68. Quando Apollo s'invaghì di Atena




"Lascia che ti faccia dono di un segreto: è solo con il cuore che si può vedere veramente. L'essenziale è invisibile agli occhi."


Il piccolo principe (2015)

















Osservare il mondo dall'alto, simulando di fluttuare con le nuvole, mi ha fatto sempre sentire invincibile, forte come un pilastro di selce, libera come un passero.

Con i gomiti puntellati al davanzale cinerino, livido di screziature, e le sopracciglia ridotte a una staticità talmente inanimata, lascio che le mie pupille, attraverso le ciglia scurissime, si riempiano di un cielo che se ne frega del resto del mondo, e delle sue nuvole, sue dame adorate.

Una torma di boccoli di fumo s'insidia in quella proiezione di colori e creste di tetti rossi, valicando la cinta dei denti stretti, fendendo il vuoto, la pelle delle mie labbra martoriata dai morsi.

I resti dell'ennesima sigaretta svettano nell'incastro delle mie dita — cenere bruciata, tabacco essiccato —, consumata più dal volere del vento che dalla fatica dei polmoni.Soldi buttati.

«Fanculo» schiocco in un'ondata d'irritazione, irruente quanto celere, gettando via il mozzicone con uno scatto incontrollato, mancando per un soffio il contorno del posacenere disseminato di un trionfo di sporcizia e Winston morte.

Le ossa dei gomiti si piegano in un gesto delicato, sollecitando crespe lievissime al fior dell'incarnato, le sommità a calcare con maggior impeto sul davanzale. A sostenere il peso del mio capo, il mento a scavare una voragine nei palmi vuoti, smerigliati dal lavarmi le mani con acqua e sapone di persistenza.

Sperando che quei palmi stessi possano risucchiarmi in una lacerazione di tempo e spazio, buia e stretta, dove soltanto io posso entrare e rimanere. Restare.

Dove avrei potuto lasciare le labbra distendersi, le sopracciglia arcuarsi e quelle urla a bruciarmi sulla lingua come pulviscolo arroventato scivolare via... scoprirle mute, a rintronare come echi dentro la mia testa. Tanto da sentirle io, io e basta. Nel modo, forse, più doloroso di tutti.

Ma il sole eclissato dal biancore di quelle nuvole, a forarle con i suoi dardi di luce, brillante come quel sorriso che le è stato strappato via... mi fa capire che sono ancora qui.

Ritta, dirimpetto alla finestra con le persiane ad affacciarsi sulla Cupola del Brunelleschi, un ginocchio appena piegato, le caviglie mordicchiate da un'attesa inenarrabile, insofferenti, e i capelli cresciuti a tagliarmi il viso. Inghiottita dalla loro parvenza di ombra illusoria.

Sono qui, di carne e di sentimenti. Eppure mi sento così spettro di me stessa, a impallidire sempre di più... un fiore che, inconsapevolmente, si sta abbandonando a se stesso, di nuovo. Ancora.

Imparerò mai? Riuscirò mai a capire? ...A smettere?

Sono qui. Sola. E lei non c'è più. Nel suo modo di esistere anche solo albergando nei semplici tumulti di pensieri, e quello sfavillio imperscrutabile e divergente a incidere l'espressione delle sue iridi.

Esserci, con le dita a imprimere su quelle degli altri, per farti sapere che lei c'era, era lì, è sempre stata lì per te... nonostante quella sbavatura di discrezione e ritrosia che si portava dietro, cucita stretta a ogni rintocco di ciglia, a ogni parola modellata dalla sua bocca, a ogni rollio di capelli.

Voleva che gli altri comprendessero che lei avrebbe fatto di tutto per qualcuno al di fuori di sé, anche se di lei, effettivamente, si conosceva ben poco.

A Thalìa piaceva essere un mistero.

Un segreto inconfessato, astruso.

Diceva che non si sentiva in dovere di raccontare ogni minimo dettaglio, soprattutto quando le orecchie erano troppo foderate di frivolezza e gli occhi macchiati di un'inconsistenza che istigava a recedere.

Le bastava tutto ciò. Farsi amare per quel poco che permetteva di intravedere.

E sono convinta che se avesse lasciato troppo a vedere... gli altri non sarebbero stati in grado di capirla davvero del tutto. Forse lei lo temeva. Forse era una delle sue paure più grandi, il demone dentro che tutti nascondiamo.

Thalìa lo era, era un mistero di ragazza. Scheletri contorti giacevano al di là di quei sorrisi innocenti, sin troppo benevoli... lo avevo accettato quel giorno che mi dipinse la saetta di David Bowie fra ciglia e guancia.

E così successe.

Fra creste di lamiere infiammate e carcasse di placche metalliche increspate come cartaccia appallottolata, da gettare via, Thalìa Obi Malek divenne il più grande mistero mai rivelato del mondo.

E lo sarebbe stata per sempre.

La sua vita stroncata dalla parola "fine" ancora prima di iniziare davvero.

Tutti pensano che quando finisca il liceo, finisca tutto, qualsiasi cosa.

Amicizie, amore, promesse, gioie, delusioni, rimpianti.

Che una grande chiave dorata chiuda quel portone per sempre, confinandoci in un limbo nascosto e intimo. Al sicuro. Liberi.

Ma nessuno ha mai capito... nessuno che abbia mai compreso... che non esiste nessun limbo. Nessun interstizio fra due metà.

Noi siamo semplicemente quella chiave. Forse non troppo dorata, forse mangiata dalla ruggine.Perché la verità è che di piastre preziose, scintillanti, io non ne ho mai avute addosso. Ma la ruggine, in compenso, si è sempre depositata in me, stratificandosi di falda in falda.

Iniziando a fare, poi, quello che le riesce meglio: consumare.Corrodere, disgregare le ultime cose belle che con fatica sono riuscita a conquistare.

E Thalìa...

...Thalìa, maledetta... tu eri una di quelle cose belle.

«Thalìa, tu eri forte... io lo so... eri una delle persone più forti che conoscevo...», trasalisco con le mani premute contro le palpebre, le dita contratte, «perché ti sei lasciata sconfiggere così? Non è da te...».

Non avrei mai potuto accettarlo, riconoscerlo come un evento vero, scandito e fissato nel tempo immutabile, nella stanza in penombra dove sono appesi i quadri dei ricordi. Nemmeno il suo funerale, la bara scura e orlata di fiori bianchi, purissimi, incorniciata dentro i miei occhi, colpendomi con tutta la forza di cui era rivestita, una collisione secca e precisa come una percossa, una staffilata velenosa e dolorante.

Grumi di tristezza e sofferenza rapprese come ferite nel mio viso e in quelli della sua famiglia.

Stordivano così tanto in quei lineamenti deturpati dalle lacrime, dalla consapevolezza che lei non avrebbe mai più fatto ritorno. Una disarmonia talmente inoppugnabile che a stento ho posato il mio sguardo su di loro. Non ci sono riuscita a reggere quelle fattezze corrotte... pesavano troppo, e la ruggine sedimentata in me mordeva con un impeto così concitato che a stento ho rivolto la parola a Italo, il suo ragazzo, e... a Diego.

Sarei crollata da un momento all'altro. Me lo sentivo fin dentro le ossa, le stesse con cui dormo, convivo, vivo.

Tutti, saremmo crollati da un momento all'altro.

Diego non ha versato una lacrima.

Il silenzio aveva sgombrato qualsiasi emozione in lui, impossessandosi di ogni gesto, di ogni più flebile movenza.

Sembrava che la sua effigie, sotto strati di un completo abbinato e dai colori spenti, fosse fatta di granito invalicabile.

In quell'attimo di raccoglimento, fra le pareti esangui e la freddezza di quella chiesa, era come se qualcosa in lui si fosse spento. Rendendolo un automa senza anima.

Thalìa non era una credente. La sua mente aveva detto addio in anticipo alle barriere dettate dal pregare un dio che, secondo lei e la sua concezione di sapere, non esisteva.

Era sempre stata... libera. In tutti i sensi.

I suoi familiari avevano acconsentito a testa bassa alla sua posizione, con il dolce rispetto mosso dall'amore per il proprio figlio... ma hanno pensato che una funzione, avvolta nella semplicità e riserbo, avrebbe messo d'accordo tutti... probabilmente anche lei. Saperci lì, insieme... un'ultima volta...

«Un'ultima volta» sospiro con la voce somigliante a quella di una bambola rotta, la schiena piegata in avanti, vertebra dopo vertebra. Accasciata con le braccia sul davanzale, il volto incassato sulla piega dei gomiti. «Ti avrei voluto dire addio, un'ultima volta».

"Ma probabilmente non ti avrei mai detto addio... ti avrei abbracciata, ripetuto per l'ennesima volta di quanto somigliassi ad Angelina Jolie, e ti avrei offerto una Winston".

Chi mai direbbe addio a una persona che si ama? Dirle di quanto sia preziosa per noi? Con quale forza? Perché nel profondo, sotto scaglie di persuasioni, ficcata in angoli bui e reconditi, abbiamo — nutriamo — quella presunzione che ci porta a credere che quelle persone siano inverosimilmente eterne.

Immortali.

Col respiro a spirare sempre dagli archi delle narici. Caldo... denso... intenso.

Nessuno direbbe mai addio a qualcuno, immaginandosi che l'attimo dopo... quel qualcuno sia destinato a spezzarsi per sempre. Siamo troppo arroganti per crederlo. Troppo tracotanti per pensarlo.

Troppo ingenui...

...troppo di cuore. Troppo riempiti di disincanti.

E quando è il cuore a parlare per noi, a far capolino dalle labbra, c'è sempre un'anomalia a ritorcersi contro.

In un riflesso involontario, assorbiti nelle iridi fastelli di sole, sigillati al di là della cortina delle palpebre calante, come un moto irrefrenabile cui non riusciamo a sfuggirne, lascio che le mie labbra si allarghino in un sorriso.

Ma non di quei sorrisi smaglianti, che scaldano il cuore dipinto negli occhi di chi guarda, quella convergenza incontrollata, il bisogno granitico di piegarsi e soccombere a quell'atto di parole attorcigliate fra denti ed euforia.

No...

Racchiuse in quelle increspature ai lati — che quasi fanno male, tirano come cuciture rifinite in malo modo, e rammendate in fretta, senza alcuna cura — sento che non c'è alcuna inclinazione di serenità, quell'armonia destinata a incarnare un calco di beatitudine.

Scosto appena i gomiti all'indietro, facendogli macinare quei centimetri irrisori al contrario... nell'attimo in cui mi sono messa a parlare da sola, non mi sono affatto accorta di aver reso le mie dita un intreccio di anelli e di pelle, plasmati come fossero una cosa sola, un'accozzaglia disordinata insieme allo smalto sbeccato, di un colore che nemmeno ricordo più.

Inciso nel mio sorriso da marionetta smarrita, non vi è altro che un ricamo di arrendevolezza, un'inflessione dissonante, eppure... la sento davvero come mia, che mi appartiene, familiare.

E soprattutto, la sento concernente, non è un'emozione simulata, camuffata da menzogna, di plastica.

È vera.

È vera come me.

Come Thalìa che non c'è più.

Come questa realtà, che nel suo crudele scorrere del tempo non fa altro che ricordarmelo.

Mi sono sempre sentita così farfalla spezzata, rotta... certa di quel dovere indubitabile che, in un modo o nell'altro, io dovessi provare dolore; avevo gli occhi talmente pieni di quella certezza, adombrati fino sino all'intrinseco, che... non sono mai riuscita a vederle.

A scorgerle, almeno... le ali degli altri. Di chi avevo vicino.

Fragili come le mie, esili, frangibili come neve istoriata in trine di ghiaccio.

E ora lo so. Credo di averlo capito.

Forse... non sono mai stata diversa.

Volavo, libera, prosciolta da quelle catene che io stessa mi ero imboccata non appena il terreno tornava a colmare il vuoto sotto le suole delle mie scarpe. E lo facevano anche gli altri, ci riuscivano tanto quanto me.

Ma non avevamo gli stessi cieli su cui sognare. Soli differenti da rimirare, stelle da ghermire in punta di dita per poi poterci giocare.

«...Chissà che aspetto avevano le tue...» pronuncio con un timbro di voce mi sconquassa tutta l'anima, a farmi sembrare tremendamente sbagliato tutto questo, «saranno state bellissime, come le mie... però tu le mie le hai viste, oh... sì, tu le hai viste».

Una carezza raso capelli mi riscuote dal torpore in cui sono piombata quasi con una certa gratitudine. In silenzio, senza che me ne accorgessi.

Un affetto familiare, che avrei riconosciuto al buio, e fra altre mille e mille imitazioni. Un affetto che spinge con delicatezza sul palmo, irradiandosi per tutto il ventaglio delle dita, sino a collimare su di me, sulla seta dei miei ciuffi bruni.

Quella tenerezza che accosto all'unica persona che non riesce a stonare nella tela orrida dei miei pensieri. L'unica sbavatura che posso contemplare in tutta quella decadenza convertita in stoccate d'avvilimento.

Papà, e i suoi occhi, come i miei, che mi guardano, restituendomi il riflesso di ciò che ha davanti: sua figlia, distrutta un'altra volta.

Solo che... stavolta non l'ho voluto io. Non sono stata io a sentirne la necessità, quel bisogno incompreso e malsano... non sono andata a cercarmela.

Inclino appena il capo, mostrando uno spicchio di viso imbevuto di sprazzi di luce. All'angolo dell'occhio, nel punto preciso dove raramente incido l'attenzione, mi punge un particolare che calca in maniera irreversibile sulla mia curiosità.

Dardeggio, stavolta, entrambe le pupille laggiù, nell'altra mano di mio padre, pendula, rasente il fianco fasciato dai jeans.

E assimilo nella mia considerazione più infossata il plico immacolato e incorrotto di fogli, stretto stretto. Matasse su matasse di pagine perfettamente distese, rassettate con criterio, sottomesse a un'ideale indicibile di ordine. Parole contornate di nero svettano come tante, minuscole formichine.

E una sensazione calda — una congettura che ho ignorato per troppo tempo che inizia a indurirsi  piano piano — scava un sentiero di girasoli nei soffi scossi e tremanti della mia psiche.

«Mati... ti sembrerà assurdo» formula papà osservandomi con una fissità da lasciarmi sconcertata, «soprattutto nel momento meno adatto e consono, ma...».

«...hai finito il libro» concludo per lui, con quella sicurezza a impregnare il tono in cui modulo la fine della frase, e la curiosità estrema che contraddistingue i miei occhi costantemente accesi, vivaci come quelli di una bambina che si rifiuta di crescere.

L'ho capito subito, appena quella catasta fresca di stampa mi ha riempito le pupille, nel modo che si addice alle cose sospirate, trattenute nascoste per tanto tempo, che più si negano, più vorresti saperne di più.

Nell'arco degli ultimi mesi, papà non aveva mai aperto bocca in merito; e nemmeno si era azzardato a farle conoscere la luce al di fuori del suo vecchio computer. Si è preso cura di quel manoscritto con un riserbo esemplare, una discrezione così gentile che non mi si è mai snodato nel cervello il pensiero di curiosare. Anche soltanto un po'.

«Ho finito il libro» dà conferma alla mia osservazione, un sorriso incerto, ma di un fulgore sorprendente, gli imbriglia labbra e ogni piega del volto.

Solleva di poco l'avambraccio, il polso a contrarsi in tutti i suoi tendini, e il biancore di quelle pagine viene spolverato degli stessi cordoncini dorati che imbellettano le mie ciglia, dilatandosi illuminando l'incarnato. L'ombra del suo riflesso viene proiettata dall'altro lato, pungendo le pareti immote della cucina.

«Non c'è mai un momento meno adatto» tento immergendo ogni parola nella pazienza più cheta, tirando le spalle all'indietro, incassandole in un interstizio di vuoto. I muscoli me li sento scricchiolare. «Posso sapere di cosa parla? Non ti sei mai scucito a riguardo... neanche il più piccolo indizio. E il titolo, mi piacerebbe conoscere anche quello».

Fabrizio Castellani arretra di un passo, percettibilmente, mangiando qualche centimetro di distanza da me, forse per guardarmi meglio.

«Non è che farai tardi al lavoro? È un qualcosa che mi piacerebbe raccontarti con calma, senza fretta» si accerta dopo un momento insignificante di attesa.

Allora, io, mi ritrovo a increspare appena la piega indurita delle labbra. L'intenzione di produrmi in un sorriso allietato, per quanto abbia dimenticato di come si fa, ora come ora.

«È da più di una settimana che non lavoro più al cinema, papà. Giovanni stava quasi per mettersi a piangere, ricordi? E poi... di sabato io non ho mai lavorato» gli rammento sforzandomi di non tossire per colpa di un sospiro incagliato nella gola.

«Perdonami... sono come tua zia, smemorato come pochi» ammette chinando di poco il capo, una lieve piega di vergogna si accentua nelle sue iridi.

«Raccontami del tuo libro. Ti ascolto. Forse... non c'è momento più consono di questo. Credo di averne bisogno» mormoro con delicatezza, inclinando lo spigolo del mento, le ossa della mandibola a guizzare sotto la pelle, contraendosi.

E papà assottiglia le palpebre, assimilando la forma della mia effigie in un modo che associo a tutta la bontà e a tutta la dolcezza di questa esistenza inconcludente e senza senso. Illogica, come la struttura artefatta di una storia.

Qualcosa di smuove dentro di me, facendo vibrare ossa e l'involucro del cuore, come fosse agghindato d'una ghirlanda di tralci. Mi fa dischiudere la bocca, distaccare la cinta dei denti, il desiderio di dire qualcosa... ma il silenzio, in quell'istante, assume nel mio palato un sapore deciso, che mi persuade a restare zitta. E non mi provoca l'impulso aberrante di doverlo per forza inghiottire, sentendolo scomodo.

No. Percepisco che quello è il suo posto, il suo giusto incastro, almeno per adesso.

E quel mistero a spirare attorno al racconto di papà si rivela come uno scrigno scopre un tesoro magnifico, che strappa respiro dopo respiro, scucendolo dai polmoni in punta di dita. Lui parla come se si stesse rivolgendo a una bambina con gli occhi pieni d'incanto, incarnando le fattezze di un canta-storie.

«Il mio racconto narra di una bambina... fatta interamente di vetro. Fragilissima e delicata, e deliziosa come un bignè. Ma nonostante la sua fragilità comparabile alla sua meraviglia, amava scontrarsi con il mondo. Imparare l'arte della vita, rompendosi ogni volta e... a ricostruirsi con la forza dei suoi sorrisi, senza badare alle incrinature di cui si rivestiva ogni volta. Si piaceva sempre di più, proprio grazie alle sconfitte. L'ho intitolato... "The little girl with the glass bones". E... sai, Mati... Ondine, la protagonista bambina... un po' ti somiglia».
























Dicesi che con la morte si è finalmente liberi, per sempre.

Esenti da ogni vincolo. Scarcerati da nodi di ossa e cardini di anima. Sciolti da torme di giuramenti e obblighi morali.

Padroni di se stessi. Dominare senza intrusioni.

Eppure...

Io credo che...

A volte non ci sia niente di male nel rimanere imprigionati. Anche così.

Non c'è assolutamente nulla di male.

La sofferenza e il tormento, molto spesso, non sono nient'altro che stati mentali dove ci si confina finché non ci stanchiamo. Poi possiamo tornare a vivere.


























L'estate si posa su di me come un bacio di asfodeli.

Una carezza indorata a solcare gli spigoli delle spalle nude, definite. Soffice con le dita aperte a ventaglio in tanti, minuscoli brincelli di dolce chiarore.

E dalla pelle pallida, cesellata in un biancore marmoreo che pareva eterno, sono scivolata dentro a un incarnato più brunito, l'impressione di essere disseminata di granelli piccini di sabbia, incagliati fra nugoli di efelidi un po' là e un po' qua per il viso.

E quel bacio... si porta con sé un'impressione che distinguo tremendamente familiare.

Un po' come gli occhi incassati nei volti a colmare un vuoto apparente intorno a me. Fissati come piccoli specchi, vetro lustro, e tratteggiati da infinite emozioni, incommensurabili pensieri.
Saremmo partiti per la Puglia, l'ultima vacanza come studenti effettivi del Caravaggio, l'ultima avventura di cui avremmo portato fieramente il nome, a distanza di anni.

Dieci giorni di mare, in giro per il Salento, dove nell'acqua avresti potuto rimirarci le sfumature della tua stessa anima.

Abbiamo deciso di incontrarci tutti insieme prima dell'imminente partenza, per incastrare gli ultimi tasselli di quel mosaico organizzativo, per scegliere i turni dei rifornimenti di benzina, i soldi da dividere per pagare l'autostrada, lo smistamento delle camere della villa una volta arrivati.

Quei dettagli trascurabili, insignificanti nel loro essere... ma di colpo a sembrare così rilevanti quando arriva il momento di partire.

Parco dell'Anconella, questo pomeriggio, pare svuotato da ogni forma di vita. Per il caldo insopportabile, quell'afa oppressiva che fa apparire ogni respiro come una fatica smisurata. Ti si appiccica addosso come marmellata, colando dappertutto.

E forse è proprio per questo che abbiamo scelto di radunarci qui, in un intimo ritrovo confidenziale. Così, quando avremmo sollevato gli occhi, al di là delle ciglia avremmo collimato con uno sguardo familiare... conosciuto... di buona intesa.

Che ci avrebbe adunghiato il cuore, comprimendolo in un appiglio che non avrebbe causato dolore... una stretta sopportabile, ammissibile, che avremmo accettato volentieri, e con gratitudine.

Nelle iridi di Diego, io, non vorrò mai scappare.

Non vorrò mai liberarmi da quelle di Leonardo.

E... troverò sempre la pace in quelle di Marta.

«Thalìa... sarebbe stata troppo felice di partire con noi, domani...» riflette Diego, le parole a spirare fra una ciocca di steli d'erba appena strappati, trattenuti in punta di dita dirimpetto alle labbra. Un sorriso agrodolce a stagliarsi come un automa.

E qualcosa mi si congela nel profondo, oltre le ossa, a cozzare tumultuoso contro quella calura martellante.

Per un istante, pentendomene quasi subito, le mie pupille s'incagliano sull'effigie di Diego, seduto poco più in là, l'erba piegata sotto il suo peso, le ginocchia piegate.

Me ne pento perché già so.

Non è la prima volta che lo vedo in questo modo.

Perché non è necessario che io lo stia a guardare con quella fissità snervante, tipica di chi ti vede per la prima volta dopo un tempo così lungo che pare non avere più senso.

Ormai... i suoi dreadlocks non ci sono più. Da un po' che gli hanno detto addio per sempre.

Il suo addio, per lei.

Esito appena prima di snodare del tutto il mio piglio da lui.

Che mi sarei dovuta aspettare? Che i capelli gli dovessero ricrescere a vista d'occhio per poi arrotolarli di nuovo in miriadi di ciocche spesse e definite?

Ora — al posto di quei dreadlocks che gli hanno quasi segnato la vita, e che lo hanno sempre rappresentato ancor prima di parlare agli altri — una soffice distesa di ciuffetti fulvi infesta la sua testa perfettamente in ordine. Niente più caos. E tutta quell'armonia di colore e compostezza di dettagli, lo rende... in un certo modo... diverso.

Un Diego... discrepante con la persona che era prima.

Ma è risaputo, i cambiamenti spaventano tutti.

Spaventano me, che li ho sempre rincorsi, venerandoli, ed elevandoli a mostri con i quali lottavo costantemente, ogni giorno.

«Thalìa ci avrebbe voluto sereni e non con questi musi lunghi» chioso insieme al mormorio esile del vento, a infierire con ridicolaggine sulle fronde degli alberi, e nei nostri capelli, notando i lineamenti deturpati a imbrattare i visi di ognuno.

Le mie dita, intrecciate in un atto di dolcezza a quelle di Leonardo, stringono appena di più, fanno pressione, fanno forza. Hanno paura che possa sfuggirmi, volare via, come quell'anima fragile che si nasconde dietro guglie di costole e riflessioni ragionevoli, logiche, ricamate di razionalità.

Il cuore sa come proteggersi. Glielo abbiamo insegnato noi.

«Perché la vita è troppo breve... per odiare ed essere tristi. Il tempo non è mai stato clemente con nessuno» scandisco fiammeggiante come una fiaccola abbandonata in un granaio in una notte senza luna, lasciata sola.

E qualcosa si scuote nelle bocche dei miei amici, nei loro polmoni gonfi d'ossigeno, nei loro polsi tremuli.

...Tempo...

In una parola così piccola, così semplice, così di facile pronuncia, è quasi incredibile che vi sia racchiusa l'essenza stessa della vita.

Nel tempo, io ho capito tante di quelle cose... accettate controvoglia... tallonate perché bramosa di afferrarle... sospirate perché io più le volevo, più quelle tardavano ad arrivare.

Ma finalmente... ho imparato a gestire la mia cesta d'emozioni, a domare gli impulsi, a imbrigliare inquietudini. A non farmi divorare come le bestie che rappresentavano per me. E allora io ho tramutato le loro zanne in petali, il loro manto irsuto in roseti cremisi, decorati d'ombre.

Perché sì, le ombre le ho sempre amate, e non avrei detto loro addio tanto facilmente.

«Mati» modella Costanza senza fretta, quasi carezzando il mio nome, «...alla fine hai deciso?».

E il tono della sua domanda assume quell'inflessione che si addice a un argomento che scava un nuovo sentiero, pronto per essere percorso. Le sono grata con ogni parte di me per aver cambiato discorso.

«Sì, ho deciso» annuisco con un sorriso a disegnarmi ghirigori di bontà, «andrò ufficialmente all'Accademia di Belle Arti. Dubitavi, forse?».

«Io non dubito più di nessuno! Dopo che ho assecondato la decisione di Ariadne di partire per Parigi, rinunciando a venire insieme a tutti voi, non sento di dover più dubitare in vita mia» mastica quella frase come fosse uno stuolo di cocci affilati, a sgranare fra l'arcata dei denti, le pupille sollevate al cielo in un gesto di totale mancanza di fermezza.

«Parigi è una città stupenda» sovviene Marta, scostandosi di poco dal braccio di Alberto a fasciarle le spalle, «Emma non fa altro che ripetermelo. E poi vedrai... vi divertirete come matte! Tu, lei e una città intera da visitare, cos'altro vuoi di più?».

«Partire con voi, forse?» pronuncia Costanza con il suono dell'ovvietà.

«Non ti mancheremo!» affermo tagliando corto, «E poi non scordarti che sarai la mia futura coinquilina... dovrai imparare a sopportarmi parecchio».

«E io vi verrò a trovare spesso. Non è così?» enuncia in un sussurrio Leonardo, le labbra a comprimere sulla bordura del mio orecchio, gli occhiali a incastrarsi fra i nodi dei capelli, «Studiamo insieme, ci aiutiamo a vicenda...».

«Intanto pensa a superare il test d'ingresso» gli ricordo senza smettere di sorridere, «il trenta luglio non è troppo lontano».

«Smetti di ricordarmelo, a quello ci pensa già mio padre. E da lui posso anche accettarlo visto che non mi ha fatto storie dopo averglielo detto... che non sarei andato a Economia come lui avrebbe desiderato».

Costanza inarca le sopracciglia in una smorfia di ben poca tolleranza, voltandosi verso Ludovico. Sempre con la sua catena attorno al collo, sempre con la sua t-shirt nera.

«E tu, Ludovico? Hai deciso cosa farai dopo?».

«Andrò a lavorare. Non ho più voglia di studiare, ho chiuso con quella tortura. Ho già dato fin troppi grattacapi ai miei... almeno, lavorando, sento che troverò soddisfazione. Per loro e per me» dichiara Ludovico disteso completamente per terra, il viso reclinato oltre le nuvole, dritto in cielo.

«Mi trovi d'accordo» interviene Diego con discrezione, gettando via quei fili d'erba, «almeno non sei pazzo come me che andrò a tuffarmi a Giurisprudenza. Altri cinque, lunghi anni».

E le nostre voci si mischiano in un connubio che si posa nelle orecchie con un che di gentile. Soffice...

Si mischiano a quel vento spossato dall'estate, da quel luglio di fuoco e dai mattoni della nostra città.

Voci a intersecarsi alla stessa maniera dei nostri legami, con una naturalezza che non conosce confini, e un'autenticità arcana a molti.

Quelle affinità... mi hanno forgiata nella Matilde che sono adesso, nel meglio che potessi sperare. Rendendomi speciale agli occhi di chi mi vede davvero.

Come chi mai smetterà di vedere il rosa nei miei capelli scuri.

Sussulto quando la fronte di Leonardo entra in collisione con la sommità della mia scapola, le palpebre abbassate, immote.

E senza volerlo il mio pensiero viaggia così veloce che sento il mondo attorno a me rovesciarsi. Penso a Claudio, che so aver cambiato terapeuta, anche se... l'amore per Leonardo, quello no, non cambierà.

Penso a Emilio, che ha deciso di smettere di fare il professore per un po', concentrandosi su quello che vuole davvero.

A Laira, che è divenuta una grandissima amica di Celeste, e che so per certa porteranno un sano equilibrio al Caravaggio dopo di noi.

Ogni persona è una storia vivente, e ognuno ce l'ha destinata a proseguire all'infinito, altri a terminare bruscamente, lasciando sgomento chi legge.

Altrimenti, non sarebbero storie...

Poi ci sono quelle storie antiche e buie, d'amore violento e sospirato.

...un po' come la nostra.

Le dita di Leonardo scivolano sullo spigolo del mio mento e inclinano il volto verso di lui. Piano. Un gesto immerlettato d'amore.

Le mie labbra a comprimere con le sue, senza mai più nascondersi, senza dover osare mai più.

Mi bacia, il mio Apollo... in quella Firenze che fino ad ora ha impugnato la penna, figurandosi una narratrice onnisciente.

Scrivendo di noi.

Scrivendo un po' di tutti.

Di quando Apollo s'invaghì di Atena.





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