nome e non sarebbe cambiata la situazione questa notte. Feci un grande dito medio nella sua direzione.

Il medico mi toccò la gamba sinistra e mi chiesi chi gli avesse dato la laurea. Era palese che fosse la gamba destra quella da visitare, visto che in quel momento assomigliava più ad salame insaccato che ad una gamba sana. Poi mi toccò la destra e non me ne sarei nemmeno resa conto che l'avesse fatto, se non avessi visto la sua mano posarsi sul mio polpaccio.

"Hai perso la sensibilità?", chiese senza guardarmi negli occhi, ma tenendo lo sguardo fisso sul mio gonfiore.

"Io..sì, penso di sì."

Andò alla sua scrivania e prese a scrivere su un foglio, lasciandomi lì ferma su quella dannata barella senza una risposta.

"Allora, non voglio spaventarla ma secondo me la rottura è riparabile solo con un intervento. Ora non ne ho la certezza, solo i raggi x possono darmela. Ma se così accadesse dovrei operarla domani."

"Operare? Ma è solo una piccola lesione, basta una pomata e starò subito meglio. Guardi riesco anche a camminare."

Mi protesi in avanti per dimostrare che avevo ragione, ma non appena mossi la gamba un dolore lancinante mi bloccò sul lettino.

"Signorina, capisco la frustrazione ma il medico qua sono io e le garantisco che una semplice pomata non riuscirebbe nemmeno ad alleviarle il dolore. Quindi ora prende questo foglio e va al terzo piano a fare i raggi-x, poi in seguito all'esito provvederemo a fare ciò che bisogna fare.", chiuse la penna con la quale stava scrivendo con un sonoro click, come a sancire la fine della conversazione.

"Beh le dimostrerò, cioè la mia gamba le dimostrerà che una semplice pomata può bastare!", dissi fiera di me, mentre alzò gli occhi come a invocare pazienza.

"Vedremo signorina, ora le chiamo un'infermiera che la porterà al terzo piano."

Tornò poco dopo una signora un po' in carne ma dal viso gentile e quasi svenni.

Non per l'infermiera, non discrimino le persone per un po' di chili di troppo, ma ciò che stava portando con sé non lo potevo sopportare. La signora dal viso gentile trascinava in avanti una carrozzina a rotelle, quella che usano per le persone che sono tra il limbo della vita e della morte.

"Io quella non la uso!", sancii più decisa che mai, mentre il dottore si rimboccò le maniche del camice.

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