7. Il secondo Ares
"Ogni persona è un abisso, vengono le vertigini a guardarci dentro."
La tigre e la neve (2005)
Una mia grande, magnifica, considerevole quanto incombente — spirale di viticci pungenti che stringono, stringono a non finire — capacità è quella di realizzare nel giro di pochissimi frammenti di tempo di essermi comportata da stronza. È una cosa del tutto unica e del tutto incredibile, perché di solito, normalmente, le persone non si accorgono di aver avuto un comportamento da teste di cazzo.
I sensi di rimorso, pizzicori di rammarico, sono sempre più rari di questi tempi...
A me basta poco; mi rendo conto, realizzo, di avere assunto le vesti di una sconosciuta che ha ben poco a che fare con i miei atteggiamenti — la mia coscienza viaggia alla stessa velocità della fantasia, colei che fa fiorire gemme, colei che impreziosisce la mia mente.
A volte può essere utile questa consapevolezza; aiuta a chiedere scusa senza far prevalere il tormento dell'orgoglio, e te lo fa notare — rimarcando con la punta di una penna sullo stesso bordo del foglio, più e più volte, lasciando il segno in rilievo sulla carta — di quanto sia stato stupido l'aver esercitato pallida empietà.
Come ho detto, a volte può rivelarsi decisamente utile. Ma altre volte, diamine, di questa sensazione ne farei volentieri a meno. Vorrei dimenticare come si fa. Vorrei rimanere incazzata, furente e ferita — percepire il peso della normalità sulle spalle, senziente che avrei sopportato —, senza inciampare sin da subito nelle radici dei sensi di colpa.
Io ne ho necessità — necessito di sentirmi incazzata e furente, assolutamente ferita e sconfortata. Una volta ogni tanto è come respirare aria pulita, libertà per i miei polmoni ingolfati e saturi di realtà e monotonia.
È chiedere troppo? Un desiderio troppo grande per essere esaudito?
Mi sento già in colpa ed è appena suonata la campanella delle otto e venti. Avrei una voglia spropositata di tornarmene indietro e sgattaiolare via dal Caravaggio.
Uscire fuori e correre a perdifiato con il vento a lambirmi il viso, raggiungere la Galleria degli Uffizi, pagare il biglietto ridotto riservato agli studenti e impalarmi di fronte alla "Venere" del Botticelli fino a che l'animo non sarà placato. E potremmo parlare di ore visto che quel dipinto di arte superlativa per me rasenta l'ideologia di paradiso — ogni occasione in cui sono al suo cospetto è sempre come la prima volta.
Faccio passare entrambe le mani, anche quella infortunata stando bene attenta a non fare ulteriori danni, sopra i miei capelli, infilando i polpastrelli attraverso le ciocche, scompigliandoli e senza preoccuparmi avessero assunto una piega disordinata.
Problemi, problemi, problemi, sempre problemi e ho soltanto diciotto anni. Quando arrivo ai venti cosa faccio? Mi faccio internare? Ai trenta, allora? Ai quaranta nemmeno oso pensarci. Magari imito Beatrix Kiddo e vado a prendere lezioni private da Pai Mei, sperando che non mi spezzi un braccio per la mia mancanza di conoscenza del mandarino.
La veemenza che impiego per scompigliarmi i capelli, premere le unghie mangiucchiate contro la cute, è perlopiù una reazione dettata dalla foschia dei cattivi pensieri — cimitero di flebili speranze morte che vengano scacciati via, tranciati di netto.
Ci metto talmente tanto fervore che una coppietta di fidanzatini del primo anno dell'Artistico mi lanciano un'occhiata preoccupata prima di salire la gradinata di scale. Ma non è una novità per me dal momento che do spesso — grazie a Leonardo — spettacoli mattutini, la prova incontrovertibile di avere qualche rotella fuori posto.
"Ottimo, Mati! Bel modo di inaugurare la giornata".
Stringo le palpebre accogliendo un regno di buio e i pensieri negativi sono sempre lì, rannicchiati in un angolino, decisi a non andarsene, decisi ad attecchire quasi fossero fiocchi di neve. E lo stesso vale per i sensi di colpa, raggomitolati in una posizione di perfetto agio. In quegli centimetri sospesi nello spazio dentro la mia mente, pronti ad affiorare e ad attaccare — sferzate su sferzate — ritornando poi a fluttuare con grazia e delicatezza.
L'attesa del predatore.
Mi sento in colpa per aver mentito a Marta, mi sento in colpa perché, per causa mia, Diego rischia sempre di rimetterci con l'espulsione, mi sento in colpa per essere stata capace di lasciare che Leonardo avesse in qualche maniera potere su di me, mi sento in colpa perché non ho un briciolo di autocontrollo — il niente, il vuoto — mi sento in colpa, orribilmente, perché ho mandato all'inferno tutti quanti.
Non che m'interessi di quel faccia da cazzo o di Alberto, nonostante abbia tentato di scrollare Diego da dosso il suo amichetto, abbracciando la probabilità di beccarsi un gancio destro, ma non avrei dovuto riferirmi anche ai miei amici. A Marta, a Diego, a Marco...
Ma è inutile, non è la prima volta che mi capita di sbottare senza rendermene conto e di dire cose di cui poi, ovviamente, mi vado a pentire. I miei amici non c'entravano nulla, eppure li ho considerati allo stesso livello dei nostri antagonisti, allo stesso livello di quelli del Classico.
Volevano proteggermi, come sempre fanno e sempre faranno; Marta voleva proteggermi, era pronta e agguerrita per affrontare colui che mi ha portato a ridurmi così la mano, Diego voleva proteggermi, era pronto a fare a botte per l'ennesima volta con Aspromonte, e anche Marco voleva proteggermi, essendo semplicemente lì per me.
«Andate tutti all'inferno!» ho urlato, perché ne ho fin sopra i capelli di tutto questo dramma, tutta questa tragedia.
In quel momento ce l'avevo col mondo intero, non solo con Leonardo o i Perfettini in generale. In quel momento non ho fatto distinzione alcuna e per questo mi sto rivoltando il fegato dai rimorsi.
E come se non bastasse, come se non fosse sufficiente, un'altra puntura di rammarico va ad aggiungersi in quell'infinità fluttuante: il ragazzo incontrato pochi istanti fa dentro il bagno delle ragazze. Anche lui ha iniziato a essere parte di questo ciclo di "Matilde e le sue colpe". Praticamente ho asserito che il liceo al quale si è iscritto è un liceo di merda.
Di drogati e di figli di papà.
Ecco... questo è il messaggio che ho mandato a quel povero tizio. Avrei dovuto sottolineare che qui il marcio viene covato all'interno delle persone e non dell'edificio.
Il Caravaggio, e parlo a nome di entrambi gli indirizzi — sia Classico che Artistico — è un'ottima scuola, un liceo che vanta ogni anno un'intensa somma d'iscrizioni, con professori appassionati del proprio lavoro, Lunanuova è chiaramente un esempio nonostante il suo essere testa di cazzo, e buoni mentori, con un preside sempre disponibile e presente in caso di qualsiasi situazione — cosa rarissima nei licei, per solito i presidi sono di continuo super impegnati e poco avvezzi a sostenere i propri alunni in caso di necessità —, anche se alquanto svitato come un tappo, con delle segretarie pronte alla battuta e che addirittura hanno piacere a schierarsi per le fazioni di Perfettini e Fattoni. E per ultimo, ma non una cosa da poco conto, è un liceo che sa organizzare come si deve gli eventi, i veglioni, le gite, le riunioni, i consigli, i concerti di fine anno e le feste.
Gli studenti, poi, sono tutto un altro paio di maniche.
Avrei dovuto dire questo al ragazzo di cui non ricordo il nome.
«Atena! La campanella è suonata da un po', ti consiglio di muovere le chiappe e di andare in classe se non vuoi farti dare una strigliata». Una voce femminile e acuta interrompe i miei pensieri, un fulmine che squarcia quel subbuglio involontario, e appartiene a una ragazzina che mi sfila di lato, proseguendo senza darmi il tempo per collegarne l'identità.
Sollevo il viso, nascosto da qualche ciuffo roseo e candido, e mi volto verso di lei, l'espressione ricolma di confusione e conflitto interiore. È una ragazzina del secondo anno, in evidente ritardo visto che è già arrivata alla seconda rampa di scale grazie all'aiuto di una corsetta calcolata.
Una ragazzina che senza ombra di dubbio fa il tifo per me... non mi ha chiamata Matilde, mi ha chiamata Atena, la seconda identità che mi è stata cucita addosso con dello spago dorato, con la quale sono conosciuta dentro questa scuola.
Una ragazzina esattamente in ritardo come me, e a differenza mia è già arrivata al suo piano, mentre io sono ancora ferma e impalata come una cogliona qua, in mezzo all'atrio. Ad arruffarmi i capelli e impegnata con la corte d'appello della mia psiche.
Nessuna traccia di Marta, Diego o Leonardo. Il silenzio regna sovrano.
Mi costringo a fare un lungo respiro e a darmi un contegno, sono intenzionata ad andare in classe per seguire le regolari lezioni del mercoledì e sarebbe controproducente mostrarmi così sconvolta, così... vulnerabile. Il pizzicore degli occhi torna a tormentarmi di nuovo, qualche lacrima di rabbia è scesa senza volerlo, senza chiedere il permesso. Non ho bisogno di uno specchio per constatare il loro rossore — ne sono più che sicura.
Ma realizzo che m'importa sino a un certo punto... rientrare in classe con la faccia arrossata e smarrita non sarebbe la prima volta. In quasi cinque anni è capitato piuttosto spesso, dopotutto sono un'adolescente lunatica come un'altra. E noi adolescenti ci lanciamo dalle cime, dritti nel vuoto, senza paracadute — le turbolenze sono il prezzo da pagare.
Entro in quinto D, la mia classe, con la prima ora già iniziata e senza nemmeno avere il buon garbo di bussare.
Sembra che abbia dimenticato temporaneamente le buone maniere — soprattutto per via della mancanza di rispetto nei riguardi della professoressa Drago, e la Drago il rispetto se lo merita dal primo all'ultimo.
Ma, purtroppo, la tesi che ho affermato poco fa si realizza per millesima volta, dimostrando che io non sono altro che un'adolescente lunatica senza il minimo riparo, senza la più lieve delle difese.
Atena sprovvista di scudo è di una tristezza aberrante.
E la rabbia — l'infida, l'ingannatrice — me la sento rimontare dentro come un furia dalle zanne affilate e pronta a balzare all'attacco ora che ho varcato quella porta.
Gli sguardi dei miei compagni saettati sulla bordura della mia figura, compresi quelli di Diego, Marco e Marta, mi fanno ribollire il sangue. Lo so, i miei compagni di classe non c'entrano niente, non hanno assistito alla vicenda dell'entrata, sono all'oscuro di tutto... eppure si sa, basta anche la più piccola fiamma per far incendiare una tanica di benzina.
E le loro occhiate equivalgono a un accendino perfettamente teso verso di me.
Rimango ben eretta e ferma a pochi centimetri dalla soglia dell'aula senza proferire una parola, la gamba sinistra protesa appena all'indietro, oltre la gamba destra. Percepisco il fascio dei miei muscoli irrigidirsi e lotto contro un qualcosa, dentro di me, senza conoscerne l'identità — mi mordo il labbro, conficco i denti contro la carne, per poi coprirmi la mano bendata col lembo della manica del giacchetto.
Non mi va che nessuno di loro veda cosa sto nascondendo — il buio di una ferita che non sanguina più sotto gli occhi, ma che continua a bruciare nei lacci aggrovigliati dell'animo.
Mi mordo l'interno della guancia mentre un silenzio assordante piomba di colpo su tutti quanti, professoressa compresa.
Perfino Tommaso Cavallacci, Tommaso Vinci e Yousef Karkaref, il trio medusa della situazione — sempre ad appellarsi nel buon nome della comicità e dello scherzo — non azzardano a proferire battute o risatine.
E addirittura Sara Signorelli trattiene la bocca sigillata, un rigo che mostra una parvenza di incrollabile — colei che dispone d'una lingua biforcuta, d'una acidità che le viene naturale, a comando, d'una superiorità da "alternativa" e l'obbligo di dire per forza la sua ogni volta, il dovere di farti sentire come un qualcosa di sbagliato dall'alto della sua ennesima opinione non richiesta. Ed è per questo che Rainer Kernberger, il suo vicino di banco e ripetente come lei, non può fare a meno di ricoprirla di un'occhiata incredula. Scetticismo innegabile.
Io non conficco il mio sguardo su nessuno, non voglio che vada ad incastrarsi in qualche punto scomodo — punto di non ritorno — o in qualche viso dove non v'è traccia dello stesso disegno d'impotenza e rovina che porta il mio; osservo tutti e nessuno, sprofondando inesorabilmente in una situazione cui trapela un'oppressiva percezione sgradevole.
La professoressa Drago è poggiata alla cattedra, le gambe tese e intrecciate dinanzi a lei una sopra l'altra, un intreccio di braccia stretto al petto sfiorato con delicatezza da ciuffi di capelli, ondeggianti, e la vecchia giacca color avana con artefatti fronzoli di lana che ornano il bordo delle maniche ancora addosso.
Non ha iniziato la lezione, anzi, stava di fatto per annunciare qualcosa, poiché questa è l'esatta postura che assume la nostra prof. d'inglese quando deve fare una dichiarazione generale.
La donna si sofferma a studiare i miei occhi, che nonostante li abbia trasformati in due severi muri di granito rimangono pur sempre arrossati e reduci da un pianto isterico. Non le sarà difficile fare due più due...
"Ora vorrà farmi una sgridata per il ritardo... per essere piombata in classe dopo il suono della campanella. Senza nemmeno aver avuto la bontà di bussare e di sfoggiare una flebile giustificazione...".
Ma la Drago non fa nulla di tutto ciò. Con la mano sinistra, ben distesi l'indice e medio, mi fa un lieve cenno di andare a sedere al mio posto — e abbassa gli occhi mentre lo fa, ne riveste le pupille con il tessuto delle palpebre. Un sospiro abbandona la bordura delle sue labbra, un anelito che non riesco a interpretare, a dargli un significato logico.
È delusa? Scocciata? Preoccupata? Impensierita? Arrabbiata? Prova pena per me? Tante domande prendono a vorticare fra i tralci della mia mente nel contempo che seguo il suo cenno, nel contempo che vado a occupare il mio banco. Vicino a quello di Marta. Davanti a quelli di Diego e Marco.
Raggiungo la mia sedia in legno scheggiato senza osare guardare gli occhi di Marta, e lo stesso vale per i due miei amici. È vero, mi sento in colpa verso di loro, però ancora voglio godermi il lusso di essere incazzata. Ancora per un po'...
Lasciatemi immersa dentro queste acque — e perché no, lasciate che io affoghi.
Così Marta ne prenderà atto, in alcuni casi dovrebbe lasciar stare le cause perse, e Diego imparerà finalmente a darsi una calmata... cosa molto improbabile.
«Ehm... dov'ero rimasta?» riprende a parlare la professoressa stringendo con delicatezza le palpebre, «cosa stavo dicendo? Ah! Ecco, sì! Ero arrivata al punto in cui dicevo del perché non ho iniziato subito la lezione».
E come acquista di nuovo la parola, il sentore di disagio e di imbarazzo magicamente si volatilizza, come se ognuno degli studenti del quinto D abbia liberato un sospiro di sollievo generale.
Lascio cadere lo zaino accanto alla sedia, lascio che sfili attraverso il mio braccio e che atterri senza garbo alcuno, e mi distendo sopra la superficie scarabocchiata del banco — un intreccio di gomiti che funge da poggia mento. Nessuna intenzione di volermi voltare verso la mia migliore amica.
«Sì, ci illumini, prof.!» interviene per pochi secondi Tommaso Cavallacci, soprannominato anche "T1" per via dello stesso nome che ha in comune con il suo compagno di banco, «Mi raccomando, la tiri per le lunghe, non sia breve» dice con la sua tipica comicità e con un occhiolino.
«Vedrai come t'illumino, Cavallacci, non appena finisco di parlare» replica la Drago per le rime e con un sorrisetto diabolico, «ad ogni modo, brevemente» e lancia un'occhiataccia appunto a T1, «volevo informarvi che da questa mattina non sarete più in quindici, bensì diverrete sedici studenti. Fra non molto più dovrebbe bussare alla porta il vostro nuovo compagno proveniente dal liceo artistico Arnolfo di Cambio. E mi raccomando, ripeto, mi raccomando, non azzardatevi a mettervi in modalità stronzi, altrimenti terrò la bocca cucita durante la futura riunione per decidere la meta della gita. Non oserò proporre Londra ed Edimburgo come avevamo stabilito» conclude la professoressa col suo brio vivace e senza veli, il quale non fa altro che dipingerla come un qualcuno da adorare anziché disprezzare. Tutto il quinto D ama Valeria Drago, e se ami il professore allora ami anche la sua materia.
Caspita, sembra quasi di essere tornati alle elementari... con il nuovo compagno che arriva da un'altra scuola... un nuovo giocattolino che fra poco avremo fra le nostre mani.
Un quarto d'ora dopo che la prof. d'inglese ha iniziato la sua lezione, finalmente qualcuno viene a bussare alla porta della nostra classe. E meno male, perché l'intera sezione ha la curiosità di conoscere il nuovo studente schizzata alle stelle, qualcuno potrebbe addirittura morirne.
«Avanti» dà il permesso la Drago mentre poggia con finezza il libro sopra la cattedra, alzandosi in piedi consapevole di chi vi si trovi là dietro.
L'uscio si apre e subito dopo fa il suo ingresso il vice-preside Nobilis, il braccio destro di Gandolfo, anche se non svitato quanto lui e con dei baffoni — seguito a ruota dal bidello del nostro piano, Carlo Carlani, detto "Doppia C", che imbraccia goffamente un banco da aggiungere in più. E poi arriva lui, il ragazzo nuovo che si unirà al quinto D, a noi.
Mio dio... ma quello è... quello lì è senza dubbio il ragazzo che ho incontrato nemmeno mezz'ora fa dentro i bagni delle ragazze!
Eh sì, cadesse un tuono, è proprio lui! La caotica e considerevole chioma di capelli scuri spicca insieme alla sua altezza fuori dal comune e al suo incomparabile cipiglio contrariato, arrabbiato. Effigie decorata alla perfezione da quei nugoli foschi e che non conoscono ordine e quiete — persino le sue iridi ne sono succubi, tumulto infinito. E ciò che cattura ancora una volta la mia attenzione, è sicuramente quella catena annodata intorno alla gola, serrata con un lucchetto. Quello lì è il dettaglio che conferma tutto, che mi dà la sicurezza effettiva che si tratta di lui.
Lì per lì, quando la Drago ha accennato di questo nuovo studente, la mia mente — più che turbata per essere la prima ora — non ha collegato subito. Neanche lontanamente ci è andata vicino. Anzi, quasi avevo dimenticato la nostra chiacchierata avvenuta minuti prima.
«Eccoci qua, professoressa. Consegnato bello e pronto il nuovo arrivato» proferisce Nobilis strofinandosi la punta dei baffi, un tic al quale non riesce a farne a meno.
«Benvenuto in quinto D, ragazzo. Io sono Valeria Drago, la tua nuova insegnante d'inglese» si presenta senza perdere tempo la professoressa mostrando un sorriso tanto sincero e caloroso. Un cenno che metterebbe a proprio agio chiunque. Anche se questo misterioso ragazzo sembra tutto meno che a proprio agio qui dentro al Caravaggio.
Il nuovo arrivato non si spreca a guardare in faccia la Drago, guarda ciò che ha davanti ossia tutti noi, i suoi nuovi amici, la sua nuova classe.
Ci studia con una certa aria arcigna e per niente benevola, roba da mettere in soggezione.
«Qual è il tuo nome?» insiste lei senza perdersi d'animo, facendo un passo verso di lui.
«Mi chiamo Ludovico Auditore», è la breve risposta da parte sua, seguitando a tenere lo sguardo saldo dinanzi a sé.
E appena ci mette al corrente della sua identità, un borbottio di gruppo misto a una risata si leva in aria, rompendo il silenzio. Qualcuno decide di aprire bocca: l'unica persona che può prendere parola in un momento come questo è soltanto una.
«Però... sarebbe stato assurdamente ironico se ti fossi chiamato come l'Ezio di Assassin's Creed!» esclama piuttosto esilarato Tommaso Cavallacci, grattandosi il piercing ad anello che svetta sulla narice del naso.
«Ti crea qualche problema? E comunque sono nato prima io con questo cognome, il gioco è uscito più tardi» un ringhio funereo affiora sul petto di Ludovico, quasi recondito, quasi a provenire dalle viscere di un regno infernale.
«Tecnicamente è nato prima Ezio, nel 1459, caro mio» lo continua a prendere in giro T1, ignaro della reale indole che cela colui che ha davanti.
«Se vuoi mi avvicino e ti faccio vedere come sono uguale a Ezio» lo minaccia l'altro, alludendo senza tanti giri di parole al fatto che Ezio sia un assassino.
Fortunatamente la Drago interviene con prontezza, lanciando un'occhiataccia a Tommaso costringendolo a non replicare, zittendolo.
Poi si rivolge a Ludovico con lo stesso candido sorriso di prima, «Allora, Ludovico, perché hai scelto di cambiare scuola proprio al quinto anno, se posso chiedere?».
Al che mi ritorna alla mente ciò che Ludovico mi ha rivelato istanti fa: lui è stato espulso dalla sua vecchia scuola. Mi domando che cosa abbia combinato... inizio ad avere qualche serio sospetto.
«Non ho scelto di cambiare. Sono stato espulso. Ho scaraventato contro la teca dei trofei uno studente che si comportava da stronzo con me, era sprezzante soltanto perché era un figlio di papà. E credeva di essere intoccabile... diamine, se credeva male» risponde senza vergogna o timore Ludovico, con frasi brevi tuttavia d'effetto. Senza divagare inutilmente, andando con rapidità al nocciolo della questione.
Il silenzio piomba nella classe, incuneandosi nei nostri cuori come fosse nebbia spettrale, intenzionata a portare inquietudine — turbamento verso quella spinosa rivelazione. Persino la professoressa è in difficoltà. Ha le iridi sbarrate e trattiene la bocca aperta, indecisa sul cosa dire.
Per prima cosa, ringrazia il vice-preside per aver accompagnato Ludovico Auditore in classe, per secondo, fa sistemare il banco da Doppia C in fondo all'aula, ringraziando anch'egli e congedandolo.
«I-in classe siamo in numero dispari, q-quindi che il trio Vinci/Cavallacci/Karkaref si divida e uno di loro vada vicino a Ludovico» balbetta lei schioccando le dita in direzione del trio medusa.
Non appena i tre sentono il verdetto inoppugnabile tirano su un teatrino senza pari: T1 che si avvinghia letteralmente a Tommaso Vinci, detto anche "T2", inscenando un pianto di morte come se stesse andando in guerra, e il povero Yousef che non può far altro che guardarli come se avesse davanti la carcassa di un animale morto. Da settimane.
Il pensare che quei tre verranno divisi mi crea una crepa sul cuore... è dal terzo anno che sono sempre seduti in tre e sono sopravvissuti ai colloqui e alle pagelle nonostante il loro costante chiacchierare/urlare/disturbare/ridacchiare.
I professori hanno più volte cercato di staccare quel banco in più, che già il giorno dopo ritornava magicamente a dove stava il giorno prima.
T1, T2 e Yousef hanno superato qualsiasi avversità, qualsiasi ostacolo, poi arrivò Ludovico e vissero tutti tristi e scontenti. Yousef visse per sempre triste e scontento, perché è evidente che tocca a lui dividere il banco e unirlo a quello del nuovo arrivato.
Inutile girarci intorno, Tommaso Cavallacci e Tommaso Vinci sono pappa e ciccia, culo e camicia, sono come i pappagalli inseparabili: dividili e uno dei due muore. Yousef può sempre sopravvivere.
«Siete due cazzoni» sibila Yousef, scuotendo il capo mentre esegue la condanna, «e due segaioli».
Alquanto riluttante e un po' intimorito, unisce il banco a quello portato in classe da Doppia C, con Ludovico già seduto.
«E tu sei il terzo, amico!» esclama T1 facendo a meno di restare serio.
«Ci mancherai, Karkaref. Ti manderemo un biglietto d'auguri per la tua morte» lo schernisce T2 con il pollice all'insù.
«Fanculo», è l'ultima parola che si scambiano prima dell'addio, infine Yousef va a sedersi accanto al suo fresco e nuovo compagno di banco.
Il gigante dell'Arnolfo di Cambio. Quasi un secondo Ares, un secondo Diego...
«C-ciao... bella giornata, eh?» balbetta Yo a Ludovico, cercando di mostrarsi civile e non ostile, sperando di non essere il prossimo a finire con il viso in mezzo a mille schegge di vetro.
Ludovico non gli risponde,pare che non lo abbia affatto sentito poiché egli volta il capo verso... me!
"Cavolo, quel mastodontico ragazzo sta guardando me". Evidentemente lui si ricorda della chiacchierata, meglio di quanto abbia fatto io.
«Ciao, ragazza del bagno» pronuncia con voce priva di emozione — comincio a credere che questo sia il meglio di lui, il meglio delle sue corde vocali.
«C-ciao» balbetto confusa e con la fronte corrugata, «hai... hai trovato tua sorella?». Di colpo mi ritorna alla mente che stava cercando sua sorella, penso sia carino averglielo chiesto.
Ludovico, contro ogni mia aspettativa, azzarda un microscopico sorriso, l'angolo della bocca che si increspa appena verso il cielo. È piccolo, ma è pur sempre una parvenza di sorriso, di gioia.
«L'ho trovata nascosta sotto l'arco delle scale. È stata impacchettata e spedita in terzo B, al Classico» m'informa quasi contento del mio interessamento.
Dannazione! Sua sorella va al Classico? Fa parte della stessa fazione di Leonardo? Cioè, è pazzesco!
Un fratello di qua, una sorella di là.
Rimango letteralmente immobile, bloccata dopo quella notizia sconvolgente, l'arcata del labbro inferiore abbassata a dismisura.
La Drago — quasi avesse inteso che non avrei dato alcuna risposta alla frase di Ludovico — si avvicina al banco di quest'ultimo per spiegargli velocemente il programma che avremmo affrontato nel corso dell'ultimo anno, in vista della maturità.
E proprio in quell'esatto momento, approfittandone, Marta mi passa un fogliettino strappato da un quaderno a righe — sopra vi sono scribacchiate delle brevi e semplici parole:
SCUSACI,
Marta e Diego.
Durante i primi secondi dell'intervallo, prima di uscire fuori nelle scale anti-incendio per godermi la mia pausa sigaretta, prendo da parte i miei due amici con l'intenzione di chiarire questa incomprensione una volta per tutte.
Secondo i miei modesti standard di pentimenti e sensi di colpa, sono rimasta incavolata a sufficienza con loro — anche perché mi si è sciolto il cuore quando Marta mi ha passato il bigliettino alla prima ora.
Bigliettino cui ho riversato per un paio di volte i miei occhi quasi lucidi e poi riposto sulla prima pagina del diario, senza scriverci sopra una risposta effettiva e senza dare una risposta verbale. Ancora non era il momento adatto.
Mi sposto all'indietro, vicino al banco vuoto di Marco, che ha prontamente colto il succo della situazione e si è dileguato insieme a Veronica e Yousef.
Marco ha il meraviglioso pregio di sapersi fare gli affari propri al momento opportuno, evitando di fare domande e trattenendosi dal fare il ficcanaso. È una sua caratteristica che ho da sempre apprezzato.
«Vi invito a non fare mai più come stamattina» esordisco dopo aver inalveato un bel respiro, verificando il livello di calma presente nel mio organismo. La verifica passa il controllo, direi che sono tranquilla e coi nervi distesi. Non avrei dato in escandescenza come stamani.
«In primo luogo, perché non voglio che il Caravaggio al completo venga a sapere del mio incidente con la mano e secondo, perché, questo è per te, Diego, quindi apri bene le orecchie, è controproducente riempire di botte Leonardo Aspromonte dentro queste quattro mura» continuo a spiegare.
Marta — al mio fianco con ancora il polso fra le dita della mia mano sana — rimane in cheto silenzio, il viso reclinato verso il basso e i capelli argentati a coprirglielo dolcemente. Diego, al contrario, tiene i suoi occhi grigi incuneati contro i miei, l'indizio che ha seguito alla lettera ogni cosa che mi è uscita dalle labbra. L'espressione seria mista alla bocca arricciata, significa che mentre ha ascoltato era in guerra se essere d'accordo o meno. L'indecisione del fare la cosa giusta o sbagliata.
In cuor suo, sa che ho ragione, ma sa anche che sarebbe da orgasmo spaccare il bel faccino del dio Apollo, soprattutto se è per vendicare me.
Prima di parlare si prende qualche attimo di riflessione, si restringe nelle spalle e rotea le iridi, mi fa capire che sta per confessare una cosa che gli costa della fatica.
«Mats... una cosa simile mi costerà un certo sforzo, sarò sincero. Ma il bene che ti voglio è troppo grande per vederti... così, come stamattina. E so che era anche per colpa mia, per la mia avventatezza e voglia di passare sempre alle maniere forti» ammette con un sospiro di sconforto misto ad amabilità, «vedrò cosa posso fare al riguardo. Proverò a limitare gli scontri con quel signorino dei miei stivali al di fuori della scuola, ma non ti prometto niente».
«Grazie, Diego. Se non altro è un inizio» convengo mostrando un sorriso sollevato, «e vi devo chiedere scusa anche io, per me è sempre una sfida mantenere il controllo».
Stavolta abbandono il polso di Marta per andarle a stringere la mano, intrecciare le mie dita affusolate alle sue, sempre costellate di anelli di ogni foggia.
«A proposito di mantenere il controllo, esigo la spiegazione di quella fasciatura lì», Diego punta il dito contro l'arto fasciato, «e mi auguro che non sia quello che penso io».
Involontariamente alzo gli occhi al cielo, perché è ovvio che è ciò che Diego sta pensando. Mi stupisco che me lo chieda addirittura.
«Te lo racconterò, lo giuro. Ma solo quando saremo fuori dalla scuola, onde evitare spiacevoli inconvenienti, piccolo Ares», mi metto una mano sul petto a mo' di promessa.
«Mi aspettavo una risposta simile» ridacchia Diego quasi scoraggiato, «be', dubito di poter insistere, allora».
«Esatto, sono irremovibile. Prendere o lasciare» confermo mentre gli faccio l'occhiolino.
«Prendo, prendo. Non lascio mai io, dovresti conoscermi bene! E adesso, se volete scusarmi, signore, me ne vado fuori a fumare. Sono piuttosto stressato e l'arrivo del nuovo ragazzo mi sta facendo agitare» accetta Diego balzando in piedi dalla sedia, ergendosi nella sua altezza non indifferente di gran lunga superiore alla mia e sgranchendosi la schiena.
«Ti fa agitare perché ha il carattere identico al tuo» sottolinea Marta, dando conferma a quello che ho pensato, lo stesso pensiero che ha viaggiato per la sua mente.
«Statte zitta» borbotta Diego con un cenno della mano, «venite a fumare anche voi?».
«Voi andate, intanto. Io prima faccio sosta alla caffetteria, mi voglio comprare una crostatina. Ho una certa fame» spiego — effettivamente stamattina ho saltato la colazione per via degli eventi della sera prima, avevo lo stomaco chiuso.
Quindi ora ho una certa fame. Una crostatina alla fragola del forno di Annabella me la merito! Magari anche un bel succo all'arancia.
«Tieni la guardia alta» mi consiglia Diego con una nota tetra e minacciosa nella voce.
«Guardati intorno» prosegue Marta mimando il gesto del "ti tengo d'occhio" con il dito indice e medio, indicandosi prima i suoi occhi e poi me.
«Mi fate sentire un samurai se mi dite così», scuoto il capo rallegrata dai loro buffi avvertimenti.
«Qui al Caravaggio devi essere un samurai per sopravvivere» asserisce Diego con il gesto di affettare qualcuno, come se avesse in mano una katana invisibile.
Fortuna vuole, e anche la mia prontezza di riflessi nel dirigermi velocemente verso la meta prefissata, che alla caffetteria ci sia ancora una scarna fila di studenti quando mi metto in coda per comprare la colazione. Ma è questione di secondi, perché un innumerevole gruppo di ragazzi già è dietro alle mie spalle, rumoroso e invadente.
Mentre faccio la fila, per ammazzare il tempo in attesa del mio turno, volgo il mio sguardo verso il Banco del Re, giusto per la curiosità di vedere quali sudditi ha intorno oggi il principino Apollo, lo stronzo che mi ha portato a spaccarmi la mano.
Con mia sorpresa, il banco accostato alla meravigliosa statua di marmo dei due angeli è vuoto. Nessuna traccia di Olivia, di Alberto, di Giulio o di Costanza, men che meno di Leonardo. Magari sono a fumare fuori dai loro amati bagni.
"Che razza di ipocriti, se ripenso a quel discorso del cazzo fatto dentro la presidenza di Gandolfo...".
Sta quasi per arrivare il mio turno, ho solamente due ragazze di fronte a me, quando sento qualcosa, o meglio qualcuno, che poggia il mento sopra la mia spalla. È una percezione labile, sfiorarsi celere, come un respiro a fior di pelle. Ma c'è, lo sento, è palpabile, quasi lo potessi stringere fra le dita, quasi avessi il potere di poterlo soffocare.
Il primo impulso — scarica elettrica di mille brividi iniettati di adrenalina — è quello di scrollarmi di dosso chiunque egli sia. Io detesto in tutti i modi il contatto con persone che non conosco e che non ho la minima possibilità di vedere dritto negli occhi, quel toccarsi imposto e d'obbligo, mano invisibile di un vincolo il quale non riesce a incastrarsi con le mie schegge.
È un processo involontario, innato dentro di me, interiormente, custodito con estrema gelosia — utile al quieto vivere e alla sopravvivenza.
Percepisco la linea del mento sopra la mia spalla destra, inesorabile, come fosse un qualcosa di schifoso, di cancerogeno. Animale immondo, desiderio di ucciderlo.
L'impulso incontrollabile di abbassarla è istintivo, movenza intrinseca e della quale non intendo mostrare opposizione, ma una mano mi va ad arpionare il braccio, dita serrate contro la stoffa della maglia, unghie che si conficcano strappando brandelli di lana — ogni tipo di mossa da parte mia è bloccata sul nascere. Nessuna patina di cortesia, nessuna gentilezza.
Ma che cazzo sta succedendo? Chi osa toccarmi contro la mia volontà?!
Poi accade rapidamente — oltre che il mento e le dita, la presenza senza volto mi carezza la bordura dell'orecchio con la morbidezza delle labbra, attraverso i capelli. Avverto il calore del respiro ansante e i denti che si strofinano gli uni con gli altri, anelito frenetico di parole desiderose di conoscere la luce. Un solletico spiacevole, decisamente non gradito.
Mi sta venendo l'orticaria.
«La mossa dei tuoi amichetti angeli custodi non è stata carina per nulla, sai? Dopo che io ho persino avuto il buon cuore di mantenere il segreto....» mi sussurra graffiante la voce della persona dietro di me — l'irto timbro di Leonardo, fautore di perfezione e serafiche fattezze.
Cazzo, ora sì che ho voglia di agitarmi il doppio! Ma finirei con lo sbottare alla esatta maniera di stamattina, per cui m'impongo ordine e contegno. Ce la posso fare.
«Non aspettarti ringraziamenti da parte mia! Non ci sarebbe stato nessun segreto da mantenere se tu avessi evitato di comportarti da testa di cazzo. E inoltre, Marta, il mio angelo custode, aveva ragione, la colpa è tua» sibilo a bassa voce, ringhiando nel suo stesso modo, saettando gli occhi in avanti, tuttavia senza guardare niente e nessuno. Come se avessi Leonardo al posto di quel "niente e nessuno".
«È anche tua, dolce Atena. Sei stata tu ad aver reagito da vera psicopatica» sputa egli con un'acidità degna dei peggiori veleni.
«Magari sono psicopatica davvero, quindi non dovresti provocarmi. Attento, Apollo, potrei infilarti un coltello nel petto. O magari una scheggia di vetro» affermo con un sorrisetto dai tratti folli, senza ritegno.
«Se sei nevrotica, o psicopatica, fa lo stesso, dovresti provare a scopare di più. Ogni tanto, non troppo...» commenta Leonardo sprezzante, e giuro di sentirlo sorridere come sto sorridendo io, crudeltà e provocazione, connubio splendido.
Che razza di essere ignobile.
Ignobile e dannato! Come osa darmi lezioni sul sesso? Ha decisamente superato la soglia del limite.
Sto per ribattere, perché mi è impossibile starmene zitta e buona, però, purtroppo, arriva finalmente il mio turno di ordinare la colazione. Annabella mi osserva gentile e mi domanda affabile, «Cosa ti do, zuccherino?».
E proprio quando sono colta da un'improvvisa indecisione, Leonardo abbandona la presa dal mio braccio, allontana la bocca dal mio orecchio e toglie il mento dalla mia spalla. Lasciandomi libera, ma alterata — corrotta — e arrossata sulle guance. Lingue fameliche danzano sulla mia pelle.
Dopo aver ordinato e pagato la crostatina alla fragola e il succo all'arancia, m'incammino velocemente nella parte opposta, sperando di scorgere Aspromonte in qualche modo. Ma niente da fare, si è volatilizzato nel vero senso della parola.
Mi guardo intorno come una pazza pur di scorgere la sua testa dorata, tanto è grande il desiderio di dirgliene quattro e non lasciargli l'ultima battuta. Quasi che faccio il girotondo.
"Alla faccia che non volevo dare spettacolo al Caravaggio!".
Niente da fare, devo chetarmi e mettermi l'anima in pace. Non posso corrodermi gli organi — non solo il fegato — per causa sua, ne ho abbastanza. Decido d'incamminarmi verso l'esterno per raggiungere i miei amici e fumarmi una meritata sigaretta.
Mentre mi dirigo infuriata in direzione delle scale anti-incendio vengo nuovamente bloccata da qualcuno — nuovamente afferrata e toccata da qualcuno che non ho modo di vedere.
«Ehi, ragazza del bagno» attacca bottone colui che si dimostra essere Ludovico Auditore, il mio nuovo compagno di classe.
«Matilde, mi chiamo Matilde. A te non piace essere chiamato "ragazzo nuovo"", a me non piace essere chiamata "ragazza del bagno". Anche perché lo fa sembrare piuttosto ambiguo!» gli faccio notare con uno sbuffo piuttosto contrariato, rimanendo con il polso artigliato dalle sue dita.
«Quel ragazzo sembrava darti fastidio» sorvola sulla precisazione del mio nome e va dritto al sodo, riferendosi ad Aspromonte.
«Sai, Ludovico? Quello lì è uno dei figli di papà a cui ho fatto riferimento stamattina. E siccome sei nuovo è giusto che tu sappia una cosa, che qui Artistico e Classico si odiano da sempre. Quello non solo è un figlio di papà, ma è anche uno studente del Classico e, onestamente, provo pena per tua sorella» gli spiego con pungente sarcasmo.
Ludovico, stupendomi di nuovo come alla prima ora, sorride una seconda volta, gli angoli delle labbra increspati. Ma in questo caso è diverso — non si tratta di un mezzo sorriso, quasi invisibile. Si tratta di un ghigno lugubre quanto... speranzoso? Un ghigno che indossato da un tipo come lui lo fa apparire ancor più minaccioso di quello che già è.
In seguito, nota la mia mano fasciata, una ruga di perplessità affiora sulla sua fronte decorata dai riccioli scuri.
«Cosa ti sei fatta?» chiede. Naturalmente.
«Ho dato un pugno allo specchio del bagno dove lavoro perché c'era sopra un ragno. Il ragno è morto, io no» rifilo la stronzata del ragno senza avvertire il minimo cedimento sulla mia voce.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top