Capitolo 31
Anche qui in Marocco, prima di scendere, veniamo ispezionati da due agenti della polizia portuale. È ancora Franca a intrattenere conversazione con loro. La vedo parlare calorosamente, poi voltarsi nella mia direzione e indicarmi col braccio. Capisco soltanto Mademoiselle Stènberger, il mio nome, a cui segue un cenno riverente del capo delle due guardie. Forse è perché sono l'unica ad essere nata in una città diversa da quella dove sono nati tutti loro?
Quando scendiamo finalmente a terra mi sento come se per la prima volta avessi messo piede su un suolo stabile. Le gambe vacillano alla ricerca di un equilibrio sconosciuto, qui, sulla terraferma. Intorno è tutto un gran caos di persone, biciclette, motociclette, gente che cammina a piedi. Suoni e rumori di fermento umano.
Ho letto che la popolazione, qui a Casablanca, è triplicata dagli anni '50 a oggi. La maggior parte degli immigrati è gente poverissima, che viene a cercare lavoro in città, essendo qui il porto, secondo solo a Tangeri. Inoltre, c'è fermento nel settore edilizio. Un progetto, da anni tenta di modernizzare la città dividendola in settori in base al tipo di popolazione ed eliminare definitivamente l'enorme baraccopoli sorta fino ad oggi. Qui le chiamano karian, sono come le favelas brasiliane, ma non è che in Italia ne siamo privi del tutto.
Appena mi riprendo da quella sensazione di stordimento cerco gli altri con lo sguardo. Cerco lui soprattutto, con una luce diversa negli occhi cerco nei suoi l'esistenza di un segreto condiviso.
Lo individuo a circa tre metri più in là, che parlotta con Iano e Antonella. Giusi e Angela stanno leggermente appartate a guardare il movimento incessante di persone. Invece, Franca e Mimmo si sono allontanati dalla parte opposta.
Mi avvicino.
Lui e Iano mi fissano per qualche secondo di troppo.
Che gliel'abbia detto?
Formulo la domanda in generale, ma è a lui che mi rivolgo. «Che facciamo? Io vorrei andare a visitare la Moschea», nel formulare la richiesta indico col braccio dietro di me, là dove la magnifica opera si impone col suo egocentrico minareto.
Antonella mi guarda come se avessi fatto una richiesta assurda.
«Vuoi andare a visitare la Moschea? Va bene», mi dice Francesco con la sua voce morbida. Lo sguardo che ci scambiamo per una frazione di secondo è soltanto nostro. Antonella si volta verso lui, con la stessa espressione assunta prima con me. Nel frattempo si avvicinano Giusi e Angela. «Allora, si va?» chiede Angela.
Capisco che avevano programmato un'altra cosa.
«Alba sta dicendo di andare alla Moschea» gli riferisce Antonella, con un tono che mi pare di scherno.
«Non siete obbligati, posso andare da sola» intervengo risentita.
«Dai, possiamo andare più tardi a La Medina», dice Francesco bonariamente.
«È una costruzione nuova, appena terminata» commento con enfasi.
Lei vorrebbe replicare qualcosa, ma non trova argomenti. «E andiamo a 'sta Moschea», sbuffa ancora Antonella.
«Dove vai conciata così?» Il mio tono è volutamente perfido. Lei si gira senza capire.
«Ha ragione», interviene Francesco, «ti devi coprire, non ti fanno entrare così». La mia faccia si distende in una smorfia carica di soddisfazione.
«E con che mi copro?»
«Non hai un pareo, uno scialle, una camicia?» le chiede ancora lui. Lei muove la testa a destra e a sinistra, a indicargli che no, non ce l'ha.
«Hai portato solo pantaloncini?» La schernisco ancora io, con quel moto malsano di volerla mettere in difficoltà. Lui mi guarda, fa un mezzo sorriso. Lei mantiene l'espressione accigliata. Non la vorrei proprio tra i piedi, ma dico: «dai, ti presto uno dei miei pareo» e lo faccio per lui, non per lei.
Fuori dall'edificio è pieno di ragazzini che chiedono l'elemosina e di anziani buttati a terra, tutti con qualche menomazione fisica. Il Corano individua nell'atto del fare l'elemosina una sorta di purificazione, liberandosi di parte della propria ricchezza donandola ai più bisognosi.
Non è così anche da noi?
Vedo Francesco infilare una mano nella tasca dei pantaloni, tirare fuori una manciata di banconote e metterla nella mano di un ragazzino. Quello sgrana gli occhi ed esultante corre da uno dei vecchi addossato alla parete.
Antonella segue tutta la scena, la vedo riempire i polmoni di aria, forse vorrebbe commentare, ma poi rinuncia.
Facciamo i biglietti, scegliamo una Guida ed entriamo. Non si può dire che l'ingresso dentro questa magnificenza non procuri un effetto di silenzioso stupore. A Palermo sono tanti gli edifici realizzati sotto l'influenza della cultura araba, come la Chiesa di San Giovanni degli Eremiti, oppure la Cuba, ma qui è lo sfarzo e il potere più alto che insieme vengono ostentati.
'Per costruire la Moschea, l'architetto Michel Pinseau si ispirò al Corano e in particolare alla Sura dove si leggono le seguenti parole: "Ed Egli è Colui che ha creato i cieli e la terra in sei giorni, e il suo trono era sull'acqua, che Egli possa mettere alla prova chi di voi è migliore nei fatti." Inizia subito con lo spiegarci la nostra Guida.
'La struttura è quasi interamente costruita sull'acqua. Ci sono altri elementi che richiamano il Corano come il tetto apribile, che è stato costruito principalmente per rinfrescare l'ambiente quando la moschea è piena ma, ideologicamente, mette a contatto due elementi chiave del Corano: Acqua e Aria
'La moschea di Hassan II è costata la bellezza di 500 milioni di dollari. In totale, tra operai e artigiani, lavorarono più di trentamila persone qui.
«Immagino a quali obblighi saranno stati costretti i marocchini per ripagare tutto questo» sussurro all'orecchio di Angela.
'Dato che per due terzi si trova sul mare, sono state realizzate delle fondamenta molto solide in calcestruzzo e roccia per evitare l'erosione prevista dal moto ondoso e dall'acqua salata. Ciò non bastò, infatti, oltre a essere costata parecchio, ha un costo di manutenzione molto elevato in quanto ogni anno è necessario fare degli interventi contro l'erosione. L'architetto era talmente ambizioso che fece costruire il minareto più alto del mondo, duecentodieci metri, che tuttora detiene il primato di struttura religiosa più alta del mondo.
'Marmo di Carrara, legno di cedro e vetro di Murano sono alcuni dei materiali che compongono la struttura.
«Hai capito? Sempre le cose dall' Italia si prendono... Qui che hanno? solo sabbia», esordisce Antonella e mi fa increspare le labbra in una risata. La Guida non sembra aver capito; ho l'impressione che abbia imparato a memoria la sua esposizione.
Per tutto il tempo della visita provo sensazioni strane. Entrare lì dentro ti catapulta in un'altra dimensione.
Per diverse volte osservo Francesco, il suo modo di camminare, di guardarsi intorno e interagire con gli altri. Sembra essere già stato qui.
Vorrei avvicinarmi a lui, prendergli la mano, ma non ricevo alcun segnale da parte sua e non mi sento sicura a farlo io. Forse non vuole che gli altri sappiano. Forse, non vuole che lo sappia Antonella.
Però, le sue mani le vorrei sentire ancora addosso. Al solo pensiero rabbrividisco. Le mura variopinte davanti a me assumono una luce sfumata. Mi perdo nel ricordo delle nostre bocche fuse insieme, della sua stretta, le sue parole sussurrate.
«Alba!» Mi stanno chiamando. Si sono allontanati e io sono rimasta incantata e persa nelle mie fantasie. Come fa lui a mostrarsi così disinvolto? Forse è abituato a fare così; già, deve essere questo il motivo.
Dopo la Moschea ci riuniamo con Mimmo e Franca e cerchiamo un posto dove pranzare, dopo l'Adhan delle 13.30. Naturalmente il menù è a base di cous cous.
Poi, ci addentriamo nella Medina.
Varcare le mura di questo luogo vuol dire entrare in un altro continente, con un altro stile di vita. Bambini che si rincorrono, botteghe di barbieri e artigiani d'ogni tipo, carri di menta in mezzo alla strada, negozi di sete e spezie, tutto questo in una cornice di totale quotidianità da parte dei "medini". Si ha da subito l'impressione di varcare un luogo che ha poco a che fare col turismo, essendo invece l'arteria vitale di questa città.
Io, Angela e Giusi ci facciamo un tatuaggio all'Henné su una mano. Io scelgo di farlo su quella sinistra, la stessa di Francesco.
Intanto ci intratteniamo a bere tè tiepido alla menta. In fondo, Casablanca non è poi così diversa da Palermo. Forse, anni indietro, quando questa città era ancora poco più di un villaggio, lo erano ancora di più, simili. Strade assolate, case costruite in maniera disordinata, altri centri residenziali in corso d'opera, come quartieri dormitorio, esattamente come da noi. Poco verde e il tutto bagnato dal mare, questa distanza d'acqua che le divide in superficie, ma di sotto, negli abissi marini, forse sono ancora collegate.
Di sera, la zona portuale si anima di gente: turisti, commercianti, artisti.
Franca e Mimmo camminano abbracciati, i volti divertititi e finalmente rilassati. Antonella tiene Giusi per mano, è eccitata ed esuberante e come sempre le piace farsi notare. Iano e Angela camminano mano nella mano vicini alle altre due ragazze. Io mi guardo intorno, cerco con lo sguardo Francesco ma non lo vedo. Che strano, era dietro di noi poco fa e gli altri sono tutti qui.
A un tratto sento una musica, qualcuno che suona. Sono percussioni, è un ritmo ben preciso, molto caratteristico, un po' mi ricorda il raggae, ma il tempo è più corto. Mi avvicino a un gruppo di giovani disposti in cerchio, sbircio all'interno: alcune ragazze si muovono flessuose al ritmo di strumenti a percussione suonati da un gruppo di giovani e meno giovani lì accanto, in una danza tipicamente araba. Mi fermo anch'io a guardare interessata. Non riesco a stare ferma, il corpo comincia a ondeggiare e seguire il movimento delle giovani all'interno del cerchio.
Una di loro mi sorride, è la stessa ragazza incontrata sull'isola. Si avvicina e mi tende la mano. «Hola, hermosa!» Esito per un attimo, ma poi mi lascio trascinare. Le vibrazioni entrano dentro e sollecitano il corpo a seguire quel ritmo tribale. Guardo loro e cerco di imitarne i movimenti: lei intuisce e alza con leggerezza la lunga gonna per mostrarmi come muove le ginocchia. Ho capito, il movimento del bacino parte tutto da lì. Formiamo un cerchio. Nella danza ci avviciniamo verso il centro e poi ci allontaniamo ancora. Ripetiamo questa coreografia più volte.
Sono ballerine, sono troppo coordinate tra loro.
Poi, a un certo punto mi lascio andare a un movimento che è solo mio. Loro sorridono calorosamente e ogni tanto dicono qualcosa.
Sono spagnole. A quanto pare le ragazze marocchine non possono esibirsi in pubblico, ecco spiegato perché.
Ancheggio, faccio ruotare il bacino, scrollo la parte alta del busto, come fanno loro; muovo, sinuosa, la massa di capelli con rotazioni del capo lente e dolci. Molti volti stanno fissi su di me. Sono l'unica con i capelli chiari e gli occhi azzurri; anche Antonella, con i suoi color del carbone che sembrano voler trapassare la mia figura. Vedo Franca stringersi a Mimmo. Angela e Giusi battono le mani a ritmo.
Continuiamo così per un po', mi sento del tutto a mio agio e sembra quasi di non aver fatto altro fino a quel momento. Poi, la musica sfuma e le ragazze battono le mani, mi circondano, mi dicono parole di congratulazione.
Le saluto e esco dal cerchio.
Il petto ansimante si muove su e giù. La pelle imperlata di sudore, lo sento colare anche lungo la schiena. Raccolgo con le mani, la massa di capelli per portarla davanti e rinfrescare un poco la zona della nuca. Mentre mi riprendo mi guardo intorno smarrita e in preda a un certo stordimento. Non vedo più nessuno. Avevo sentito dire da Antonella che volevano andare a ballare, ho capito che hanno individuato una discoteca o qualcosa di simile.
Rimango per qualche secondo indecisa su cosa fare, capire dove andare.
E poi lo vedo.
Non l'avevo notato subito perché ha il capo avvolto in un turbante scuro. Mi fissa. Sembra un tuareg. I suoi occhi magnetici mi scrutano l'anima.
Ho come un ritorno di memoria. Le immagini del film che vedemmo insieme a Bruno, anni fa.
Tutto il fermento intorno sembra svanire all'improvviso. Sono ipnotizzata.
Si avvicina, mi tende la mano, esito solo un attimo prima di prenderla; lui mi tira con delicata fermezza, poi, s'incammina nella direzione da cui siamo venuti.
Ha uno zaino scuro dietro le spalle.
Dentro al petto il rimbombo è assordante, non sento più niente al di fuori di quello che, per assurdo, temo la gente lo possa udire.
Attraversiamo la folla come presenze trasparenti che nulla può toccare; altri corpi sfiorano il mio, stoffe mi lisciano la pelle; risa, frastuono, bocche che ridono, schiamazzano, sguardi che mi fissano. Profumi, aromi di cibo cotto, speziato, colonie dopobarba, deodoranti da donna mischiati al sudore.
Io percepisco la sola stretta della sua mano alla mia che a ogni passo tira con più forza e velocità.
Lui accelera e io tengo il ritmo.
A un tratto mi strattona e si infila in un vicolo interno, fuori dalla strada principale. Ci inoltriamo per qualche metro, poi si ferma. È buio. Qui il frastuono arriva ovattato. Mi spinge addosso a una parete, fremente. Mi prende il volto tra le mani e ancora una volta le nostre bocche tremanti diventano una sola cosa.
Mi passa le dita dietro al collo, tra i capelli. Io cerco la sua pelle sotto la maglietta. Lo devo sentire. Qualche abitante locale passa e ci sfiora. Non m'importa. Sono dentro a un tempo sospeso, preso in prestito perché, lo so già, quello a disposizione non sarà infinito.
Non respiriamo, restiamo incollati per istanti eterni. Adesso vorrei sentire la sabbia addosso e rotolarmi con lui tra le dune del deserto. Vorrei essere io quella donna nel film.
Si stacca, ansimante. Nei suoi occhi leggo eccitazione e disperazione.
Nei miei c'è solo desiderio. Le labbra formicolano, mi sembrano gonfie.
Mi tira ancora per mano. Usciamo dal vicolo e ci mischiamo di nuovo tra la folla della strada principale.
So dove stiamo andando e non faccio niente per bloccarlo. L'adrenalina che mi circola nel sangue mi procura tutto il coraggio e l'incoscienza di cui ho bisogno ora, la stessa adrenalina che ho avvertito addosso a lui.
Arriviamo alla barca, oltrepassiamo la passerella. Mi tira a sé. Questa volta siamo soli. L'ultima cosa che vedo prima di sprofondare la mia bocca nella sua è il chiarore nei suoi occhi procurato dalle piccole luci dell'imbarcazione accanto. Poi, più nulla.
Sono soltanto sussurri e gemiti e ansia e timore.
Si avvinghia sul collo. Piego indietro la testa per lasciarmi sbranare. Intanto, con le dita lo stringo dietro le spalle fino a fargli male. Non lo so perché si sia mascherato a quel modo, so solo che mi eccita da morire.
Poi, sono io a prenderlo per mano e a tirarlo verso la scaletta che porta alla mia cabina.
Lui sembra esitare solo un attimo prima di entrare, ma poi cede. Chiudo a chiave la porta. Lui butta lo zaino da una parte e si siede sul bordo del letto.
Io rimango in piedi tra le sue gambe divaricate. Le sue mani stringono i miei fianchi. La voglia che ho di lui mi spaventa, mi spaventa quello che sarà il dopo, quella condizione di non ritorno.
Mi faccio paura per quello che sono pronta a fare.
Lui sta ancora con gli occhi fissi su di me, in attesa. Io comincio a spogliarmi con una certa lentezza. Movimenti languidi che, non mi sfugge, suscitano in lui un desiderio incontenibile. Poi inizio a sfasciare il suo turbante. A ogni giro, la sua presa su di me si fa più forte.
Mi prende in braccio, si alza e io gli circondo la vita con le gambe. Iniziamo a baciarci con una frenesia incontrollata. Poi, mi mette giù, con la schiena sul materasso.
«Non mi piace stare sotto» mormoro con una sfrontatezza che non mi appartiene.
Lui allarga le labbra in un sorriso malizioso. Allora si sdraia, apre le braccia rilassate e le abbandona sul materasso, in posizione di resa. Con gesti lenti sbottono i suoi pantaloni; passo le mani su quelle ossa sporgenti; le tocco, le accarezzo, le bacio.
Quando si rimette seduto mi guarda con espressione famelica, strizza la pelle dei miei fianchi, poi, mi accarezza con tocco delicato.
Le sue mani. Cosa sono le sue mani sulla mia pelle! Adesso lo so che da quella sera ho desiderato sentirmele addosso.
Gli afferro i capelli intrecciati, li tiro. Ahi! mormora, poi ride. Gli mordo il collo con decisione. Grida più forte adesso.
Voglio fargli male per tutto il male che, lo so, lui farà a me.
Voglio lasciargli i segni e voglio che lui li lasci a me perché impresso sulla nostra pelle resti il ricordo di questo tempo che, sono certa, non ritornerà più.
E voglio fargli male perché ha scoperto le mie debolezze e fragilità; perché ha messo a nudo le mie insicurezze e a causa sua niente ritornerà a essere come prima.
«Sei una tigre?» domanda e diventa meno gentile.
Sembra una lotta tra due felini, ci mordiamo, ci graffiamo, ci sbraniamo. Desidero la sua lingua da quando l'ho visto con Antonella, quella sera, in discoteca.
Ci divoriamo, posseduti da un desiderio per troppo tempo trattenuto; mi stritola la pelle e si aggrappa ai miei capelli spalmati sul suo petto.
L'ultimo ricordo che ho è la sensazione del suo corpo caldo dietro di me e la sua mano, lenta, che mi sfiora la pelle e la mia che si intreccia con la sua.
Quando mi sveglio è notte fonda. Per alcuni istanti ricerco quella sensazione con la quale sono scivolata nel sonno, ma lui non c'è. Sono sola nella cabina.
Provo un sentimento di umiliazione e rabbia verso me stessa.
Indosso qualche indumento, guardo l'ora: sono le due. Esco dalla cabina per andare sopra a cercarlo, ma mi blocco appena mi arrivano delle voci concitate dall'altro scafo. Non ho dubbi: una è di Francesco, più bassa e morbida; l'altra è di Antonella, acuta e isterica. Appena sento dei passi avanzare sulla piattaforma torno indietro e mi chiudo in cabina.
Ecco che il gran pasticcio è stato commesso.
Rimango per diversi minuti con la schiena contro la porta chiusa. Finché il silenzio sembra aver riconquistato tutto lo spazio intorno. Così, raccolgo il coraggio necessario e salgo di sopra.
In fondo, vedo una sagoma scura, semi sdraiata su uno dei sedili. Odore di erba nell'aria. È folle, penso.
È lui.
Con passi lenti mi muovo quasi senza spostare l'aria. Sembro un fantasma venuto a reclamare la sua entità sulla vita terrena.
Me ne vado verso poppa, gli passo davanti e mi siedo raggomitolata sul bordo della barca. Una gamba penzola verso l'acqua, così ferma, morbida, invitante.
Lui rimane lì dov'è, lo vedo con l'angolo dell'occhio. Non dice niente.
Se mi buttassi in acqua, ora, sarebbe costretto a spostarsi da lì, o resterebbe indifferente come adesso?
Sembra quasi che io lo abbia immaginato quello che è appena successo.
Trascorrono minuti infiniti inghiottiti dal silenzio. L'imbarazzo che provo si fa quasi materia.
«Che fai qui?» Parlo senza guardarlo. Le mie parole sembrano rivolte all'acqua di sotto a lambire il mio piede.
Attendo.
Lui soffia fuori dalla bocca un alito di fumo.
Non lo sopporto, ne ho abbastanza. Mi alzo con fare nervoso; quando gli passo accanto per raggiungere la scaletta mi trattiene per una mano.
«Non è colpa tua», mormora.
Se mi avesse presa a schiaffi avrei sentito meno dolore, ma non gli darò la soddisfazione di aggiungere altro. Non lo implorerò, non mi umilierò a pregarlo di restare con me.
Raccolgo un po' di dignità e con uno strattone mi stacco e mi allontano in fretta, prima che le lacrime, che sento spingere dietro gli occhi, sgorghino senza pudore.
Non voglio umiliarmi ulteriormente.
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