Capitolo 9


Sono quasi le diciotto. Sono stata l'ultima a essere chiamata. Ora che tutta la tensione si è esaurita sono a pezzi, non vedo l'ora di arrivare a casa. Vorrei poter parlare con Bruno, come abbiamo sempre fatto fin'ora. Aveva il volo alle dodici. 

Non so perché ho scelto questa strada, la via dei cantieri; non passo quasi mai di qui, però provo un brivido leggero, perché so, che non poco distante da qui, risiedono i cantieri Pasanisi. Quanto si può diventare sciocche?

Sull'onda di queste riflessioni sento il mio vecchio Scarabeo perdere colpi. Tossisce, si impunta; accelero, ma sembra peggiorare le cose, borbotta un altro po' finché si spegne del tutto.

Cavolo, e adesso?

Provo a riaccendere. Niente.

La prospettiva di procedere a piedi, con ciclomotore morto da trascinarmi dietro, è decisamente angosciante. Non arriverò mai. Devo armarmi di santa pazienza e procedere finché non trovo un posto da dove telefonare a mia madre e chiederle di venirmi a prendere. E il motorino? Non posso lasciarlo in strada.

Avrò percorso cento metri e sto già sudando. Nonostante l'orario, il sole è ancora caldo e lo è di più sull'asfalto. Per non parlare di tutti i cretini che mi sfrecciano accanto e suonano, lanciano commenti dai finestrini aperti.  Mentre mi impongo di non pensare al peggio, scorgo nell'altra corsia, un'auto che procede in senso opposto al mio e dentro mi sembra di vedere Francesco alla guida. Mi volto subito a guardare avanti, ma dopo un attimo sento un motore dietro di me e subito dopo, a fianco. Non mi fermo.

«Alba, che succede?»

«Ciao» dico timidamente. «Non lo so, si è spento».

«Dove devi andare?»

«Devo tornare a casa».

«Ma in questo modo non arriverai mai. Dai, entra in auto, ti do un passaggio».

«E il motorino? Non posso lasciarlo qui».

Riflette. «Se hai una catena con lucchetto lo leghi al primo palo che incontri e poi veniamo a recuperarlo».

Avanzo guardando davanti a me, la tensione mi divora ma cerco di non darlo a vedere. La sua auto procede a passo d'uomo e si mantiene al mio fianco. Le altre suonano, sorpassano nervose, imprecano.

Nel frattempo sbircio all'interno, sempre senza fermarmi. C'è una ragazza mora al sedile accanto e ha una massa di capelli lunghi e neri, mossi. Evidentemente le piacciono proprio quelle con i capelli lunghi, considero. Non mi va di salire in auto con loro due, ma lui insiste.

Scorgo, poco più avanti, un palo di un cartello stradale. Lo indico. «Potrei legarlo lì».

«Perfetto» conclude lui.

Dopo aver fissato la catena e il motorino al palo, salgo in auto, una bmw scura, ma non saprei il modello, molto ben messa, in ogni caso.

«Ti presento mia sorella Rosaria» mi dice appena riparte deciso. Sua sorella?

Lei si volta a sorridermi «Piacere» dice «Tu sei la sorella di Massimo?» Ah, conosce mio fratello.

«Sì, esatto, lo conosci?»

«Eravamo al Nautico insieme».

«Ah, non sono molte le ragazze che frequentano il Nautico».

«Sì, lo so... è che noi abbiamo questa tradizione dei cantieri navali e quindi mio padre ha acconsentito che mi formassi su una certa materia». Ascolto distrattamente perché non capisco dove sia diretto Francesco, di certo non verso casa mia.

«Scusa, dove stai andando?» chiedo, con un tono leggermente infastidito.

«A casa mia, lì prendiamo l'auto furgonata così possiamo caricare il tuo motorino e riportarlo da te». Ah, che gentile, non lo avevo immaginato. Mi rilasso e continuo la conversazione con Rosaria. Mi spiega che lei stava in una classe diversa da quella di mio fratello ma che spesso si incontravano nei corridoi o fuori dell'istituto. La osservo, mentre rievoca quegli anni, e colgo un briciolo di nostalgia.

La loro abitazione si trova in una zona più verde, rispetto a tutto il resto dell'area, sulla collina che precede la spiaggia di Mondello. Questa è una zona per benestanti, lo so perché qui vive Emilia nella casa che le ha lasciato il suo ex marito e,  dove stiamo entrando, beh, sarà quattro volte più grande della mia. È una villa a due piani. L'entrata è in lastricato scuro, ma tutt'intorno è pieno di alberi di ulivo e carrubo e tutto il perimetro segnato da siepi di rosmarino. Davanti all'ingresso della casa colpisce una grande aiuola con un gruppo di alberi di banano di dimensioni diverse. Solo in questa terra riescono a crescere queste piante, considero con ammirazione.

«Ci sono i cani Alba, hai paura?» mi chiede Francesco, con premura. È così diverso da quella sera in discoteca, meno sbruffone, quasi normale.

«No, a me piacciono i cani». Quando il cancello si richiude dietro di noi, vedo avanzare una massa di pelosi bianchi scodinzolanti. Sono pastori maremmani, una famiglia intera, mi spiegano: mamma, papà e due cuccioli che ormai hanno raggiunto le dimensioni dei genitori. Oltre ai cani, ci viene incontro un bimbetto schiamazzante seguito da una ragazza, credo di qualche anno più grande di me. Rosaria prende il bimbo in braccio e lo tempesta di baci, scambia qualche parola con la ragazza. Ci guardiamo.

«È tuo figlio?»

Lei annuisce. «Ha quattro anni».

«Che carino, come si chiama?»

«Riccardo, non ho voluto perseverare nei soliti nomi appartenenti alla stirpe familiare». Ride, ma a me sembra anche infastidita dall'argomento. Mentre osservo la dolcezza scorrere tra mamma e figlio sento il rumore di un motore: Francesco si avvicina con l'auto furgonata, sembra una Toyota e la ragazza ha appena spostato la sua auto per uscire. Si incrociano, lei indugia con lo sguardo verso lui finché il cancello si apre.

Mi fa cenno di salire. Saluto Rosaria e Riccardo e apro lo sportello per entrare nell'auto.

Mi fa un certo effetto trovarmi in questa situazione. Cerco di superare l'imbarazzo parlando.

«Voi, vivete tutti qui, in questa casa?»

«Solo Rosaria con Riccardo, i miei genitori e io, ma io vivo di sopra, una specie di dependance», allunga il braccio verso l'alto e verso l'abitazione che ci lasciamo alle spalle «insomma, vivo per conto mio, di rado ci ritroviamo tutti insieme». Perché dice 'solo'?

«Ho un'altra sorella che vive con suo marito in un'altra zona».

Ah, ecco!

«Tu sei il fratello più piccolo?»

«Sì, Carmela è la più grande».

«E ha figli anche lei?»

«No, lei non ne ha». Restiamo in silenzio per un po'. Vorrei chiedere di più su Rosaria e perché non viene menzionato un padre, ma sembrerei impicciona.

«Tu sai che tua madre è stata una delle mie professoresse?» mi chiede a un tratto.

«Ma davvero? No, non lo sapevo... in che anno?»

«Quarto e quinto... Tutti noi maschietti eravamo innamorati di lei». Ride.

«Ma dai, non ci credo».

«Non ci credi? Puoi immaginare gli ormoni a quell'età...e tua madre era così diversa da tutti gli altri insegnanti... Si capiva subito che non era di qui» Si volta a guardarmi. «Vi somigliate».

È vero, io e mia madre ci somigliamo molto. Abbiamo stessi occhi e stessi capelli chiari, e stessi lineamenti. Lei però, li ha tagliati i capelli e li porta appena alle spalle. Io invece non li taglio da anni e i miei arrivano fin sotto il sedere e sono un'attrazione non indifferente. C'è gente che si ferma per chiedermi ogni genere di informazione: da quanti anni li ho così, come faccio per lavarli, per dormire, perfino per andare in bagno!

«Da dove venivi di bello?»

«Di bello non direi proprio. Oggi ho sostenuto l'ultimo esame dell'anno: zoologia marina».

«Ah, cos'è che studi?»

«Biologia marina. Tu invece?»

«Ingegneria nautica, mi laureo quest'anno».

«Ah, deve essere bella la sensazione che sei arrivato alla fine... A me mancano ancora due anni, poi la specializzazione... Chissà quando finirò».

Raggiungiamo il mio motorino, per fortuna è ancora interamente attaccato al palo metallico. Lo aiuto a sollevarlo, ma a dire il vero la fatica maggiore la fa lui. Non credevo fosse così pesante. Osservo tutti i suoi muscoli e tendini tesi nello sforzo. Francesco è magro, ma ha tutti i muscoli al posto giusto. Mi dà istruzioni per aiutarlo a legare il ciclomotore nella parte dietro l'abitacolo. Deve rimanere in piedi, dice, per evitare che esca la miscela. Non ci avevo pensato.

Entriamo di nuovo in auto e riprendiamo il percorso.

«Ma questa non è la direzione per casa mia. Dove stai andando?» chiedo in tono poco gentile.

«Voglio farti vedere una cosa».

«No, scusa, devo andare a casa, mia madre sarà anche preoccupata».

«La puoi chiamare tra poco, ci mettiamo un attimo».

Non so mai se fidarmi di questo qui, però, adesso che ho conosciuto sua sorella, il nipotino e dove abita, forse, mi preoccupa meno.

Prende la direzione dei cantieri, forse ho capito. Ferma l'auto nei pressi di un grande cartello dove è scritto Pasanisi Cantieri Navali.

Scendiamo dalla macchina e lo seguo verso un largo ingresso chiuso da un imponente cancello scorrevole.

All'interno, un uomo di mezza età ci saluta. Ricambio educatamente.

«Vieni, Alba» mi sfiora un braccio con la sua mano. Ho un brivido. Lungo un lato del corridoio che stiamo percorrendo c'è un prefabbricato con due portoncini. Francesco prende dalla tasca un grosso mazzo di chiavi e ne apre uno.

«Da qui puoi telefonare». Sono gli uffici.

«Lavorate tutti qui?» Chiedo guardandomi intorno.

«Questo è l'ufficio dove lavorano mia madre e Rosaria». Mi spinge con delicatezza lungo il minuscolo corridoio «e questo è l'ufficio dei progettisti» mi dice, quando entriamo in una stanza più grande, in fondo. «Dall'altra parte invece c'è l'ufficio di mio zio, mi indica la zona chiusa dall'altro portoncino».

«Quindi, tutta la tua famiglia è impiegata qui? E tuo padre?»

«Mio padre e Carmela lavorano da un altro ufficio, da casa».

«E tu?»

«Io un po' qua e un po' là». Sempre vago come al solito. Trovo strano che non sia sua madre a lavorare da casa, ma non glielo dico. Però, lavorano tutti per la stessa impresa e si vedono ogni giorno. Provo una punta di invidia. La mia famiglia è tutta sparpagliata, invece.

«Puoi fare la tua telefonata, ti aspetto fuori».

Quando esco mi fa strada fino alla darsena dove noto un'imbarcazione particolare, diversa da tutte le altre. Mi aiuta a camminare su una passerella che la collega con il pontile. Nel farlo mi prende per mano e i miei brividi si intensificano.

«Ti piace?»

Non ho mai visto un'imbarcazione del genere, sembra una grossa zattera con due gambe giganti distese al di sotto, ma con un maestoso albero per  le vele. «È strano, cos'è?»

«Un catamarano».

«Ah... è un'imbarcazione particolare? Non ne ho mai visti qui». Mi lascia la mano e si allontana all'interno, l'ammira, accarezza le superfici.

«È un modello polinesiano, il primo che viene realizzato qui. Ho collaborato al progetto».

«Davvero?» Sono sinceramente sorpresa. Fa sì con la testa. Si guarda ancora intorno, fiero e io mi ritrovo ad ammirare la sua fierezza. Se ha collaborato al progetto di una cosa così bella c'è del bello anche in lui, mi ritrovo a considerare. Lo sto ancora fissando quando si volta e punta gli occhi dentro ai miei.

«Ti piace navigare?» mi chiede a un tratto, con una particolare luce nello sguardo . Non rispondo subito. Osservo ammirata anche io tutta la struttura, mi avvicino al timone, lo accarezzo.

«Nelle mie fantasie mi vedo a navigare su una barca attrezzata per la ricerca marina, a solcare gli oceani, entrare in contatto con l'infinità di creature che li abitano... ma so che avrò ben poche probabilità che tutto questo si realizzi» e mentre pronuncio le ultime parole mi sento pervasa da un senso di malinconia al pensiero che il massimo che mi potrò aspettare è vedermi rinchiusa in qualche laboratorio ad analizzare dati su dati per qualcosa e qualcuno con cui non vorrei avere a che fare.

Sento la sua presenza dietro di me, mi accarezza con estrema delicatezza una ciocca di capelli.

«Tra quattro giorni lo mettiamo in mare». Posso sentire l'alitare delle sue parole sopra la mia testa. Siamo pericolosamente vicini. Mi volto bruscamente. È proprio davanti a me.

 «Vuoi venire?» mi chiede.

Schiudo le labbra in segno di stupore. Ho davvero sentito bene?

«Cosa?» chiedo, incredula.

«Ti piacerebbe venire?» Lo ripete, mentre prende un'altra ciocca di capelli che mi scendono davanti, adesso, e la percorre in tutta la sua lunghezza. Guarda la sua mano mentre l'accarezza, poi, guarda me.

«Ma... lo mettete in mare, dove esattamente?»

«Percorreremo la costa africana fino all'oceano per fare sosta a Casablanca e poi faremo ritorno. Non possiamo prevedere i tempi con certezza, ma non credo meno di venti giorni». Lascia i miei capelli e spia la mia reazione. Soffio una risata. «Stai scherzando, vero? Fino all'oceano con questo coso?» Lui ride. «No, che non scherzo».

Credo che in una manciata di secondi, sul mio viso passi ogni tipo di sentimento.

Desiderio: sarebbe un sogno poter partire.

Rinuncia: non me lo posso permettere.

Frustrazione : come lo spiegherei a Bruno?

«Non posso» mormoro e mi allontano da lui nell'illusione di evitare qualsiasi tipo di tentazione.

Mossa da curiosità mi dirigo verso un'altra zona. «Cosa c'è qui sotto?» chiedo, indicando un'apertura sul pavimento con una scaletta che conduce verso il basso.

«Sotto ci sono gli scafi che contengono le cabine».

«Si può dormire lì?»

«Certo, vieni». Mi prende la mano ancora una volta e mi conduce giù. Prima di toccare il primo gradino guardo nella direzione da cui siamo arrivati per vedere se quell'uomo è ancora lì.

Giù è tutto molto stretto, ma ogni spazio viene utilizzato al massimo.

Le cabine sono quattro, mi spiega e possono ospitare fino a dieci persone.

«Hai progettato tu anche queste?» chiedo, mentre osservo gli interni.

«Io ho fatto gli schizzi e poi insieme all'ingegnere abbiamo sviluppato il progetto».

Non è un viziato

«Hai del buon gusto».

Sorride, gratificato.

«In quanti partirete?» Mi informo.

«Saremo in cinque più l'equipaggio».

«Oh, c'è anche un equipaggio?»

«Eh sì, occorre possedere la patente e avere anche esperienza, io non possiedo ancora questi requisiti, ma voglio imparare presto».

Ci siamo spostati nella seconda cabina leggermente più piccola della precedente. Sul fondo del piccolo corridoio c'è il bagno, minuscolo, come quello degli aerei.

Ripercorro la strada al contrario per uscire. Non mi sento sicura là sotto con lui.

Una volta sopra, mi guardo ancora intorno. Sospiro.

«Là sopra cosa c'è?» Chiedo indicando una piccola scaletta posta nella zona di manovra.

«Puoi salire a vedere».

C'è una zona che ha la forma come di una bacinella, è come un attico di un appartamento. Da lì si è completamente sospesi nell'aria e sembra di poter volare. Chiudo gli occhi.

«Non c'è niente di male a prenderci quello che ci piace, Alba» sussurra piano, vicino all'orecchio.

Perché all'improvviso tutte le mie certezze vacillano?

Lo guardo. Vorrei dirgli che la mia vita è diversa dalla sua, che se io dovessi inseguire il piacere, come lo intende lui, mi farei male e ne farei a qualcun altro.

«È complicato» mormoro, intanto che riprendo a scendere.

«È complicato perché sei una specie di promessa sposa... da quando, dalle elementari?» La sua voce mi arriva dietro le spalle, con qualche tono più alto rispetto a poco prima. Mi giro.

«Ma che ne vuoi sapere tu? Ci sono delle relazioni che vanno curate, mantenute; non si può agire come se chi tiene a noi non avesse alcun valore... e poi, non è dalle elementari, io neanche vivevo qui».

Ride.

Rido anch'io. «E poi, tu, come fai a sapere le cose che mi riguardano?» Lo guardo indispettita.

«Beh, la famiglia Musumeci è conosciuta. Il tuo futuro suocero ricopre per la quarta volta consecutiva la stessa carica nell'amministrazione pubblica e dovresti sapere che quando accade, in questo paese, non è certo per espressione democratica».

Non capisco dove vuole arrivare.

«E poi», continua, «ho frequentato la tua futura cognatina, per un po'». Ha un'espressione di sfida.

«Hai frequentato Adele?» domando scioccata.

«Sì, perché sei così sorpresa?» '

«Voglio dire, frequentata come? Cioè, lei...»

«Vuoi sapere se siamo stati a letto? Sì».

Ho gli occhi sbarrati, mi assale un'apnea, immagini confuse invadono il mio cervello. Non riesco a pronunciare parola. Adele! Ora si spiega il suo atteggiamento.

«Adele... » mi esce, piano.

«Ti meravigli? Ti assicuro che lei il suo piacere se lo prende» .

«Per un attimo ti ho creduto diverso, ma come fai? Con Adele... Lei è così, così... »

«Guarda che è stata lei a non lasciarmi respirare...»

«E allora? Che significa? Io dovrei andare a letto con chiunque mi impedisca di respirare? È questa la differenza tra me e te, non consideri i sentimenti, le implicazioni emotive...»

«Guarda che Adele aveva ben poche implicazioni emotive».

«Non ci posso credere... Adele». Se penso a Maria, alla considerazione che ha di sua figlia, sembra la purezza fatta persona. Ah, se lo venisse a sapere!

«Per favore, mi accompagni a casa?» Improvvisamente sento il bisogno di andarmene da lì.

Percorriamo il tratto per casa mia in silenzio. Non lo guardo, preferisco il paesaggio alla mia destra. La luce del giorno si attenua, a poco a poco, per lasciare spazio a quella serale.  

Perché questa confidenza mi ha così infastidita? Chissà se per lei è finita, da come mi ha aggredita quella mattina sembrerebbe di no.

«Dove devo girare esattamente?» Mi chiede a un certo punto.

«Per di qua, ecco, in quella stradina laggiù c'è la mia abitazione».

Ferma l'auto. Allunga un braccio per prendere dal cassettino portaoggetti un blocco notes e una penna. Lo vedo scrivere veloce.

«Qui c'è il mio numero, se cambi idea». Stacca il foglietto e me lo passa.

Apre lo sportello e scende per recuperare il motorino da sopra il cassone. Lo raggiungo per aiutarlo, ma sembra aver già fatto tutto lui.

«Grazie», sussurro, poi stringo il manubrio e mi dirigo dentro casa.

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