66. Catastrophes nocturnes



















Ogni persona che affronta un viaggio, non ritornerà mai uguale a come quando è partita.

Breve... lungo... la durata non fa la differenza.

Io sono convinta che nel graffio di un istante si possa sentire l'insostenibile pesantezza di interi anni; la sregolatezza di decisioni impulsive, frettolose, a comprimere violentemente come a farci capire quanto siano in ritardo, uno sfogo dilagante a imprigionare ogni sguardo, ogni espressione modulata, ogni sorriso cristallizzato sulle labbra.

Nel graffio di un istante, si cambia in modi che non potremmo mai prevedere, mai immaginare.Lo senti e basta, lo senti baciare la pelle in uno strappo di sogni e incubi. E da lì tutto si rovescia. Irrimediabilmente.

Un soave declino che ci cala addosso come la caligine sottile di un mattino ancora abbracciato al tenebrore della notte, un orpello crudele che disegna nuove forme nei visi, ghirigori scintillanti a bloccarsi attraverso movenze usuali, per poi manovrarle in direzioni del tutto sconosciute.

In quei sogni e in quegli incubi ci siamo tutti. Dal primo all'ultimo.

Nelle iridi un brillio singolare e straordinario, a mutare in ogni rintocco di ciglia, nelle pieghe delle labbra l'urgenza spasmodica di esprimere qualcosa che, in effetti, rimane inesprimibile. Inenarrabile a soli parole... misterioso se fabbricato con le trame banali della voce. Ma... così dolorosamente, squisitamente colorato se pronunciato col silenzio degli occhi.

E questa sono io, in tutti i miei colori.

A stagliare in piedi in un angolino dell'aeroporto, ritta con le ginocchia piegate e la bustina dei regalini stretta al petto come qualcosa di preziosissimo, e le pupille irrorate di zampilli di brividi inavvertibili. Parole infinite, ad attraversare lo specchio dell'anima, in apparenza riverse nel vuoto, ma... in realtà... a svanire sotto la dolcezza dell'espressione dei miei amici.

E di lui.

Di Leonardo — di un qualcuno che non potrebbe essere mai stato più diverso di così.Adagiato con delicatezza su quel posto che poco fa stavo occupando io, mentre lui se ne restava in piedi. Poi ho deciso di cederglielo, di fare un po' a cambio. La chiamata del nostro volo non avrebbe tardato ad arrivare, non mi è dispiaciuto invertire un po' le posizioni.

Al fior dei suoi zigomi cesellati, precisissimi e ornati dal contorno dorato degli occhiali, affiorano libere quelle parole ammantate dal silenzio, chete, ricamate fra le curve chiare delle ciglia, sussurrate solo per me.

Quando lui mi guarda in quel modo, è come se venissi strappata via dalla volontà del mondo e dello scorrere del tempo. Mi dimentico della costellazione di persone attorno a me, a noi, svaniscono in una nube cristallina di fumo, confinate in un luogo che so con certezza di farvi ritorno.

...Anche se non con tanta fretta.

«Vuoi sederti qui, sopra di me?».

Gli occhi sbarrati si chiudono in uno schiocco rapidissimo. Un masticare accennato di palpebre, aprirsi e chiudersi, parole vere, voce vera, mi fa atterrare dolcemente con le suole delle scarpe per terra. Senza darmi il tempo di contare numeri semplici, la realtà torna a pulsarmi nei timpani.

Tutto riacquista il suo senso: l'aereo di ritorno per Firenze che fra poco avremmo ripreso, il chiacchiericcio vivido e acceso degli studenti radunati in un grande nido, dirimpetto al gate ancora chiuso, i professori a far capolino in cima a tutto quello stuolo di ragazzi, i muscoli delle braccia a pungere come spilli, intirizziti dalla posizione scomoda con cui mi stringo il sacchettino dei souvenirs.

Spingo il piede contro il terreno, modulando il peso da una caviglia all'altra, premendo con più intensità l'involucro di plastica addosso a me, stretto fra un nodo di gomiti. Un rumore lieve di qualcosa a stropicciarsi mi sfiora le orecchie.

L'angolo della bocca di Leonardo mi scruta sollevato, con un non so che di dilettato. Una pennellata di malizia risalta nitida fra quelle labbra di cui ormai ne conosco ogni forma, osservandomi morigerato dal basso, attraverso il vello finissimo delle sue ciglia, e una ventata tagliente di timidezza mi lacera quel che resta della logica.

«Sopra le tue gambe?», ho l'accortezza di chiedergli, per averne la sicurezza concreta.

Eppure, nel mentre che formulo quell'innocente domanda, è come se già avessi la risposta arrotolata nel taschino dei jeans.

«Be'... l'idea è quella. Di certo fra il pavimento e le mie gambe, sono le mie gambe a desiderarti di più» modella piano, con una lentezza sfibrante, ma nonostante quello, riesco a sentire lui, solo lui, in mezzo a tutto quel brulichio di voci.

Una sensazione dolcissima di beatitudine mi striscia rovente fra le costole, pizzicandone una ad una, risuonando di un'armonia ritmata, a impallidire come fa la notte quando il mattino vince a nascondino. Un'armonia che c'incatena in un modo indissolubile. Invincibile.

«Ti avviso, questi cinque giorni non ho fatto altro che mangiare schifezze, sarò ingrassata di almeno due chili» lo ragguaglio con l'arco del labbro stretto fra i denti, lo spigolo del mento in rotta di collisione verso il basso, sedotto dalle linee delle clavicole.

«Uno puoi anche toglierlo visto che... ci siamo dati da fare con il movimento» pronuncia Leonardo in un timbro abissale, i suoi occhi dritti davanti ai miei, a trafiggermi senza farmi male.

In quell'esatto istante, fra le carni sottili dei polsi, il ritmo convulso del mio cuore si flette scalmanato, un tamburellare di pizzicori a non finire mi percuote il contorno dell'osso che sporge sottopelle.

"Proprio un indecente!".

Ed è un attimo talmente veloce, talmente impalpabile, che nemmeno riesco a percepire le dita di Leonardo a scavare sentieri attorno alla circonferenza del polso, morbide. Come se fossi priva di volontà, elevata a un'esile bambola di stoffa e cuciture di lana dai mille colori, mi ritrovo a collidere con le spalle addosso al suo petto, allacciandomi di perfezione sublime.

Un groviglio di respiri e di cuori esemplare, sospeso sulla carta delle nostre emozioni.

E vorrei... vorrei tanto immergermi, lasciarmi ammaliare, nel suo odore così buono, così dolce... ma il vespaio di ragazzi attorno a noi è l'unico bagliore di razionalità che mi trattiene dall'abbandonarmi a lui del tutto, tuffandomi interamente nel suo regno di incanti diroccati e torri di cristallo.

E forse anche quel sentore poco gradevole di sudore rimescolato a quello dei panini riscaldati del ristoro dell'aeroporto che si scopre poco a poco!

Stringo le dita, imprimendo i polpastrelli sulla plastica semi-trasparente del sacchetto. «...Sei proprio uno scemo» dico sottovoce, frettolosa, una punta di vergogna che non riesco a mascherare e una crepa di cedimento.

La stoffa ispessita dei miei jeans che striscia sul velluto dei suoi calzoni e le sopracciglia contratte sono un fioco preludio a quello che sto per pronunciare di più.

«I jeans» comprimo quella parola nei denti, spingendola all'infuori con tutta la buona intenzione che ho, «...non li hai più rimessi da quella volta». Modello quella constatazione con un tono che lascia spazio soltanto a se stesso, una circostanza comprovata proprio dipinta nella distesa colorata dei miei occhi.

Un accento di perplessità grava nel modo in cui sgrano il tessuto morbido al di sotto di me, perché mi sono sempre chiesta il motivo, mi sono sempre interrogata del perché un ragazzo come Leonardo snobbasse un capo d'abbigliamento che addosso a lui sta davvero da... dio.

Gli do le spalle mentre parlo, gli orli appuntiti di quest'ultime incollate al suo sterno. Ma dentro di me so che le sue iridi, come spilli, mi bucano impazienti il contorno della nuca. Una staffilata frettolosa di brividi mi attraversa la gola, ridotta tutta a un vuoto inghiottito in solitudine. Quel groviglio si incastra appena dopo, scatenando un colpo di tosse secca, perché le braccia sinuose di Leonardo si annodano a me con una dolcezza possessiva che non mi lascia scampo.

Vengo percossa dalla disgregante cognizione che sono totalmente alla sua mercé.

Perché con quei suoi magnifici gesti lenti e modulati, aggomitolati da volute di raffinatezza ed eleganza, mi fa avvicinare a lui senza nemmeno che possa prenderne coscienza in tempo reale.

Solo il tocco del suo sterno ad aderire alla mia schiena, preciso, come se gli spigoli non fossero mai esistiti per noi. Solo il suo abbraccio calato su di me, facendomi rendere conto troppo tardi. Che poi... troppo tardi... dipende dai punti di vista.

Le mie pupille, di sottecchi, seguono le movenze discrete delle sue dita, appena intrecciate fra di loro, imprigionandomi in una chiostra di pura delicatezza. E non so dirlo con quale certezza... se sia il suo volermi tenere stretta a sé — come avesse il terrore che io fugga via, lontano da lui —, o se sia la sua voce fievole a riscaldarmi il lobo al di là dei ciuffi dei capelli, ad aprirmi le labbra in un sorriso di bambina.

Non lo so. Però... chi ha mai detto che un sorriso debba per forza avere una spiegazione?

«Perché t'interessa così tanto? Una volta non ti è bastata?» soffia piano, per farsi sentire solo da me. Un tremore inconsolabile mi punge dappertutto quando mi aggrappo alla bordura del suo braccio in uno scatto incontrollato.

«Perché... be'... non ti stavano così male» mastico coprendomi il viso con i capelli, inclinando percettibilmente il volto all'ingiù, «sei tornato troppo presto al tuo amabile velluto».

«Non mi stavano così male?» ripete per il semplice gusto di punzecchiarmi un po', scostando lo spigolo del mento dall'altro lato del mio sorriso camuffato.

«No... te l'ho detto» insisto con una sensazione sofferta di esitazione. Leonardo mi stringe ancora di più a sé.

Ed è come se venissi afferrata da dita invisibili per le costole, sollevata nell'aria, verso il cielo coperto dal tetto di quel luogo così stretto e a cui avremmo detto addio.

È un potere maliardo che possiede soltanto lui — mi traveste da petalo di rosa per poi soffiarmi via. Libera da sbarre di ossa, i suoi occhi a rincorrermi in un gioco destinato a non finire.

«Vuoi sapere la verità? La verità è che non riesco a spiegarmi come facciate tutti voi a indossarli per più di mezza giornata. Li trovo dannatamente scomodi» ammette Leonardo, la mandibola ad affondare sulla cresta della mia spalla.

«Questo è perché sembri un ragazzo di altri tempi. Sei... vecchio dentro» celio in un risolino.

«A modo nostro ci sentiamo un po' tutti fuori posto, no?» realizza morbidamente, con una certa nota di leggerezza a intridergli la voce, «Lo dico persino io, che agli occhi degli altri sembro la perfezione assoluta...».

A modo nostro ci sentiamo un po' tutti fuori posto.

Oh... non c'è mai stata una verità più nera di questa a inchiostrarmi l'anima.

Leonardo fuori posto nei suoi jeans, Marta fuori posto nei suoi sentimenti, Diego fuori posto nell'innamorarsi delle persone sbagliate, Marco fuori posto nei suoi silenzi, Ludovico fuori posto nel suo essere incompreso, io fuori posto nel mio essere Matilde me medesima.

Perché quando le persone vengono al mondo, una parte di loro, imperterrita, si ritorcerà sempre contro d'insoddisfazione, con quell'infelicità che si addice ai disillusi cresciuti fra campi di disincanti. A ricordarci costantemente di quanto sia davvero facile sentirsi... sbagliati.

Anche in un semplice paio di jeans scomodi.

«Però è bello quando troviamo qualcuno con cui essere fuori posto insieme, non pensi?», all'angolo dell'occhio m'imprimo il profilo aggraziato di Leonardo, una sbavatura di colori fugace e sfuggente ammirata da questa angolazione.

«Penso che abbia il sapore di una poesia che ti entra nel cuore, e non dà dolore, non porta tormento... è la serenità nella sua forma più ancestrale» statuisce Leonardo abbassando le ciglia, il tremolio delle sue ginocchia a pervadermi le anche.

E alla fine silente di quei cinque giorni a Berlino, nostra ultima gita delle superiori, sento scivolare in me, piano piano, una sensazione deliziosa di pace. Delicati come gemme di rugiada, quei tasselli incorporei che finalmente trovano il loro incastro tornito in tutta l'immensità caotica di quel mosaico di vite e legami, di pensieri e parole. Di persone e anime.

Il vociare chiassoso che colma l'aria attorno a noi diviene sempre più rumoroso... o forse siamo noi troppo distratti ad affogare l'uno nell'altra anche nell'essenziale atto del parlare, a non averlo sentito davvero.

La figura di Geronimo Del Gaudio sorge al centro di tutto quel nugolo di studenti, a stridere appena il suo viso macchiato dall'angoscia di quel gate che ancora si ostina a restare chiuso, sigillato.

Si accosta di continuo nei pressi di quell'accettazione, macinando metri avanti e indietro, ansioso come nemmeno l'avevo visto alla partenza.

«Geronimo, per l'amor divino del cielo. Datti una calmata e ritorna a sedere! Metti ansia anche a me così!» lo redarguisce spazientita la professoressa Drago, acciambellata nel suo posticino, le gambe accavallate.

Non ha ancora infilato il suo corpo asciutto e definito nel cappotto; pelle lattea si staglia in quella porzione scoperta dal satin della camicetta, aureolata dagli sbuffi biondi dei suoi capelli abbandonati al disordine di una corsa frettolosa in aeroporto e dalla mancanza di un buon balsamo.

«Io non ho ansia, voglio solo che quel maledetto gate apra! È in ritardo di più di un quarto d'ora! Questa Germania mi sta soffocando, Drago!» esclama l'altro vagamente impermalito con una mano ad agganciarsi ai riccioli ad agghindargli il capo, incaponito a rimanersene ritto in piedi.

«...Che rimanga in piedi allora» pronuncia Emilio in un timbro moderato, sollevando le iridi al cielo.

«Il vostro professore di filosofia fa sbellicare dal ridere. Ma voi come cavolo fate a fare lezione con lui e a star concentrati?» odo Giulio Viviani domandare al trio di Diego, Marco e Yousef, l'effigie di un sorriso sghembo a tagliargli il volto di sbieco.

«Io di solito dormo» confessa Yousef con uno sbadiglio a scoprirgli la cinta dei denti di un biancore pulitissimo — negli ultimi tempi ha smesso di fumare, è da un po' che non lo vedo inforcare una sigaretta fra le dita, e soprattutto... ha fatto molto spesso visita dal suo dentista.

«Io invece faccio finta di essere dentro la struttura di un manicomio durante la sua ora. Me lo immagino a blaterare dall'interno di una camicia di forza... perché, andiamo... ragiona! Quello là non può essere sano di mente!» proferisce Diego stringendosi nelle spalle.

«Ricorda che ci vuole un pazzo per riconoscerne un altro» trilla Marco mentre seguita a sbracarsi, accasciandosi come se il suo fisico fosse composto di un qualche liquido artefatto, sciogliendosi in una posa rilassata a dispetto del teatrino di Del Gaudio.

A dispetto dell'effigie di Midorin accomodata accanto a sé, le dita intrecciate rasenti le ginocchia, in una postura talmente rigida e mitigata che mi chiedo come facciano i suoi muscoli a non contorcersi dalla scomodità, dal fastidio dovuto a rimanere nella stessa posizione per troppo tempo. L'arcata della spina dorsale talmente ben eretta che una scossa di disagio punge me, anziché lei.

E quei capelli, sottili e delicati come il raso più pregiato, a scivolarle serafici ai lati del suo dolcissimo viso a cuoricino.

Un frastaglio rilucente spicca dalle sue iridi scure come solo le tenebre sanno fare, quel lampo accecante di interesse, mirato solo e soltanto a una persona, quell'impressione inesprimibile che tutto intorno a te svanisca in una nube astratta, così insignificante che quasi scoppieresti a ridere.

Le sue pupille divorano ogni spigolo, ogni contorno, ogni curva di Marco. Lo imprigionano sempre di più, per poi non lasciarlo mai più andare via.

«E infatti guarda chi sono i miei amici...», Diego allarga le braccia senza smettere di fissare il proprio amico, «sani di mente esattamente quanto me».

«Ma voi vi rendete conto che quando ritorneremo a Firenze, nel nostro Caravaggio... ci attenderanno le simulazioni d'esame?» interviene Thalìa dopo aver preso un sorso d'acqua dalla bottiglietta.

«Già c'è Del Gaudio a rompere le palle con la sua ansia. Ora non ti ci mettere anche tu», un ringhio sinistro affiora dal petto di Ludovico, che riversa sulla sagoma slanciata di Thalìa un'occhiata non troppo di bontà.

«Ma lo sai anche tu che prima o poi dovremmo affrontarla... la maturità» insiste la ragazza piantando un piede per terra e facendo oscillare l'altro con casualità.

«Io non credo di essere pronto. Anzi... credo che proprio non lo sarò mai» ammette Diego in uno schiocco sconfortato di labbra, stringendole l'una sull'altra con una smorfia intristita.

«Potresti provare l'ebbrezza di farti bocciare, allora», Marco torna alla carica, modellando con il palmo della mano una pacca all'altezza della sua scapola.

«Vi prego, qualcuno zittisca questo rompicazzo... ve lo giuro, non lo sopporto più! È cinque giorni che sento la sua vocina a perforarmi i timpani, un martellare insopportabile perenne!» borbotta Diego cercando di scostarsi dal tocco dell'altro, la bocca affollata da una pazienza che va sgretolandosi.

«Nessuno può zittire la voce della coscienza».

Eppure Marco non è mai stato più in errore di così.

Dalla lontananza dalla quale siamo seduti io e Leonardo, riesco a scorgere ogni cosa con percezione quasi ovattata, ma vedo, ogni cosa mi si disegna di ghirigori nitidi ai confini degli occhi, imprimendo nel cervello immagini così chiare da lasciarmi a bocca aperta.

L'unico movimento che si prostra innanzi al mio sguardo incredulo è il braccio piegato che Midorin protende dirimpetto a sé. Le dita aperte a ventaglio, pelle nivea a spiccare in tutto quel formichio di voci, decise come la stessa volontà dipinta nelle sue pupille, il riflesso di quello che di lì a poco si sarebbe compiuto.

Ha i polpastrelli affusolati, Midorin... e s'incuneano in un modo impeccabile alla linea dritta della mandibola di Marco. Un incastro che non lascia nulla da dire, un'unione di favole.

Come una corona a far da aureola al suo re.

Nessun pensiero ad attraversarmi la mente, rimango solamente... a osservare.

Osservare il viso di Marco ruotare dall'altra parte, nel punto in cui Midorin vuole che arrivi come una destinazione anelata dopo un lungo ed estenuante viaggio.

«...Sfida accettata, vediamo se riesco a zittirla io» è l'ultima frase che si srotola dalla lingua di Midorin Ayasaka, il mento inclinato appena all'esterno.

Senza smettere di fissarlo un singolo istante, le sue dita si arrestano rasenti le sue labbra piccine, da bambolina, le punte dei nasi a sfiorarsi come calamite opposte, i loro respiri si mischiano in quella vicinanza illegale...

Non un attimo di titubanza, non una lama di incertezza o di vulnerabilità.

In una maniera rara, così sua, così da Midorin, imbrigliata a un silenzio legato al suo occhieggiare inimitabile, così schivo... così intessuto di significati... si avvicina a lui quasi fosse uno specchio a restituirle la sua stessa intenzione.

E vorrei gridare... vorrei saltellare dalla contentezza quando, finalmente, le loro labbra s'incontrano, plasmandosi insieme.

Ma nessuno meglio di me sa che l'urlo più rumoroso, colui che spacca il respiro e che fende l'aria, è proprio quello pronunciato dal cristallo degli occhi.

«Ragazzi! Zaini in spalla, il gate ha finalmente aperto i battenti. Si torna a Firenze...», è l'ultima cosa che sento prima che abbassi i veli delle palpebre, soggiogata da questa gita che sigillerò per sempre nei tralicci ricurvi cuore.
























Agli albori di settembre, quando il sole districava le sue corde di luce impallidite di nebbia fra i tetti di Firenze, filando piano sino ai miei occhi dischiusi ancora rivestiti di sonno, pensavo alla maturità in una maniera talmente viscerale — irrazionale nel suo essere terrificante — che mi faceva ritorcere le dita, un moto d'angoscia pungente che mi portava a staccarmi le pellicine dai contorni delle unghie e che istigava i denti a mordicchiare quest'ultime fino alla carne.

Avvolta da quei mattini improntati ancora d'estate, prima di entrare in classe — prima che Leonardo e i suoi drammi tornassero a bussare ricordandomi di quanto fosse nitida la loro esistenza —, lasciavo che quel pensiero mi travolgesse con tutta quanta la forza che ne serbava il suo significato.

Maturità.

Esami.

Ultimo anno.

Mondo degli adulti.

L'adolescenza che scivola via da te senza che tu te ne accorga, consumandoti piano piano, conservando nient'altro che rimasugli di ossa sbiadite e dedali di reminiscenze lasciate ad avvizzire.

L'adolescenza che ci rende cacciatori mossi da istinti ad anelare gli istanti.

Erano parole che, per me, congelavano il sangue nelle vene, pizzicando oltre la pelle. L'impulso irrefrenabile di grattare via qualcosa che non c'era, di scorticare fino a che non fosse sopraggiunto il silenzio, assopendo quel formicolio insopportabile.

Poi, con il tempo a rintoccare a volte crudele, a volte più bonariamente, ho capito. Sono riuscita a capire.

Ho imparato che maturità, esami, ultimo anno, mondo degli adulti, adolescenza che scivola via... non sono altro che parole.

Vocaboli più incerti di altri quando sovvengono in punta di labbra, con una difficoltà appena più marcata nel trovare il loro equilibrio.

E mentre osservavo e vivevo pagine di compiti, inchiostro di libri, interrogazioni sospirate, cuori scordati come strumenti dimenticati, orpelli di sorrisi come nelle favole e lacrime, lacrime e lacrime, infiniti rivoli di lacrime, morsi bagnati a deturpare visi che non se lo meritavano, sono riuscita ad arrivare sin qui... ad arrivare fino al 31 maggio senza farmi venire un infarto.

Senza soccombere davvero a quella paura primordiale tanto decantata dagli studenti che furono prima di me. Atterrando a piedi pari, issata su caviglie tutt'altro che tremule, il cipiglio della fronte rigido e le mani ritorte in due pugni stretti, i polsi di pietra.

Avere paura è normale.

Provare quell'infido tumulto irrefrenabile, inquietudine pura, per qualcosa che marcia verso di noi a passo inesorabile è più che normale.

È tutto nella nostra testa il modo di aggirarlo, quel timore, nascosto nell'ombra, in attesa di essere strappato via e di aiutare, di sentirsi utile.

Iniziare, a piccoli passi.

Fare mente locale, mettendo mano e cervello al programma intero di tutto l'anno sino ad oggi. Riunirsi in compagnia, confrontarsi con le proprie idee, divorando ore e ore di studio.

Che poi... passano veloci le "ore e ore di studio" quando si è insieme. È un po' come la felicità... il sudore dell'impegno è reale solo se condiviso. Frastagliato in tasselletti piccini, distribuiti equamente ciascuno. Ognuno sorregge e si sorregge grazie agli altri, un equilibrio definito e inappuntabile: il segreto di qualsiasi trionfo.

«Ancora non capisco una cosa...» tenta Ludovico, dando voce a un'intera generazione di studenti forse un po' troppo disincantata, «perché noi dobbiamo studiare proprio di domenica. Se è domenica, è domenica per un motivo».

«Perché per noi, da domani, arriva giugno. E non è sinonimo di vacanze estive, testone», la risposta tempestiva, quanto sbrigativa, di Diego non tarda ad arrivare, «di sicuro sarai ammesso agli esami, non far pentire quei poveri diavoli dei nostri professori di questa decisione».

Le bocche di Marco, Thalìa, Costanza e Alberto si aprono stirandosi in quelli che paiono sorrisi dilettati.

«E poi... tu non studi nemmeno quando è lunedì, martedì o mercoledì. Che differenza fa la domenica?» aggiunge dopo un istante di silenzio, graffiato percettibilmente dallo sfregare della matita sul foglio di carta della sua tesina scarabocchiata come se avesse più di un anno vita, e non otto miseri giorni.

«Diego non voleva essere duro, Ludovico, però ha ragione. Da domani inizia ufficialmente il conto alla rovescia per noi» lo rassicuro gentile, la mano a impugnare l'evidenziatore che ruota dall'altro lato della pagina del libro.

Dall'apprensione, non è che abbia sottolineato le frasi più significative e importanti, ma ho colorato interi paragrafi, torri di parole e comignoli di spiegazioni, persino le citazioni fra parentesi.

...Sono un caso perso.

«Diego fa bene a essere duro» fa eco Leonardo con voce calma, seduto dall'altro capo del suo salone, affacciato con i gomiti sul legno levigato della tavola da pranzo e il dizionario di latino a incorniciare i suoi appunti rassettati senza farli soccombere al peso del caos, «domani sarà il primo di giugno. Il che significa niente più scherzi».

Le lenti cristalline aderiscono con un'urgenza diversa dal solito ai suoi occhi rovinati dal morso della tensione. Ma Leonardo ha imparato dalla migliore, a celare le emozioni scomode. C'è un che di Lucrezia a ogni suo fremito di ciglia. E gli altri non lo vedono, ma c'è dell'artefatta tranquillità in ogni semplice movimento.

Nel modo in cui si rigira la penna fra le dita, come stropiccia l'angolo del foglio, torturandolo in avanti e all'indietro, il gesto con cui la carne del labbro cede sotto il volere dei suoi denti, il tremolio percettibile e nervoso della caviglia, pendula nel vuoto di una gamba accavallata.

«Voi due insieme mettete un'ansia indescrivibile. Vi caccerei da qui se solo fosse casa mia» chiosa Costanza gettando la testa all'indietro, una nuvola di ciuffi bruniti a macchiarle la t-shirt a maniche corte, «facciamo così, la prossima volta tutti a studiare da me. Almeno ho il diritto di gettare giù dal balcone chiunque mi alteri il sistema nervoso».

«Ormai sono diventati culo e camicia, Costanza». Le ciocche scure di Alberto fanno capolino dall'orlo della poltrona, un timbro di voce attraversato da un pizzicore di... non so spiegarlo bene... «...potrei quasi essere geloso della loro amicizia».

Ecco.

Marta, appollaiata in una postura elegante nel suo intreccio scoordinato di gambe al confine dei tessuti del tappeto, eppure di una parvenza idillica, si volta verso di lui con una smorfia rassegnata appiccicata in fronte.

«Avevi una vena simpatica e io lo so solo adesso?» replica Diego profilando il viso, oscurandolo in quei dreadlocks che negli ultimi mesi sono cresciuti a dismisura.

In molte occasioni io e Marta gli abbiamo intimato che era arrivato il momento giusto per tagliarli, una volta per tutte, tentando anche di fargli ammettere che una capigliatura come la sua, a lungo andare, diventa giust'appena ingestibile.

E Diego... be', Diego ha semplicemente detto che avrebbe accettato quel taglio drastico soltanto a seguito di un episodio drastico. La fine della maturità, in tutta probabilità.

O forse l'iscrizione all'Università.

Che in entrambi i sensi, qualcosa di radicale c'è eccome.

«Ce l'ha da sempre la vena simpatica», Marta schiocca la lingua di disappunto, «questo non è niente».

«Già, questo non è proprio niente... ma tu mi ami soprattutto per questo, no?» chiosa Alberto con una sfumatura particolare a inghirlandargli la voce, a naso dritto.

«Io non amo proprio nessuno. Avrai sentito male...», all'orlo delle labbra di Marta le parole assumono le pieghe di un sussurrio delicato, e nelle sue iridi mi sembra di scorgere un luccichio fuggevole, quella discrezione che si scopre nei segreti più preziosi che abbiamo.

Infila il viso per intero nella concavità di quel libro in equilibrio fra le ginocchia, annegandovi qualsiasi emozione affiorata nei suoi occhi.

«Dici davvero?», e quelli di Alberto calamitano fra le onde dei suoi capelli, sperando di trovarvi uno spiraglio per catturarle quello sguardo così sfuggente, la bocca non più atteggiata in un sorriso da sbruffone.

«Oh sì, ultimamente hai sempre le orecchie foderate. Secondo me stai diventando sordo». L'effigie di Marta si accartoccia sempre di più.

«Starò anche diventando sordo... ma ancora non racconto cazzate» ringhia l'altro ormai spazientito, balzando in avanti, divorando la distanza irrisoria che li stava separando fino ad ora.

Scivola dietro la cresta della sua schiena con una semplicità che lascia estasiati. I cigli delle braccia fanno capolino dai fianchi di Marta e la decorano di un merletto del tutto unico, del suo amore più intrinseco, e assoluto.

Un gesto affatto pretenzioso, ma dolcissimo nel suo essere... un po' come la trasformazione di Alberto in questi ultimi mesi. Di quel manto d'arroganza cui non si tirava mai indietro dal mostrare, ora ne è rimasto quasi un alone sbiadito, una pennellata che sbianca ogni volta che interseca le iridi con quelle di Marta.

Sembra quasi... una magia.

«Sento caldo, scollati» modula Marta con il tono mescolato a una punta di bugia.

«L'ultima volta che ho sentito questa frase eravamo ai Cento Giorni e tu, Alberto, ti sei beccato una gomitata fra le costole. Ti è mancato il fiato, a quanto ricordo» sentenzia Costanza riemergendo dal suo stato di apatia e indolenza, sbarrando appena le palpebre da un torpore invisibile, «poi non rimembro nient'altro, dato che mi sono ubriacata senza un domani».

Forse Marta ha ragione, almeno un po'. È effettivamente caldo qui dentro; nugoli di bollori si ammucchiano agli angoli del salone della villa di Leonardo, e nonostante le finestre spalancate ad affacciarsi in giardino, sospiri fiacchi e respiri pesanti sembrano ostinati a non andarsene via dai nostri polmoni ingolfati.

Un grumo oppressivo che arranca a dismisura — magari qualcosa da bere di ghiacciato sarebbe stata la soluzione migliore.

«Non... non l'avevo fatto apposta! Mi sono solo divincolata troppo bruscamente...» corre Marta a giustificarsi, i muscoli tesi sotto l'intreccio delle braccia di Alberto.

«...Avresti potuto uccidermi, Signora dei Sith», e lui infila il dito nella piaga.

«E avrebbe fatto cosa buona e giusta» sillaba Costanza inquieta, gettando via, lontano da sé, la bozza della tesina come fosse lacrimevole carta straccia, «sentite, io in queste condizioni non riesco a studiare. Mai più un raduno così, Leonardo, è troppo deleterio. Fosse stato un raduno alcolico o un pomeriggio a tema film da Oscar e schifezze avrei potuto persino chiudere un occhio... ma così... no, non ci siamo. Studiare è un'arte che l'ho sempre venerata come atto di raccoglimento per stare da soli».

«Allora non dovevi disturbarti a venire oggi, prenditela con te stessa, non con il proprietario di casa», Leonardo si sporge all'indietro, comprimendo le spalle allo schienale della sedia, un'occhiata schietta che tracima dai contorni degli occhiali, «o forse... speravi che qui ci fosse qualcun altro» e pronuncia l'ultima frase con lo stesso rumore che ha una stoccata di spada.

Quel "qualcun altro" spira attorno a noi in un modo talmente scomodo che ammutolisce tutti, perfino uno come Ludovico.

Una sensazione di disagio s'infila fra le pieghe della fronte di Costanza, arricciandola come se avesse appena addentato un limone per intero, con tanto di scorza.

Un lampo veloce le taglia lo sguardo, da pupilla a pupilla, ineffabile, di un significato che conosce soltanto lei. Eppure... non così estremamente complicato da capire.

In quel tassello di tempo dalle fattezze immote, d'improvviso, mi sento di troppo. Una macchia nera in un mare idillico di biancore, una sbavatura dalla forma di polpastrello in un dipinto che doveva rasentare quello si dice impeccabile.

Scosto qualche pagina all'indietro, spillandole con una graffetta mobile, il punto esatto in cui sarei dovuta arrivare a studiare almeno alla fine di quel giorno. E quando finalmente decido di alzarmi in piedi, le ossa delle ginocchia a cigolare per quella posizione contratta per troppe ore, scorgo le mie dita venate di baffi d'evidenziatore.

Giallo, arancione fluo, viola, e anche azzurro.

Osservo quei segni sbaffati da sotto le ciglia, e non riesco a reprimere un sorriso sapendo che da un po' non pitturo più le unghie con gli smalti. Le mie mani hanno quasi perso... di personalità.

Non sento il bisogno urgente di andarle a lavare, rendendole di nuovo limpide, presentabili. Non subito, almeno.

Avrei tenuto strette ancora con me quelle rifiniture che, a poco a poco, sarebbero divenute sbiadite, mescolandosi con il lindore dell'incarnato ammansito dai rintocchi dell'inverno e dalla comodità di strati e strati di maglioni.

«Che ne dite di fare una pausa? Dieci minuti lontani dalle catene dei libri? E... un attimo di respiro» propongo sentendomi invadere da qualcosa che si potrebbe definire come impazienza scalpitante.

Una tensione convulsa di nervi all'altezza dei polsi, nell'esatto istante in cui impiglio lo sguardo sull'effigie profilata di Costanza, e il suo volto chino, i ciuffi scombinati a morderle gli zigomi.

Mi fisso su di lei, cercando di scorgere quella parola di troppo modellata da Leonardo, tentando in qualche modo di scovare il punto in cui è andata ad annidarsi, infestandola di pensieri non proprio gentili.

Costanza è una ragazza che, nel tempo, ho imparato a capire a piccoli passi. Con una pazienza smisurata e tanti di quei sospiri a orpellarmi gli angoli delle labbra.

Quando ho iniziato a comprendere che il detto "non giudicare un libro dalla copertina" con lei non attaccava, e non l'avrebbe mai fatto. Mai e poi mai.

Io, che della pazienza nemmeno sapevo che forma avesse, neanche che sapore potesse acquisire una volta attecchita al fior della lingua e del palato, pronunciata con la mia stessa voce.

Niente — perché io obbedivo, mi piegavo solo al volere e ai desideri di atti rabbiosi e scatti d'ira.

Che chiudevo gli archi dei denti in una morsa ringhiosa e incontrollata attorno a quelle unghie perché sapevo di non essere forte abbastanza, sapevo di possedere una debolezza sopra le righe, una beffa spropositata al cospetto di quel nome che con tanto ardore mi avevano cucito addosso.

Atena.

E per me era qualcosa di inconcepibile, essere debole.

Mostrare agli altri cicatrici che mi avrebbero messa a nudo, far vedere che anche Matilde Castellani può cadere e farsi male, sanguinare inchiostro e piangere gocce di pioggia sporcate di morte.

Mostrare a tutti la verità: persino la più fulgida, incorrotta, resistente statua di marmo può rivestirsi di crepe, e crollare.

Le divinità cadono.

Se fatte di carne e di sangue, soccombono.

E proprio perché fatte di carne e di sangue che ho imparato una cosa... non mi serve attingere dalle gesta di un dio, non mi servono peculiarità allacciate a un punto troppo indefinito del cielo per sapere che la forma più alta di potenza e di immortalità è proprio la bellezza e la semplicità della condiscendenza. Di un'accettazione conquistata. E di gesti infiniti di bontà.

Perché niente addolcisce un cuore meglio di una carezza colma di bontà d'animo.

Niente.

E con Costanza non serve essere forti, non serve irrigidirsi in maschere di alabastro e corazze di acciaio... ma farsi vedere per quello che si è.

Fragili come petali, disposti a restare in piedi come steli e spine.

«Io sono già in pausa» scandisce Alberto, respirando sulla gola di Marta.

«Già, ma io credo che farò compagnia a Matilde! Momento sigaretta, solo ragazze» si affretta a dire lei con le labbra atteggiate in un sorriso mosso dall'imbarazzo, divincolandosi da quell'intreccio in uno sfarfallio indistinto di capelli e di anelli a scintillare nelle sue dita.

«Costanza, tu vieni?» chiedo senza aver mai distolto gli occhi da lei.

«Magari faccio come ha detto Marta, compagnia...» scocca delicata, a bassa voce, incassando la nuca nelle spalle.

«Allora, forza, alzati in piedi» enuncio con un gesto della mano a sollevarsi verso l'alto, senza che i miei occhi perdano di vitalità.

«Aria fresca per tutti» fa eco Marta venendomi vicino, barcollante.

«Mi raccomando» ci avverte Leonardo prima di rituffare quel cipiglio contratto nelle pagine da studiare, «fuori c'è mia madre che fa giardinaggio. Non pestatele i fiori o sarà peggio per voi. Nemmeno io avrò il potere di salvarvi da lei».




















La vivacità di giugno imbelletta l'atmosfera con una trepidazione che è soltanto sua — quasi giugno.

Quell'impazienza capricciosa, così da bambino, a colorare le nuvole di tinte sgargianti, rifiniture aranciate come l'aria che respiriamo, le fronde degli alberi rigogliose a tagliare il cielo, ornandolo d'un pizzo giada e profumo intenso, boccioli di pesco e fiori di mandorlo.

Fiorire, fiorire, fiorire.

È tutto un fiorire il giardino di casa Aspromonte. Un teatro dove la natura è l'unica a far da protagonista.

Un teatro di meraviglie che si sedimentano nelle pupille, dietro il cristallo colorato istoriato nell'iride, lasciandoti nient'altro che labbra distese di stupore e impressioni d'estate.

Attorno a noi c'è uno scintillio di colori, sfumature posate sui petali in baci ricoperti di delicatezza. Un incanto ammaliante per chi s'innamora facilmente della semplicità, per chi nulla se ne fa dei dettagli innaturali, di una bellezza troppo artefatta, e sentieri tortuosi.

Un incanto che ti entra dentro, svuotandoti di ogni sensazione, che ti fa decantare il cuore, resti di sogni pronti per essere imbottigliati.

Il rumore fioco delle cesoie che si chiudono su foglie secche e steli di troppo pizzica quel silenzio macchiato di quotidianità, lo spumeggiare del vento che si spezza sulla sommità del tetto, e sul comignolo a stagliarsi all'insù.

Poco più lontana di noi, Lucrezia, vestita di un incantevole abitino dalle tinte malva e maniche a sbuffo, è chinata sulle proprie caviglie, le mani a danzare su una frangia di roselline. La punta delle cesoie obbediente sotto il suo tocco deciso e aggraziato al tempo stesso.

La sua aureola castana è raccolta in una treccia a cascarle oltre le spalle, pendula sulla schiena, come un'ombra birichina a sfiorarle la stoffa del vestito.

Ci nota.

I suoi occhi si sollevano sino ad arrampicarsi ai nostri visi, e mi si colma il cuore il gioia — un tuffo di felicità a risuonare nelle orecchie — quando scopro le sue labbra increspate in un sorriso dolcissimo.

A Lucrezia, il sorriso le brilla della stessa potenza del sole. Di uno scintillio intimo, che mastica l'animo imbevendolo di miele.

«Già finito di studiare? A che punto siete?» chiede raddrizzandosi per bene, lisciandosi le pieghe dell'abito già impeccabile di suo, il tessuto a scivolare sino a carezzarle i contorni esili dei polpacci. Poco più vicino, un cesto di gerbere appena colte spicca smagliante nella sua tintura magenta.

«Stiamo solo facendo una piccola pausa. Ma se ti rincuora, Leonardo è ancora con il viso incollato ai libri» dico lasciando che il contatto con i nostri sguardi cresca sempre di più.

«Quando si tratta di studiare, il mio Leonardo non conosce mezze misure. E così è stato anche per Michelangelo» ammette in un tono sospirato, moderato, rigirandosi le cesoie fra le dita, assicurandole con il fermo, «avete fame? Gradite qualcosa da mangiare? Da bere? Credo che Leonardo vi abbia già detto dove si trovi l'occorrente per riempirsi lo stomaco».

«La ringraziamo, ma stiamo bene così» pigola Marta restituendole quella bontà che Lucrezia, in una cortesia che non passa inosservata, non manca mai di riservare.

In apparenza, vedendola per la prima volta, Lucrezia Kroess incarna le fattezze di una signora rigida, donna che non si lascia andare tanto facilmente, e fredda in ogni fremito di ciglia e gesto anche più minuscolo.

Ma... prima non riuscivo a capire, non riuscivo a vedere, ma ma ora capisco perché Ariadne la adori così tanto, perché nutri verso di lei un affetto così grande e spontaneo.

Come Leonardo, che del carattere e nei modi di fare condividono anche il più dettaglio sottile.

Nel suo contegno modulato, Lucrezia conserva una dolcezza rara, unica. Che non riserva a tutti, sprecandola fra le mura dei suoi pensieri, dentro di sé, timorosa di non essere capita, certa che al mondo vi sia più necessità di rigore anziché di animi sensibili.

Certa che serva più durezza e austerità, ripari di granito, anziché fragile debolezza, insenature dove gli altri hanno facile passaggio.

Eppure è stata proprio questa. La meraviglia.

La bellezza di scoprirla mano a mano, con calma, senza alcuna fretta.

Con le persone bisogna essere delicati e pazienti, non si sa mai quello che puoi trovarci dentro. Un po' come i fiori, come quelli a cui Lucrezia è tanto dedita.

«Potete sempre fermarvi a cena, come potete vedere il posto non manca» continua a sorridere Lucrezia, finché non le intravedo una piccola piega sbocciarle al fior della fronte, fuggente, «peccato che la mia Aria non possa farvi compagnia, sarebbe stata tanto contenta. Ma purtroppo...».

«...purtroppo sta preparando un esame importante da dare a metà di giugno. Lo so-... lo sappiamo» la interrompe Costanza senza bisogno di alzare la voce, abbassando gli occhi, piantandoli sulle rifiniture dei sandali, «nemmeno lei conosce le mezze misure».

Ma Lucrezia non sembra scorgere quell'increspatura amara che assume il timbro di Costanza, non come lo scorgiamo io e Marta, almeno...

«Ma sarà per un'altra volta, no? Sarebbe stupendo avervi di nuovo tutti qui una volta che avrete finito la maturità. Magari con l'animo più leggero e con meno pensieri» statuisce, infatti, molleggiando sulle caviglie, l'orlo del vestito che sbuffa mosso dal vento.

Mi guardo intorno, per un attimo irrisorio, e le risate che sembrano appartenere alle bocche di Diego e Ludovico mi solleticano l'udito, provenendo dalle finestre lasciate aperte.

In questi mesi, forse Ludovico non avrà imparato a studiare con serietà come si deve, ma se non altro ha imparato a ridere più spesso. Anche per piccole sciocchezze.

«Senz'altro, Lucrezia», muovo il capo in un cenno d'assenso.

E sempre in questi mesi... la madre di Leonardo mi ha permesso di darle del "tu", ed è stata una delle vittorie più belle che potessi ottenere.

Nelle labbra di Costanza sembra essere rimasto impigliato qualcosa di scomodo, perché le comprime in una maniera talmente violenta che sembrano spezzarsi da un momento all'altro.

«Senz'altro» ripete meccanica, sollevando le sopracciglia.

«Costanza...» l'appello all'istante, sciogliendomi nelle spalle, incastrando la sigaretta agli orli della bocca, «solo perché tu e Aria ancora non siete ancora arrivate a un punto d'incontro, non significa che tu debba provare per forza del rancore nei suoi confronti».

«Aria» ripete di nuovo, scettica, «adesso anche tu ti metti a chiamarla così».

«Costanza» proferisce Marta nel dondolio fioco delle piante, guardandola di sottecchi, «non fare così».

«Così come? Non fare, come dire... la sottona? Perché è quello che sono. Una dannatissima e maledettissima sottona! E la cosa buffa è che... quel punto d'incontro con lei l'ho voluto mancare io. Io e basta. Lei... lei voleva provare... a stare con me. A darci una possibilità. Io ho detto di no, io mi sono tirata indietro come una perfetta codarda» esclama Costanza in un assedio di parole vomitate tutte di un colpo.

«Marta non intendeva proprio questo» la fermo dopo aver incendiato la punta della sigaretta, «ma che non occorre tu sia, ecco, un po' ostile».

«Ostile?». Gli occhi le si riducono in due fessure taglienti.

«Sì, Costi... non te ne accorgi, probabilmente, ma ogni tua parola, ogni tua movenza suggerisce astio. Avversione a grondare».

«...Non è vero» sussurra dopo qualche secondo a rifletterci, distogliendo lo sguardo.

«È vero» chiosa Marta contro gli occhi spalancati di Costanza, un grido muto, impigliato come una farfalla esile nella morsa di una ragnatela.

E allora non può resistere dal chiedere, «È vero...?».

«Sì, davvero», affondo la chiostra dei denti sulla morbidezza del labbro intriso di fumo, «però... se ci pensi... più male di così non può fare, no? Prima o poi si deve toccare il fondo. Perché un cuore che batte non può far altro che fiorire, sboccare dalle proprie erbacce infestanti. È un po'... la sua natura. E il tuo non attende altro che questo, di inutili erbacce ormai ne sarà rivestito fino alla gola. Serve per non avere più rimpianti...».

Le palpebre sottili di Costanza si chiudono per qualche attimo, un sorriso sghembo, affatto orpellato di felicità, le taglia la piega della bocca. Un sospiro affranto, spezzato, a scapparle via.Si stringe nelle sue stesse braccia, accartocciandole al petto, divenendo di colpo piccolina.

«Rimpianti...» bisbiglia piano, reprimendo il guizzo di una risata infelice, «Come Ecate, io regno su fantasmi, notte abbracciata alla sua luna, morte... rimpianti».

Al centro dei miei occhi, il braccio di Marta scivola sino a collidere sulla cresta della sua spalla. Morbidamente.

Il viso appena inclinato, i ciuffi cresciuti rasenti gli zigomi. Sulla punta della sua lingua affiora qualcosa che nel giro di pochissimi istanti avrebbe fatto la differenza.

«...Però è stata proprio Ecate a sentire le grida di Persefone...».




















Lasciateci stare, abbiamo solo diciotto anni.

Quante volte lo abbiamo detto... quante volte ci siamo aggrappati a queste parole per colpa di ferite che mai avremmo voluto avere sulla nostra pelle, per attutirne quel dolore bruciante, striature di sangue, roventi e distorte... quante volte ci siamo nascosti dietro quel significato sapendo di aver sbagliato in nome di errori dal sapore dolce come il cioccolato.

Quante volte ci siamo sentiti così... descritti con inchiostro indelebile e nerissimo, in una carta avvolta dal lindore che altro non era se non noi; con le nostre iridi, con le nostre dita, con le nostre labbra, con i nostri incarnati dalle sfumature indefinite.

Ne avevamo bisogno, noi.

Ne sentivamo l'urgenza mescolata alla necessità, dovevamo avere qualcosa da abbracciare negli attimi più bui, messi alle spalle in angoli di tenebrore, nascosti agli occhi degli altri, di chi, ormai, capirci non ne aveva più la capacità.

Di chi aveva perduto quella capacità di leggere storie sbeccate e disincantate, favole che mai avrebbero avuto il loro lieto fine per quanto, nel profondo, in segreto, lo avessero tanto sperato.

Un brutto voto, un richiamo dal vice-preside, una nota di demerito... mamma, lasciami stare, ho solo diciotto anni.

La teoria della patente bocciata in tronco, lo sportello della macchina rovinato da quel muro tanto detestato, le chiavi di casa perdute chissà dove... papà, ti prego, non ti ci mettere anche tu, ho solo diciotto anni, ancora.

I cuori spezzati, le ossa che si rompono e non perché siamo caduti, costellazioni di lacrime. Il ragazzo sbagliato, la ragazza che ha osato. I fantasmi delle decisioni mancate, i demoni che masticano colpe per poi vomitarcele addosso. I viaggi sospirati, i treni persi, e tanto lo sanno tutti che almeno una volta nella vita abbia attraversato la strada senza camminare sulle strisce pedonali...

Le parolacce, i vaffanculo travestiti da diti medi, le imprecazioni, quei "ti amo" così muti e silenti, dalle fattezze di un "ti odio" impuntato nelle parole. Ma non negli occhi, state bene attenti.

Non negli occhi... perché è proprio negli occhi che bisogna guardare per trovare quello che cerchiamo, quei sentimenti che mendichiamo e ci vergogniamo di sentire.

Quei sentimenti che riversiamo la notte, con il viso premuto contro il cuscino, urla soffocate per tutto il giorno, messe a nudo con la luna a danzare fra le stelle. Perché diciamo di essere forti, pronti a spaccare il mondo, ma è il mondo a spaccare noi, e se davvero fossimo forti allora urleremmo sempre, a squarciagola, a braccia aperte, ovunque, fregandocene delle regole.

Sì, siamo dei disastri, pieni di pezze e cuciture slabbrate, perdiamo pezzi mentre camminiamo, mentre viviamo, pieni di crepe e graffi, recisioni laddove proprio non riuscivamo a separarci da qualcuno.

Via una mano, via le dita, via il cuore... colpa tua che non ti staccavi, e se non ti staccavi tu, allora il dolore l'avrei sopportato io.

Perdiamo senno e logica mentre corriamo via via verso quello che ci aspetta, verso quello che si chiama domani.

Il domani... nel domani c'è posto per noi? Per noi che ancora non riusciamo a dire di no a quella scusa.

Siamo dei disastri senza futuro e senza perdono, catastrofi di meraviglie e incantevoli tragedie. E ognuno di noi ha un nome. Nessuno che sia senza volto.

Siamo... ragazzi.

Siamo... adolescenti.

Eh sì... forse è arrivato quel momento... di dire finalmente addio.

Però tutti sanno anche che... questa notte è ancora nostra.

Ancora lo siamo, ancora possiamo.

Ma sì... ancora lasciateci stare, abbiamo solo diciotto anni dopotutto...

Ancora ci è permesso essere bambini. Essere chiunque vogliamo. In questa notte magica, in questa notte prima degli esami, la leggenda narra che tutto è possibile.

«Passami la birra!».

«Qua ci manca un telo, ne avete uno in più da prestare?».

«Sì, per fortuna che mia madre è una prevenuta! Tieni, è con Paperon De Paperoni, non rovinatemelo, ci tengo come se fosse il figlio che non avrò mai».

«...una cannetta? Qualcuno ha una cannetta?».

«Vuoi urlare un po' più piano? Siamo in un parco, non in un bosco sperduto in Canada. I passanti potrebbero sentirti, idiota!».

«E che problema c'è? La offriamo anche a loro!».

«Ahia, Diego! Quello era il mio piede!».

«Ringrazia che non era il tuo collo. Ops, con permesso, con permesso, con permesso... qualcuno che fa un posticino al vostro Diego Guevara preferito? Ho le Heineken ghiacciate».

«Qui! Siediti qui! Ci restringiamo».

«Ma... voi dite che... queste stelle ci porteranno fortuna domani?».

Queste stelle ce la porteranno un briciolo di fortuna? Chissà... chissà se le ascolteranno le nostre preghiere, stanotte.

Chissà se ci osserveranno con quel silenzio maestoso, e quell'imponenza solitaria cui solo loro, luminose ed eterne, ne sono imbellettate. Chissà se nei loro sussurri c'infonderanno quella quiete che tanto ci servirebbe, domani, quando i commissari esterni apriranno la busta e riveleranno quale traccia è stata scelta per la Prima Prova.

Chissà.

È così bello questo chissà.

Sapere e non sapere, immaginare, fantasticare ogni ipotesi.

Il mistero che piroetta, vispo, su in alto, in quel letto di stelle abbracciate dal vello del cielo.

«Allora, Mati? Alla fine hai scelto quale tesina porterai? Eri indecisa fra due argomenti, se ben ricordo» domanda Thalìa con dolcezza, le ginocchia strette allacciate al petto e una lattina di Beck's avvolta fra le sue dita.

La cresta della sua spalla quasi sfiora la mia, colpa del nostro tumulto ingestibile, braccia che non stanno ferme un minuto e un rollio convulso di voci.

Ma va bene così.

Ci siamo messi d'accordo che questa sera avremmo guardato le stelle, restando insieme, fra una birra e una sigaretta, e un ultimo desiderio in punta di labbra.

Il desiderio che tutto debba finire il più in fretta possibile.

Sorrido sgraziatamente prima di parlare, colpa della bottiglia di Heineken di Diego che già ho consumato senza ritegno. Un senso di spensieratezza estrema mi punge dappertutto.

«Sì, eccome se ero indecisa! Anzi... lo ero fino a questo pomeriggio. Ne ho preparate due, entrambe con minuzia e dedizione, e non è stato affatto facile scegliere» asserisco con un cenno d'intesa, lanciando un'occhiata fugace nel punto dove si trova Leonardo, fra Marco e Midorin, del tutto inghiottito da una conversazione che pare essere fitta fitta.

"Leonardo... ma vieni via da lì, che quei due si vede lontano un miglio che vogliono tubare come due piccioni!".

«Che hai deciso alla fine?» spinge Thalìa arsa dalla curiosità, le iridi a luccicarle come quelle stelle a merlettare la notte a far da veglia su di noi.

«Porterò "Tra sogno e realtà"... con una mente sognatrice come la mia, altro non avrei potuto fare. E poi sono troppo innamorata di Salvador Dalì e dell'Interpretazione dei sogni di Freud, inutile mentire» ammetto in uno schiocco di labbra, orgogliosa della cura e della costanza con cui ho dedicato anima e corpo all'ideare e trascrivere quella tesina.

La mia tesina, e che ricorderò senza paura, e senza macchie di titubanza.

Conservandola con quell'amore che si meritano le cose belle, fra le onde di ricordi morbidi e zuccherati. «E tu, invece?» le chiedo piegando il viso, i muscoli della gola appena contratti, lasciandomi colpire da gabbie di sorrisi a pulsare di colori e aureole di capelli esagitate.

L'angolo della bocca di Thalìa si solleva di fierezza. «Tu hai lo spirito di un sognatore, io ho lo spirito di un ribelle. Quindi niente poteva essere perfetto se non "Ribellione e provocazione"».

«Suona dannatamente bene» ammetto scavando fra le ginocchia con lo spigolo appuntito del mento.

«Oh sì, se suona bene... Oscar Wilde, Duchamp, il movimento del Sessantotto. Sembrano essere lì, fatti apposta per me».

All'unisono, alziamo i nostri volti, distese intatte di speranze e aurore splendenti; in quel cielo a sospirare, scorgo il riflesso di noi stessi, un movimento cangiante invisibile, di quello che siamo stati e di quelli che siamo adesso.

...Come siamo cambiati. Tutti.

Tra sogni e realtà... non siamo più gli stessi di un attimo fa.

«Ragazzi, è il momento!» declama ad alta voce Roona in un fermento di riccioli da riverberi scurissimi, drizzandosi in piedi come una molla, stagliandosi nel buio di quel parco al picco di Firenze, i contorni opachi al bagliore della luna. I suoi torciglioni di treccine ormai sono solo una piacevole reminiscenza.

«Di già?» sovviene Marta scollandosi dalla bocca — dalla lingua, piuttosto — di Alberto per riprendere fiato.

«Di già» ripete Roona con quell'espressione di chi la sa lunga, «ma noi possiamo cantarla all'infinito. Una, due, tre, quattro volte. Per tutta la notte, se vogliamo».

«Certo... poi domattina chi trascina il mio culo a scuola a dare la Prima Prova?» cantilena Giulio con disillusione.

«Se vuoi posso farlo io. Ti prendo per il colletto del pigiama e ti trascino per strada come un cane» lo rincuora, gentilmente, Ludovico.

«Ero ironico, bomber!».

«Cos'è un bomber?», Ludovico lo guarda di traverso, confuso.

«Sì, direi proprio che è ora di cantare!» esclamo con le mani a collidere in battiti scanditi, rizzandomi sulle caviglie, «Forza! Antonello Venditti per tutti. Mettete in moto le vostre corde vocali, e non solo le vostre lingue!».

Ma ho fatto male i conti. Perché il petto di Leonardo m'inghiottisce in una morsa delicata di braccia, eppure li sento... li sento i suoi polsi percorsi da fremiti impazienti, le sue vene ingabbiate da una concitazione ammaliante.

Lo sento vicino a me.

Sempre.

Ho imparato a correre insieme a lui, e i nostri cuori si sono adattati in un mosaico raro, di due pezzi unici, due pezzi soltanto. Che funzionano solo se incastrati, da me e da lui.

«Io non avrei niente in contrario a mettere in moto le lingue...» sussurra attraverso i ciuffi ormai scuri dei miei capelli, dove una ricrescita scurissima ha quasi divorato quella sfumatura rosea, pallida oramai. Un ricciolo di brividi affiora all'altezza delle scapole, scavando sentieri di tremiti come impronte di dita, a incunearsi come se fossero reali.

«Questa notte è ancora nostra, possiamo fare tutto quello che vogliamo» pigolo piano, mal trattenendo un sentore di risatina.

«Matilde non tremare, non ti posso far male, se l'amore è amore» recita un versetto della famosa canzone, solo per me.

«Hai saltato praticamente tutta la canzone, non barare» spingo fuori dalle labbra, rovesciando la testa all'indietro, e così... oltre che lo spettacolo di un manto nero di baciato dalle stelle, ho anche la mia screziatura dorata.

Il mio punto fermo in tutta quella tempesta. La stella polare che non ti fa smarrire mai.

Qualcuno finalmente ha messo mano alla playlist del cellulare. E "Notte prima degli esami" inizia a far capriole nelle nostre orecchie, instillando quelle volute di magia, valli di miele e noi, come api frementi, a volare senza tregua, pregando di non fermarci più.

È un sussulto d'animo e di cuore, strepitanti oltre le ossa.

«Io mi ricordo... quattro ragazzi con la chitarra, e un pianoforte sulla spalla. Come i pini di Roma, la vita non li spezza. Questa notte è ancora nostra», e non c'è una voce fuori coro.

Ogni tono è impeccabilmente allineato, preciso. Un ritmo che ha trovato il suo equilibrio. O forse... siamo proprio noi a darglielo.

«...gli esami sono vicini e tu sei troppo lontana dalla mia stanza. Tuo padre sembra Dante e tuo fratello Ariosto... stasera al solito posto, la luna sembra strana. Sarà che non ti vedo da una settimana. Maturità t'avessi preso prima...».

Qualcuno accende le fiammelle piccine degli accendini, qualcuno sbraccia verso l'alto, qualcuno che chiude gli occhi.

«Notti di sogni, di coppe e di campioni... notte di lacrime e preghiere, la matematica non sarà mai il mio mestiere...!».

Qualcuno che si abbandona fra le braccia di chi mai si sarebbe aspettato, qualcuno che non si vergogna di liberare le lacrime, qualcuno che si mette a ballare.

Qualcuno che ruota il viso... che sbarra le iridi e che posa le labbra in quelle della persona che ama di più.

«Con questo bacio io ti dono la mia notte prima degli esami. Ti lascio il mio desiderio di riuscire, domani. Ti regalo l'anno più strano, folle, assurdo e bello della mia vita, Leonardo. I miei diciotto anni, i miei anni migliori».

«Queste cose... io te le avevo donate da un bel po'. Anche quando tu non lo sapevi, anche quando io stesso facevo fatica ad accettarle» sussurra lui sulla mia bocca, un ansito rovente, «questa notte è ancora nostra, come tu sei mia. Sempre».

Gli altri cantano, noi abbiamo smesso.

Ci guardiamo negli occhi, io e lui. E un solo pensiero fisso: fate silenzio, che sto sognando.

















Da dove comincio?

Da dove diavolo devo cominciare?

Dal Surrealismo di Dalì? No... quello è un argomento della tesina. Nulla a che vedere con la Prima Prova di stamattina. Nemmeno lontani parenti.

Da. Dove. Diamine. Devo. Cominciare?

Cazzo...

Fino a poco fa, quando avevo le creste delle scapole incuneate al sedile della mia macchina e le dita avviticchiate alla pelle bollente dello sterzo, io sapevo. Avevo sotto controllo tutto. Avevo la risposta in tasca!

Ma adesso... adesso tutto attorno a me fa un rumore così distante, sconosciuto, come se avessi avuto le orecchie foderate per tanto tempo e avessi ripreso l'udito di colpo, il mondo a rovesciarsi senza lasciarmi un istante per realizzare, per riprendermi.

Rompendo quell'idillico equilibrio che mi ero inventata pur di prendermi in giro, a farmi credere che tutto andrà bene.

Che non avverrà alcuna catastrofe.

Ho un po' paura... la professoressa Anna Chiara Monteluce, docente di italiano, non presenzierà a questa Prima Prova. Ci sarà il commissario esterno, e stando a chiacchiere di corridoio e scambi segreti per via web, dicesi che sia proprio un vero... osso duro! Viene dal liceo Scientifico Giovanni Keplero e parlando un po' con i suoi studenti, si è intuito in maniera cristallina il loro sospiro di sollievo a non averlo nella Commissione d'Esame.

Fantastico.

«Sei pronta, Matilde?» la voce di Marta torna da me come punto fermo di questa assurda quanto vivida realtà, a occupare il sedile del passeggero.

Il mio cuore riecheggia in battiti così forti che a stento riesco ad ascoltarla.

«Per l'ultima volta», inghiottisco quel vuoto insopportabile e le iridi sbarrate proiettate oltre il vetro del parabrezza, a incagliarsi sul profilo del Caravaggio, nel suo imporsi maestoso alla vista di chi lo sta a guardare.

Elegante... ho sempre pensato che il mio liceo fosse d'una eleganza fuori dal comune. Perché adesso ha l'aspetto di un castello dall'aria sinistra e le torri diroccate? Quei comignoli sbeccati e infestati d'edera da dove sono sputati fuori? Ci sono sempre stati?

«Dobbiamo solo stare calme, il segreto è quello» mormora la mia amica in un timbro roco, le pareti della gola rovinate probabilmente per il troppo cantare della notte prima.

Perché abbiamo cantato tanto, ieri sera.

Abbiamo urlato contro il cielo come se non ci fosse stato un domani ad attenderci crudele. Abbiamo affidato al vento tante di quelle promesse...

«Guarda, c'è già qualcuno ad aspettare fuori. Allora non siamo le uniche matte a presentarsi alle sette del mattino» riesco a pronunciare lanciando un'occhiata da tutta altra parte, cancellando per un istante frettoloso l'effigie del mio istituto a incombere dirimpetto a noi.

Il fiato mi scivola nei polmoni mentre faccio passare i miei occhi su uno stuolo indistinto e disordinato di studenti, ammassati gli uni sugli altri, vicini, scarmigliati, impauriti. Il terrore dipinto nei visi come quadri precisi e perfetti, disegni incorrotti, l'ansia a torcergli le viscere partendo dalle radici delle caviglie.

«Secondo me nessuno è riuscito a chiudere occhio stanotte» azzarda a dire Marta forzando la maniglia per aprire lo sportello, smontando a terra aggraziata, lo zaino a fasciarle la schiena.

«Vedi nessuno dei nostri?» chiedo mentre imito i suoi movimenti, le chiavi a ciondoloni dalle dita.

«Vedo...», e con sguardo mordace e assottigliato sonda il terreno intorno al parcheggio del liceo, sino a tutto il perimetro del cortile.

E quando stringo la fibbia dello zaino fra le dita, la voce di Marta trilla come un campanellino sobillato.

«Vedo Ludovico! Laggiù, ma guarda un po' che-... cosa diavolo sta facendo?».

Un'aureola di capelli neri, pennellate come la notte a ornare una figura umana, preme contro le mie pupille con un bisogno quasi irrequieto. Una figura alta e massiccia, rigida in quegli orli scuri di cui mai sarà in grado di separarsene.

Se ne sta in piedi, la borsa a tracolla con cui l'ho visto dal primo giorno che l'ho conosciuto stretta in una mano, immobile, nemmeno il più flebile tremito. E il viso sollevato in avanti, come se stesse vedendo il Caravaggio per la prima volta nella sua vita, ad ammirarne chissà cosa di preciso...

«È lì fermo. Ha deciso di fare la statua?» getto là increspando la fronte, confusa, mentre ci avviciniamo.

I nostri passi rintoccano sull'erba appena tagliata e mi chiedo se quell'ansia che mi sta mordendo inesorabile e affamata lo stomaco, stia corrodendo anche lui, nel profondo.

«Ludovico, ciao. Ehm, tutto bene?» esordisce Marta con la testa inclinata a studiare il suo profilo, ogni espressione libera dai capelli, trattenuti ordinati in uno chignon che ricorda tanto la coda rotonda di un coniglietto.

«Ciao» replica senza voltarsi, incolore, la catena al collo immota, neanche un tintinnio.

«Come mai sei già qui? Non riuscivi più a reggere a casa, eh?» tento io.

«Sono uscito che i miei ancora dormivano. Mamma mi ha lasciato un biglietto sul tavolo facendomi "in bocca al lupo". Avrebbe voluto farmelo di persona, ancora non ci crede che sto seriamente affrontando la maturità, ma la verità è che non ci riuscivo... a restare in casa. Dovevo andarmene» enuncia con le sopracciglia a collimare con lo scrimolo selvatico dei suoi occhi.

«Hai... hai paura? Perché io ne ho tanta».

«Non lo so... non so nemmeno com'è fatta, questa paura. Io so solo essere arrabbiato, e forse anche felice. L'ho conosciuta la felicità. Con te e anche con Laira» parla ancora. Stamattina Ludovico parla tanto.

«È normale avere paura. La paura è un'emozione innata nelle persone. E sai qual è il miglior rimedio?», gli sorrido quando finalmente riesco a fargli incagliare lo sguardo su di me.

«Dimmelo. Non lo so e sono curioso». Un soffio di vento gli smuove i riccioli, cresciuti di qualche buon centimetro.

La mia mano scivola delicata sino a collidere con la sua, bollente e ampia, appena ruvida... ma tanto accogliente.
La stringo forte, la forza di un uccellino contro quella di bisonte.

«Il miglior rimedio sono gli amici. Noi siamo amici, te lo ricordi? E gli amici ci saranno sempre nel momento del bisogno...» dico piano, delicata, «un po' come in aereo. Non hai avuto timore perché eri con i tuoi amici».

«Però quando siamo arrivati a Berlino ho vomitato» mi ricorda con un'espressione strana.

«E allora? Intanto hai volato, per la prima volta, senza battere ciglio. E adesso sarà lo stesso. Io ho paura, Marta ha paura, anche Leonardo... Leonardo se la sta facendo sotto, te l'assicuro. Ce l'abbiamo tutti. Ma è l'unione che fa la forza...».

«Allora è per questo che mi hanno bocciato tutte quelle volte... perché non avevo alcun amico» fa notare dopo averci riflettuto.

«Be'... in quel caso io credo che tu abbia perlopiù cazzeggiato, anziché impegnarti discretamente con lo studio» interviene DarthMart con la sigaretta fra le labbra.

«Tu tienimi la mano e andrà tutto bene» replico frettolosamente, «puoi sederti vicino a me se vuoi. Come fossimo in classe, a una lezione normale. Come il primo giorno che ci siamo conosciuti».

«Va bene, faremo come dici tu. Come fossimo in classe, come il primo giorno che ci siamo conosciuti», Ludovico... santo cielo, Ludovico sta sorridendo, «ragazza del bagno».





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