9. Cuore nero



















Non so dire con certezza se sia per il fatto dello spiacevole incontro avvenuto pochi minuti fa, oppure per via dello sgradevole quanto strambo alterco fra me, Viola e Isabella, o ancora per la curiosità da parte di Alberto nei riguardi di Marta, o addirittura per via dell'incidente della mia mano causata involontariamente da Aspromonte.

Non so proprio quale motivo fra questi possa essere il fattore scatenante che sta portando Diego a sfrecciare a una velocità poco consona per le strade bagnate di Firenze.

Ma io lo so, ne sono sicura che è una di queste quattro alternative — ognuna probabile, ognuna con il suo perché, ognuna che trascina con ghigno crudele Diego al risentimento più limpido, senza problema alcuno. O magari la colpa è di tutte queste circostanze unite insieme, senza necessariamente affibbiarla a una in particolare, senza dover per forza puntare il dito.

E... lo è — è una lenta tortura che attecchisce con movenza morbosa, intenzione insana. La pelle non riesce a farne a meno di quell'adiacenza, vincolo imposto e dal quale non ci si può sottrarre; perciò assorbe, altro non può fare se non agire involontariamente e assimilare, iniettando quella viperea tossina dritta al cervello, a contaminare i pensieri.

Poco prima di risalire a bordo della moto da cross, una sottile velatura di pioggerella ha cominciato a incombere sopra le nostre teste, danzando con eleganza e quella crudeltà che solo la pioggia è in grado di accogliere dentro di sé per poi conviverci — eleganza e crudeltà sono una simbiosi pericolosa. Ora si è trasmutata in un acquazzone ancor più sadico, disinteressandosi di entrambi e della mancanza di un tetto sopra di noi.

Ma forse, il suo, è un tentativo di disintossicarci. E lo fa in una maniera tutta propria, con quel silenzio e quella petulanza emblematici di un fenomeno incontrollabile.

In quel gesto io ci vedo cortesia, eleganza, non crudeltà. Per questo abbasso le ciglia, rivestendomi di un buio fosco, senza stelle, dimenticandomi per qualche flebile attimo della velocità di Diego e soffermandomi — inesorabilmente — alle parole pronunciate da Isabella.

"Non rappresenta un dilemma se venissero a sapere che Leonardo è insieme a Olivia in questo momento".

E fin qui tutto okay, niente di strano, nulla di rilevante. Il cuore che batte normalmente, nessun senso di smarrimento. Ma è quello che è stato detto dopo, quello che è stato imbevuto di malizia a rendermi inquieta — un mare in tempesta sotto la pioggia —, per di più sotto gli orecchi di Alberto, Diego e Viola!

"Cosa c'è, Castellani? Sei per caso gelosa?".

Più le parole riecheggiano in me, più mi appare come un qualcosa di insostenibile! Una follia. Un qualcosa di irrazionale.

Porca puttana, praticamente anche mia madre è a conoscenza di quanto io e Leonardo Aspromonte ci odiamo — a morte.

Ci uccideremmo a vicenda se solo fosse legale.

Un odio così grande — così reciproco e così profondo, talmente incuneato, con le radici che hanno attecchito alla pelle, intersecandosi alle vene, e diramandosi respiro dopo respiro — è raro fra due persone. Ma non impossibile. Al Caravaggio tutti lo sanno, anche una come Isabella Granieri — soprattutto lei che è amica di Olivia — non può ignorare una cosa del genere.

Dea Atena e dio Apollo, in guerra ormai da quasi cinque anni — la guerra che coinvolge entrambi gli indirizzi.

Come può Isabella aver solo asserito una cosa simile? Mi si arriccia la pelle dai brividi... morsi di brividi.

Magari è proprio Isabella quella punzecchiata dalla lama affilata della gelosia...

E la pioggia è una benedizione — purifica me, questi riflessioni corrotte, e l'incazzatura evidente di Diego.























Quando arriviamo dinanzi al portone del palazzo di mio padre l'acquazzone si è quasi del tutto chetato.

Il silenzio del silenzio.

Sono gli imprevisti come questo che mi fanno desiderare ardentemente di ottenere l'altro cinquanta per cento della patente — è sfibrante il dover dipendere sempre, costantemente, da qualcuno. Voglio saper contare solo su me stessa, voglio imparare, muovendo un piccolo passo alla volta.

Gli imprevisti che rendono me e Diego bagnati, senza un lambello di pelle asciutto e caldo.
Le uniche cose salve sono i nostri capelli e la fasciatura della mia mano, trattenuta tatticamente dentro la tasca del giubbotto del mio amico. Per il resto... sembriamo reduci da un tuffo sull'Arno.

Nonostante la situazione piuttosto drammatica, a me piace trovarvi comunque un sottile lato positivo. È un qualcosa che mi appartiene, di mio, cucito addosso con un filo rovente e dorato — quell'armoniosa parvenza di speranza che ha sempre il suono dolce e il profumo gradevole. Quel qualcosa che fa sì di farmi affiorare il ghirigoro di un sorriso, nonostante tutto.

Nonostante tutto... un bagliore di luce, per quanto flebile sia, fa sempre la differenza.

Anche se Diego non è di questo avviso, il ghigno gli è rimasto tale e uguale a quando siamo risaliti in sella. Gli spigoli del volto induriti, la fronte increspata in tante piccole rughe e quell'ombra di tormento — il tarlo di un pensiero ad angustiarlo.

"Oh andiamo, Diego... non è da te farsi rovinare un pomeriggio per colpa di un nonnulla come quello! I Perfettini sono sempre... Perfettini. Non puoi dar loro questa soddisfazione".

Mia intenzione, una volta smontata dalla motocicletta, sarebbe stata quella di risalire su in casa, recuperare i miei averi compreso lo zaino di scuola e farmi riaccompagnare a casa di mia madre da Fabrizio. Ma ora che vedo Diego con questa faccia non credo proprio di potermi attenere a questo volere.

Il mio radar dell'amicizia mi suggerisce — urlando — che non posso lasciarlo andare via così, non posso abbandonarlo.

«Diego» lo richiamo a me, cercando di ottenere la sua attenzione ora rivolta completamente verso i cognomi impressi sui campanelli del palazzo.

Tolgo perfino il casco per far sì che possa arrivargli la mia voce con chiarezza, non ovattata. «Va tutto bene?» domando con la comprensione che si addice all'affetto che prova un'amica.

Mi avvicino lentamente al manubrio della moto, tornando sotto i baci delle gocce della pioggia.

Diego, che è rimasto con il casco infilato, scuote la testa e socchiude gli occhi, il piercing bridge che brilla sotto la luce dei lampioni.

«È tutto nella norma» mi spiega con voce pacata e roca, «sono solo... troppo agitato per le elezioni di domani. Prima con Alberto, quando gli ho detto "In bocca al lupo per domani" e che solo allora la vera guerra avrà inizio, non ci pensavo affatto. Mentre ritornavamo verso la moto, in quel momento sono affiorate un sacco di preoccupazioni. Forse sono proprio io che me la sto facendo sotto. È che la voglia di vincere e rappresentare il mio indirizzo, la mia fazione, è veramente tanta. Una sconfitta non sono sicuro di saperla accettare».

Adesso siamo a cinque motivi.

«E per ultimo, come se non bastasse, questa sera sarò da solo a casa. Raffaello lavora fino a tardi, come sempre, e i miei genitori andranno a un'asta di motociclette. Quasi che è più eccitata all'idea mia madre che mio padre» aggiunge poi, stavolta marcando di più l'accento dell'agitazione che fino a ora era riuscito a nascondere con maestria, «cazzo, quando mi viene l'ansia mi rompe a bestia la solitudine!» conclude esclamando.

Durante il tragitto sospettavo che Diego fosse arrabbiato, in realtà lui è solo turbato e... spaventato? Un po', soltanto? E so con estrema certezza che la solitudine è una bella spina nel fianco quando si è in questo genere di stato — un rovo di spine, aggrovigliato addosso a noi.

Raffaello, il fratello maggiore di Diego, lavora nello stesso settore di mio padre — quello della ristorazione —, ed essendo uno chef talentuosissimo in un ristorante decisamente rinomato è più che normale che rincasi a ora tarda. E i suoi genitori, be', le aste possono andare avanti anche per ore...

Inutile, a Diego gli spetta una serata vuota e da eremita.

A meno che... a meno che io non possa cambiare la scia degli eventi, il suo oscuro futuro.
Faccio collidere la mano buona sul fianco, tenendo saldamente il casco sotto la presa del braccio, prima di avanzare la mia proposta.

«Ti va di venire a dormire a casa mia, da mia madre? Almeno ci terremo compagnia e ci trasmetteremo ansia a vicenda, che ne dici?» gli offro con naturalezza la mia richiesta assieme a quel sorriso che traspare serenità e incute speranza — quella che ogni essere umano ha bisogno nei momenti più bui.

Come speravo — e come mi aspettavo —, le labbra di Diego si distendono in un sorriso ancor più grande del mio. Nonostante il casco, lo capisco dal fatto che gli si illuminano letteralmente le meravigliose iridi grigie, miriadi di minuscole stelline di gioia spuntano in quel chiarore orpellato di screzi neri — lamelle risplendenti.

«Fai sul serio? Oppure mi prendi per il culo perché ho la strizza?» ridacchia poco convinto dalla mia proposta, anche se si vede lontano un miglio che spera che non gli stia mentendo.

«Ripetilo nuovamente e giuro che ritiro tutto. Te ne stai a casa solo, solino, soletto» lo minaccio esibendo persino l'occhiolino.

«O-okay! S-sì, dico che ci sto!» balbetta Diego preso per davvero contro piede, accettando di buon cuore e senza mai abbassare gli angoli delle labbra.

Non se l'aspettava minimamente che la serata prendesse questa piega. E sono contenta di questo, il lato narcisista che è in me lo percepisco forte e chiaro.

«Aspettami qui e mettiti al riparo sotto la tettoria. Faccio velocissima, fuggo a prendere il mio zaino e poi ritorno da te» gli spiego mentre premo il dito contro il campanello accompagnato dal cognome Castellani.

«Muovi il culo. Tra poco mi spuntano le radici e i germogli» si lamenta manifestando finalmente irritazione per via dei jeans zuppi, fino all'orlo.

«Volo!», è l'ultima parola che pronuncio.

E dopo aver corso fino all'appartamento di mio padre, dopo aver riacciuffato lo zaino di scuola e aver salutato papà con il nostro saluto personale — un battito di pugni —, sfreccio alla velocità della luce fuori dal palazzo, ritrovando Diego esattamente dove l'avevo lasciato. Più bagnato di prima.

«Lo sai, vero, che prima di andare a casa tua dobbiamo passare da me per prendere le mie cose?» mi domanda Diego sollevando il sopracciglio, dicendolo quasi con un che di provocatorio. Suona come una missione che potrebbe definire la vita e la morte.

«Muoviamoci. Prima andiamo, prima arriviamo». Scuoto la testa roteando le pupille di fronte alla sua vena drammatica, infilando il casco per l'ennesima volta e sistemando lo zaino dietro le spalle.

«Tieniti forte, dea Atena» mi mette in guardia Diego e scorgo — si vede dagli occhi — un furbo sorrisetto sotto il casco mentre parla, «per sconfiggere l'ansia ci vuole anche una bella carica di adrenalina, giusto?».

Rimango lievemente perplessa mentre mi rimetto in sella dietro di lui, circondando la sua vita con le braccia in una stretta solida. «Ehm... giusto?» ripeto confusa, eppure ho già il sospetto di quello che Diego sta per fare.

Stando attento a non farselo rovinare dall'acqua, tira fuori dalla tasca del giacchetto il proprio cellulare e armeggia per qualche secondo prima di far partire a tutto volume una canzone.

Un altro dei gruppi preferiti mio, di Diego, di Marta e di Marco.

La canzone che ci accompagnerà per tutta la strada che avremmo percorso è "Cuore nero" dei Punkreas.

Un ritmo che ti fa venire voglia di cantarla praticamente sempre e un testo che mette i brividi. Una canzone che porta del sole anche in una giornata come questa, di pioggia.

Diego si rinfila il cellulare dentro la tasca, ma la musica si sente ugualmente e piuttosto bene.

«E ora tieniti forte!», è ciò che proferisce prima di rimettere in moto la sua fedele due ruote. E dopo aver sgassato per tre volte s'immette nella strada, "Cuore nero" che corre accanto a noi con spirito amichevole.

"Accendi la luce, sai che non mi piace
la pace che viene dall'oscurità.
Restare nel buio mentre ti torturo non mi basta più.
Voglio il tuo cuore nero".

Ed è l'ultima frase, un sussulto dentro di me, oltre il costato, dritto al cuore. Una freccia scoccata, che mai più ritornerà indietro e che andrà a segno. Non so perché, non so se sia normale, non so se dovrei avere paura, ma mi appare davanti il volto di Leonardo — i lineamenti felini, le iridi limpide e sadiche, sempre orpellate da quell'ornamento di noia scintillante, quelle labbra dannatamente perfette, come fossero state modellate dal migliore e più tormentato degli scultori, sembrano reali. Se allungassi la mano, flettendo le dita infreddolite, potrei sfiorare la bordura del suo zigomo.

E lui sorride con quella solita ombra altezzosa, quell'aria da divinità superiore — il nome di Apollo che affiora in ogni sua movenza — e piena d'orgoglio.

È voltato di spalle ma il capo è rivolto verso di me, come se mi stesse guardando.

Però non sono le labbra a preoccuparmi — a lasciarmi scie di brividi lungo la schiena —, ma sono le iridi, quel frammento d'oro lambito prima dalla luce e poi dall'ombra, che sembrano suggerire, ripetere, la frase stessa della canzone.

Perché questa canzone che conosco da una vita e che sto condividendo in questo esatto istante con Diego dovrebbe farmi apparire in testa quel grandissimo testa di cazzo? Per via della metafora, forse?

Ho sempre saputo di avere qualcosa di sbagliato, celato — incastrato — dentro di me, un qualcosa di rotto, come la finezza di un cristallo. Ne ho avuto persino la prova... ma fino a questo punto non credevo ci sarei mai arrivata!

Mi vedo costretta a dare dei ripetuti colpetti sulla spalla di Diego per ottenere la sua attenzione, «Accelera! Vai più veloce, ancora l'adrenalina non la sento!» urlo stringendomi di più contro di lui.





















Mentre saliamo i gradini per raggiungere il mio piano rimango in silenzio tombale, non sapendo cosa diavolo dire dopo quel pensiero infausto che, volente o nolente, mi ha accompagnata per tutto il resto del viaggio. Persino quando Diego si è fermato a casa sua per prendere le cose per dormire.

Preferisco trattenere gli orli delle labbra ben uniti l'uno con l'altro, preferisco la quiete al posto di qualche minchiata gettata all'aria — perché so che rifilerei sicuramente qualche cazzata immane in un momento di tensione come questo. Diego farebbe immediatamente due più due, non ci metterà chissà quanto a capire che ho qualcosa di strano a danzarmi nella mente.

Per cui scelgo il silenzio, perlomeno per adesso. Che poi... silenzio per modo di dire.
C'è un baccano assurdo a riversarsi per tutta la rampa delle scale del mio palazzo, da un'angolo all'altro.

Sembra il suono di... un aspirapolvere? Nessuno passa l'aspirapolvere per i gradini dell'abitazione, le pulizie — da quello che so — le facciamo a turno unicamente con scopa, straccio e spazzolone.

«Qualcuno sembra che abbia voglia di asciugarsi i capelli nel pianerottolo» fa notare Diego piuttosto stranito da tutto questo rumore.

«Dici che è un phon? A me pare un aspirapolvere» replico arricciando la fronte, dubbiosa.

«Dico che se è qualcuno con un phon allora farà bene a prestarmelo» proferisce l'altro con una serietà angosciante, aumentando il passo di marcia mosso dalla curiosità di scoprire di più.

Mi ritrovo a fuggirgli dietro per tenere la sua andatura; Diego ha le gambe più lunghe delle mie e se lui riesce a percorrere tre gradini per volta, io è un miracolo se riesco a percorrerne due.

E, alla fine, il nostro interesse viene subito spezzato appena posiamo le punte delle scarpe sul mio pianerottolo — esattamente al quarto piano, condiviso da me e mia madre, e dal signor Cornelio Terrazzani. È lui l'artefice di tutto questo baccano, e... a quanto vedo, v'è una non indifferente invasione di vecchi libri per tutto il pavimento. Aperti e oltremodo zuppi d'acqua.

Le pagine sono raggrinzite, quasi volessero far intendere che è arrivata l'ora di dire addio.

Il signor Terrazzani è seduto per terra, in ginocchio, con un phon stretto fra le dita — Diego aveva ragione — impegnato ad asciugare quelle povere pagine dall'aspetto terribilmente fragile.

Io e Diego rimaniamo a osservarlo per qualche labile istante, le iridi spalancate dallo stupore — la scena a cui stiamo assistendo è un qualcosa di magico e agghiacciante al tempo stesso. Cornelio è sempre stato un vecchietto eccentrico e simpatico, fuori dalla norma — deliziosamente perfetto nelle sue stravaganze —, ma questo è troppo persino per lui!

«Signor Cornelio» esordisco io ricordandomi l'esatto movimento delle labbra al fine di proferire qualcosa di logico, «cosa è accaduto per...» comincio a chiedere senza trovare, tuttavia, il termine che si addica a una situazione come questa. Mi limito a indicare quel tripudio di libri — adagiati come avessero bisogno di cure disperate — con il dito indice disteso.

Il viso di Cornelio Terrazzani, appena si accorge che non è più solo in quella catastrofe, viene illuminato dal fulmine di un sussulto, perdendo l'equilibrio precario e cadendo di lato, il phon che gli sfugge via dalla presa. Una mano solleva all'altezza del petto, proprio sopra il cuore, premendo quasi avesse visto uno spettro.

Una sensazione di rammarico e di sincero dispiacere, in me, non tarda ad arrivare.

«Diego, smettila di ridere» ringhio in un sibilo affatto cordiale, andando a rifilare una gomitata sulle sue costole. Non si ride dei poveri sventurati!

«Oh, non mi sarei mai aspettato... non avrei mai immaginato... caspita, non mi sarei aspettato nessuno prima delle sette» farfuglia Cornelio disorientato mentre ci osserva senza sapere su quale dei due sia più opportuno posare gli occhi.

Forse la prevalenza ce l'ha Diego, è a tutti gli effetti una faccia nuova, poco familiare, e un groviglio di dreadlocks rossi, piercing e vestiti bagnati la cattura facilmente l'attenzione. Ha tutta l'aria di un perfetto viaggiatore. Ma ciò non stupisce il signor Cornelio, abituato com'è ai miei ciuffi rosei e alle stramberie di mia madre.

«Ero da mio papà. Sarei dovuta tornare per cena, ma poi, fra una cosa e l'altra, ho invitato il mio amico e i piani sono cambiati» gli spiego rapidamente e indicando Diego.

Il signor Terrazzani, dopo aver elaborato le informazioni, porta le dita sino alla montatura sottile degli occhiali, sistemandoseli meglio sopra il profilo del naso, poi riduce in due fessure le sue lunghe e stanche iridi, da una tonalità blu marino che sembrano avere un fascio di chiarori tutto loro. Con fatica tenta di rimettersi in piedi e ciò mi fa scattare verso di lui per dargli una mano nonostante la sua statura decisamente sopra le righe... il caro Terrazzani vanta un'altezza di un metro e novantatré.

Quando ero piccola fui mossa da quella curiosità morbosa e petulante tipica di bambina, e lo misurai con il centimetro, arrampicandomi con singolare accortezza sopra uno sgabello. Naturalmente, il signor Cornelio si offrì di aiutarmi... ero troppo funghetto nonostante il mio ostinarmi a mettermi in punta di piedi sopra quel vecchio trespolo.

Ben più alto del metro e ottantotto di Diego.

«Ti ringrazio, dolce Matilde, sempre gentile. Ma credo fermamente che in caso dovessi perdere l'equilibrio faremmo una brutta fine entrambi, cadendo rovinosamente» espone con quella gradevole ironia nel frattempo che afferro il suo braccio per farmelo passare attorno alle spalle, «ad ogni modo, cambiando repentinamente argomento, credevo che quel giovane con i capelli a nido di merlo fosse il tuo fidanzato. Quando qualcuno sta vicino a quel modo significa una cosa sola...».

Ed è lì che Diego scoppia a ridere, trattenendo lo stomaco con i palmi delle mani, scavando con le dita oltre la stoffa del giacchetto.

«Io e Matilde fidanzati? Mio dio, era da un secolo che nessuno diceva una cosa del genere!» esclama divertito il ragazzo.

Dal terzo anno in poi siamo riusciti a sbrogliarla con sorrisi pazienti e infinita mansuetudine. E poi ecco che arriva il caro Cornelio a rivangare un passato dalla parvenza caustica ed esilarante!

«Mi spiace darle questo dispiacere, ma siamo solo grandi, grandissimi amici» faccio presente al signor Terrazzani sforzandomi di non mettermi a ridere, «e poi il mio amico è cotto di un'altra ragazza».

Dovevo dirlo.

«Nessun dispiacere, nessun dolore. Perché insieme come amanti non siete credibili per niente» ci sbatte in faccia la verità senza veli, «in ogni caso, piacere mio, ragazzo. Mi chiamo Cornelio Terrazzani, il vicino di porta della tua amica». E come un perfetto gentiluomo gli porge la mano, aperta e pronta per una calorosa stretta.

«Piacere mio, signore. Io sono... Diego Falco, l'altro nome non me lo ricordo ma posso assicurare che è strano e antico quanto Leonida. Sono un compagno di classe nonché migliore amico di Matilde». Diego accetta volentieri quella stretta amichevole, facendo ufficialmente la sua conoscenza.

«È bello alto, eh?» gli sfugge detto senza trattenersi dal rimirarlo da capo a piedi.

«Questi centonovantatré centimetri saranno la mia rovina fino alla morte. Un qualcosa di meraviglioso per le donne che stravedono per i colossi, un qualcosa di mostruoso per le altre persone. Sarò sempre un gigante ai loro occhi» confessa egli, sospirando.

«Io la reputerei una bella fortuna, invece. Il mio metro e ottantotto non è niente in confronto ai suoi» ribatte Diego con ammirazione.

Ma anche non avesse avuto in dono quelle gambe incredibilmente lunghe, Cornelio Terrazzani non sarebbe mai inosservato comunque. Ha l'aspetto di un uomo bello, forte — seppur con gli arti stanchi — e di classe. Gli angoli del viso, zigomi compresi, sono ornati di una folta, seppur curata, candida barba bianca. Gli occhi hanno un taglio allungato, delicato — la misura perfetta per compensare un naso troppo grande — e delle rare iridi con le sfumature di un vecchio mare che ha assistito a tante, tantissime burrasche.

I capelli, un tempo castano chiari, sono dolcemente canuti, lunghi quel tanto da portarseli dietro le morbide orecchie. Un signore distinto, unico se messo in mezzo a una folla di persone.

«Signore, che cosa è successo ai suoi libri?» chiedo spostando l'attenzione in quel triste tripudio di carta e parole.

«Una disdetta mista a una iella bella e buona!» esclama egli senza nemmeno pensarci, la voce venata di preoccupazione, «Volevo spolverare le mensole del mio salotto, mi è toccato togliere i vari soprammobili e i miei tesori più preziosi». E quando dice "tesori più preziosi" si riferisce ovviamente ai quei poveri libri. «Mi è venuta l'idea, col senno di poi rivelatasi pessima, di metterli all'aria, sul tavolo che ho nel terrazzo. Poi il vento ha cominciato ad alzarsi e l'acquazzone è arrivato in men che non si dica, tra capo e collo. È successo tutto velocemente, un paio di colpi di vento e le gocce sono precipitate verso il mio balcone. E ora eccomi qui. Intento ad asciugare pagina per pagina. Ma sono arrivato a un buon punto, sono quasi asciugate».

Parla dei suoi libri come fossero figli suoi, i figli che non ha mai avuto. C'è del dispiacere vero e sincero nelle sue parole.

«Come mai mademoiselle Rossini non è venuta di persona a lamentarsi?» mi viene naturale chiedere, arcuando le sopracciglia.

Mi sorprende che quella rompiscatole non si sia presa la briga di cacciare la sua appendice nasale fuori dalla porta.

«Quella donna ficcanaso... farebbe scappare a gambe levate persino il dittatore della Corea del Nord. Non è a casa la cara mademoiselle. Prima di iniziare il lavoro mi sono preoccupato di andarle a suonare il campanello. Nessuno mi è venuto ad aprire» m'informa con una nota di risentimento, oltre che una di furbizia.

«Magari è morta» butta lì Diego.

«Quella là è dura a morire, dammi retta» convengo io.

«Secondo me è immortale» aggiunge Cornelio.

«Comunque, visto che ha appena detto che i libri sono quasi del tutto asciugati, io e Diego potremmo darle una mano» chioso offrendoci volontari. In fondo è sempre un signore anziano, non importa se sia un gigante o meno.

«Non vi offendete se accetto? Sei mani sono pur sempre meglio di due» replica Cornelio grattandosi la nuca mentre si guarda intorno, analizzando il lavoro da fare.

«Assolutamente no, signore» si affretta a dire Diego, lasciando cadere a terra con un tonfo, reso più rumoroso a causa del riverbero delle scale, lo zaino di scuola e la piccola borsa contenente i suoi averi.

«Allora forza, cominciamo!» proferisco togliendomi la giacca di dosso, appendendola al pomello del mio portone di casa.

«Mi raccomando, siate delicati con i miei tesori» ci ragguaglia Cornelio prima di iniziare, apprensione palese è disegnata sui suoi zigomi.

Anche se non l'avesse detto, avrei riversato in quei libri tutta la delicatezza del mondo — le mie mani si sarebbero tramutate in minuscole ali di farfalla —, nutro un immenso e profondo rispetto verso coloro che contengono infiniti capitoli di cultura e di storia. Verso coloro che tramandano e non smettono di ricordarci un passato ormai perduto, oppure che non interrompono mai il farci immergere in mirabolanti avventure — esplorazioni di mondi sconosciuti e spericolate peripezie —, impossibili per noi comuni mortali.

Non sono da meno quelli che custodiscono con timidezza e amabile introversione versi d'amore, di passione e di occasioni non afferrate in tempo, trasformate poi in tormentate seppur toccanti poesie.

Non mi sognerei mai di far del male a dei libri, di trattarli come miseri pezzi di carta, privi d'anima pezzi di carta. Io so vedere cosa c'è dietro.

«Con noi è in una botte di ferro» lo rassicura Diego, dando voce al mio pensiero. E senza perdere altro tempo si china, chiudendo con cura le pagine raggrinzite e ruvide, impilandone quattro uno sopra l'altro.

Io lo imito e mi appresto a fare la mia parte.

L'appartamento del signor Terrazzani è già con la porta aperta, non credo si offenda se io e Diego entriamo senza chiedere il permesso.

«Non sono cotto di un'altra ragazza. Non raccontare balle» mi sussurra a bassa voce Diego a fior d'orecchio mentre varchiamo insieme la soglia del portone — talmente veloce che quasi mi reputo fortunata ad averlo sentito.

«Certo, ti credo sulla parola» dico con una piccola punta di malizia e il sopracciglio sollevato.

«È come dico io! Non sei dentro la mia testa» insiste egli dopo avermi sorpassata.

«Peccato che tu esterni quello che hai dentro la testa in maniera piuttosto evidente. Devi stare più attento, Dieghito» gli faccio presente senza credergli minimamente.

E dopo aver lasciato volare via dall'orlo delle labbra l'ultima parola, mi fermo sulle mie stesse gambe. Non sto ad ascoltare nemmeno la battuta di Diego dopo la mia — come se avessi abbandonato temporaneamente lo scheletro del mio corpo, inalberandomi su, nell'aria, assieme al pulviscolo filtrato dal fievole brillio dei lampadari. La meraviglia che mi circonda mi ruba dai miei pensieri.

Non ricordavo fosse così affascinante la bellezza dell'appartamento di Cornelio, che avesse uno splendore tutto suo, unico.

Il che è davvero strano... da piccola ero solita a far visita a lui e a sua moglie, e quando mia madre doveva scappare al lavoro, i due non vedevano l'ora di accudirmi considerandomi una nipotina a tutti gli effetti. È assurdo che non mi ricordi di niente di questa abitazione — o forse ero troppo ingenua e troppo "bambina" per poter apprezzare.

Adesso che ho diciotto anni non posso fare a meno di rimanere incantata da questa antica delizia che si espande sotto le mie iridi, e sotto un cuore che sussulta dall'eccitazione.

Uno scuro parquet in legno di ciliegio, lucidato con cura e tenuto in perfette condizioni si amplia sotto il mio rimirare allietato. Alle pareti si accrescono fogli di una carta da parati dalle sfumature scure e dagli armoniosi orpelli dorati, infiorettature di rose e foglioline che vanno a rimembrare l'epoca vittoriana. Le applique dai lunghi motivi ornamentali color bronzo formano un connubio sublime.

E i mobili... i mobili mi ricordano irrimediabilmente i boschi dove vive mia nonna Fauste, su, nella montagna più selvaggia.

Più che un appartamento sembra un museo, uno splendido museo.

Con i soprammobili ottocenteschi, posate in argento e cornici brunite lustrate con amore. Il cuore continua a vibrare dentro il mio petto, refoli di respiro abbandonano il rivestimento dei polmoni senza che io riesca a controllarli. Sento gli occhi illuminarsi dalla gioia e pizzicare — pizzicare di un qualcosa che si avvicina alla felicità.

Persino Diego lo vedo preda delle mie stesse sensazioni, anche lui si è fermato a metà corridoio per poter ammirare la bellezza di questo posto.

«Prego, non siate timidi, entrate». Ci riporta alla realtà Cornelio, entrando anche lui con fra le mani qualche libro salvato da una tragica fine.

«Non ricordavo che lei avesse una casa così bella» mormoro con voce lieve, riprendendo a camminare.

«È la casa di un vecchio che ha ormai valicato la soglia degli ottanta. Ci somigliamo» chiosa l'anziano con una risatina armoniosa.

Ma se questo corridoio è bastato a impressionare me e Diego, quando varchiamo la soglia del salotto siamo costretti a riprendere fiato — a ricordare come si respira.

Rimango senza fiato al cospetto del suo grammofono d'ottone, con accanto due poltrone bergere intagliate in mogano e dai cuscini verdi e dorati dagli ornamenti floreali, carezzati da tenui colori, e dal tavolino rotondo sul quale è poggiato l'apparecchio per ascoltare la musica. Ho quasi un mancamento quando mi soffermo sull'effigie dei vari vinili impilati vicino al grammofono, in maniera deliziosamente disordinata.

Diego rimane incantato dalla collezione di pistole francesi del '700, riposte con estremo ordine dietro una grande e bella teca di vetro dalla forma rettangolare.

Come ho detto, sembra di essere entrati in museo senza aver pagato il biglietto.

Tutti questi oggetti hanno un valore inestimabile, sarei pronta a giurarlo — Cornelio e sua moglie dovevano essere oltremodo appassionati di oggetti e mobilia d'antichità, si nota la raffinatezza e una minuziosa ricercatezza.

Dopo venti minuti di avanti e indietro dal pianerottolo all'appartamento del signor Terrazzani, riusciamo a riporre con precisione e scrupolo ogni libro al medesimo posto. Asciugati e privi di tracce d'acqua, come se quella disgrazia non fosse mai avvenuta. Tutto è ritornato alla normalità, almeno in apparenza.

Io e Diego siamo pronti per andare a casa mia quando Cornelio, seduto su una delle due bergere con aria affaticata, ci interrompe schiarendosi volutamente la voce.

«Vi ringrazio enormemente per la vostra gentilezza, nell'esservi offerti come aiutanti» enuncia con straordinario garbo, «ma i ringraziamenti a parole servono a ben poco in certi contesti. Per cui, insisto affinché vi scegliate una qualsiasi cosa di questa stanza, io ve la regalerò».

Diego, accanto a me, per poco non si strozza con la sua stessa saliva.

«Signor Cornelio, lei è davvero generoso, troppo di buon cuore. Non potremmo mai accettare, anche perché il nostro aiuto è stato niente e poi siamo stati noi a offrirci volontari. Non volevamo assolutamente nulla in cambio» mi appresto a dire cercando di non balbettare per via dello stupore a intridere l'arcata dei denti e le parole stesse.

«Matilde ha ragione. Qui la ricompensa supera di gran lunga il lavoro!», mi viene incontro Diego.

«Insisto. Al giorno d'oggi i giovani volenterosi e buoni d'animo sono sempre meno. La pochezza, la cupidigia, la povertà morale e di generosità, i cuori di pietra, lo scetticismo, l'incuranza... piano piano stanno divorando questo mondo, oscurando ciò che conta davvero. La vostra prodigalità insieme alla mia non faranno altro che bene a questa realtà. Dobbiamo far sì che la gentilezza non muoia, dobbiamo farla prosperare. Pertanto, vi ripeto di scegliervi un oggetto qualsiasi e sarà vostro, ve lo cedo volentieri. Le uniche cose non cedibili, ovviamente, sono la mia gatta Virna e il mio grammofono. Ci sono attaccato più di quanto vorrei» espone con voce melodiosa Cornelio, come se stesse narrando una novella a due persone che non sanno, una piccola risata alla fine viene ad allietare.

Solo adesso mi viene da scorgere Virna accoccolata sopra la dormeuse, poco più in là.

Il discorso mi entra talmente tanto dentro, nel profondo dell'animo, che non riesco a dire di no. Le parole di Cornelio sono state troppo appassionanti e troppo vere.

«Va bene». Annuisco con rispetto, guardandomi intorno, cercando un oggetto di piccole dimensioni. Non voglio approfittare più del dovuto della sua gentilezza.

La ricerca però non dura molto, perché la mia attenzione si sofferma sulla pila di vinili sopra il tavolino.

Musica. La musica è un qualcosa che sono disposta ad accettare senza riserve. E poi a casa anche io ho un lettore adatto per i vinili — non antico quanto quello che ho davanti, diciamo più anni Ottanta.

Mi accosto al tavolino e mi metto a rovistare fra quelle chicche, passando in rassegna la più vasta gamma di musica classica mai vista prima — delizia per gli occhi. Finché non arrivo al vinile secondo me perfetto e fatto apposta per la sottoscritta.

La scritta in grassetto nera mi guarda come a urlarmi "Scegli me!".

Fabrizio De André - volume III. In questo momento sono una gazza ladra al cospetto della corona della regina.

«S-signore, v-vorrei questo se non lo dispiace separarsene» balbetto senza controllo, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso.

«È tuo, cara signorina». E mi dà una delle gioie più belle della vita. Vorrei mettermi a urlare dalla felicità, ma mi trattengo e mi limito a fare un piccolo saltello.

«Signor Cornelio, questa fotografia è bellissima, soprattutto il soggetto. È un problema se scelgo questa?» interviene Diego, che nel contempo si è recato verso un trumeau veneziano in legno laccato pieno di soprammobili dall'aria fragile e preziosa, e di cornici con fotografie in bianco e nero.

Ricordi di tempi che furono.

Cornelio Terrazzani si alza dalla bergere lentamente, l'intenzione di andare verso il mio amico e dare un'occhiata a ciò che ha scelto. Prima di parlare rimane in rispettoso silenzio qualche secondo e poi emette un lungo sospiro malinconico.

«La giovane donna immortalata in questo scatto fugace era la mia adorata moglie, nel fiore della sua giovinezza. La mia splendida e dolce Eloisa. Per quanto io sia consapevole che sia morta non riesco a distaccarmi nemmeno della sua più piccola foto. L'attaccamento alla sua memoria è troppo grande affinché io possa separarmene» spiega cercando di non lasciarsi soggiogare dalle carezze di reminiscenze passate, commoventi e dolci... e troppo distanti.

«Allora rinuncio senza aggiungere altro» fa Diego con accondiscendenza, «sua moglie era proprio di una grande bellezza» si complimenta riguardando la fotografia che ritrae la donna, quasi ragazza, dai capelli sicuramente biondi visto che sono di una sfumatura nivea.

L'acconciatura è un richiamo a quella che portava Marilyn Monroe, i ricci meno accentuati.

Gli occhi hanno un taglio felino — e se sanno addirittura rapirti da uno scatto privo di colori, non riesco a immaginare che cosa sarebbero stati capaci di fare dal vivo.

«Bella e dall'animo buono quanto peperino. Il suo carattere compensava l'aspetto, contando tutti gli uomini che gli facevano la corte» ridacchia al pensiero Cornelio, «ad ogni modo, puoi scegliere tranquillamente qualcos'altro».

«Che ne dice di questa nave in bottiglia?». E Diego mette in mostra il ninnolo che era riposto accanto alla cornice di Eloisa.

«Dico che è tua».

«Abbiamo un accordo, allora» pronuncia l'altro mentre gli porge la mano.

«Ehm... Cornelio, le posso fare una domanda?», mi viene all'improvviso in mente una cosa che da tempo avrei voluto chiedergli.

«Come no» risponde.

«La conosco da tempo, lei ha un udito impeccabile. Ma allora perché quando ascolta la musica la mette tutta ad alto volume? La mia è semplice curiosità, non fraintenda».

«Ma è ovvio. La musica quando si ascolta va ascoltata al massimo delle sue prestazioni, altrimenti non la si gode del tutto», è la risposta che mi fa spuntare il sorriso.

Una volta usciti dall'appartamento-museo, dopo aver infilato le chiavi nella serratura, mi viene naturale fare un'osservazione.

«Le persone ciniche che non credono nell'amore dovrebbero rivalutare le proprie ideologie di vita. Perché basta guardare uno come il signor Terrazzani e capire che l'amore vero c'è e non smetterà mai di esistere, nemmeno dopo la morte. La cazzata del "finché morte non vi separi" è solo una trovata pubblicitaria, secondo me».





















Prima di andare a dormire — dopo aver cenato, una meritata doccia calda e aver messo il pigiama —, io, Diego e la mamma ci riuniamo nella mia camera per fare quattro chiacchiere in compagnia. Adele è stata più che contenta nell'avere Diego come ospite a cena e a dormire.

Discutiamo soprattutto delle votazioni di domani, fa bene sia a me che al mio amico parlarne, ci fa quietare il senso d'ansia che ci opprime inesorabile.

«Se dovessi vincere ho intenzione di festeggiare Halloween nel migliore dei modi. Mi devasto come non ho mai fatto prima» dichiara Diego battendo un pugno sopra le coperte del mio letto, facendo un tiro dalla sigaretta che sta fumando.

«Occhio a non farti prendere la mano. Dal "devasto" al "morire" il passo è breve» conviene mia mamma dando l'ultimo morso alla mela del dopocena.

«Gliela gufi bene, eh?», scuoto il capo senza speranza.

«Stai pur certa che se qualcosa accade non è sicuramente perché gliel'ho gufata io, Matilde. Siamo tutti e tre troppo intelligenti per credere a queste scemenze da paesello» afferma la mamma facendo spallucce e portandosi dietro le orecchie i ciuffetti bruniti dei suoi capelli da folletto sempre in preda a una psicosi.

«Non me la prendo» rassicura Diego con un gesto della mano.

Intorno alle undici decidiamo di andare a dormire, la stanchezza dettata dallo svegliarsi sempre presto, dalla scuola, dal pomeriggio burrascoso sotto l'acqua e dalla piccola fatica prima di cena inizia a premere contro le nostre menti.

Entrambi ci ficchiamo sotto le coperte senza riuscire più a nascondere gli sbadigli sempre più evidenti; il mio letto è abbastanza grande per tutti e due — non è la prima volta che ospita Diego, per non parlare di Marta. E anche le varie amiche — se così si possono definire — che ho avuto nel corso degli anni oramai andate, dimenticate.

«Sai, Diego, se tu non fossi il più grande amico di mia figlia sarei andata a letto preoccupata» ammette Adele prima di spegnere la luce.

«Tranquilla, mamma, Diego ha già qualcuna fra i suoi pensieri» la tranquillizzo con il pollice alzato.

E stavolta, da parte di Diego, c'è solo silenzio.























La mattina seguente non veniamo svegliati dal suono della sveglia, ma da un delizioso e familiare profumo di cornetti cotti al forno. Che carezza con gentilezza e fa sollevare i veli delle palpebre dolcemente, annullando la parvenza di sonno piano piano. Io e Diego ci destiamo con quella meravigliosa persuasione di una ricca colazione, sovrastando oltremodo la visione morbida e celestiale di un letto caldo.

Entrati in cucina mi viene voglia di benedire mia madre — responsabile di queste sorprese improvvisate e che lasciano il primo petalo di gioia della giornata. Mi avvicino a lei, trattenendo uno sbadiglio e stropicciandomi gli occhi con le dita — Adele è ancora in pigiama e impegnata a sfornare la teglia di cornetti —, e le disegno un bacio sull'orlo dello zigomo. Soffice come la sfoglia di quelle brioches.

«Buongiorno, madre», è un saluto colmo di beffardo e simpatico riguardo il mio.

«'Giorno, giovani. Efficiente la sveglia dei cornetti, eh?» ricambia il mio buongiorno facendoci l'occhiolino, reggendo quel gioco di finta e antica cortesia.

«Dovrebbero brevettarla come sveglia ufficiale» conviene Diego mentre si siede alla tavola, già ornata con tovagliette, tazze, cucchiai e tovaglioli. Un'incantevole colonna di barattoli di marmellate dà colore in tutta quella semplicità che io chiamo famiglia — la mamma, il mio migliore amico e la dolcezza di una colazione sono il sinonimo perfetto.

«I cappuccini sono già nelle tazze. I cornetti sono vuoti e sulla tavola c'è la crema alle nocciole, la marmellata ai frutti di bosco, all'albicocca e al lampone. Non vi resta che scegliere e buon appetito» spiega Adele poggiando con delicatezza il vassoio bollente sopra una pila di presine a scacchi.

Diego sceglie senza pensarci la crema alle nocciole, stringendo il barattolo con fare possessivo e svitando il tappo, io acciuffo quello con l'albicocca e la mamma quello ai frutti di bosco.

«Propongo un brindisi. Alle elezioni di stamattina, alla vostra vittoria» propone quest'ultima alzando il cornetto paragonandolo al miglior bicchiere di spumante.

«Alle elezioni di stamattina e alla nostra vittoria» ripetiamo io e Diego insieme, unendoci di buon cuore a quel cornetto-brindisi di fortuna.

Il cielo di questo mattino è, contro ogni aspettativa, privo di nuvole erranti — libero da ogni costrizione — e il sole brilla su dall'alto di quel regno così lontano, baciandoci con dei bagliori lievi, quasi avesse paura di manifestare troppo calore. Se non altro non sembra voler piovere e non avremo nessuna difficoltà ad andare a scuola con la moto di Diego.

Quando arriviamo al Caravaggio troviamo ad accoglierci uno di quei baccani che non avvengono tutti i giorni.

È palese che questa sia una giornata importantissima e di rilievo.

Dopo aver parcheggiato la motocicletta al solito posto, io e Diego ci accostiamo all'ingresso e, man mano che la folla si fa sempre meno distante, finalmente riusciamo a comprendere le parole che spiccano il volo dalle labbra degli studenti.

Metà fa il tifo per Leonardo, urla di giubilo invocano il suo soprannome — "dio Apollo" ripetuto all'infinito. L'altra metà fa il tifo sia per me, che per altri candidati, come è giusto che sia.

Insomma, la rivalità e l'entusiasmo si stanno facendo sentire senza filtri e mezze misure, senza paura. Domani avremo in via del tutto ufficiale gli otto Rappresentanti d'Istituto e i quattro della Consulta. In un contesto del genere un caos come questo è più che giustificato, nessun professore ha il diritto di potersi opporre.

Nemmeno cinque minuti e Marta e Marco emergono da quel brusio di persone e ci vengono incontro, aiutandoci a farci entrare in mezzo a tutto quel trambusto.

«Okay, da quello che sono riuscita a capire è che le schede verranno distribuite nella seconda ora. Sia quelle dei Rappresentanti d'Istituto, Consulta e di Classe. Tre piccioni con una fava» c'informa DarthMart mentre saliamo le scale per raggiungere il nostro piano e andare in classe.

E, senza volerlo, senza aspettarmelo minimamente, a metà strada vengo colta da un tremolio di panico e tento di cambiare direzione per tornare indietro. Indietro, chissà mai dove...

«Devo fumare una sigaretta e ascoltare "Rock the Casbah", altrimenti do di matto» mugugno lasciando che Diego e Marco mi avvolgano le braccia per fermarmi.

«Oh no, è peggio se vai fuori con tutto quel casino. Rischi di farti prendere dal panico più totale. Ora andiamo in classe, ci sediamo e facciamo qualche esercizio di respirazione», si oppone Marta con delicata premura e preoccupata per me.

«Ci andiamo all'intervallo a fumare una sigaretta» mi rassicura Marco, quasi fossi una bambina da consolare.

«E puoi ascoltarti "Rock the Casbah" anche in classe» aggiunge Diego con un occhiolino.

«Non è la stessa cosa», dalla bordura delle mie labbra altro non esce che un lamento di morte.

«Tranquilla, Mats, è solo per oggi» mi tranquillizza la mia amica intrecciando le mie dita alle sue, quelle della mano sinistra, quella priva di fasciatura.

«Voglio uccidere Leonardo» piagnucolo con le gambe che iniziano a vibrare di liliale angoscia.

«Quello lo puoi fare tutti i giorni. Quando ti pare e piace» asserisce Diego — un miracolo che non abbia perso il suo sarcasmo.






















Un respiro.

Devo respirare.

Ormai ci sono.

Eccomi qui. La scheda elettorale scolastica, con su stampati i nomi di tutti i candidati del liceo Caravaggio, stretta fra le mie dita scosse dai tremiti — forse, ora di euforia.

Indirizzo Artistico e indirizzo Classico.

I fogli, suddivisi in Rappresentanti d'Istituto, Consulta e di Classe, sono tagliati in una forma rettangolare precisa; le varie identità scritte in grassetto, nero su bianco, un quadratino vuoto accanto a ogni nome.

Le dita continuano a fremere, la penna che non rimane in equilibrio neanche per un secondo. Devo ricordarmi di respirare.

La classe è sprofondata in un silenzio irreale mentre compila la propria scheda di votazione.
E soltanto adesso mi rendo conto di quanto sia effettivamente complicato scegliere a chi dare il mio voto.

Per correttezza ho preso la decisione di non autovotarmi — non sono incline a fare questo genere di cose. Quindi mi costringo a leggere una seconda volta la prima scheda, quella dei Rappresentanti d'Istituto, quella in cui vi sono iscritta anche io. Occorre un'attenta e corretta considerazione.

Ricomincio con l'indirizzo Artistico, la mia fazione, i miei alleati.


INDIRIZZO ARTISTICO
Thalìa Obi Malek (5°F)
Sofia Palumbo (5°D)
Jeanine Bonham (5°F)
Christian Tortoioli (5°F)
Valentino Nori (5°F)
Diego Falco (5°D)
Matilde Castellani (5°D)
Beatrice Melillo (5°E)



Senza neanche rifletterci chissà quanto, due dei miei quattro voti vanno a Thalìa e a Diego.

Poi decido di far ricadere la mia scelta su Jeanine Bonham — il terzo voto. Infine, il mio quarto e ultimo voto lo assegno a Valentino Nori, che ha il dono di una personalità forte e risoluta, adatta a fronteggiare i nostri rivali del Classico.

Ma adesso viene il bello... adesso mi tocca infilare il dito nella piaga e scegliere chi votare di quelli del Classico, scegliere con cura fra i miei nemici, scegliere il male minore.


INDIRIZZO CLASSICO
Leonardo Aspromonte (5°A)
Elettra O'Connor (5°B)
Tatiana Rosati (5°B)
Midorin Ayasaka (5°A)
Giulio Viviani (5°A)
Camillo Bernardeschi (5°A)
Letizia Ilardi (5°A)
Isabella Granieri (5°A)


"Col cavolo che voto Leonardo e Camillo Bernardeschi!". Addirittura ho l'impulso di cancellare il nome del faccia da cazzo con il bianchetto... Camillo mi sta antipatico quasi alla stessa maniera di Aspromonte, quindi aboliti entrambi dalla lista.

Midorin, al di là che frequenta l'indirizzo nemico, mi sembra una ragazza solida e con la testa sulle spalle, che sa usare la serietà al momento opportuno.

Potrebbe essere il mio primo voto per il Classico... infatti, la scelta vola sul quadratino accanto al suo nome.

Abolite anche Isabella Granieri e Letizia Ilardi — non mi viene dal cuore di donargli la mia scelta. Quindi il campo si restringe e mi vedo indirizzata verso Elettra O'Connor, Tatiana Rosati e Giulio Viviani. Non nutro niente in particolare verso di loro, rimangono solo i meno peggio da votare.
E con l'amaro in bocca, disegno una croce vicino ai loro nomi.

Infine, tirando un sospiro liberatorio — i polmoni che si rilassano contro il costato, sfiniti —, piego la scheda e passo alla successiva, quella della Consulta. Più facile da sopportare.


INDIRIZZO ARTISTICO
Ang Louis Xhion (5°F)
Annalisa Santi (5°F)
Marco Esposito (5°D)
Marta Brunori (5°D)


E qui la scelta su chi votare è anche fin troppo semplice. Come Zorro, faccio il segno della scelta sul nome di Marco e Marta, e anche questa la ripiego in due e la metto da parte per passare a quella del Classico.


INDIRIZZO CLASSICO
Tabita Marioli (5°B)
Giordano Borghetti (5°C)
Chiara Sordini (5°B)
Bruno Loia (5°C)


Fra questi quattro, ahimè, scelto letteralmente a caso, quasi a occhi chiusi. Disegno uno scarabocchio su Chiara Sordini e Bruno Loia, senza sapere se sto facendo bene o male. E ora rimane solo la terza e ultima scheda di votazione. I Rappresentanti di Classe.


RAPPRESENTANTI DI CLASSE 5°D
Marco Esposito
Sara Signorelli
Rainer Kernberger
Dorotea Balestrieri
Veronica Montale


Marco si è segnato anche nella lista dei Rappresentanti di Classe, secondo lui non vincerà quella della Consulta e dice che se deve svolgere un compito — rendersi utile —, lo fa volentieri anche se in piccolo.

E il mio ultimo voto va a lui e a Veronica, naturalmente.

Dopo aver richiuso anche la terza scheda, mi alzo dalla sedia senza far rumore per andare a infilare nell'urna di cartone tutti e quanti i pezzi di carta che andranno a determinare il futuro del Caravaggio. Perlomeno per questo anno.

Le schede dei Rappresentanti di Classe, messe in una scatola a parte, vengono aperte appena tutti hanno finito di votare. La professoressa di storia, Livia Occulti, comincia a leggere ad alta voce i nostri voti, facendo il conteggio degli eventuali vincitori.

Dopo dieci minuti è ufficiale che i due rappresentanti vincenti di classe sono Marco Esposito e Veronica Montale. Quindi, essendo loro che rappresenteranno la nostra classe d'ora in poi, nel pomeriggio saranno presenti allo sfoglio delle restanti votazioni.

Sia io, che Diego, che Marta ordiniamo a Marco di metterci subito al corrente una volta saputo il risultato — tecnicamente sarebbe come barare visto che avrebbero fatto l'annuncio ufficiale il giorno seguente.

Ma per un volta non muore nessuno se s'ignora le regole, no?

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