Capitolo 50
È arrivato da ieri. Ho inventato scuse diverse per ritardare il nostro incontro, ma tra poco sarà qui.
Francesco non mi ha più cercata. Neanche io.
Forse sarà per lo stato d'animo in cui si trova in questo periodo, ma dopo averle raccontato qualche pezzo sull'accaduto, mamma ha esordito con 'Sono tutti uguali. Non sanno tenere le mutande alzate'
La sua considerazione però ha sollecitato una certa crisi in me. Che sia stata troppo estrema? Lui è venuto a cercarmi, non ha detto le parole che avrei voluto udire, però ha detto Sarei qui se non ci tenessi?
In questi giorni non ho fatto altro che rimuginare su ogni parola, pausa, tono di voce. Il suo sguardo... Sembrava arrabbiato.
Non lo so, sono confusa e anche esausta. È come se con lui non potessi mai abbassare la guardia.
Ma in fondo, sapevo com'era, no? È solo che, durante i momenti trascorsi insieme, ho sempre creduto di poter far breccia nel suo cuore; ho sperato che un giorno quelle cretinate, come le chiama lui, me le dicesse.
Alle otto suona il citofono. Fuori ci saranno trenta gradi ma io ho le mani ghiacciate. Chiudo il portoncino dietro di me e lo raggiungo.
È sceso dall'auto, e sta appoggiato allo sportello chiuso. Sembra dimagrito. Ha lo sguardo accigliato, però gli occhi si illuminano appena mi vede. Sorrido, ma è un sorriso falso. Lui mi abbraccia appena gli vado incontro, lo abbraccio anche io, forse con meno entusiasmo di lui.
Si scosta e mi guarda.
«Che c'è? Non sei contenta di rivedermi?»
«Ma certo...» Ho paura di guardarlo negli occhi, timore che possa leggermi dentro. «Andiamo, ti devo dire un sacco di cose».
Da settimane non entravo in questa auto. Non avverto più alcun odore familiare. Tutto è cancellato dal tanfo di fumo. «Adele te l'ha impregnata per bene» commento con tono sprezzante.
«Sì, mi sono arrabbiato... Se mamma dovesse venire a saperlo...»
Troppe altre cose farebbero arrabbiare tua madre
Mette in moto e avvia la macchina. Io guardo fuori dal finestrino, come se mi aspettassi che le parole che non trovo arrivassero da lì, dai muri delle case, o dai marciapiedi o dalle auto parcheggiate lungo la strada.
Comincio da quelle più facili. «È successa una mezza tragedia». Mi fermo, perché per un attimo, il mio cervello mi rimanda subito una scena di me e Francesco, ma io sto invece parlando dell'altra tragedia, quella della mia famiglia che va in frantumi.
Lui non fa un fiato.
«Mio padre e mia madre si separeranno».
«Che cosa?» Si volta a guardarmi, è abbastanza scioccato. Questa non se l'aspettava. Mi viene da piangere, non solo per mia madre e mio padre, questa è l'occasione per poter dare sfogo alle lacrime che pressano dal momento in cui l'ho visto.
«Ma come? Quando è successo?»
«Papà è stato qui nella settimana di Ferragosto... Ricordi, te lo dissi al telefono».
«Sì, sì, ma non immaginavo che...»
«Praticamente ha messo su famiglia, laggiù...» dico sarcastica tra un singhiozzo e l'altro «ha un figlio di un anno con una donna somala, di certo più giovane di mia madre».
Ha rallentato l'andatura, l'auto procede cauta sulla strada avvolta dal grigiore serale. Non parliamo per un po'.
«E tua madre?»
«Sta a pezzi... Ha detto che se ne vuole andare da qui, che non abbiamo più motivo per rimanere».
«Cosa? E noi?»
Tiro su col naso, non so se questa sua domanda sia opportuna in questo momento. Ne sono quasi irritata.
«Non lo so» mormoro.
«Non immaginavo... È per questo che non volevi vedermi? Non sapevi come dirmi questa cosa?»
Le lacrime riprendono a scendere.
Il tono della sua voce è dolce. «Non devi preoccuparti, troveremo una soluzione. Parlerò con i miei, potresti venire a stare da noi».
A casa da loro?
Il solo pensiero mi irrita e mi chiedo come avrei reagito se una proposta del genere l'avesse fatta Francesco.
Non posso immaginare una soluzione simile, lo guardo con il panico negli occhi. «Da voi? Non potrei vivere a casa tua, Bruno».
«E allora preferisci lasciarmi qui mentre tu e tua madre andrete chissà dove?»
Dovrei essere felice di questa sua premura, significa che tiene a me e tanto, ma la conversazione sta prendendo la piega sbagliata, non devo deviare dall'argomento principale.
«Bruno... c'è anche un'altra cosa».
Stanno lì le parole, dietro i denti che spingono contro le labbra che non vogliono dischiudersi e i muscoli della faccia in preda a tremiti colpevoli, perché di colpa si tratta ciò che sto per dirgli.
Alzo gli occhi e incontro per un istante i suoi, stanno in attesa, ora rivolti verso la strada e ora rivolti verso di me. Il viso teso, le palpebre socchiuse.
Guardo ancora fuori, non so dove ci troviamo.
Le parole di mia madre, Non dirglielo Alba, gli uomini sono permalosi...
«Ho frequentato un ragazzo mentre eri via».
...specialmente quelli di qui
Il gelo morde l'interno dell'auto, ci avvolge, penetra in ogni organo vitale. Mi paralizza. Mi giro a guardarlo con tale lentezza da sembrare una ripresa a rallentatore. Sta con le mani strette sul volante, la faccia rigida sembra di carta pesta, inespressiva, glaciale; guarda davanti a lui verso un punto indefinito. Mi sento orribile, allungo una mano verso la sua, la ritrae come se si fosse scottato.
«Bruno...»Trovo la forza di pronunciare il suo nome in un soffio. Se avessi il potere di trasformarmi, adesso vorrei essere cenere e dissolvermi nell'aria, lontana per sempre da lui.
«Allora è questo il vero motivo...» Parla a voce bassa e le parole gli escono con una lunga pausa tra l'una e l'altra.
Continua a fissare davanti a sé.
«Sono entrambi».
Ha fermato l'auto.
Guardo fuori dal finestrino chiuso senza riconoscere il luogo.
«E quindi, mi stai dicendo che è finita tra noi?» Lo dice con un tono neutro, inanimato, le parole gli escono lente.
Continua a fissare davanti a sé.
«Mi dispiace» sussurro «mi dispiace da morire. Questa cosa mi distrugge» mormoro con il viso abbassato; le unghie torturano la stoffa dei pantaloni che indosso e arrivano perfino a incidere la pelle sotto.
«Tu, sei distrutta, Alba?» Si gira a guardarmi, lento. La bocca serrata, gli occhi stretti. Ha il volto senza espressione.
«Lo so come ti senti e io vorrei morire anziché stare qui a darti questo dolore, ma non ho potuto evitarlo, mi dispiace». La mia voce è appena un soffio. Provo ad allungare una mano, vorrei accarezzarlo in viso, fargli sentire il mio conforto e che l'affetto, quello c'è sempre, ma lui la colpisce forte con uno schiaffo. Non ero preparata a questo, mi ritiro addosso allo sportello.
Urla, adesso. «Tu sai come mi sento, Alba?» La pelle del viso assume una colorazione vermiglia. «Tu sai come mi sento?» Ripete in una sequenza spasmodica. Sobbalzo, mi schiaccio ancora di più allo sportello. Mi fa paura, ha il viso tutto deformato dalla rabbia, dolore, disperazione.
«Tu lo sai dove ho trovato la forza per stare in quel paese arido e gelato in questi due mesi? Nel pensiero che sarei tornato da te e che avremmo realizzato i nostri progetti insieme». La voce sale ancora più di tono. Le vene del collo affiorano alla superficie.
Scoppia in un pianto collerico. Io sono agghiacciata, non l'ho mai visto così e non so cosa fare per alleviare questa sua pena.
«E adesso tu... mi dici che è finita... perché mentre io ero là... a contare i giorni per ricongiungermi a te... tu stavi qui a trastullarti con qualcun altro?» Urla più forte.
Mi accartoccio per diventare più piccola, ma lo schiaffo mi colpisce, violento.
Colta di sorpresa, batto forte la parte destra del viso addosso al vetro. Mi porto le mani al volto per proteggermi. Sono pietrificata. Non riesco a rendermi conto se faccia più male la parte colpita dalla sua mano o quella che ha colpito il vetro.
«Bru- » Non mi fa parlare, mi dà un'altra sberla e mi afferra per i capelli.
«Come puoi farmi questo? Come puoi farmi questo?» È sconvolto, urla, gli occhi sono iniettati di sangue, il viso sfigurato dal pianto e dalla rabbia. Mi scuote tenendomi dai capelli. Mi ribello, allungo le mani per graffiarlo e allontanarlo dalla presa. Il dolore che sento mi porta a lacrimare e follemente penso che non abbia niente a che vedere con quel piacere provato quando è Francesco ad afferrarmi i capelli.
Non so cosa sia il dolore, non l'ho mai provato. Mai una sberla da parte dei miei, una sculacciata. Mai un incidente da bambina, una caduta o un ginocchio sbucciato. Mai un pronto soccorso, un'emergenza, un intervento chirurgico.
Ho paura. Sono terrorizzata. Apro con velocità lo sportello, strattono forte la testa, il dolore è intenso, sembra che venga via tutto il cuoio capelluto. Mi precipito fuori. Corro in preda al terrore, al pensiero che lui possa inseguirmi e farmi più male. Siamo nella zona del porto, me ne rendo conto solo adesso. Non mi fermo, ho paura che lui mi segua, che mi afferri.
Ho paura che possa uccidermi.
Arrivo fin sul bordo del marciapiede, prima dell'acqua, esito solo un attimo, poi, la paura è più forte. Mi tuffo di sotto.
L'adrenalina che circola in corpo non mi fa avvertire neanche l'impatto con l'acqua fredda e stantia del molo. Un solo comando al mio cervello e al mio corpo: fuggire e fuggire in fretta.
Nuoto in maniera disordinata, la paura e gli indumenti mi sono d'ostacolo. Inalo perfino acqua.
Dopo un lungo pezzo di mare, vedo una scaletta addosso al muro di confine. Mi avvicino e salgo di sopra. Metto a fuoco la zona, mi guardo intorno. Mi trovo nei pressi dei cantieri navali, così m'incammino lungo il bordo, in caso dovesse rendersi necessario buttarmi ancora in acqua. Tremo in preda al freddo e al panico.
La borsetta è rimasta nell'auto. Devo trovare un telefono, m'incammino in direzione dei Cantieri Pasanisi.
Dopo un quarto d'ora di percorso arrivo davanti al grande cancello. Busso, suono il campanello, urlo. «Signor Salvo! Signor Salvo!»
Lo sento che si avvicina, agitato mormora qualcosa. «Sono Alba, signor Salvo, sono Alba, per favore mi faccia entrare!».
Apre il cancello, rimane a fissarmi qualche secondo, guarda oltre la mia figura, esplora l'esterno con gli occhi, poi si fa di lato e entro. Lui richiude, poi si avvicina. «Signorina, che è successo?» Mi mette una mano dietro le spalle e mi accompagna dentro, nella casetta dove si sistema per la guardiania.
Io inizio a tremare dal freddo e per tutto il terrore appena passato. Mi avvolge in una coperta.
«Sono caduta in acqua» dico balbettando. Non lo crede per niente, ma non fa una domanda.
«Per favore, potrei chiamare mia madre?»
Mi indica il telefono con un gesto della mano. Trovo difficoltà a comporre i numeri per il tremore delle dita, poi, la sua voce.
«Pronto?»
«M-mamma, per favore... puoi venire ... a p-prendermi?»
«Alba! Che succede? Dove sei?»
«Qui, al cantiere».
«Che succede?» Grida più forte.
«Vieni e basta».
Salvo mi fa sedere. Il corpo è tutto avvolto nella coperta, ancora scosso da spasmi; le labbra tremano. Guardo fissa davanti a me le zampe di un tavolino malandato. La luce bianca di una lampada al neon si riflette su una bottiglia di vetro sul piano del tavolo. Salvo esce e entra dalla casetta. Si accende una sigaretta.
Rivedo lo sguardo di Bruno in preda alla follia; il suo volto deformato, la sua voce terrificante.
Lo zigomo destro inizia a pulsare, i capelli grondano acqua puzzolente di quell'odore stantio, caratteristico di dove stanno attraccate le imbarcazioni a motore.
Ancora non riesco a rendermi conto di quanto appena accaduto. Desidero solo andare a casa, fare una doccia e mettermi a letto.
Salvo si muove più in fretta e si dirige verso il cancello. Avverto anch'io il rumore di un'auto e poi il cancello che scorre sul binario.
Mamma si precipita dentro. «Dov'è?» La sento gridare, poi, mi raggiunge. Non capisce subito. Si avvicina cauta, mi tocca, sposta la coperta. «Alba...» Alzo gli occhi verso i suoi e leggo lo stesso orrore mio.
Mi prende sotto un braccio e usciamo fuori. La sento mormorare un leggero Grazie a Salvo, poi sale in auto e parte.
«Chi è stato?» Chiede, ma conosce già la risposta.
«Bruno» sussurro e il solo nominare quel nome riaccende il panico in me.
Soffia fuori l'aria, non riesce a crederlo neanche lei. «Glielo hai detto?»
La mia voce è appena un lamento. «Sì».
Sbuffa come un toro infuriato.
Guida l'auto con agitazione, non si ferma all'arancione del semaforo; prende qualche curva un po' troppo vivace.
Il volto teso e provato. Non parla, ma riesco a captare tutti i suoi pensieri. E non promettono niente di buono.
Quando vedo finalmente la strada di casa mi sento già meglio.
Ma lei passa oltre.
«Dove vai?» Chiedo terrorizzata.
«Andiamo a trovare i Musumeci» risponde in preda alla collera.
«No, ti prego!»
Lei e un muro di cemento sono la stessa cosa in questo momento.
«Mamma, ti prego! Non ci voglio andare! Fermati!» Urlo.
Imperterrita prosegue la sua pazza corsa come fosse posseduta. Urlo, piango, la imploro.
Frena di colpo davanti all'abitazione. Apre lo sportello e scende, poi viene da me.
«Avanti, scendi!»
«Noo, non ci voglio andare là!»
«Invece dobbiamo. Scendi, ho detto». Mi prende per un braccio e mi tira. Mi tiene stretta. Schiaccia il campanello senza fermarsi. La porta si apre. È Salvatore.
«Ooh, chi è?» Chiede con voce alterata.
«Apri, Salvatore!» La voce di mia madre è imperiosa.
«Oh, Paola...» Sembra sorpreso. La serratura del cancelletto scatta. Lei mi tira con sé.
«Ti prego, mamma» la imploro ancora a bassa voce, ma lei prosegue imperterrita.
Sorpassiamo Salvatore, che assume un'espressione sconcertata, ed entriamo.
Io vorrei morire.
Maria si alza da tavola e ci viene incontro «Oh, Paola, che sorpresa!» Mi guarda, ma non dice niente.
«Bruno dov'è?» Chiede mia madre, diretta al punto.
«Sta di sopra... Avete cenato? Volete favorire?»
«Vai a chiamarlo!»
Adele sta seduta a mangiare. Mastica lentamente mentre guarda la tv davanti a lei.
Maria chiama a gran voce Bruno, di sopra.
«Ma che è successo?» Sento mormorare Salvatore a sua moglie.
Poi, dal buio della zona notte, appare Bruno.
In un primo momento nessuno parla. In sottofondo solo il brusio della televisione.
Siamo lì, tutti vicini, io, mia madre, Salvatore e Maria. Bruno è di fronte. Lo guardo per un attimo. Il volto è arrossato e graffiato, poi abbasso gli occhi verso il pavimento.
Sento la mano di mia madre afferrarmi sotto il mento e alzarmi il viso. «Guardala!» Gli grida.
«E su, Paola, sono ragazzi», la voce di Maria che tenta di sdrammatizzare.
Salvatore che continua a ripetere «Ma che è successo?»
«La potevi ammazzare!» Mia madre più inviperita che mai verso Bruno.
«Eh, Paola, mi sembra che esageri, però» sempre Maria.
Mamma non la guarda neppure. La sua attenzione è tutta su Bruno. «Ti ho sempre trattato come un figlio. Non ti permetto di fare una cosa del genere a mia figlia!» Grida ancora.
In un primo momento lui rimane con la testa abbassata, poi la alza. «E allora gli dovevi insegnare a non diventare una puttana!»
«Non ti permettere!» Gli grida mamma e la sberla che gli molla in pieno viso schiocca così forte da rimbombare all'interno del salone.
«Oooh!» Maria attacca mia madre come una belva. Lei si difende, si schiaffeggiano, si accapigliano.
«Ooh, basta!» Salvatore interviene a dividerle. Prende mia madre e la spinge per le spalle verso la porta. «E vattene a casa tua!» Le grida dietro. Apre la porta e la spinge verso l'esterno.
Prima di seguirla guardo per un ultima volta Bruno. Sulla guancia ha ancora i segni delle dita di mia madre; ha la mia borsetta in mano e me la porge, poi, prima di varcare la soglia, mi volto in direzione del tavolo. Adele, impassibile, continua a mangiare e a guardare la tv.
Tremiamo come due foglie dentro l'auto. Le mani di mamma non riescono ad avviare il motore. Io inizio a singhiozzare. Dovrei sentirmi offesa e umiliata e invece mi sento sporca e mortificata.
Quando arriviamo a casa nostra, una volta all'interno, con voce sfinita, mamma dice: «È stato necessario, Alba. Vai a lavarti e poi mettiti a dormire».
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