Epilogo-Seconda Parte-La ragazza che non era mai stata qui

Qualche anno prima

L'aria si riempiva di purezza mentre i due adolescenti incastravano i loro sguardi, estasiati, speranzosi, impacciati.

Trisha fremeva nell'attesa di quel che sarebbe stato di lì a poco, la notte precedente Austin si era intrufolato nella sua camera, come di consueto.

Fingendo di dormire, lei aveva ascoltato, invece, le sue dichiarazioni sigillate da un casto e lieve bacio. Austin lo aveva sussurrato piano, quel giorno le avrebbe confessato i suoi sentimenti e lei attendeva di ascoltare quelle parole che le avrebbero fatto smarrire più di un battito.

Frequentavano il primo anno di liceo, erano ancora giovani, ma il trasporto che univa le loro anime durava sin dall'infanzia.

Austin era agitato, non voleva sprecare altro tempo, temeva che l'amica fuggisse via dalle sue mani e bramava di possederne ogni fremito. L'affetto fraterno era tramutato in un sentimento radicato, complice la perfetta armonia del loro spirito.

La fretta era stata fatale, Austin aveva dimenticato di prendere le chiavi di casa prima di avviarsi verso scuola. Trisha era impaziente e necessitava di movimenti e si era offerta di tornare indietro per recuperarle.

Austin attendeva il ritorno della sua amica, guardava distratto il telefono e poi riportava gli occhi laddove lei sarebbe ricomparsa.

L'aveva avvistata da lontano, i lunghi capelli biondi ondeggiavano, stringeva le spalle nella giacca azzurra, sorrideva mentre le iridi s'inchiodavano tra loro.

Smarriti nel candore di quel che provavano, non avevano udito il rombo dell'automobile che sfrecciava a velocità sostenuta.

Il giovane guidatore, nella smania di inviare un messaggio, non aveva visto la ragazza e l'aveva colto in pieno. Il corpo della giovane era stato trascinato per diversi metri prima di sprofondare nel terreno fangoso.

Austin aveva assistito, inerme, alla scena, una stilettata che aveva trafitto l'anima e l'urlo fuoriuscito dalle sue labbra aveva spezzato il silenzio di Bar Harbor in quella mattina di fine settembre.

Lei era sopravvissuta, sebbene fosse spezzata in due. Dal momento in cui si era risvegliata impossibilitata a muovere gli arti inferiori, Trisha era stata rilegata in una struttura medica, dove ogni cura era sostenuta da Sean Rogers.

Austin era dilaniato dai sensi di colpa, a cui si era aggiunto il dolore di essere una presenza non gradita da Trisha, così come affermato da sua madre. Nessuno dei Rogers aveva più visto Trisha mentre alla ragazza era stato detto che Austin e la sua famiglia non si erano interessati di lei.

Il giovane aveva trascorso intere giornate nel parcheggio di una clinica a osservare una finestra alla quale la sua amica non si sarebbe mai affacciata, prima che Maggie Hall decidesse di portarla via di lì, in una struttura sulla costa occidentale.

Austin aveva vissuto l'adolescenza soffocato dai tormenti, cumuli di rimpianti sottrarsi cui aveva seppellito la propria esistenza.

Il vuoto che avvertiva era puntualmente riempito da una consapevolezza, era lui a dover essere investito.

Era sopraggiunta la malattia e Austin auspicava che la stessa lo conducesse alla conclusione della sofferenza.

Il linfoma non lo aveva portato alla morte, ma la chemioterapia aveva palesato diversi effetti collaterali, primo fra tutti il chemo brain.

Vuoti di memoria e annebbiamento mentale, il ragazzo aveva sentito il bisogno di riempire quei momenti di smarrimento con storie immaginarie.

Avevano tutte come protagonista l'amica che non aveva mai dimenticato e che bramava ancora di possedere.

Storie drammatiche e, talvolta, allegre contraddistinte sempre dal medesimo finale, lui investito dalla stessa automobile. Quel giorno, era così che doveva andare!

La malattia era regredita e Austin aveva continuato a vivere nel grigiore della sua esistenza.

Aveva scelto di laurearsi in medicina con la speranza di poter lenire i sensi di colpa, salvare qualcuno come non era riuscito a fare con Trisha.

Era stato durante un turno in ospedale, al primo anno di specializzazione in chirurgia ortopedica, a imbattersi in una paziente che avrebbe cambiato la sua vita.

La ragazza era arrivata al pronto soccorso durante una tormenta di neve, percossa brutalmente. Un intero anno trascorso in coma e nessuno aveva mai varcato le porte dell'ospedale per allietare le sue pene.

Austin aveva trascorso molte notti a osservarla dal vetro che tracciava il perimetro della sua camera, ne osservava le fattezze così simili a quelle di una dea e anelava di poter scoprire il colore delle sue iridi.

Aveva trovato il coraggio di oltrepassare la porta della stanza, si sedeva sulla poltrona, inutilizzata prima del suo arrivo, e restava in silenzio cercando un modo per colmare il vuoto che la circondava.

Non riusciva a capacitarsi del perché avesse iniziato a raccontare quelle storie inventate durante la malattia e che avevano come protagonista Trisha.

Storie drammatiche nate nella sua mente malata, frutto di tormenti a cui non riusciva a mettere la parola fine.

Sua madre aveva scoperto il suo segreto, non approvava il comportamento del figlio, asserendo che lo stesso avrebbe offuscato maggiormente il torpore mentale in cui versava la giovane paziente.

Austin non riusciva a farne a meno, si liberava del peso, che per anni era gravato sul suo petto, a ogni storia raccontata.

Annie lo aveva trovato fuori la camera della ragazza in coma, suo figlio era sospeso su un baratro dal giorno dell'incidente di Trisha.

Nell'ultimo anno, aveva notato miglioramenti nel suo umore e aveva indagato per scoprirne l'origine.

Era combattuta su quel che fosse giusto, suo figlio sembrava aver ripreso a vivere, ma a pagarne le conseguenze era la giovane senza nome.

«Austin, lasciala riposare. Non vuoi lenire il suo dolore ma mettere a tacere i tuoi sensi di colpa. Non assumerti responsabilità che non hai, è stato solo un incidente!» una nenia che la donna pronunciò appena lo aveva scrutato mentre osservava il corpo della ragazza attraverso il divisore in vetro.

«Mamma...» la voce di Austin arrivò turbata e sorpresa alle orecchie della madre.

«No, Austin, lasciami parlare...» sua madre non era intenzionata ad assecondare la follia che lo aveva animato in quell'anno disseminato dalla costante dedizione alla sconosciuta che aveva occupato i suoi pensieri insieme alla ragazza che non era mai stata qui.

«Mamma! Si è svegliata...»

Madre e figlio guardarono la ragazza schiudere gli occhi, tentare di muovere gli arti e osservare, smarrita, il luogo in cui si trovava. Erano incapaci di muoversi, non sapevano come comportarsi: entrare nella camera e cercare di calmarla oppure allertare i medici. Una voce afflitta, però, giunse alle loro orecchie, si voltarono e fissarono le pupille su un giovane uomo che, emozionato, inchiodava il volto della sconosciuta attraverso il vetro.

«Ti ho trovata!»

Austin non fece in tempo a osservare il nuovo arrivato, le sue iridi cristalline furono catturate da un movimento alle spalle dell'uomo. Una sedia a rotelle oltrepassò la sua figura, che non smetteva di smarrirsi a osservare la rinvenuta paziente.

«Ti abbiamo trovata!» Trisha sorrise alla ragazza che aveva conosciuto durante la degenza in una delle strutture in cui era ricoverata, sebbene la ragazza non riuscisse a vederla, e che tanto aveva fatto per lei; poi, spostò lo sguardo, posandolo sull'amico d'infanzia che aveva amato, odiato e, nuovamente, amato. «Voleva portarti da me e, invece, ha condotto me da te!»

Annie, poggiata, su una parete portò le mani sulla bocca e bagnò il viso con lacrime di commozione; Austin tremava mentre avanzava verso la giovane, cadde in ginocchio, ai suoi piedi, e catturò il suo viso. Singhiozzava e rideva, le mani modellavano la candida pelle di Trisha, che si plasmò al loro volere.

«Sei tornata!»

«Sì, sono tornata. Per sempre!»

Fine.

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