63. Ora mai più rimpianti







"Voglio che tu sappia che ci sarà sempre un po' di te dentro di me e ti sono grato per questo".


Her (2013)

















Io credo, con un ardore vibrante a scuotermi sensazioni fra le ossa, che dovrebbero mettere alle persone un nastro con scritto "fragile"... così la vita smetterà di romperle continuamente; capirà che spezzarle di violenza, elevandole a granito anziché a cristallo, è una gioia imperfetta, sbagliata nelle sue curve ammaccate e nelle sue linee ad attorcigliarsi in un caos senza fine.

In un movimento scoordinato do una spallata a un ragazzo , strizzando le palpebre in un muto cenno di scuse, oltre che il cuore, crepitante nel suo fibrillio convulso.

Una corsa di gambe, contro il tempo, contro tutti. Mentalmente desidero essere più sottile, di carta, per poter sgusciare in quei nidi di braccia e di mani che schioccano in armonia con la canzone e l'esibizione stile Queen.

Un vociare confuso, estasiato, si mescola con le note melodiose e incalzanti, pungendomi le orecchie in maniera così diretta, talmente vorticosa da entrare in collisione con i miei pensieri, irrimediabilmente.

Le tempie che pulsano, i polsi che si tendono per volere delle dita, accartocciate su loro stesse, i polmoni ingolfati di troppo poco ossigeno e... ansia sferzante. Le iridi spalancate, ora, prive delle orme di scuse di pochi istanti fa, ormai in una parvenza lontana. Un vuoto che si fa strada come lente striature, attraverso il vetro opaco che sono le mie pupille, pozzi scuri della cui profondità ancora inesplorata.

Sento Laira che mi chiama, che pronuncia il mio nome più volte, ma nemmeno un singolo secondo rifletto di arrestarmi per darle ascolto.

No. Porto avanti la mia arrampicata contro vento, accentando in silenzio colpi di gomito dati involontari e graffi di unghie attraverso la stoffa della maglia.

Pizzicata di gridolini e di suoni, un'esaltazione che adesso sento essere scivolata via da me in minuscole gocce inavvertibili, scomparsa. Ma accesa, viva e pulsante c'è solo la voglia di raggiungere Claudio, che sgattaiola via rapido in quella fiumana di studenti, ciuffi colorati e sorrisi sbaffati. Sembra quasi che nel suo fuggire via in un modo così forsennato nemmeno sfiori gli orli delle spalle degli altri.

Un spettacolo d'orrore scava in me una consapevolezza così piena di realtà: è come se i ragazzi avessero terrore di toccarlo, il raccapriccio di una toccata rasente, e una gola di fuga si spacca in quelle occhiate vivide e in quegli arti frementi, Claudio che sdrucciola in quel sentiero come una malattia.

Rivestito soltanto delle sue lacrime, divenute nere, ricolme di una sofferenza che non riesce più a trattenere con sé, nascosta, al sicuro. Da sempre ammantata di inedia e empietà, la stessa che mi ha fatto conoscere senza preavviso, costretta tra un muro e le sue labbra di filo spinato.

E ora... ha ceduto. Ha smesso di resistere. Lui ne è stato tradito, da colei che era amica e nemica, scudo e filo di spada.

Come un animale selvatico che è stato appena ferito, scappa, vuole mettersi al sicuro, non vuole nessuno vicino.

Il fiato muore sui contorni della mia bocca, schiusa, e le mie mani strette a pugno iniziano a dolere per l'impeto e la forza con cui le piego sotto al mio volere. Ma... finalmente... dopo aver superato l'ostacolo fisico di quella massa di ragazzi, il mio cuore stramazza di un singulto assieme a un dolce sentore di conforto a bagnarmi la pelle di carezze astratte.

Le caviglie di Claudio superano celeri il confine della grande porta che si affaccia sulla palestra dell'istituto — è veloce... fuggevole... ma io non mi arrendo facilmente. Nelle mie vene percepisco flussi di ostinazione, rivoli tumultuosi e che non si daranno presto pace.Non finché lo avrò fatto. Io devo farlo.

E vado, portando sulle spalle un attesa che mi logora e che presto so che avrà fine. Un conto in sospeso, un qualcosa che graffia e che prude, una radice che deve essere estirpata nonostante le spine, nonostante le foglie pungenti.

Con la coda dell'occhio seguo il profilo di Claudio, uno spettro sfuggente che appare e scompare lungo le pareti immacolate del Caravaggio — un singhiozzo ad arrancare nella sua gola —, finché la sua ombra non viene inghiottita oltre una porta, cheta come quel pianto che gli cola addosso, irrorando gli zigomi cesellati.

Quella porta...

...quella porta è della Sala professori...

Perché mai ha scelto di rifugiarsi proprio lì?

Immediatamente la domanda viene scacciata via in un colpo di vento, appena lo sento liberarsi in uno stuolo di singhiozzi, rotti da un pianto scosso e irrefrenabile, lacrime a incagliarsi fra le ciglia.

Dirimpetto all'orlatura dello stipite, i capelli a tagliarmi la metà del volto, alterando un'espressione che a stento riesco a spiegarmi, rimango a osservarlo — lo scheletro di se stesso che cigola a ogni respiro, per incrinarsi sempre di più... non riuscendo più a sostenere, a sopportare... quello.

Ciò che forse neanche riesce ad ammettere a sé, ciò che più gli fa paura... ciò che più lo rende debole, danneggiato agli occhi degli altri. Un orologio che ticchetta ostinato sempre sullo stesso numero, segnando quell'ora per tutto il tempo... immobile... caparbio... meccanico. Devoto.

E nonostante il tempo scorra, inclemente, quell'asticella sottile resta e resterà sempre incuneata lì. Incurante delle regole.

Claudio affonda le dita sulle guance, graffiando, scavando nella pelle pur di cancellare quei rivoli scintillanti, livido indelebile di un'anima sgualcita, un inchiostro che inizia a scrivere finalmente la sua storia a dispetto del suo autore.

Conficco le unghie contro la cornice della porta, un morso di pena che mi dilania animo e carne — non un torbido compiacimento, acque scure di soddisfazione, ma denti a tormentare l'ultimo briciolo di compassione che potrei nutrire per uno come lui. E premono, fanno forza, pressione che avverto all'apice della nuca, sulla curva della spina dorsale, a ramificarsi assieme al reticolo di vene per le braccia, ovunque.

E ora lui si preme i palmi sulle palpebre serrate in uno scatto di smarrimento, tremuli, il petto scosso dai singulti in maniera che pare insanabile e le spalle contorte come percorse da una lama di tormento.

Un ciuffo di capelli sfugge alla piega perfetta che ogni giorno esibisce sotto lo scrupoloso occhieggiare del Caravaggio, a cascargli delicato sulle sopracciglia, quasi volesse raggiungerlo in una carezza. In un guizzo di caviglie e ginocchia, scatta all'indietro, l'arcata della schiena che collide contro il profilo di un armadio per raccoglitori, un fragore secco, deciso straccia il silenzio orpellato dalla musica ormai lontana, foderata di una distanza conforme.

Un rumore che si schianta nei miei timpani di semplicità, invadendoli più di quanto avrei desiderato.

Claudio mugugna qualcosa di indistinto, che non riesco a capire, parole masticate che mai verranno alla luce. Tremolante, azzarda qualche passo di traverso, vacillando appena. Adesso lo sento sospirare, inalare un ossigeno che a ogni boccata è per lui cancerogeno.

«D-dannazione...» modula a fior di labbra, con voce esile, sostenuta, un timbro spezzato, che stride con il ricordo marchiato a fuoco che ho di lui, contornato di un grigio lugubre.

Lui, che da quella lingua e da quelle labbra sono state modellate solo parole affilate, taglienti, avvolte da una velatura di sdegno, ora così vulnerabile.

Le sue mani gli scivolano giù dal volto, prive di vita, e le gambe paiono cedere sotto un peso troppo grande per loro. Claudio ciondola appena verso sinistra, le braccia pendule rasenti il bacino — i suoi gesti assumono le movenze di una falena appena entrata in collisione con una fonte di luce, bruciante, rovente, sperduto nelle sue stesse ossa e nei suoi dedali di pensieri, come steli spezzati.

Dall'armadio, l'effigie di Claudio si scontra contro la cattedra, dove in un tumulto di dita che si aggrappano per ritrovare l'equilibrio, scatena un turbinio di fogli, carta che volteggia in aria per poi attecchire con grazia sino al pavimento.

Sondo con le iridi quel suolo ora macchiato di bianco, piegando il volto, nascondendomi dietro la cornice. E il silenzio ritorna ad ammantarci come seta, dolcemente, incastrandoci in un'immobilità cheta... appuntita nello scorrere inesorabile del tempo.

Io e lui. Io che lo guardo, lui che va in pezzi.

Lui che non si è accorto di me... io che noto che i suoi pezzi rotti non riescono a stare in piedi da soli... ma convergono in una docile decadenza, richiamati dal canto di una distruzione sempre più vicina.

I miei capelli grondano oltre le punte delle ciglia, dolci curve a spirare all'insù, macchiate di sfumature rosee, e qualcosa mi punge talmente tanto da costringermi a chiudere le palpebre per qualche istante. Mi abbandono in un sospiro, lasciando che un senso d'urgenza s'inerpichi fra le mie membra bloccate.

Resto solo un altro secondo in questa penombra di stallo, non posso rimanere così, a osservarlo attraverso uno spiraglio di indecisione.

Nella mia posizione, avrei tutto il diritto di abbandonarlo a se stesso e al tenebrore di quelle lacrime nere, inchiostro che tracima dai confini del suo essere a ogni singhiozzo, dopo quello che ha causato a Leonardo, al mio indirizzo, a Celeste, a Gioia... a me...

Dovrei gioire nel vederlo così — ammirarlo in questo sublime declino, il crepuscolo che sporca le sue pupille di pennellate opache, infettando quel suo sguardo acuminato, da serpente. Dovrei vibrare di esultanza, ingoiando il boccone morso dopo morso di quello spettacolo che mai, sono certa, si ripeterà. Ed è solo per me, tutto per me...

...però...

...no...

Non dopo... non posso... non ci riesco. Non dopo quello che Leonardo mi ha raccontato di lui, non dopo quello che io ho intuito...

Talmente rovinata di un dolore antico, io, sciupata in maniera irreparabile in un angolo talmente remoto — cumulo di cocci sbeccati —, costretta a trascinarmi i resti di uno scheletro impolverato, legato stretto stretto alle dita con fili di satin, mendicando la mia memoria e il mio amore, fingendosi marionetta con le mie stesse sembianze di vetro e due abissi per occhi.

Colei che volevo essere, ardentemente. Una vecchia me che mai più andrà via, ma rimarrà lì, a graffiare come una bestia selvatica costretta fra una gabbia di ossa, di costole rovesciate verso all'interno, ormai ammansita, resa obbediente al mio volere.

Così spezzata in un'anima ricucita, rattoppata, sbaglio dopo sbaglio, non riesco a ignorare chi già ha preso quel sentiero di tenebra, non posso permettere che un altro mostro anelante di divenire marionetta si attorcigli ai polsi di qualcun'altro.

Non tutti hanno una volontà di ferro, non tutti hanno una gabbia profonda e dalle sbarre resistenti.

E in un gesto di buonsenso dimenticato, per me, avanzo di un passo, esitante, e avrei tanto desiderato avvicinarmi a Claudio piano, senza spaventarlo, facendogli vedere che non deve avere paura di me, che non c'è bisogno scatti sull'attenti come la bestia ferita quale è.

Ma un cigolio metallico, di cardini usurati e che necessitano di essere cambiati, si perde in quel silenzio misurato spaccandolo in due metà perfette.

Tutto, potrei giurare di scorgere — dal pulviscolo che danza fra i nastri di luce a spirare dalle tendine, ai fogli stropicciati rovesciati per terra.

Alle pupille di Claudio fisse sulle mie, e quel suo occhieggiare di fuoco penetra sino in fondo al cervello.

Terrore, gli leggo scritto con un nero che sembra scavare solchi pesanti su manti di carta, e... rabbia, impressa come lo sfregio di una sigaretta rasente la pelle, un contorno di dolore vero.Lui che si staglia innanzi a me, e viceversa.

E ho creduto, sì, ho creduto — per un attimo che sfoggiava l'essenza dell'eternità — di averlo visto davvero snudato di ogni barriera, di quella maschera conficcata di mille spine sul suo volto, modellandosi in modo ineccepibile ai suoi lineamenti levigati e affilati.

Ho creduto... perché della sbavatura sofferente che ho scorto sino a poco prima, talmente incrinato nelle sue emozioni, sembra essere sparita, nebbia spazzata via dall'alba.

Un sorriso a metà che gli taglia le labbra, le pupille arrossate e le ciglia bagnate creano un contrasto aberrante, un orrore ammaliante e sbagliato al tempo stesso, che ti istiga a guardarlo senza che tu te ne renda conto.

Ma è un sorriso sbilenco, da giocattolo difettoso, lui stesso è diventato quella marionetta.

«...Tu» modula lento, assaporando fra lingua e palato quel sapore salato di tempesta, il mento ruotato e le iridi che guizzano al di sotto delle ciglia, veloci, folgori di verde costellate di ombre, «...mi stavi spiando? Sei diventata una fottuta guardona?».

Senza una scappatoia rimango impigliata negli occhi di Claudio, ali vibranti incuneate fra rami ricurvi, intorpidita... nessun sogno, ma solo iridi piantate in quella cruda realtà. E quella cruda realtà dagli spigoli d'incubo restituisce ogni mia occhiata, affatto titubante.

Io cucita fra la bordura della porta, lui allacciato al profilo della cattedra. Un profumo di caffè, legno appassito e carta appena stampata spira da ogni angolo, un sottofondo impalpabile.

«Claudio» formulo piano, la fronte indurita da un senso di calma apparente, a mascherare una puntura di angoscia incondizionata, scostando con delicatezza una ciocca dietro l'orlo dell'orecchio, l'orecchino che tintinna in collisione con l'anello che avviticchia l'anulare, «non... non c'è bisogno che tu faccia così».

Sento le gambe muoversi, incerte, in avanti. La sommità delle scarpe fanno capolino sotto il mio sguardo puntato su di lui, mostrandosi per brevi istanti e poi sparire.

«Non osare avvicinarti, lurida fattona» scandisce lui perentorio seguendo i miei movimenti, passo dopo passo, «cos'è...? Adesso Leonardo non ti basta più? Vuoi provare anche con me? Oh... adesso ho capito...».

«Smettila. Questo tuo voler mordere a tutti i costi non intimorisce più» mormoro inghiottendo un sospiro, contraendomi nelle spalle, reggendo quel suo restituirmi di occhiate assottigliate, lame d'argentite.

Io non ho paura.

Lui non mi fa paura.

«Ti ho detto di non avvicinarti. Stammi lontano. Non ti ci sto, sappilo. Puoi andare a mendicare benissimo attenzioni da qualcun altro, sperando che Leonardo non se la prenda... ma sai... lui è abituato a condividere, non dovrebbe farsi troppi problemi» chiosa in un sibilo spezzato con lo schioccare della lingua, un'arroganza a grondare da ogni parola.

«Ti ho visto fuggire via dallo spettacolo. Nessuno se n'è accorto, ma io sì... Perché? Perché te ne sei andato? Cos'è che non riuscivi a sopportare? Cos'è che ti faceva male...?».

Mi avvicino sempre di più, consapevole della gravità di un pericolo ancora assopito, accostandomi all'angolo più remoto delle sue emozioni. Dove un covo di mostri lo divora dall'interno.

«Vattene via» ringhia fra i denti, funereo, «Castellani, togliti dal cazzo o giuro che...».

«Non mi tolgo dal cazzo finché non mi dici il perché, Patriarchi» proclamo per niente scalfita dal suono lugubre di quella minaccia, e dovrei provare terrore dopo l'ultima volta... dovrei tremare sotto le sue iridi racchiuse in quei tagli di ciglia... dovrei esitare, una bambolina impaurita.

Ma ora che vedo Claudio vestito della sua più grande debolezza, l'unica cosa che scorgo in me, a scorrere in ogni arto, è morbida compassione. Non ce la faccio a bagnarlo di odio, allo stesso modo in cui lui fa con me.

Una disperazione pulsante m'invade il cuore, colto dagli stessi singulti cui Claudio era imprigionato fino a poco fa.

«Vattene via!» stavolta alza la voce, il timbro mi viene scagliato addosso con l'intento di farmi male e di convincermi ad arretrare, e azzarda un passo all'indietro, ritirando il braccio oltre la clavicola, come se avesse il terrore di sfiorarmi al solo pensiero, «Cos'è? Quel nostro bacio ti è piaciuto così tanto che vuoi riprovare?».

Sollevo in alto la mano, le dita dritte, tese, un refolo ansioso che mi sfugge al controllo. «Non provarci...» mi ammonisce prima che possa muovermi e allora mi arresto, il polso a mezz'aria avviticchiato alle mie pupille spalancate in un'espressione di stupore.

«...non provarci... non voglio... cosa speri di ottenere? Cosa speri di vedere? Non ho bisogno dell'aiuto di nessuno, tanto meno il tuo... col cazzo che ho bisogno del tuo».

«Claudio» lo chiamo per nome e lui sembra tremulo quando lo raggiunge con tutta quella normalità con cui lo pronuncio, senza ombre di rancore, «io non voglio ottenere niente, voglio solo farti capire che... quello che senti... quello che provi non è... non ti fa essere sbagliato».

«Sta' zitta! Sta' zitta! Devi stare zitta! Tu non sei nessuno per dirmi queste cose!» m'interrompe mentre sbatte le palpebre bruscamente, smettendo di sostenere il mio sguardo, le falangi a conficcarsi sulla carne del viso, «Non sai quello che sento... non potrai mai saperlo!».

«Invece lo so. L'ho capito, prima. Mentre li guardavi ballare, mentre lo guardavi».

«Vaffanculo! Ti sei calata una pasticca, per caso? Non hai capito proprio un cazzo di me, proprio un cazzo...» mastica Claudio respirando con troppa veemenza, affaticando i polmoni, «io... non sono un maledetto finocchio. Ti sembra? Ho talmente tante di quelle ragazze a girarmi intorno che ho solo da scegliere. Altrimenti perché sarei stato con Gioia? O con Olivia... oppure con Irene?».

«E allora perché piangevi quando lo guardavi?» proferisco con tono fermo, immobile nei miei abissi per pupille, «Non ho detto che ti piacciono i ragazzi. Dico che ti piace lui».

Uno scomodo disagio s'inerpica in Claudio, glielo scorgo in un luccichio attraversargli gli occhi, che raggela e che brucia al tempo stesso. Da bestia selvatica si trasforma in coniglietto impaurito.

Un'inquietudine che s'impossessa di lui a ogni tremito di ciglia, a ogni vibrazione d'animo.Un altro passo indietro.

Nuvole grigie, come coltre di pioggia, s'insidiano sui suoi zigomi macchiandone l'incarnato delle gote... approfondendone il pallore.

«Lo sapevo...» il petto di Claudio si agita sotto il fragore di una risata, «dovevo restarmene a casa stamattina... mi sarei risparmiato questo fottuto teatrino».

«Che senso ha rinchiudersi in casa quando ci si può rinchiudere in se stessi anche restando in mezzo agli altri? Scuola... casa... fa' lo stesso, non trovi?».

«Castellani, delle tue lezioni di vita non me ne faccio niente, lo sai? E poi... cazzo! Tu dovresti odiarmi, dovresti volermi morto, vedermi umiliato... ma forse è proprio questo, eh? Vuoi strapparmelo dalla bocca e raccontarlo a chiunque a scuola, rovinarmi come io ho fatto con te» tenta lui con un sarcasmo avvelenato, l'angolo della bocca che si piega all'insù.

Sgrano le palpebre, ma, nonostante l'astio, nonostante le offese, nonostante la tracotanza, sorrido. Gli sorrido, candida, come il miele. La dolcezza che meritavo anche io, quel giorno. E invece mi sono stati riservati solo puntoni di filo spinato.

«Ho tutte le ragioni del mondo per odiarti, è vero. ...ma nessuna per giudicarti» esalo con una naturalezza dolcissima, immobile sulle caviglie e quella mano ritornata rasente al mio fianco.

Claudio esita per un istante, in silenzio. Come se non avesse programmato quelle parole uscire dalle mie labbra, pronunciate con quella convinzione delicata cui mai è stato abituato.

«...quindi?» chiede abbassando il mento, ciuffi di capelli ad adombrargli le iridi. «...cos'è che vuoi da me? Non riesco proprio a capirti... sei un enigma vivente tu».

«Voglio dirti che... nonostante tutto... non sono arrabbiata con te. Ma per colpa della tua codardia non puoi andare avanti così, è deleterio per te e soprattutto per gli altri. Devi fare qualcosa...» parlo lieve, mentre un filo di sole disegna ghirigori sulla mia effigie.

«Io non devo fare proprio niente» scocca Claudio rigido, il respiro imbottigliato, costretto fra le narici. Il mio e il suo. «E adesso mi sono alquanto stancato di stare qui, con te. Forse davvero me ne vado».

Le suole delle sue scarpe raschiano il pavimento, facendomi intuire che fa sul serio, se ne sta andando da lì — bloccato con l'ultima persona che avrebbe voluto.

E potrei stringermi addosso al muro, lasciarlo passare, andare via... abbandonandolo a se stesso come la marionetta rotta e impossibile da aggiustare quale è. Potrei, ne posseggo il diritto.

Ma arricciate in gola ho talmente tante di quelle parole, tante di quelle cose che potrebbero salvare una persona anziché portarla alla rovina. E sento che devo, che devo osare, provarci.

Mi ritrovo a serrare le dita attorno al suo polso, bloccandolo lì, appena accanto a me. Vicinissimi, lui così imponente e io così esile.

Una minuscola scaglia di cristallo che vuole fare la differenza in un oceano di tenebre.

«Claudio, per una volta nella tua vita, smetti di fare il bambino! Il guscio che hai non vedi quanto è rotto? Non ti protegge più» pronuncio severa in uno sfarfallio di ciocche, il viso ruotato su di lui.

«Ma questo sono io» dice a viso basso, un tremolio gli percorre la pelle al di sotto della mia stretta, «sono io e non puoi farci niente».

«Leonardo lo sa?» gli domando ignorando le sue parole.

E per un lungo momento, il silenzio. Nient'altro che silenzio, e la musica ovattata provenire dalla palestra.

Il battito aritmico dei nostri cuori.

«Leonardo sa... cosa?».

Le palpebre sbattono in un guizzo che non riesco a controllare, stupita. La sua presenza m'inghiottisce di ombre, e scompaio senza fatica.

"Una domanda scomoda. È una domanda scomoda".

«Leonardo sa che... lo ami?».

Il rumore del suo respiro mi smuove i ciuffi rosei, sempre più vicino.

«Sa che... mi hai baciato perché... gliela volevi far pagare anche a lui? Non solo a me... per avertelo portato via», un sussurrio ancora.

Nella conca della mia mano avverto l'ennesimo tremolio.

«Se glielo dicessi... lui capirebbe... lui ti... perdonerebbe».

«E cosa ti fa credere che io voglia il suo perdono...?» mi redarguisce con tono basso, roco, cedevole quasi, «Hai troppa fiducia in me...».

«Me lo fa credere l'amore che senti per lui» proferisco nella celere immobilità di un istante, «e se non è amore, è qualcosa che gli si avvicina tanto».

«Poi? Poi che si fa, cara Atena? Glielo dico e poi? Tu continui a scopartelo e io resto con questa maledizione addosso. Una bella alternativa, sì... te l'ho detto, tu hai troppa fiducia».

«Devi farlo... porti questo fardello da troppo tempo», scuoto il capo e riempiendomi di coraggio, premo il palmo dell'altra mano sul suo petto.

Proprio lì, all'incrocio dove cuore e anima s'incontrano. A collidere in un manto di cielo di promesse fatte per essere infrante, stelle luminose e rarissime costellazioni di gioie. Incuneo con fervore l'incarnato sul tessuto della sua maglia, e ben presto il suo respiro si amplifica sotto il mio tocco. Claudio inciampa in un balzo di stupore, colto di sorpresa da quel mio gesto improvviso.

«Quando ci pensi... quando ci pensi senti un dolore qui, non è vero? Ogni volta, e lo odi, e ti odi» pigolo in un soffio, a occhi chiusi, ascoltando quel cuore così riboccante di sofferenza e tormento, talmente usurato... logoro di un sentimento mai pronunciato.

«Io non posso farlo», un tenue bisbiglio mi solletica i timpani.

«Perché no...?» replico annichilita.

«Perché farlo sarebbe come ammettere di perdere. E sinceramente... proprio non mi va, Castellani. A meno che la tua linguaccia non andrà a spifferarglielo prima».

«Io... io non dirò niente!» esclamo piccata, «Non spetta a me, spetta a te». Imbrigliata di rammarico.

«E allora siamo tutti felici e contenti. Tu senz'altro, visto che... be'... alla fine di tutto, te lo sei preso», mi soffermo a scrutarlo nei contorni precisi delle sue labbra, rigide, una linea tesa e netta, quel "te lo sei preso" a rintoccare vivido come un pendolo a mezzanotte, stracciando il silenzio, «rubandolo a Olivia... a Viola... a me... a tutti noi».

«Non l'ho rubato proprio a nessuno» è il mio sussurro contrito a bocca stretta, «io... io... sento che... sento di amarlo. E ora tu mi dirai che c'eri prima tu, esattamente come Olivia... ma ti rivelo un segreto, Claudio... in amore, non conta chi arriva per primo, conta chi ama con più intensità. Chi viene a compromessi con quella dolce violenza che ti dilania, in ogni dente, a ogni strappo. Chi la accetta a cuore nudo, senza aver paura di mostrarsi con le proprie fragilità e incertezze. Non è una gara, non vince chi è più veloce, non vince chi fugge. E soprattutto... non si bara».

Claudio mi studia da sotto le ciglia, dall'alto della sua imponenza — appena più basso di Leonardo —, il pomo d'Adamo che si alza e si abbassa a ogni nodo d'incertezza inghiottito a forza.

«Hai comunque vinto tu». Denti stretti, le sopracciglia disegnate di una curva malinconica. «È tuo il trionfo».

«Continui a non capire...», lo guardo come se il mio orizzonte fosse troppo distante per lui da poter ammirare, «Leonardo non è un trofeo, come Olivia lo considerava. Non è un qualcosa da vincere o venerare come un dio. È una persona, un essere umano come te, come me. È fatto di carne, di sangue e di ossa, di sbagli e di labirinti inesplorati, non d'effigie d'oro e pennellate d'avorio. Prova sentimenti, sente dolore e felicità, non è una scultura di marmo come tutti credete. È Apollo come io sono Atena, fino a un certo limite».

«Perché mi stai dicendo queste cose? Perché a me?» domanda dinanzi a quelle parole indorate di gentilezza, da me, che più disprezza al mondo, «L'ultima volta ti ho persino spinta sino a farti cadere. E avrei voluto vederti soccombere ogni volta, mentre ti scorgevo a scuola. Sono sempre stato spregevole con te, non che adesso sia cambiato qualcosa... tu rappresenterai comunque colei che me l'ha portato via... da quel giorno, in terzo anno».

Le mie pupille vibrano di parole silenti, un fiorire incessante di continue sensazioni, che vanno e vengono, in un movimento fluido lascio scivolare le dita dal polso di Claudio per poi sollevare l'avambraccio all'insù, la mano aperta a ventaglio. Egli mi osserva perplesso — esamina prima me, poi quelle dita distese, dilatate in una ragnatela di ossa.

«Non voglio farti niente, puoi stare tranquillo. Voglio solo che tu... unisca la tua mano alla mia, così, bene aperta» mormoro a voce bassa, certa che mi avrebbe udito in quella quiete dove entrambi siamo incastrati come libellule impigliate fra steli di grano.

«Non lo farò» articola guardandomi con un'occhiata che mi dipinge come una folle, squadrando senza remore quella muta richiesta, «è stupido».

«È stupido anche baciare qualcuno per puro scopo vendicativo» gli ricordo inespressiva, senza demordere, «muoviti».

Claudio esita, ma non smette di rimirare le mie dita esili, le unghie dipinte di un glicine delicato, cresciute appena più del normale. Non più rosicchiate, vigorose e di curve scandite.

«Oh, fanculo... ecco, contenta?», e finalmente fa collidere il suo palmo sul mio, più grande, rovente, i polpastrelli che sovrastano i miei, spiccando verso l'alto. «Mi sento un tale idiota...».

«Ecco» ripeto armoniosa, tentando di instillargli tranquillità, «lo stai vedendo?».

«Vedendo cosa?».

«Non vedi che... siamo uguali? Non c'è niente di differente, non c'è mai stato niente di differente... sempre a credere che voi del Classico siete migliori di noi, e viceversa. Quanto siamo stati stolti... a lottare per far prevalere questa convinzione» rivelo con la voce orpellata di sollievo, in maniera serena, «e anche se ti piace Leonardo, non fa di te un diverso, né da me, né da nessun altro. Sei sempre tu».

«Quindi non... non ti faccio schifo? Non ti repello?» chiede evitando i miei occhi.

«Non nel modo in cui pensi tu, anche se di sbagli ne hai fatti tanti, Claudio...».

«...lo so» tenta un po' incerto, la fronte aggrottata sotto quella cascata ormai disordinata di ciocche, «e non mi aspetto di ripararli tutti. Di solito io sono lo sbaglio stesso, impossibile che possa aggiustarne uno. È per quello che stavo riflettendo di... cambiare scuola. I miei conoscono un ottimo istituto privato e con una buona parola mi faranno ammettere di sicuro, e poi concludere lì gli studi fino alla maturità».

Trasalisco. «È così? Preferisci scappare anziché affrontare i tuoi demoni?».

«A volte esistono demoni troppo crudeli, troppo forti... ingigantiti e distorti, per persone troppo piccole. Sì, preferisco scappare».

«E... Leonardo? Non saprà mai niente di questo?» insisto percependo una fitta che mi urla di quanto io sia ingombrante, adesso.

«Leonardo sa».

E di colpo mi sento dissolvere al suono cristallino e definitivo di quella voce.

Le pupille di Claudio si spalancano, il suo viso che ruota sino a voltarsi all'indietro, oltre le spalle. Una stretta alla mia gola, invisibile.

In un attimo, la mia mano e quella di Claudio si sgretolano come pietra friabile, brandello dopo brandello, pendule a cascare nel vuoto.

Le labbra mi si schiudono quando mi accorgo di chi è lì, con la spalla puntellata alla cornice della porta, da anche troppo tempo... Riprendo a respirare dopo qualche secondo che paiono l'eternità, non appena i miei occhi si incagliano suoi suoi, mossi da una calamita di bisogno disperato.

«Quanto... quanto hai... hai sentito tutto, vero?» pronuncia Claudio irrigidito sulle ginocchia, raddrizzandosi percettibilmente il punto in cui avevo premuto la mano, laddove si nasconde il cuore, un lembo di stoffa sgualcita. Una stalattite fredda, ancorato all'ultima speranza appena sbiadita...

«Ogni singola parola» spinge lui contro il palato, dandogli quella conferma che tanto avrebbe evitato come un cancro incurabile.

«E non sei mai intervenuto...», Claudio ha il cuore in gola.

«No, ho preferito ascoltare». Le sue iridi eteree mi sondano dal volto inclinato, superando il profilo di Claudio, e noto che è ancora vestito con i vestiti dell'esibizione: gonna a sbuffo e finissimi collant neri. «E comunque, non mi hai dato modo di intervenire, non c'è stato bisogno».

«Non hai nient'altro da dire? Solo questo?».

«Ci sono tantissime cose che dovrei dire, e che vorrei anche. Ma credo che soltanto una sia giusta, corretta» dice piano, modulando perfettamente il tono della voce, apparendo cheto, «e non sono sicuro che tu voglia sentirla...».

«Dilla, avanti!» prorompe Claudio guizzando in avanti, a un velo di carta dal suo naso, vicino a lui come non mai, «Di' quello che devi dire, ti sfido. Senza più rimpianti, Leonardo. Ora o mai più».

Senza fretta, Leonardo osserva il suo amico fra le pieghe nivee delle ciglia, pungendolo con l'impeto incantevole di quell'eterocromia incorniciata da occhiali d'oro. Più alto di lui.

«...dilla...» ripete Claudio con un suono spezzato, che stride appena entra in collisione con le mie orecchie, e anche se non le vedo, sento che le lacrime tornano a irrorargli le iridi.

I secondi scivolano via celeri, vento fra le dita, fra i capelli... capriole di tempo capricciose.

«Io amo lei e... anche se ora so di quel pezzo mancante del tuo mosaico, nulla potrà cambiare quello che provo. Non posso darti quello che cerchi e mi dispiace, tanto. Averlo saputo così... potevi dirmelo a quattrocchi, senza timore, ma tu non scegli mai la via più semplice, no? Non è da te...». Sento il petto tremare, il costato percorso da spine di fitte, il sorriso mi muore fra le labbra.

«Tutto qui?» sogghigna Claudio di un lindore anomalo, «Soltanto questo...? Quanta poca fantasia...».

«Non dovresti piangere. Hai sempre saputo, in cuor tuo, ciò che sentivo».

«Non sto piangendo!» grida Claudio, parole rotte da un pianto appena fiorito.

«Mi dispiace davvero, Claudio. Ma ho le mani legate... e se pensi che cambiare scuola sia per te il modo migliore di... andare avanti, sappi che non mi opporrò. Devi fare la cosa giusta per te» modella con delicatezza.

«La cosa giusta per me... la cosa giusta per me eri tu. Se me ne vado lo faccio per smettere di soffrire così, una volta per tutte, e non è per niente la cosa più giusta». Claudio distoglie l'attenzione da Leonardo, districandola come fili di seta avviticchiati fra le dita. «Però adesso basta, diamoci un taglio. Ora sapete. Non c'è nient'altro da dire. Fammi passare, cortesemente, mi sei d'intralcio».

«Okay...», e Leonardo si scosta di lato, quel tanto che serve per far passare Claudio, per farlo andare via, forse per sempre. «È un addio» aggiunge poi senza quella tonalità che suggerisce una domanda. Claudio si arresta per un momento infinitesimale.

«Fosse stato un arrivederci, non credo che sarei arrivato a questo punto, di voler abbandonare il Caravaggio. Quindi sì, è un addio».

«Allora addio, Claudio».



















Uno spostamento d'aria mi avvolge delicato. Il suo profumo ovunque, di familiarità, di dolcezza, e di cotone e di grano.

Leonardo che muove le gambe nell'atto di avanzare verso di me, le ossa delle ginocchia che guizzano al di sotto delle calze finissime, la gonna che fruscia morbida.

Uno sgomento a trascinarsi uno stuolo di disincanti mi colpisce in pieno viso, un'onda granitica di sensazioni contrastanti. E nelle mie mani strette, le dita intrecciate, giace amara una tristezza di non aver fatto abbastanza.

Appena vengo ammantata dalla sua penombra, toccasana per la mia psiche, mi lascio abbandonare in un sospiro che sembra non conoscere fine.

«C-come... è andata l'esibizione?» balbetto incerta, le ciglia abbassate.

«Un figurone. L'intero istituto, alla fine, è venuto ad assistere. Mai sentiti degli applausi in quel modo, per non parlare dei fischi. Dovrei indossare la gonna più spesso...» mi toglie immediatamente il dubbio.

«E ora che hai provato l'ebbrezza del vestire una gonna, dovresti provare con i jeans... non ti ci ho mai visto in questi cinque anni, sarebbe interessante».

«Devi avermi osservato parecchio».

«Eri sempre fra i piedi, in realtà».

Gli angoli della bocca di Leonardo si sollevano, arricciandosi in un dolce sorriso a scaldarmi il cuore, sfaldandolo nei suoi petali neri. Poi le sue braccia mi circondano allacciandosi d'incanto a me. «Vedrò di portarmeli dietro quando andremo in gita, chissà... ti piacerò così tanto che non resisterai dal saltarmi addosso».

«Tu fai troppo affidamento su te stesso, sei un pallone gonfiato» mi sciolgo in una risatina fievole, modellando lo spigolo della mandibola nell'incavo accogliente della sua gola, in punta di piedi.

«Io so riconoscere i miei pregi, cosa che un po' tutti dovrebbero imparare a fare. La modestia non mi è mai piaciuta».

«Lo so... me lo ricordo bene» dico in un soffio.

«Jeans e gonne a parte... devo dire che mi hai lasciato spiazzato».

«Spiazzato?».

«Di quanto sei stata matura e buona. A voler parlare con lui a cuore aperto dopo tutto quello che ti ha fatto. Coraggiosa, anche. Ti ho vista mentre gli correvi dietro, mentre ero a ballare» mormora solleticando i capelli, le labbra rasenti alla cute, «in quel momento ti ho visto Atena più che mai».

«Claudio è così... rotto. Talmente rotto che per sentirsi bene deve rompere anche gli altri... qualcuno doveva aiutarlo, io ci ho provato. L'ho fatto perché lo sentivo bruciare come un fuoco impetuoso, dentro di me. Un bisogno di porgere la mano e salvarlo, anche se... forse la sua salvezza è proprio lo scappare via dai problemi, tenersi lontano».

«Ti prometto una cosa, Matilde, dopo averti vista in tutto il tuo coraggio, giuro che metterò lo stesso ardore anche con mio padre... perché io, dopo la maturità, dopo questi cinque anni di liceo, voglio studiare Lettere e non Economia come lui vorrebbe. Persino Ariadne la pensa così» dice piano ai miei occhi velati di un'emozione cigolante.

«Parlerai... parlerai finalmente con Furio?».

«Sì, ho deciso. Lo sai meglio di me... nella vita è uno spreco di tempo fare cose che non ci piacciono».



















«Ascoltami bene, Angelica, ho perso il conto dei bicchieri che hai bevuto e direi proprio che può bastare. Forza, quello dallo a me, te lo confisco in nome della vigilia di Natale» declama mio padre con il braccio sollevato dirimpetto allo sguardo scorbutico di zia Angelica, e al calice di vino avviticchiato fra le sue dita, riempito quasi a sfiorare l'orlo di cristallo.

Angelica muove le palpebre in uno sfarfallio indefinito e frettoloso, strabuzzando le pupille, e la sua corolla densa di capelli non si muove quando smuove la nuca in una movenza decisamente irritata — fili intrecciati in una dolce acconciatura a scenderle morbida sulle spalle, una soffice pennellata cremisi a baciarle la seta della camicia, acquistata in vista della cena a casa di Fabrizio.

«No» mugugna arricciando le labbra in un broncio di bambina, capricciosa, stringendosi al petto quel prezioso tesoro in forma liquida.

«Molto bene, allora per te niente dolce», mio padre solleva le mani in aria, un cenno che suggerisce totale resa, «e sappi che è una Ruffle Cake preparata con le mie stesse mani».

«Non m'importa, io rimango fedele al vino. Vuoi mettere una Ruffle Cake con un Montefalco? Ragiona...» spinge fuori Angelica con una naturalezza che farebbe cascare le braccia.

Le iridi di mio padre si distaccano da quelle della sorella, andando a cercare un appiglio d'aiuto in alcune più vicine.

Un alone caldo si snuda attorno a me, assieme a una sensazione di familiarità talmente fine e delicata che sembra provenire da un antico libro di fiabe, quelle cui da piccola vi affondavo il viso intero pur di farmi inghiottire dalle trame di quelle pagine... pur di farne parte per davvero, interamente.

«Leonardo, per favore... inventati qualcosa tu, io ho perso le speranze» tenta con colui che siede accanto a me, il piatto appena svuotato della seconda portata di questo 24 dicembre.

Ed è per questo che sorrido candida, perché in un modo che non mi sarei aspettata... papà è riuscito ad accettare Leonardo. Invitandolo addirittura a passare la sera della vigilia con noi.

«Tsk, per favore, Fabrizio!» celia divertita Angelica, «Se lo farebbe volentieri anche lui un bicchierino! Non è vero, Leoncino?».

E come ogni vigilia che si rispetti, zia Angelica è visibilmente su di giri... per non dire ubriaca.

Anche se... inizio a sospettare perché.

«Facciamo così. Prometti che questo è l'ultimo calice che ti riempi. L'ultimo e poi basta così, tieni un po' di spazio per il dolce» le propone Leonardo seguendola con lo sguardo, cercando di accontentare entrambi.

«Sentito? Leonardo mi dà il permesso», Angelica mostra una linguaccia di trionfo al fratello, «zia Angi ti ringrazia. Il mio adorato fratellone non ha capito con chi ha a che fare, io la reggo bene!» e infine inclina il mento verso Leonardo.

«Come no... l'ultima volta eri talmente messa male che ti ha dovuto riportare a casa quel Tit-...».

«Non ti azzardare a pronunciare quel nome! È bandito da casa Castellani come è bandita la tua amata Barbara D'Urso, sono stata chiara?» erompe d'improvviso a palpebre spalancate, le iridi smeraldo a guizzare funeste, con tanta spigolosità da lasciarmi sconcertata. Con il fantasma di quel sorriso a spirarmi fra le labbra.

Papà puntella i gomiti sulla tovaglia, la dita a conca per accoglierne la sommità del mento, «E sentiamo... dove sarebbe il problema? Avevi detto che non ti importava più» la sua voce rasenta una lentezza disarmante, quanto... imbevuta di sadismo.

«L'ho detto» risponde lei gelida, irrigidita nei tendini e nelle vene, ma centinaia di lame a tagliarle le parole.

«Oh, eccellente. Dunque posso pronunciarlo senza conseguenze il nome di Titòu».

"Papà... hai la grazia di un elefante... ora è sicuro che non smetterà di riempirsi il bicchiere di vino!".

«Oh, certo... ha un suono così armonioso, no? Così fine, elegante... il fascino francese incanta tutti. Una gioia per le corde vocali» sentenzia la zia in un tono di velluto, posando con cautela il calice sopra l'orlo del tavolo. Un brivido mi scivola lungo la schiena per l'esemplare controllo con cui si sta esprimendo.

«E ricordami... quand'è che ha il volo di ritorno?», papà infila l'uncino fra le pieghe di quel livido impercettibile, ma presente come lo scavare instancabile di una voragine.

«...Dopodomani» inghiottisce Angelica incolore, un puntino di titubanza che emerge silenzioso.

«Vi siete salutati per bene? Insomma, se ne va per sempre, biglietto di sola andata».

«Sì... immagino di sì. Ci siamo salutati. "Ciao" ce lo siamo detti, com'è giusto che sia» modula di rimando, una certa impazienza a scuoterle sgraziatamente le spalle.

«Me ne compiaccio. Quindi niente rimpianti?» chiede infine, tornando con l'arco della spina dorsale allo schienale della sedia, lasciando che aderisca di precisione, le braccia intrecciate al petto.

«...niente rimpianti». E ne segue un silenzio cadaverico, mancato di spontaneità in un'occasione come quella. Bloccato nell'aria, fra di noi, in ognuno di noi.

Il liquido scuro a giacere sul calice, intatto.

«Ehm... zia? Credo che andrò in terrazza a fumare una sigaretta. Vuoi farmi compagnia?», mi alzo raschiando per terra con i gambi della sedia. Il viso sollevato verso di lei, un sole spento, dai bagliori recisi. Il fuoco dei suoi ciuffi che sembra essersi smorzato insieme al suo umore.

«Certo. Un po' d'aria fredda mi farebbe più che bene» annuisce affondando i denti nell'arcata del labbro inferiore, «hai tu l'accendino?».

«Sì, non ti preoccupare». Lancio un'occhiataccia in direzione di papà appena zia Angelica si volta dall'altra parte con le spalle, e lui allarga le braccia facendomi cenno di non capire.

"Sei un caso perso, Fabrizio Castellani. Un po' come tua sorella, forse...".

Per un momento scelgo di portarmi dietro il giacchetto, ma poi ricordo che a quest'ora sarei dovuta essere immersa nei rigori gelidi dell'inverno montano, su a Livigno, attorniata da abeti innevati e splendidi tetti di baite. E dal sorriso amorevole di nonna Fauste e nonno Bert...

Riappoggio il giacchetto sul bracciolo del divano, inerte, accettando con gratitudine quel freddo ad attecchire sulle mie membra accaldate.

E poi... anche io ho bevuto del vino durante la cena. Direi che sono a posto.

Mentre ci avviciniamo passo dopo passo alla finestra del terrazzo, m'immagino il vuoto nello stomaco che deve avere zia Angelica... e non parlo del vuoto comune, quello che si lascia per un altro pezzetto di dolce... ma quello incolmabile, che non accetta frammenti qualunque, di rimpiazzo. Quel vuoto ne vuole soltanto uno di tassello, quello che ti fa pensare e volere in grande. Che ti fa mettere in gioco.

«Non ti metti niente addosso?» mi chiede la zia osservandomi ad armeggiare con la serratura dello stipite.

Le sorrido discreta, il pacchetto di Winston a pesare nel taschino del vestitino, «No, sto bene così».

Il suo viso inghiottito dalla penombra, tagliato di ghirigori deliziosi dai bagliori a provenire dall'esterno, appare quasi distante, macchiato di quell'essenza lontana racchiusa fra le pagine di libri dimenticati negli scaffali delle librerie. Di scrittori poco noti, che scrivono ancora con carta e penna, inchiostro profumato, con la sigaretta incastrata nei polpastrelli, onnipresente. La voglia di cambiare, morire, rinascere.

Quegli autori incompresi, dall'esistenza costantemente spezzata e macchiata di malinconia la quotidianità, euforica e folle in ogni decisione, ma di rimpianti... oh... loro ne hanno ben pochi. Pane e incertezze, spaghetti e rischi, caffè amaro allungato di sogni.

Con un solo passo, ci ritroviamo al cospetto di una vista spacca cuore — una Firenze notturna, costellata di lucine a illuminare il regno della notte. Il fulgore dei lampioni si mescola di armonia con i fiocchi esili della luna, abbracciata dalle sue piccole stelline.

Sembra che stia ridendo, sembra che si stiano scambiando segreti troppo complicati per noi comuni mortali.

È l'incanto del buio, e noi dobbiamo limitarci solo a guardare. Siamo costretti solo ad ammirare.

Accendo per prima la sigaretta di zia Angelica, poi passo alla mia.

Un ricciolo di fumo gronda dalle nostre labbra, silenzioso, per poi morire poco dopo.

«Quel Leonardo diventa sempre più bello» chiosa lei mentre la occhieggio di sottecchi, le palpebre a mezz'asta, puntellando i gomiti sul pizzo del ferro a fungere da parapetto, «e sembra anche più alto...».

«La sua altezza è sempre quella, zia» ridacchio voltandomi dall'altra parte.

«Forse sono davvero ubriaca» realizza premendosi le dita sulla fronte, increspandola, «ho esagerato con il vino, Fabrizio ha ragione».

«Tu che dài ragione a papà? Wow... si vede che questo 2014 è arrivato alla fine».

«No... ha ragione... su tutto quanto» le sento dire con una chiarezza che mi fa trasalire, «su Titòu. Dio... non so nemmeno io cosa sto facendo. Cioè, cosa sto facendo? Non lo so più nemmeno io, non riesco a capire se sia ancora un gioco... se tutto questo avesse senso davvero, se sia finzione o realtà».

«È facile capirlo, invece. Basta che tu pensi, anche un singolo attimo, a lui, a quello che è per te e... sai... sarà il tuo cuore a risponderti, ti parlerà come mai nessuno potrà mai fare. Nemmeno io, nemmeno papà».

«Lui dopodomani parte, Mati. Tornerà in Francia e io... e io mi sento così misera... e sola. L'ho salutato l'ultima volta davvero con ridicolo "ciao", per colpa del mio orgoglio e del mio volere essere a tutti i costi... libera. Sono stata spirito libero per troppo tempo che ho una paura fottuta. Andiamo... mi ci vedi, io, innamorata di qualcuno?».

«Se vuoi saperlo davvero, tutti e nessuno si vedono innamorati. È un qualcosa di talmente potente e pieno di sfumature che in ognuno di noi sboccia in maniera diversa, non si può spiegare a parole. Ma sappi che quel ragazzo seduto di là con papà, dio... all'inizio lo odiavo da morire, non tolleravo nemmeno la sua esistenza, il fatto che condividessimo la stessa aria. Ma guardaci ora... guarda quanta incantevole stravaganza siamo insieme» esalo con un'emozione a grondarmi dal cuore, tremula nei polsi, «amore è debolezza e potenza, insieme. Amare ci rende fragili e forti, per questo bisogna essere in due, per questo gli incavi fra le dita anelano altre dita... Senza rischio, senza azzardi... allora sarebbe un'emozione qualunque, incolore, esangue».

Angelica rimane a osservarmi ammaliata, un fascio di sensazioni a lottare fra di loro, morsi, artigli, zanne. «...che cosa devo fare, allora?».

«Parte dopodomani hai detto... allora va' da lui. E diglielo, faglielo sapere. Che di un amore morto, sepolto, non se ne fa niente nessuno».

«Vado da lui e... che gli dico? "Ehi, Titòu, sono qui, la vigilia di Natale. Sembro matta, forse sono matta davvero perché vorrei dirti che..."-», e la zia si ammutolisce.

«...perché vorrei dirti che...?» la istigo.

«"Che mi piaci talmente tanto che mi hai reso tu la folle che sono... e che probabilmente credo di essermi innamorata, e non so nemmeno come sia potuto succedere visto che l'amore non so nemmeno che forma abbia... ma se dovesse averne una, be', assumerebbe la tua. Con i tuoi occhi, il tuo naso con quella deliziosa gobbetta, quelle labbra illegali e..."».

«E...?».

«E devo andare da lui, nipote. Devo spicciarmi. Perché non voglio finire con un mucchio di cose e di persone che non voglio, e se devo scegliere, voglio scegliere ciò chi desidero» conclude Angelica smorzando la sigaretta contro il ferro gelido. «Devo andare... e fargli capire che insieme possiamo essere gli spiriti più liberi di questa città. O di questo mondo, perché noi pensiamo in grande».

«Sì, devi andare», le sorrido.

«Devo andare, Matilde! Io vado» esclama frebbricitante, scomparendo oltre la finestra, dentro casa a recuperare le sue cose.

Finalmente.





















All'una passata ritorno a casa.

La promessa di scambiarci i regali il giorno dopo.

Con uno sbadiglio incagliato sulla bocca e un piede a pochi metri dal mio portone di casa, scorgo una figura rannicchiata su se stessa, seduta sui gradini all'ingresso.

Ma chi...

Aguzzo lo sguardo, stranita, nonostante lo scintillio del lampione resta indecifrabile la sua identità.Il tacchetto dei miei stivali rintocca sul suolo e la figura scatta con il capo verso di me. Due pupille bucano la distanza fra me e...

«...Costanza? Ma cosa...».

«Mati» esala lei con il volto non più nascosto fra le ginocchia, «devo raccontarti una cosa... posso dormire da te stanotte?».







Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top

Tags: