La Stanza Della Musica

C'era una volta un'alta montagna, una di quelle così imponenti che le nuvole ne nascondono la cima innevata.

Lassù la neve e il ghiaccio regnavano su tutto, perciò nessuno, uomo o bestia, si arrischiava a percorrere quei sentieri.

Nessuno, tranne un pugno di uomini, pii, ligi al duro lavoro e devoti alla solitudine.

Avevano eretto una specie di monastero, con pietre e fango, legno e chiodi, ed erano riusciti a costruirsi un riparo. Lì passavano le loro giornate, nella contemplazione della natura e nell'applicazioni delle arti manuali.

C'era il fabbro, il falegname, il ceramista, il vetraio. Ognuno di loro si adoperava per fornire ai compagni i giusti strumenti per sopravvivere.

Un giorno bussò alla loro porta un vecchio, dal viso adunco e raggrinzito, gli occhi piccoli e neri, ma lucenti, la pelle chiara come la neve che copriva la terra.

I lavoratori gli dissero di entrare, di non rimanere esposto a quel gelo, ma lui rifiutò, dicendo di essere arrivato fin lì solo per portare loro un dono.

Infilò la mano tremante ― per il freddo e per la vecchiaia ― sotto il mantello lacero e ne tirò fuori un flauto di legno scuro, un semplice tubicino bucherellato e nulla più.

Lo porse al gruppo di uomini avvolti nelle loro pelli pesanti, che gli chiesero a cosa servisse.

Il vecchio sorrise sornione e rispose: «A richiamare la vita.»

Gli uomini si guardarono sconcertati gli uni gli altri. «Ma tu chi sei?» chiesero infine.

«Io sono il vento.» E con quelle parole il vecchio si volse e andò via, senza più tornare.

I lavoratori discussero su cosa fare di quello strumento, che nessuno di loro aveva costruito, né tantomeno sapeva usare, finché giunsero alla conclusione di riporlo in una delle stanze meno usate della torre più alta, destinandolo probabilmente a non essere mai suonato.

Quella notte però il vento ululò forte attraverso i battenti delle finestre e le crepe nelle mura, insinuandosi in ogni angolo dell'eremo, risalendo le scale e attraversando i corridoi, fin quando raggiunse la stanza meno usata della torre più alta.

Raggiunse il flauto e si infilò al suo interno, fuoriuscendo dai giusti fori e producendo una melodia tormentata, un lamento, un richiamo che dicesse basta alla solitudine.

Gli uomini si risvegliarono, si levarono dai loro giacigli scossi da quel suono, armonioso eppure straziante.

Si ritrovarono fuori dalle loro camere, convinti di aver solo sognato, ma ognuno affermò di aver udito la stessa musica.

Poi qualcuno bussò alla porta: un rintocco lento e ripetuto, ma ben udibile, nonostante il ― o forse per merito del ― vento.

Corsero ad aprire il portone nella tormenta, spaventati, ma curiosi.

Una donna, avvolta in morbide, chiare e voluminose pellicce, sorrise loro: «Eccomi, sono la vita.»


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