8. Questione di etica e di empatia



















Mi soffermo a osservare la mia mano dolcemente avvolta dalla benda color avorio per dieci secondi buoni, aggrovigliata dalle dita di Ludovico. Un gesto che si sta trasformando in qualcosa di istintivo — la guardo cercando di comprendere, recepire come sia potuta accadere una cosa del genere; un briciolo di lieve incredulità mi si disegna sugli zigomi, andando a corrompere le forme degli occhi.

Le distese e ruvide dita di Ludovico attecchiscono sulla pelle del polso, trattenendolo fermo — quasi avesse il timore che sia colto da tremolii incontrollati — in maniera da averlo sotto le sue pupille accese di interesse, cercando una spiegazione a quella ferita coperta e tenuta volutamente lontana da sguardi indiscreti.

Egli rimane ammutolito, il contorno della bocca che non accenna a volersi muovere. Non proferisce alcuna considerazione: non commenta né sul fatto che abbia tirato un pugno frantumando uno specchio, né sul fatto che l'avrei fatto tecnicamente per via di un ragno.

Di tutto mi sarei aspettata, avrei atteso qualsiasi osservazione con fare cheto, avrei addirittura tollerato una risata, di quelle colme di beffa, quella celia che normalmente farebbe perdere il controllo delle proprie azioni.

Invece nulla. Solo silenzio, assenza di voce.

Il ragazzo nuovo continua a restare silente, le parole bloccate dietro quel muro impenetrabile quale le sue labbra puntate, rigido granito.

È talmente prodigato a rimirare quel tripudio di bende e bugie, arricciando l'incarnato della fronte e modellando le sopracciglia in un cipiglio truce, una parvenza che lascia intuire taciturna curiosità — quel tenebrore sfuggente, difficilmente decifrabile. Finché non allenta la presa, lasciando la mia mano sospesa all'aria, finché non mi fa intendere di essere pronto per dire qualcosa.

«Anche io mi sono fatto la stessa cosa. Quasi» proferisce lasciando trapelare una serietà che mi fa vacillare, gli occhi foschi che si rivolgono di nuovo sopra al mia effigie, sopraffacendomi per labili, laconici istanti.

E ne rimango turbata — i tendini che s'increspano sotto l'epidermide, i brividi che si divertono a rincorrersi lungo la linea della schiena —, perché a questa onestà innata, questo togliersi sin da subito la maschera di inganni e illusioni di un qualcuno che conosco a malapena, proprio non ne ho la confidenza.

«Accadde al quarto anno, credo... mio padre venne convocato per l'ennesima volta a scuola per via dei miei voti e della mia condotta pietosa. La sera, a casa, mi fece sedere sul divano e iniziò la più lunga ramanzina che abbia mai fatto. Mi sono fatto prendere dalla rabbia. Ho spaccato il telefono di casa, ricordo, strappando via anche il filo. Ma non mi sentivo soddisfatto e ho tirato un gancio destro contro la teca dell'argenteria di mia mamma. Ci ho infilato tutto il braccio e il risultato è stato un mare di sangue, e un lungo e profondo sfregio sull'avambraccio» racconta Ludovico con fare conciso, senza sprecarsi in dettagli inutili. Racconta la vicenda ormai intrecciata al passato e mai il tono che s'incrina, mai un segno di flebile risentimento o pentimento.

Infine, si arrotola la stoffa colorata della camicia sino all'altezza del gomito e mi fa vedere. Mi mostra la prova inconfutabile che tutto quello che ha detto è vero.

La bellezza crudele di una cicatrice si estende per tutta la lunghezza dell'avambraccio — marchiandolo a fuoco per l'eternità —, imprecisa e irregolare.

L'imperfezione dell'atrocità e dell'irruenza.

È di una sfumatura violacea, decisamente sbiadita, l'incisione dello squarcio in rilievo e di un'inesorabile disarmonia con il candore della sua pelle. Ed è sicuramente un taglio peggiore di quello che mi sono fatta io.

Lì si vede con chiarezza il percorso compiuto dalla punta affilata di un vetro scheggiato, si vede che ha lacerato in profondità, si vede quanto vi sia stata iniettata nera sofferenza e innegabile tribolazione.

Rimango stupita. Non tanto per osservare senza ritegno quel vistoso sfregio e non tanto dall'ipotizzare a quanto sangue possa aver perso Ludovico; la mia sorpresa è scatenata dal fatto che anche lui, come me, ha problemi a gestire la rabbia. Una lotta senza fine.

Ludovico non si fa spaventare dalla probabilità che potrebbe farsi male colpendo qualcosa, sfogando frustrazione sugli oggetti. Sa che una volta che si è esplosi non si può tornare indietro, e l'unico modo per spegnersi è soltanto quello di ridurre in pezzi qualcosa, al fine di ridurre in pezzi noi stessi. C'è dell'incanto smisurato, ineguagliabile, a vedersi circondati di frammenti di noi. Sentirsi spezzati.

Non sono la sola, e lui non è l'unico... forse è sbagliato, ma mi fa sentire quasi confortata.

Travolta e scossa da un'immensa ondata di empatia verso i suoi confronti, decido di invitarlo fuori a fumare in compagnia del mio gruppo. Fregandomene, oppure dimenticandomi, dei dubbi di Diego su di lui.

«Ti va di venire fuori a fumare con me e i miei amici?» muovo le labbra liberando le parole che vi erano imprigionate.

Ludovico si ricopre l'avambraccio, nascondendo di nuovo la sua vecchia ferita di guerra, e poi fa spallucce. «Okay, tanto prima di incontrare te ci stavo comunque andando. Mi è indifferente la compagnia» replica senza mostrare emozioni utili alle rigidi regole delle convenzioni sociali, come gioia o gratitudine.

Ma non ne rimango ferita o offesa — lentamente, senza fretta, sto inquadrando Ludovico Auditore e lentamente sto capendo quello che si potrebbe annidare fra l'intrico dei suoi pensieri.

Annuisco, e senza pronunciare qualcosa di troppo lascio che la sua presenza scivoli accanto a me, in silenzio.

Con lui al mio fianco vado all'esterno della scuola, uscendo fuori e accogliendo con gratitudine i bagliori del sole — troppo freddi per poter rinunciare al tepore del giacchetto. Il brusio dell'intervallo è acuto, paragonabile al ronzare di miriadi di piccoli insettini, e ti scava nell'incoscio senza chiedere il permesso. Come gesto insito, i muscoli che si flettono quasi che neanche me ne accorgo, libero i ciuffi rosei dal confine delle orecchie, e li lascio cascare con delicatezza oltre la bordura degli zigomi, mi lascio rivestire da un fittizio scudo di protezione.

Ludovico estrae da un pacchetto quasi giunto alla sua fine una Marlboro rossa, portandosela a fior di labbra, e, tenuto fra le dita pronto per l'uso, un accendino.

Ha tutta l'aria di non temere niente e nessuno. Confinando in un angolo remoto, buio, le conseguenze che ogni azione portano incatenate a sé.

Una volta superata la grande porta d'entrata, ci mescoliamo al groviglio di studenti intersecati con cura esemplare a una coltre di fumo da sigaretta e alla tipica bruma ottobrina — alcuni impegnati a spiluccare le loro brioches e le loro pizzette, altri impegnati a farsi i drum e altri ancora alle prese con la seconda sigaretta di fila. Altri in guerra con se stessi e con i loro calchi di finta autenticità a premere sui volti.

Uno sfavillio di tenera giovinezza e di cordiale titubanza, piccole sbeccature di quella scultura quale l'adolescenza — ciclo troppo dolce e troppo amaro per poterlo sopportare con acume e trasparenza.

Ciò mi fa ricordare che anche io devo fare merenda e consumare quell'invitante fetta di crostata alla marmellata di fragole.

Apro il sacchetto che la avvolge, beandomi del dolce profumo, e ne prendo un morso, masticando a bocca chiusa, pulendomi l'orlo della bocca con il polpastrello dell'indice. E mentre mi godo quel sapore così sublime e delicato — le forze che tornano a rinvigorire i miei arti infreddoliti — le mie iridi scorgono finalmente ciò che stavano cercando con ardore pochi minuti fa.

Leonardo è a fumare assieme al suo gruppo sotto uno dei rigogliosi alberi del cortile. Come se non bastasse, mi arriva all'udito con perfezione liliale lo spettegolare delle sue impetuose adoratrici.

«La notte scorsa l'ho sognato. Ho sognato il dio Apollo. Ma non eravamo fidanzati. Lui era in piedi sopra un piedistallo, come una statua, e io ero inginocchiata per terra che lo guardavo con la bava alla bocca».

«Beata te che l'hai sognato, io sono costretta a pensarlo, nei sogni non mi appare mai! Se non altro, nella mia mente comando io e m'immagino ciò che voglio».

«Accidenti a quella Olivia del cazzo, quanto vorrei essere al suo posto...».

«Questo è il mio primo anno al Caravaggio e ho la fortuna di potermi godere la visione del dio Apollo... e poi mamma dice che sono sfortunata in amore!».

Addirittura preferirlo a Leonardo Di Caprio? Ma stiamo scherzando? Qui qualcuno ha bisogno di rivedere le proprie priorità!

Mi sento oltremodo cattiva a ponderare queste malevolenze, perché sono stata una ragazzina ingenua e un'adolescente frivola anche io. Come biasimare quelle che ora sono ciò che fui io stessa...

Ma è una cosa più forte di me — perché il soggetto in questione è proprio la persona per cui nutro l'odio più scorticante e profondo. Logorante.

Sì, preferisco dare la colpa a lui e non alle ragazzine più piccole. Loro sono giustificate. E penso si sia notato quanto tenga particolarmente all'etica.

Tuttavia, nemmeno l'etica è capace di farmi svanire, come la nebbia che ci avvolge, lo sguardo tagliente che riverso senza rimorso sulla figura di Leonardo, voltato di spalle. E questo particolare non sfugge a Ludovico nonostante sembri immerso nel suo mondo a parte, lontano dal mio.

«Non ti sta simpatico per un cazzo quel signorino, eh?» domanda guardando a sua volta nella stessa direzione in cui guardo io.

«Si nota tanto, Ludovico, eh? L'unico rapporto che mi lega a lui è solo l'odio puro, e faresti meglio a odiarlo anche tu visto che ora fai parte della fazione maledetta. Ora sei un nemico a tutti gli effetti per lui e per i suoi discepoli» rispondo beffarda con un sorriso che mi contrae la pelle delle labbra tanto da farmi male, affatto sincero — distogliendo con stizza e liberazione lo sguardo dalle spalle del signorino.

«Se ti dovesse creare qualche problema me ne occupo io» asserisce il ragazzo gigante tirando una boccata di fumo dalla sigaretta, gettandolo fuori velocemente.

Mi sfugge una risatina appena sento la sua frase — un'armonia spontanea e per niente farsesca, «Credimi, non saresti l'unico che si vorrebbe occupare di lui» lo consolo sollevando un sopracciglio, facendo ovviamente riferimento a Diego.

Ora che siamo quasi arrivati dinanzi alle scale anti-incendio posso intravedere con facilità i suoi capelli annodati in un rovo di dreadlocks, e le sue iridi grigie — corolle di lune — si allargano da subito appena comprende che lo sto raggiungendo assieme alla new entry della classe.

Mi auguro fortemente che Diego non ne faccia una questione di stato.

Dubbi o non dubbi, Ludovico ora fa parte di noi, della nostra stessa sezione, un motivo in più per farlo socializzare e renderlo partecipe del gruppo.

Come ci avviciniamo, il mio amico getta all'infuori in linea dritta e precisa una boccata di fumo e accenna un mezzo sorriso — indicando prima Ludovico e poi me.

«La dea Atena si occupa di dare il benvenuto all'Olimpo» chiosa. Una battuta in buona fede.

Diego non ha mai osato mettermi in ridicolo di fronte agli altri. Non ha lo stesso spirito da clown burlone che contraddistingue Tommaso Cavallacci, però dispone anche lui d'una buona dose di satira e di beffa. La stessa che usano i vignettisti di caricature politiche.

Scuoto il capo roteando le pupille di fronte alla sua presa in giro.

«Quale dio rappresenterebbe lui?» mi chiede guardando di traverso Ludovico, affatto intimorito dalla sua mole e dai suoi occhi minacciosi, costantemente che ti fanno sentire in pericolo di morte.

«Lo stesso che rappresenti tu, il dio Ares» gli tolgo velocemente il dubbio con un paio di pacche amichevoli sulla spalla, mordendo ancora una volta la crostatina alle fragole.

«Cos'è questa storia di dèi e Olimpo?» interviene Ludovico confuso, la fronte nuovamente increspata.

«Fattelo spiegare da Diego, ha tutta l'aria di volerlo fare. Coraggio, Ares numero uno, fai il mentore» taglio corto a sfavore di Diego, anche perché vorrei fumare una sigaretta anche io.

«Cos'è questa storia di dèi e Olimpo?» domanda una seconda volta Ludovico, stavolta interpellando il mio amico e non me.

Naturalmente Diego mi lancia un'occhiata che tradotta in parole povere sarebbe "Sei proprio una stronza". E io allora sogghigno di efferatezza che tradotto in parole povere sarebbe "Non c'è di che".

Noto Marco, poggiato al corrimano con la schiena e le braccia incrociate al petto, che sta chiacchierando di qualcosa con Thalìa e Roona Lukeba, la sua migliore amica, sedute sul terzo gradino — anche loro con delle sigarette quasi finite incastrate fra le dita.

«Salve, ragazze» le saluto appena mi avvicino a loro, «di che parlate d'interessante?».

«A proposito delle votazioni di domani» m'informa Roona, saettando i suoi occhi castano scuro come due pezzetti di cioccolato fondente sui miei.

Indossa degli orecchini a cerchietto leggermente più piccoli di quelli che porta Thalìa, tintinnano ogni qualvolta che piega il capo.
Sempre a differenza di Thalìa, i suoi capelli, lunghi fino a rivestire i fianchi, sono intrecciati in tantissime piccole treccine. E, in particolare stamattina, ne ha legato una ciocca sopra la testa con un foulard dai bordi neri e costellato di foglie di palma dalle rosse sfumature. Ha il volto completamente scoperto e più luminoso, e siccome è quasi sempre sprovvista di qualsivoglia trucco, la sua carnagione scura ed esotica appare più bella che mai.

Entrambe le ragazze sono disegnate di lineamenti felini, il che fanno sovvenire in me una certa invidia nei loro confronti.

Roona attorno alla gola ha tatuate delle piccole sfere vermiglie ben distanziate fra di loro, che sembrano andarle a creare una collana; e sulla spalla, tutt'ora coperta dal giacchetto, ha un tatuaggio maori che richiama la testa di un leone.

«Uhm... preoccupati?» chiedo increspando le labbra, andandomi a sedere sul secondo gradino, dinanzi alle scarpe di Thalìa.

«Più che preoccupati stavamo facendo delle ipotesi su chi potrebbe vincere» mi corregge Marco.

«Stavamo supponendo che sicuramente dalla parte del Classico vincerà Aspromonte, e forse anche Giulio Viviani» spiega Roona con una punta di delusione nel tono di voce.

«Io direi che potrebbe avere buone chances Isabella Granieri... anche Elettra O'Connor del quinto B. Ha un innato talento per inculcare agli altri le proprie decisioni, ha carisma e ha il fascino dell'America. Inoltre, è stata lei ad aver organizzato la gara di poesie in terzo anno, facendo aderire parecchi studenti» asserisce Thalìa con l'aria di chi la sa lunga.

«Perché parlare dei futuri vincitori del Classico? Perché non parlare dei futuri vincitori dell'Artistico, invece?» suggerisco io, lievemente irritata al solo sentire pronunciare il nome di quella faccia da cazzo. «Secondo me tu, Thalìa, hai buonissime probabilità. E anche Diego» continuo a dire.

«Me lo dicono in parecchi, però rimango coi piedi per terra. Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco» conviene Thalìa con un caldo sorriso. «Soprattutto dal momento che si è anche candidata la dea Atena» aggiunge come se si fosse dimenticata con tanto di occhiolino.

«Se vincessi sarebbe uno smacco tremendo per Aspromonte» sogghigno sotto i baffi con atteggiamento crudele.

«Sarebbe una giornata da ricordare, di sicuro» annuisce Marco.

E ora che lo osservo, mi rendo conto che qui manca qualcosa. O meglio qualcuno di mia stretta conoscenza. Infatti di Marta neanche l'ombra. È come se fosse sparita nel nulla.

«Hai idea di dove si sia cacciata Marta?» mi rivolgo a Marco dopo essermi guardata intorno per appurare della sua assenza.

«Oh, è andata a parlare con Lunanuova. Strano che non sia ancora ritornata, in effetti...» dichiara Marco dando una rapida occhiata all'orario sul display del cellulare.

Rimango alquanto perplessa e stupita. Marta è, in questo momento, a parlare con il nostro professore di storia dell'arte? Lo stronzo professore di storia dell'arte?

«È andata a ritrattare quel sette meno di ieri? Ci ha ripensato?» commento ironica senza sapere cosa altro dire effettivamente.

«È andata a dirgliene quattro per la faccenda del dibattito politico di ieri mattina» s'intromette Diego che evidentemente ha già finito di raccontare della storica faida tra liceo Classico e liceo Artistico a Ludovico, non lasciando il tempo a Marco di rispondere, «A Marta non è andato giù per niente l'intervento di quello stronzetto».


























Come promesso da mio padre nella nostra chiacchierata al telefono prima che andassi al lavoro, si è fatto trovare di fronte al cortile del liceo con la propria auto parcheggiata nell'altro lato della strada.

Preciso e puntuale per il suono della campanella dell'una e mezzo, l'ultima della giornata — quella sempre accompagnata dai sospiri stanchi e allo stesso tempo sollevati soffiati dall'orlo delle labbra di ogni studente.

Nonostante l'aria fredda, quelle foglie macilente trasportate dal refolo del vento, e quella sensazione di decadenza tipica del ferrigno volere dell'autunno, Fabrizio Castellani tiene il finestrino della sua Range Rover completamente abbassato — il suo gomito che fa capolino è il motivo per cui mi si dipinge un sorriso sul volto, illuminandolo.

Dopo aver salutato tutti i miei amici e dopo aver ordinato a Marta di sentirci subito dopo su WhatsApp, sono sgattaiolata via più veloce della luce sapendo che ad aspettarmi, oggi, non ci sarebbe stata mia mamma, bensì mio papà. Una cosa per la quale il cuore ha iniziato a pungere di giubilo, premendo contro le costole — ho cominciato a provare impressioni felici già un'ora prima di uscire da scuola.

Non avere tutti i giorni il contatto diretto — sia fisico che mentale — con il proprio padre sembra facile, un qualcosa di semplice, come un gioco da ragazzi; invece, sono decisamente questi i momenti che mi fanno capire che è in effetti il contrario.

La mancanza di Fabrizio sotto il mio stesso tetto la sento di brutto — è come una mano invisibile che preme con poca grazia contro il petto, cercando di farmi mancare il respiro, boccheggiare, anche nei momenti più impensabili della giornata —, non tanto perché mi crea senso di rammarico il sapere i miei genitori non amarsi più e non stare più insieme, ma perché ho bisogno di averlo accanto.

Di sentirlo lì, per me.

Egoista — questo è un ragionamento tipicamente fatto da una persona egoista, ma da sempre convivo con il sapermi una ragazza imperfetta, gremita di anomalie e di difetti.

È vero, potrei anche andare a vivere con mio padre; ora che sono ufficialmente maggiorenne posso decidere da sola su quello che voglio e non voglio fare. Però poi a rimanere sola sarebbe la mamma... e allora questa mancanza verterebbe su di lei anziché su di lui.

Potrei fare una settimana da mia madre e una da mio padre, ma ovviamente verrebbe fuori un tafferuglio senza fine. Sarebbe un dilemma spostare di continuo le mie cose, i miei vestiti, i miei film, i miei libri, la mia vita, tutto! Quindi nemmeno questa è la soluzione ai miei problemi.

L'unica maniera accettabile e giusta è quella che, da parecchio tempo a questa parte, ho messo in atto con il consenso di entrambi: vivo con la mamma e qualche giorno a settimana passo tutto il resto della giornata con papà. Non cancella totalmente la sua assenza, ma ne lenisce almeno la metà.

Questo patto ho deciso di farmelo andare bene fino a che non porto a termine la scuola, prendendo il diploma di maturità. Dopo sarà mia priorità assoluta andare a vivere da sola e a cominciare il nuovo percorso quale l'università, anche se ancora non so bene quale...

Di scelte ne ho, naturalmente, tante, tantissime, il futuro intero che mi attende. Ma preferisco pensarci quando avverrà il momento, con calma e giudizio. Ora come ora non vedo l'ora di salire a bordo della macchina di papà e andare a pranzo con lui.

Fabrizio svolgeva la mansione di lavapiatti in un ristorante chiamato La scorza di limone; durante il passare degli anni ha saputo dimostrare il suo valore e la sua serietà al lavoro e tutt'oggi è diventato il capo-sala. E siccome è alle prese con un mestiere che ha a che fare con la cucina e il cibo, ha un certo talento e una certa dedizione nel cucinare.

Una volta — in un tempo così remoto e oscuro che a stento vorrei ricordare — avevo paura di andare a casa di mio padre. Quando ero fissata con il cibo e le calorie, quando per me i numeri erano il mio tutto, quando una cifra doppia su un piatto di vetro rappresentava quello che ero. Lasciavo che mi rappresentasse... Avevo terrore di varcare la porta di casa sua, di ritrovarmi davanti ai suoi piatti dall'aspetto delizioso e invitante, avevo timore di compiere peccato nel solo masticare quelle pietanze.

E il vero peccato era ripetere ogni volta che ne avevo l'occasione "Non ho fame", "Ho già mangiato a scuola" oppure "Ho un compleanno più tardi e non vorrei rovinarmi l'appetito per dopo".

Non sempre potevo rifilargli quelle stronzate e quindi, quando non mi osservava, quando guardava la tv, quando si alzava per prendere un coltello o qualcosa dal frigo, io aprivo il tovagliolo di carta che tenevo tatticamente sopra le cosce  — stropicciandolo con cura — e ci ficcavo più cibo possibile... in un secondo momento lo gettavo via nella spazzatura.

Insieme alla mia convinzione che se non avessi mangiato, sarei stata migliore, più potente degli altri. Gli altri erano deboli, senza controllo, io ero forte, padrona dei miei desideri e dei miei limiti.

Se esistesse realmente un inferno io dovrei finirci soltanto per questo. Per aver sprecato tutto quel ben di dio cucinato con amore, abnegazione ed esaltazione. Noncurandomi di sprecare e di mancare di rispetto a chi davvero se la sognava una bistecca alla fiorentina oppure una teglia di pasta al forno.

Come al solito, la me di oggi dà parecchio peso all'etica e non sarò mai in grado di perdonarmi del tutto per quello.

Mi sono perdonata un po' alla volta ed è stata una delle cose più grandi e difficili che potessi fare.

«Ciao, pulce! Eccoti qui finalmente» Fabrizio mi dona un saluto stra-caloroso appena mi vede, «sai, comincio a capire del perché sono sempre restio a venirti a prendere a scuola. Una marmaglia di studenti, macchine su macchine, pullman che arrivano a destra e a sinistra, roba da pazzi! E la cosa peggiore sono le mamme, Dio mio, le mamme che spettegolano fra di loro nemmeno fossero ospiti di Barbara d'Urso».

«Caspita, papà! Tu che nomini Barbara d'Urso... devo sbrigarmi a salire e a farti andare via prima che mi vai a delirare del tutto» lo prendo in giro non riuscendo a trattenere una risata.

Fabrizio Castellani la manderebbe volentieri al rogo quella conduttrice, è più forte di lui, non riesce a sopportarla, tanto meno tollerarla. Addirittura, quando incappa per sbaglio nel suo programma spegne la televisione per cinque minuti e si mette in silenzio per punizione, con le mani intrecciate sopra la pancia. È proprio un tipo fuori dal comune, mio padre.

«Esatto. Muovi le chiappette e sali a bordo» m'incita il vecchio quasi a mo' di supplica.

Obbedisco alla sua preghiera disperata e monto in auto allacciandomi con movenza delicata la cintura — abitudine che mi tornerà utilissima all'esame pratico.

«Cosa c'è di buono per pranzo?» gli domando priva di quel timore e di quell'insicurezza che mi faceva tremolare l'arcata dei denti, ma carica di eccitazione e curiosità, gli occhi vispi che parlano per me.

«Oggi ho preparato delle linguine alle vongole, accompagnate con dell'ottimo vino bianco e Rita mi ha regalato uno dei loro dessert migliori sapendo che oggi saresti stata a pranzo da me» spiega lui con un certo orgoglio e un sorrisetto trionfante mentre tenta di immettersi nel traffico. Rita, la dolce Rita, è la direttrice del ristorante, e va molto d'accordo con mio padre. Si portano un rispetto estremo, e l'attività va a gonfie vele grazie al loro collaborare.

«Oh, non mi dire... non dirmi che è quello che penso» lo canzono con gli occhi trasformati in due cuoricini.

«Mh-mh» emette il verso di assenso che speravo, «la Charlotte di pere».

«Muoviti! Premi l'acceleratore e sbrighiamoci ad arrivare a casa!» esclamo fuori dalla gioia.

E nell'istante in cui mio padre scoppia a ridere per l'ennesima volta, tiro fuori il cellulare dalla tasca del giubbotto e vado diretta su WhatsApp, cercando e aprendo la chat di Marta. Perché dopo quello che ha raccontato su Lunanuova ancora stento a crederci.



Io, 13:35

- Non riesco ancora a crederci!!! Sei sicura che sia la verità quella che ha detto il prof.?




Tempo neanche dieci secondi che la mia amica appare online.






DarthMart, 13:36

- Nemmeno io, è incredibile... però quando me lo ha detto sembrava sincero. Dovevi esserci, Mats, così avresti sentito con le tue stesse orecchie e visto con i tuoi stessi occhi! E magari anche Diego, quello lì è come san Tommaso.






Già, è veramente incredibile quello che Lunanuova ha detto a Marta durante la ricreazione.

Ieri mattina, durante il caos venutosi a creare alla fine del dibattito politico a causa mia, di Leonardo, di Diego e di tutti coloro che erano comunque presenti, il professor Lunanuova ci ha difesi, anziché attaccati come in realtà sembrava. Le ha spiegato che ha preferito difenderci facendoci passare dalla parte del torto di fronte agli studenti del Classico, evitando che qualche prof. dell'altro indirizzo, come Bianca Camonte — detta la "vipera centenaria" perché scandalosamente malefica e perché è la docente più vecchia del Caravaggio — ci ficcasse il naso.

Ha spiegato che è meglio essere ripresi da uno come lui che da uno dei nemici.

Esatto, proprio così. Questo è quanto ha detto. Nemici. Ha definito quelli del Classico come nostri nemici. È questo che lo fa apparire incredibile.

Quindi il succo è che... dovremmo dire grazie a Emilio Lunanuova? Diavolo, la situazione è alquanto strana e ambigua.






Io, 13:36

- Io sono costretta a crederci perché sarebbe da pazzi dubitare di te. Alla fine è quello che hai sentito, hai le prove.






Invio il messaggio facendo un sospiro. Ogni giorno al Caravaggio si impara sempre qualcosa di nuovo, niente è mai scontato.

«A proposito, com'è andata a scuola?» chiede mio padre nemmeno mi avesse letta nella mente.

E al ripensare a come è andata in generale tutta la mattinata, ovvero la mia psico-sfuriata delle otto e venti, la pessima battuta sul sesso di Leonardo, la cicatrice di Ludovico e la dichiarazione di pace di Lunanuova, una sola risposta mi sembra più giusta e più adatta.

«È andata in maniera straordinariamente ordinaria» borbotto scuotendo il capo e la parvenza di una smorfia a orpellarmi gli angoli della bocca.

«Bella risposta! Decisamente originale, davvero... ma... puoi dirlo senza problemi se hai preso un voto basso o una nota sul registro. Meglio la sincerità all'originalità, a volte» dice papà con tono rassicurante.

«Non c'è nessun voto basso, papà, ma solo drammi adolescenziali che sono in grado perfettamente di gestire» ribatto tatticamente, sfilando lo zaino dalle spalle, accorta troppo tardi che mi sono legata senza togliermelo di dosso.

«A proposito di gestire... quello come te lo sei fatta?» formula la domanda da un milione di euro, facendo un cenno con il mento, incorniciato da una barba tagliata corta di proposito, verso la fasciatura.

Senza volerlo — gesto che realmente sta diventando automatico — passo la morbidezza delle dita sopra la garza e ci rifletto su qualche attimo prima di emettere una risposta che sia soddisfacente, corretta e che non faccia scoppiare putiferi inutili. Inspiro una consistente quantità di ossigeno.

«Ho preferito tirare un pugno a uno specchio piuttosto che alla mascella di qualcuno». Decido di lasciar perdere la stronzata del ragno, dopotutto mio padre è ben a conoscenza della mia incapacità di gestire la rabbia. Sarebbe come autoinfliggersi la pena da soli.

«Sai proprio gestirli questi drammi adolescenziali, una vera veterana» mi schernisce, capendo che sarebbe inopportuno farmi ulteriori domande... scomode.


























Dopo aver consumato un pranzo degno di una regina raccolgo i miei capelli in un morbido chignon, il che indica una sola cosa: che è per me il momento di mettermi a studiare.

Durante gli ultimi mesi del quarto anno sono magicamente maturata e ho scoperto che studiare, imparare, apprendere sono delle cose oltremodo stupende. Quest'anno non solo vengo motivata dalla voglia del normale sapere, ma vengo stimolata anche dal fatto che gradirei affrontare gli esami del quinto con un buon voto, voglio dare prova che Matilde Castellani ha a cuore la conoscenza — scolpita esattamente sulla sua effigie, proprio al centro, rivestita di orpelli dorati.

Mi sistemo al bordo della tavola rotonda, nella sala da pranzo di mio padre che vanta un'imponente finestra sulla Cupola del Brunelleschi — uno spettacolo che lascia senza fiato e che spezza il respiro. Che dona palpitazioni e brividi a fior di pelle.

Poi apro lo zaino ed estraggo il libro di filosofia, aprendolo sul capitolo di Arthur Schopenhauer.

Senza perdere altro tempo comincio a fare i compiti, deliziandomi ogni quel tanto del meraviglioso spiraglio della Cupola — sollevo percettibilmente i veli delle palpebre, nascondendo con esito insoddisfacente una certa vibrazione di letizia, la sensazione che più la osservo, più starei a osservarla.

Il bagliore di un sorriso appare sull'angolino della bocca, mentre trattengo il viso chinato sulla carta dei libri. Leggo e sottolineo i paragrafi cercando di non colorare del tutto la pagina.

Papà, dal momento che ha il pomeriggio libero, è seduto nell'altra stanza, il soggiorno più moderno della casa, intento a portare avanti il suo romanzo al quale sta lavorando da un paio di mesi.

Una volta che avrà conosciuto la parola "fine", ha promesso di farmelo leggere. Ma fino ad allora tutta la trama è avvolta nel più totale mistero e riserbo, persino il titolo.

Intorno alle quattro e venti s'illumina il display del cellulare, il che significa che non si tratta né di WhatsApp, né di Messenger, ma di un messaggio normale. Apro la notifica sulla bustina e vedo che si tratta di di Diego.

Diego... col cavolo che faccia uso di WhatsApp. È rimasto all'Età della Pietra.





Diego, 16:20

- Mats hai voglia di uscire e fare un salto in libreria? B-)






Dopo aver letto rapidamente l'unica riga del testo ci penso su qualche minuto; ho quasi finito di studiare, mi è rimasta soltanto una pagina da ripetere e non vedo problema alcuno all'orizzonte se faccio slittare questo impegno a prima di cena. Ma sì, ho voglia di uscire un po'.



Io, 16:22

- Va bene. Sono a casa di mio padre, passami a prendere.






Digito la risposta e la invio mentre mi alzo dalla sedia sgranchendomi gambe e schiena all'unisono, stirando entrambe le braccia.

Fuori dalla finestra il cielo si sta tingendo dei primi colori del tramonto, uno degli effetti dell'ora invernale entrata in vigore. Ho l'impressione che prenderò in prestito una sciarpa dall'armadio di mio padre, magari anche un paio di guanti. Glieli avrei restituiti al ritorno, ovviamente.

Diego, senza rispondere al mio messaggio, giunge sotto casa di Fabrizio suonando il campanello — mi sta aspettando. Saluto velocemente papà rassicurandolo che non sarei tornata tardi e me ne scappo via sulle scale dell'edificio provvisto di ascensore però guasto. Proprio come in Big Bang Theory.

«Ciao, Ares!» lo saluto agitando la mano buona, depositando proprio all'altezza della spalla un delicato buffetto a pugno chiuso.

«Buon pomeriggio, Atena. Pronta?» ricambia il ragazzo coi capelli baciati dal fuoco, porgendomi il casco che avrei dovuto indossare per salire a bordo della sua moto.

«Ovvio. Qual è il programma?» mi premuro di chiedergli prima di infilarmi il casco sulla testa, troppo grande per me.

«Allora, prima andiamo a prenderci due cappuccini e poi andiamo alla Feltrinelli» spiega risalendo a bordo della sua amata motocicletta da cross, togliendo il cavalletto e mettendola in moto.

«Sembra fantastico» convengo allacciando senza successo il gancio del casco, costringendo Diego ad avvicinarsi a me per darmi una mano.

In men che non si dica unisce l'allacciatura in modo perfetto, facendo passare me come una totale imbranata.

«Un tipico pomeriggio fiorentino». La butta sul ridere il mio amico una volta che salgo a cavallo della sella, aderendo alla sua schiena e avvolgendolo con le braccia saldamente. Conficco le mie unghie sempre troppo corte sulla stoffa gelida del suo giacchetto.
































Diego parcheggia la motocicletta dopo quindici minuti di attenta valutazione, facendo caso al cavalletto che fosse nella giusta posizione, alle macchine — se qualche eventuale sportello avrebbe potuto rovinargliela —, alle grondaie dove i piccioni avrebbero ipoteticamente rilasciato un ricordino; praticamente al mondo intero!

Diego considera quel mezzo a due ruote come una fidanzata, dedicandogli attenzioni oltre il minimo indispensabile.

Poi c'incamminiamo alla volta di Piazza della Repubblica, dove offro di tasca mia due cappuccini da portare via. Il mio con una costellazione di cacao amaro, il suo con una dose extra di panna. 

Continuiamo la passeggiata sorseggiando le nostre bevande calde e lasciando che il calore si propaghi attraverso i muscoli — portando sollievo e vigore —, ridendo dei rispettivi baffi morbidi e candidi che la schiuma del latte va a disegnare sull'arco delle nostre bocche.

Finiamo di bere i cappuccini poco prima di arrivare in Via de' Cerretani, il punto esatto dove si trova la nostra bramata destinazione . Buttiamo in un cestino i due bicchieri ormai vuoti e, senza esitare oltre, entriamo in quello che sia io, che Diego, che Marta, che Marco definiamo come realtà parallela.

Perché la libreria non è altro che questo: una realtà parallela alla nostra ma con più universi e più infinite possibilità — eterni incanti e un susseguirsi di grandi idee e grandi ispirazioni, racchiusi una forma rettangolare e dalla copertina liscia e dai dolci ghirigori.

Dentro la Feltrinelli l'aria è calda, confortevole e l'odore dei libri — della carta, delle parole — si insinua con garbo nelle nostre menti, è come una sorta di... bentornati a casa.

Vi è un folto gruppo di persone intento a scegliere e a sfogliare le pagine: turisti asiatici, inglesi, persone della città, bambini, addirittura anziani. È sempre una gioia viva per gli occhi vedere che una libreria non sarà mai sola.

Io e Diego avanziamo negli angoli in cui siamo soliti a soffermarci — io nell'angolo delle poesie e della letteratura, Diego nell'angolo della musica e della Seconda Guerra Mondiale. Ma questa volta c'è qualcosa di... diverso, di insolito.

Diego non si blocca dinanzi lo scaffale dei libri dedicati alla musica e ai gruppi musicali, nemmeno a quello con i libri dalle copertine minacciose o dall'aria autobiografica. E no, decisamente no! Diego se ne va dritto all'angolo dei libri che citano Aung San Suu Kyi, Martin Luther King, Nelson Mandela, Mohandas Gandhi e Tenzin Gyatso.

Cavolo... mi sono persa qualcosa?

Scelgo di seguire la sua figura con la linea delle pupille — celando il mio intento dietro una coltre di ciglia prive della pesantezza del mascara —, avvicinandomi silenziosamente e intrecciando le braccia al petto. Decido di mia volontà e con il cuore che piange di non dedicare attenzione alla mia sezione cartacea preferita, voglio cercare di capire il nuovo e repentino interesse di Diego verso questi scrittori.

Il mio amico si porta una mano sotto il mento e si sfrega la pelle con espressione pensierosa. Una piccola ruga fa capolino sull'incarnato della fronte. Mugugna qualcosa mentre passa in rassegna gran parte dei titoli. È attento, è scrupoloso. Qui c'è qualcosa di decisamente insolito!

Nessuno dei due osa proferire parola, rimaniamo in rispettoso silenzio — le labbra sigillate ermeticamente — finché a Diego non gli si rivestono le iridi degli sfavillii più scintillanti... tanto che gli prendono a guizzare nemmeno avesse Caparezza in piedi, di fronte a sé.

Allunga il braccio, allontanando i polpastrelli dallo spigolo del mento, fino a far collidere due contro la rilegatura di un libro. Lo tocca come se fosse oro, come se fosse qualcosa di prezioso. E magari per lui lo è davvero.

Lungo cammino verso la libertà di Nelson Mandela. È questo il libro che Diego stava evidentemente cercando. Egli lo estrae con cautela e delicatezza, portandolo via dalla mensola sulla quale è posato, sollevandolo all'altezza del petto per poterlo ammirare.

«Questo libro me l'ha consigliato Thalìa» confessa senza che io gli chieda niente e senza distogliere l'attenzione dalla copertina.

Ogni parola è intrisa d'una dolcezza che soltanto in rare, rarissime volte, l'ho sentita stillare dalle corde vocali di Diego Falco. Sarebbe quasi un giorno da segnare nel calendario.

Mercoledì 29 ottobre 2014, Diego ha esternato della dolcezza.

«Thalìa?» ripeto con un che di sognante nella voce. Facevo bene a sospettare qualcosa.

«Sì... dopo la ricreazione, prima di ritornare in classe, ha detto che è uno dei libri migliori che abbia mai letto, addirittura l'ha fatta piangere. Sostiene che debba leggerlo anche io, allargherà il mio modo di vedere le cose» racconta Diego soffiando le parole con un riguardo estremo che quasi mi fa vibrare le ginocchia, «Lo compro» asserisce annuendo con sicurezza.

«Poi lo presterai anche a me?» domando dandogli una gomitata giocosa sul costato, «Oppure ne diventerai geloso e lo vorrai tutto per te?» celio innalzando un sopracciglio.

«Ah-ah-ah, che spiritosa. Te lo presterò, ovvio che non ne diventerò geloso...»farfuglia contrariato, cercando di nascondere il viso e il lieve rossore che è appena sbocciato all'apice dei suoi zigomi. Piccoli boccioli di rosa rossa...

«Attento, i libri si offendono quando vengono dati in prestito, per questo spesso non ritornano. Così diceva Oskar Kokoschka. Saggio, non trovi?» dico misurando con cura le parole.

«Allora si può sapere che me lo hai chiesto a fare di prestartelo?», scuote il capo confuso, tornando a posare le pupille sulla mia effigie.

«Per metterti alla prova». Alzo le spalle, sorridendo come una bambina che ha appena combinato un guaio voluto.

«Vado a pagare. Sei libera di seguirmi, caporale Atena» si arrende Diego, infine.

Oh sì, evita pure l'argomento, Diego. Ho già capito qual è il nocciolo della questione — ti stai palesemente prendendo una cotta per Thalìa Obi Malek. E ora voglio punzecchiarti come si deve.

«Lei ti piace. Ti ha incantato, eh?» lo schernisco con una parvenza di beffa.

«Lei chi?!» esclama per contro, bloccandosi sul posto.

«Oh, andiamo... come chi? Di sicuro non Michelle Obama». Alzo gli occhi di fronte al suo finto stupore, «sto parlando di Thalìa! Thalìa Obi Malek del quinto F».

«Ma quale piacere! Ma quale incanto! Ma quale Michelle Obama! La mia è solo stima nei suoi confronti, perché quella ragazza la merita tutta» si difende Diego con anche troppo ardore.

«Andiamo! A me puoi dirlo. Racconta tutto a Matilde» lo incito allargando le braccia in segno di pace.

«A proposito di raccontare, coraggiosa Atena, dopo che avrò pagato questo libro esigo la spiegazione della tua mano. Sarai tu a raccontare».

Ops.




































Be', ho promesso. Ho dato la mia parola. Ho detto a Diego che gliel'avrei raccontato, che l'avrei messo al corrente di ciò che è successo all'Arcadium la sera scorsa. E seppur consapevole che mi sarebbe costato un certo sforzo — il movimento delle mie labbra al fine di raccontare un qualcosa di spiacevole, un gesto che racchiude in sé un mondo di suprema fiducia e amicizia —, ho deciso di tener fede a un giuramento pronunciato con un che di cedevolezza.

Un qualcosa con cui ho ben poca familiarità — l'arrendersi.

Mi sto arrendendo piano piano, lasciando che un sospiro sfugga dai tralci nel quale era gelosamente custodito, la testa china e le pupille vestite della discrezione che si cela fra i veli delle palpebre e le trine fosche delle ciglia. Ragnatele di esitazione che si diramano con la stessa indolenza con cui recito ogni vocabolo.

Racconto tutto ciò che è avvenuto dentro il cinema — testimone di una me che preferisco trattenere celata, ben nascosta da occhi indelicati —, tutto quello che è accaduto dentro quel bagno, con Leonardo Aspromonte a farmi da spettatore. Un teatro di terrore offerto gentilmente da una Matilde non proprio in sé.

Sono costretta a menzionare Leonardo, responsabile indiretto di una ferita che preme e pulsa a fior di pelle — e peggio ancora, a fior d'animo. Ma io lo so, io so con perfezione che la vera colpa è stata mia e basta.

Il suo soggiogare voluto — desiderato senza condizione —, le sue maledette quanto prevedibili parole, hanno irretito in me quel frammento di logica e di controllo in un modo talmente estremo che altro non ho potuto fare se non demordere, concedermi alla seduzione proibita quanto sbagliata della rabbia; lasciando che quella trappola di garbugli soffocanti e decisioni imperfette mi ammaliasse, privandomi di un equilibrio tanto sospirato.

Ma avrei dovuto resistere, ascoltare con più accortezza la voce della ragione — la mia — e non la sua, che altro per me non desidera se non la distruzione, pezzo dopo pezzo.

Mi sono fatta del male, ed è stata colpa mia — sono stata io, soltanto io, ad aver tirato un pugno contro lo specchio, non è stato Leonardo a costringermi.

Magari è solo masochismo allo stato puro il mio, o forse pietà, perché avrei potuto scegliere di rompere il suo naso anziché il vetro.

Ho scelto di colpire lo specchio, ho scelto di causarmi dolore, ho scelto di autolenirmi — sadismo. E ancora adesso è un vero e proprio mistero... non riesco a scorgere della razionalità neanche io.

«La colpa non è sua» per cui dico senza pentirmene mentre abbiamo ripreso a camminare per le vie del centro, senza una meta precisa, «la colpa è mia, avrei potuto resistere ed essere meno... debole».

«Il problema è che tu sei debole, a volte! Cazzo! Lui ne ha approfittato, ci ha giocato su questo!» sbotta Diego digrignando i denti, lo spigolo della mandibola talmente contratto che si percepisce a pelle la sua collera.

«Diego... lui non sa tutto di me, o meglio, pensa di saperlo ma qualche dettaglio gli sfugge. Questa della rabbia, del mio problema di non saperla gestire, non lo sa. Mi ha punzecchiata allo sfinimento ma non era per vedermi sbottare, era per vedermi umiliata» tento di farlo ragionare, non riuscendo a togliermi di dosso questa parvenza di titubanza, ombra d'un tratto opprimente, pesante.

«Che emerita testa di cazzo. Vorrei ficcargli la testa dentro una friggitrice e lasciarcela fino a che non gli si stacchi via» sibila Diego scrocchiandosi l'osso del collo, movimento che associo a un mero tentativo di calmarsi.

«Non lo farai. Hai comprato un libro di Nelson Mandela, ricordi? Tieni lontano i pensieri violenti, sono sicura che Thalìa vorrebbe questo» ribadisco sollevando nuovamente le ciglia, le pupille che guizzano in avanti, guardando oltre.

«È difficile pensare a ideali pacifisti dopo questo» obietta trattenendosi dal mettersi a sbraitare nel bel mezzo della strada, in mezzo alla gente che passeggia, «ma mi pare di capire che sono costretto a farlo. Non ho scelta, vero? Non vuoi che m'intrometta o che faccia qualcosa».

«Esatto, cominci a capire. Non devi fare niente perché non sei in dovere di fare niente. Bisogna lasciarlo stare, ormai è il suo essere quello di comportarsi da stronzo e di umiliare allo sfinimento le persone, soprattutto se si tratta di me. Onestamente non è il nostro modo di fare, noi ci distinguiamo. Da parte mia posso cercare di essere più forte e di prestare meno attenzione da ciò che uscirà dalla sua bocca. Lo trovi un buon compromesso?» proferisco con una maschera di solennità, un po' meno greve dell'ombra che veglia inesorabile sulle mie spalle, tentando di piegarmi giù, giù, sempre più giù.

«Noi non siamo come lui, noi non siamo come loro» conviene Diego, annuendo percettibilmente, i dreadlocks fulvi che sembrano essere abitati da fiamme vive, brucianti.

«Non siamo migliori, affatto, però cerchiamo di esserlo. Ci proviamo. È questa la differenza» constato con un ricamo di orgoglio che va a propagarsi nelle iridi, fautori di una stella di luce e di speranza nascente.

Dopo qualche passo ci ritroviamo di nuovo in Piazza della Repubblica, uno dei luoghi che preferisco in assoluto di Firenze, colmi di magia, un incanto di antichità e arcaica meraviglia — una sensazione che sia rimasto incuneato fra le pietre di ogni palazzo, ogni statua, e che attira a sé migliaia di migliaia di occhi accesi di conoscenza e voglia di essere stupiti. E senza neanche averlo previsto, il mio sguardo si posa sull'Hard Rock Café, il quale mi ricorda che è da un sacco di tempo che non mi mangio un hamburger. Magari lo propongo alla mamma come cena di stasera.

«Porca puttana». L'imprecazione di Diego mi fa distogliere l'attenzione dall'Hard Rock, costringendomi a voltare il capo dall'altra parte.

Lo faccio in uno scatto, veloce, e, seguendo la linea delle sue iridi di colpo ricolme di astio, vado a scoprire che ci troviamo, inesorabilmente, di fronte al Forte d'Alabastro, locale oltremodo prestigioso e molto alla moda. E anche frequentato da Leonardo e i suoi amici.

È praticamente il loro luogo di ritrovo. Non fanno altro che spiattellarlo sia su Facebook che a scuola.

Infatti, seduti sui divanetti — d'una tonalità deliziosamente alabastro — all'aperto ma comunque innalzati su una pedana in legno, coperti da un tetto e accolti da stufette da esterno, vi sono Alberto Del Bianco assieme a Viola Angeloni e Isabella Granieri, le amiche del cuore della cara Olivia.

E come notiamo loro, posando sulle loro effigi occhiate non del tutto amorevoli, anche loro notano noi, attraverso gli orli dei calici di vino che stanno sorseggiando insieme a qualche stuzzichino d'alta cucina. Nelle labbra di Alberto addirittura affiora la nebbia d'un sorriso — un ghigno da presa in giro, un predatore che ha appena scorto la sua preda e già si bea del sol pensiero — mentre si alza in piedi, venendoci incontro, per poi essere imitato dalle due ragazze in sua compagnia.

L'unica diversità è che loro non sorridono affatto, anzi, esibiscono un sopracciglio effettivamente sollevato e marcato di disappunto. Idiosincrasia.

«Guarda, guarda... ma chi abbiamo qui» esordisce Alberto congiungendo i palmi delle mani con un che di divertito una volta dinanzi a noi, pochi metri ci distanziano gli uni dagli altri, «Falco e... ullallà, la dea Atena. Sono sorpreso di vedervi in posto del genere, in una zona che assolutamente collide con i vostri... gusti».

Per Diego queste parole potrebbero essere scambiate per un invito a nozze... le nozze dell'afferrarlo per il colletto della camicia e gettarlo per terra. Ma mi auguro silenziosamente — e con una certa disperazione — che non afferri la provocazione.

«Soprattutto tu, Falco» puntualizza Del Bianco, rincarando la dose, «davvero, tu sei l'ultimo che mi aspettavo di vedere qui».

Dal petto di Diego vibra una risatina fioca, quasi trattenuta, e poi i suoi occhi si soffermano per terra, sulla bordura delle proprie scarpe — una mossa tattica la sua. «Sai, Albertino, Firenze è una città libera, le sue strade sono libere, le sue piazze sono libere. Non c'è una rivendicazione tua in questa zona, che io sappia» lo informa sarcasticamente, senza cadere nelle spire di un'istigazione alquanto scadente.

«Diciamo che questo ambiente fa a pugni con il vostro» sottolinea l'altro, aumentando la dose dell'offesa con lentezza, imperversando come una tempesta di neve.

«Vedo che manca qualcuno... dove avete dimenticato il boss della vostra gang di mafiosi?». Diego evita il colpo verbale di Alberto con maestria, assumendo un tono carico di beffa.

Mafiosi, questa sì che è da incorniciare!

Ma è ciò che fa fare un passo in avanti a Viola, superando Alberto e mettendosi in prima linea. Un'espressione di sdegno è disegnata con cura sul suo visino delicato. «Non sono affari che ti riguardano» chiosa con superiorità, spezzando quell'armonia sublime dei suoi lineamenti — costellati di lentiggini color caramello, in tripudio di efelidi che sembrano essere state create dal pennello di un pittore attento, scostando dietro le spalle due lunghe e spesse trecce alla olandese.

«Non rappresenta un dilemma se venissero a sapere che Leonardo è insieme a Olivia in questo momento» interviene tuttavia battagliera Isabella, con i suoi capelli biondissimi, quasi bianchi, e talmente lisci che scatenano l'invidia di gran parte delle ragazze al Caravaggio, a decorarle la dolce linea del volto, «a divertirsi nel miglior modo possibile. È risaputo, tanto, che Olivia sia la sua preferita».

"A quanto pare il consiglio che mi ha dato stamani lo ha seguito più alla lettera lui che io!", mi viene da pensare senza volerlo, la prima cosa che mi passa per la mente. E non so se sia da considerarsi bene oppure... un qualcosa di terribilmente male.

«Viola ha ragione», stavolta è arrivato il mio turno di proferire parola, «non frega a nessuno dei dettagli della vita di Leonardo, men che meno quella sessuale». Acidità trapela dalla mia voce tremolante, veleno allo stato puro.

«Cosa c'è, Castellani? Sei per caso gelosa?» mi stuzzica volutamente Isabella, assumendo, eppure, un'espressione angelica.

E dopo una tale affermazione barra cazzata del secolo viene naturale anche a me sollevare un sopracciglio — rimanendo interdetta, una ruga di perplessità fa capolino proprio al centro della fronte.

«Be', siccome ora sapete dov'è il mio fidato compare, adesso io voglio sapere dove avete dimenticato la fatina del vostro "clan" di spostati». Alberto previene la mia risposta, interrompendomi sul più bello — con un che di morbosamente curioso, peraltro.

E meno male! Perché molto probabilmente avrei urlato.

«Non sono affari che ti riguardano». Diego imita la stessa frase di Viola. Saccenza e una presunzione da presa in giro.

Così io decido di imitare la risposta del cazzo di Isabella, «Non rappresenta un dilemma se venissero a sapere che Marta è andata a fare acquisti con sua madre, a divertirsi nel miglior modo possibile. Ma, ehi, non vi sono dettagli piccanti se mai lo stavate sperando».

«Non c'è bisogno di tutto questo veleno dal momento che siamo fuori dal territorio di guerra» fa notare Alberto, impersonando il paladino della giustizia dalle fattezze artefatte.

«Fosse il veleno l'unico problema...» interviene Diego in mia difesa, «il primo che farebbe bene a farsi un esame di coscienza dovrebbe essere in primis Aspromonte» e poi lancia un'occhiata verso la mia rivestita di bianco e premure di una madre, alludendo a ciò che è avvenuto al cinema, sapendo già che Alberto ne è al corrente.

L'unico di quelli del Classico che sa come realmente si siano svolti i fatti.

Diego è in procinto di alzare i tacchi e andarsene, però prima sento che ha ancora qualcosa da dire, da aggiungere.

«In bocca al lupo per domani, perché solo allora la vera guerra avrà inizio».
Ecco che il clima delle elezioni comincia finalmente a farsi sentire.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top

Tags: