Capitolo 41
All'inizio ho creduto si trattasse di un sogno, ma quando ho aperto gli occhi e li ho sentiti, nel cuore della notte, ho capito che stava accadendo davvero.
Prendo l'orologio: sono quasi le tre.
Stanno litigando. Sento la voce acuta di mamma, frammentata da singhiozzi. Quella bassa di papà che l'ammonisce.
Che succede? Perché litigano nel cuore della notte?
Mi alzo agitata dal letto e faccio capolino dal sottile spiraglio della porta. Stanno di sotto.
«Smettila di gridare così, la sveglierai». La voce di papà.
«Che cambia? Tanto prima o poi dovrà saperlo». Questa è mamma.
Sapere cosa?
Indosso una maglietta lunga, raccolgo un po' di coraggio e con timore scendo lungo la scala. Per prima vedo la figura massiccia di mio padre appoggiata all'angolo del muro all'ingresso del soggiorno. Mi dà le spalle.
Mamma sta seduta sul divano in una posizione accartocciata. Alza gli occhi e mi vede. Sono rossi e gonfi.
Ma che succede?
Lui se ne accorge e si gira. Gli occhi gli sorridono, distende le labbra in un'espressione piena d'amore. Fa un passo verso di me, allarga le braccia e mi stringe contro di sé. Non lo ricordavo così imponente. Le sue braccia possenti mi trasmettono affetto, protezione, coraggio.
«Piccolina» mormora.
«Ciao, papà» riesco a dire con la faccia affondata contro il suo torace. Lo sento accaldato come dopo uno sforzo fisico.
Mi tiene per le spalle e mi allontana di poco. Mi scruta, ammirato.
«Sei bellissima» dice.
Sorrido. Non riesco a replicare nulla, bloccata dall'ansia di conoscere il motivo dello stato in cui si trova mia madre. Sposto lo sguardo oltre il corpo che mi avvolge e guardo verso di lei. Copiose lacrime le rigano il viso.
Torno su mio padre. Fili d'argento si mescolano tra le ciocche rossicce dei suoi folti capelli. Gli occhi chiari che sembrano contenere l'oceano. Lievi rughe gli solcano gli angoli degli occhi e l'espressione pensierosa, al centro della fronte.
«Ma che succede?» Riesco a chiedere in un sussurro. Lui mi fissa, gli occhi si velano di malinconia, sembra addolorato per qualcosa che non riesce a esprimere. Mi passa le grandi mani ai lati del viso. Scivola con lente carezze lungo le spalle, le braccia. Mi prende le mani.
«Vieni, sediamoci» mormora.
Ci sistemiamo accanto a mia madre. Io sto al centro tra loro due. Osservo la sua figura sofferente, mi volto a guardare ancora mio padre.
«Ma che sta succedendo?» chiedo di nuovo.
Lui passa una mano su tutta la lunghezza dei capelli.
«Avanti, diglielo!» lo esorta con rabbia lei. Mi giro a guardarla. Perché è così arrabbiata? Ridevano poche ore fa, ne sono certa.
«Alba...» inizia a parlare papà con una certa difficoltà. Prende tempo.
«Tuo padre si è fatto un'altra famiglia» interviene inviperita mamma.
«Smettila!» La rimprovera lui.
«Perché, non è la verità?» Lo sfida con occhi di fuoco.
Non riesco a restare in mezzo ai loro colpi letali. Mi alzo e raggiungo la parete di fronte, dove sta una libreria bassa.
«Che significa?» chiedo agitata.
Si alza anche lui, mi raggiunge, cerca di abbracciarmi ma io mi divincolo e indietreggio di qualche passo. Guardo ancora mia madre sofferente.
«Che significa?» Alzo la voce questa volta.
«Ha un figlio con un'altra, laggiù». La voce di mia madre alle mie spalle arriva come una belva in procinto di inghiottire ogni cosa tra le sue fauci.
I miei occhi sono ancora fissi nei suoi che sembrano implorare pietà. «È vero?» La voce che mi esce sembra l'ultima esalazione di qualcuno in punto di morte.
«È vero», ammette finalmente, «ma non è vero che mi sono fatto un'altra famiglia».
«Ah, no?» grida mia madre.
«Ma... Un bambino... Da quando?» chiedo confusa.
«Ha un anno. Un anno!» grida mia madre. «Lo sapeva già da Natale e non ha detto niente!»
«Smettila di gridare!» Adesso grida lui.
«Ma... Perché?» mormoro disperata. È una domanda quella, che sembro rivolgere più all'Universo che a lui.
«Lei non me l'ha detto subito».
«Lei chi?»
«La donna con la quale ho avuto il bambino».
«Ma se tu sai che è tuo figlio... significa che l'hai frequentata».
«Sì, l'ho frequentata» abbassa gli occhi.
Mi giro a guardare mia madre. Sembra in attesa di ascoltare una nuova versione.
Torno con l'attenzione su di lui. «Perché?» chiedo di nuovo.
Lui allarga le braccia, come in segno di resa. «Perché... Non lo so!»
Penso a mamma, a tutta la sua dedizione verso la famiglia, al lavoro, all'attesa di lui; alle rinunce per compiacere il suo desiderio di cambiamento, ai viaggi, agli spostamenti.
«Perché le fai una cosa del genere? Lei non lo merita!»
«Alba...»
«No!»
Non ho voglia di sentire altro. Sono troppo delusa, troppo addolorata. Non li voglio sentire più. Corro su in camera e mi chiudo dentro.
Ho tutti i muscoli contratti. Non riesco a decodificare le mie emozioni, non so se sono di più arrabbiata o delusa o preoccupata. Che succederà adesso?
Resto con la schiena appoggiata alla porta. Per un lungo tempo si sente solo silenzio, poi, mi arrivano le loro voci ovattate. In alcuni momenti quella più acuta di mia madre.
Una porta che sbatte, giù. Poco dopo sento bussare da me. Non rispondo, non apro.
«Alba...» è mamma.
Incerta apro la porta, la faccio entrare. In silenzio si siede sul letto. Io rimango in piedi sulla soglia del balcone.
«Se n'è andato?» Le chiedo con timore.
«No, sta giù in camera di Massimo».
Una lunga pausa interrotta soltanto dai suoi sussulti.
«Che pensi di fare?» chiedo ancora.
«Io qui non lo voglio».
«Ma adesso dove può andare? Domani arriverà pure Massimo...»
«Io non lo voglio in questa casa».
«Ma è anche casa sua...»
«Io non gliela perdono questa cosa».
«Lo so, ti capisco... Forse è vero che a Natale non lo sapeva». Cerco di trovare attenuanti. È mio padre, non riesco a condannarlo.
Lei sbuffa.
«Ti ha detto chi è?»
«Una giornalista somala... Ha trentacinque anni!» Il tono della voce è scandalizzato.
Rifletto per qualche secondo.
«Ma a quell'età non sono già mogli e madri, là?»
«Che ne so... evidentemente non è così per tutte».
Il suo respiro a poco a poco diventa regolare. Si stende giù. Mi sistemo accanto a lei, l'abbraccio e pian piano ci addormentiamo.
Al primo chiarore del giorno apro gli occhi. Lei dorme profondamente. Il mio sonno è stato leggero per tutte le ore restanti e scosso da immagini terribili. Guardo l'orologio: sono le 5.30
Cercando di fare meno rumore possibile, mi alzo, prendo qualche indumento, la borsa e scendo di sotto.
Anche papà dorme.
Mi vesto e esco.
Prendo lo Scarabeo e lo porto fuori dal cancello, spento.
Poi, dopo qualche tratto di strada metto in moto e mi allontano da lì.
Vago senza una meta. È sabato, tra due giorni è Ferragosto, la città è ancora in stato di riposo. I negozi apriranno più tardi. Vado giù fino a raggiungere l'Università. Il bar adiacente è chiuso. Tutto intorno è deserto.
Non posso chiamare Livia a quest'ora.
Raggiungo la zona del porto, spengo il motorino e mi siedo su una panchina. Qui il movimento è maggiore. Le navi vanno e vengono. I passeggeri pure. Oggi dovrebbe arrivare anche Massimo, ma non ricordo come.
Mi sento come se all'improvviso il terreno cedesse sotto i piedi. Né più certezze, punti di riferimento, progetti. Si lasceranno? Papà si stabilirà definitivamente in Somalia? E noi, resteremo qui?
Rivoglio la mia infanzia, il contatto tra i loro corpi caldi; l'amore di cui era intriso ogni angolo della nostra casa, gli sguardi pieni d'affetto, le passeggiate all'aria aperta mano nella mano. I giochi con mio padre, i sorrisi di mia madre.
Perché quando si cresce il mondo diventa inospitale?
Ama ancora mia madre?
E a noi, ci ama?
A cinquant'anni passati ricomincia con una così più giovane di lui? Ne vale davvero la pena perdere tutto quello che ha costruito?
Di nuovo i pensieri sono rivolti a mia madre. Vederla in quello stato mi ha addolorata profondamente. Era così felice in attesa del suo arrivo.
Perché gliel'ha detto?
Le persone in circolazione aumentano sempre più. Qualcuno si volta a guardarmi. A quest'ora si saranno svegliati. Papà si chiederà dove sia andata, mamma lo immaginerà.
C'è una cabina telefonica poco più avanti. Dovrei avvertire mia madre.
Compongo il numero di Francesco.
Uno squillo, due squilli... Il telefono continua a squillare fino a che si interrompe la chiamata. Dormirà ancora, sono appena le sette.
Attendo altri cinque minuti. Riprovo.
Uno squillo, due squilli...
«Pronto». Il tono è assonnato e infastidito.
«Francesco, sono io».
«Alba?»
«Posso venire da te?»
«Sì, certo».
Metto in moto e mi avvio. Non sono mai arrivata fin lassù con questo mezzo.
Ho bisogno di lui, di sentirmelo addosso. Ho bisogno dei suoi abbracci.
Resta tutto il mio mondo, per ora.
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