61. In guerra e in Autogestione tutto è lecito
Marta.
«Stendermi...?».
Quella domanda, soffiata con la delicatezza emblematica della luna, disegna soffici piroette giocando assieme al pulviscolo intessuto fra i fili di luce a trapassare la stoffa delle tende.
Sino a incunearsi dolcemente fra le curve morbide delle mie ciglia, impigliandosi come fossero ciocche di capelli.
Con una naturalezza sconcertante, senza dolore, senza fastidio.
Le iridi di Alberto, ben aperte, e le palpebre sollevate immobili e decise all'insù, sembrano un trionfo di zaffiri ammirate dall'angolino del mio letto — si abbracciano a quella ghirlanda brunita a cascargli sugli zigomi con una delizia divina, conferendogli un'espressione del tutto stupefatta.
...meravigliata.
Annuisco, senza smettere di guardarlo un solo attimo, rapita e incantata dalle parole che ha appena pronunciato, ancora librate nell'aria a stillare lo stesso stupore di una fiaba della buonanotte. Io, di occhi di bambina, di vetro, e di illusioni.
Senziente che vocaboli come quelli, eleganti e solenni, avrebbero solcato, in me, sentieri infiniti di fiori senza spine e rivoli di luce, entrando senza fretta, certi che avrei dato loro il permesso sempre e per sempre, senza eccezioni. Sino a sfiorare il cuore, tormentandolo di un sussulto inaspettato.
«Sì... stenderti» scandisco, con voce fievole, per imprimergli al meglio quel concetto così semplice, muta preghiera di volerlo accanto con una disperazione a urlare negli occhi.
I polpastrelli delle dita si incuneano alla trapunta, increspandone il tessuto, appiccicandosi come se al posto del cotone vi fosse una falda di colla — cerco un appiglio che non siano le sue pupille, sperando di non cadere.
Mi porto una ciocca dietro l'orlo dell'orecchio, abbassando le ciglia, sentendo la pelle oltre i vestiti arroventarsi sotto il suo sguardo che, poco a poco, va a disperdersi di sorpresa per lasciar spazio a qualcosa di... maliardo... affilato.
Il senso di quel mio desiderio che attecchisce nella ragnatela della sua logica, e della sua realtà.
Lo so. So di aver osato troppo. Di aver gettato la gamba oltre quel confine proibito, che io stessa mi ero promessa di non valicare mai, e poi mai!
Ma... senza volerlo — saperlo —, una punta di esitazione mi ha colto impreparata, muovendo i contorni delle labbra prima che potessi rendermene conto davvero.
E adesso indietro non si torna. Non si può.
Nascondere la mano dopo aver lanciato il sasso è controproducente se qualcuno ti ha visto.
E anche se fosse... non potrei mai... non dopo che ogni lettera, elegante nelle sue curve, riverbera nelle mie pupille di un magico e doloroso scintillio...
...nelle mie... e nelle sue.
Non potrei mai...
«...dove?», la bocca di Alberto sprigiona un sussurrio distinto, di una nota decisa a dispetto del tono roco, a vibrare fra le insenature dei denti.
Le dita della mia mano scivolano lontano dal grumo rattrappito di coperta prima che lui finisca la domanda, sapendo anche sin troppo bene cosa avrebbe voluto intendere: si arrestano a pochi centimetri da me, laddove la trapunta è ancora immacolata e priva di grinze, nel punto vuoto accanto al mio.
«Qui» esalo con un coraggio singolare, un ardore unico ad affiorare negli specchi delle mie iridi, ancora inclinate come un girasole verso il solo raggio di sole che anelo ardentemente.
Lancio un'occhiata oltre la cortina argentea dei miei capelli a cascare piano sull'altra metà del viso, misurata nel sentimento con cui mi ostino a studiarlo.
Nonostante abbia capito come il fuoco si muove, tocca e respira, quell'esile velatura di ghiaccio mi piace averla con me. Mi fa sentire al sicuro, padrona dei miei pensieri e dei miei gesti. C'è sempre un po' di Marta nascosta in quelle crepe fredde cerulee, in quelle gelide incrinature pervinca a fior di neve.
E sono grata ai miei occhi, che hanno conosciuto la parte peggiore di me senza mai tradirla, custodendola con garbo e discrezione al di là della mia essenza inviolabile e distante, senza mai farne trapelare troppo... senza mai farmi sentire sola davvero.
«Marta...» ciò che ne esce dalla bocca di Alberto ha un che di monito, «...io... dovrei fare gli esercizi di fisica».
Rimango a fissarlo con le sopracciglia sollevate e lui, nonostante quel "dovrei" a stridere nel silenzio fra di noi, resta lì, a poca distanza dalla sommità del mio letto, stagliato come una statua di marmo etereo. Eretto, di una titubanza che non gli ho mai visto prima, fermo, lo zaino con i libri a giacere al piolo della scrivania.
E gli esercizi di fisica in attesa...
Il mio respiro rimane sospeso fra le labbra, le palpebre che non accennano a volersi abbassare. E... una sensazione inspiegabile m'impone, tuttavia, di scostare lo sguardo lontano da lui — il cuore me lo sento... vorrei poter dire che me lo sento congelato, ma... di freddo non ne percepisco, non ce n'è, nemmeno un misero fiocco di neve.
Il cuore me lo sento... tremulo.
«Va bene» mi viene fuori assieme a un suono per niente bonario, un nodo di sospiri inghiottiti a forza. «Allora... io ritorno alla mia matematica e tu... alla tua fisica».
La mano, premuta fino ad ora su quel lambello di stoffa vicino a me, si lascia trascinare dalla mia volontà sopra le ginocchia, le caviglie incuneate sotto il peso del mio corpo.
E, a malincuore, ammetto che qualcosa mi si storce dentro, in quegli angoli bui, dove spesso me la dimentico della loro esistenza. Una distorsione netta, precisa nei suoi spigoli. Una sbavatura di colore su una tela nivea e a splendere di lindore. Una sbavatura dalla sfumatura indefinita, una sbavatura di mortificazione.
Perché?
Dopo tutto quello che... dopo tutto quello che ci ha reso inscindibili... dopo tutto quello che io ho accettato da lui, dopo tutto quello che lui ha accolto di me... perché, in quello sguardo recidivo e in quel silenzio a pesare come un'incudine, io scorgo un "no"?
«Marta», il mio nome pronunciato da lui viene accolto con anche troppa beatitudine dalle mie orecchie.
Ma provo a restare calma, pietrificata nelle mie stesse vene, e faccio per scivolare giù dal letto, gettando le caviglie oltre l'orlatura, pendule.
«Preferisci ti prenda una sedia dalla cucina o preferisci fare i compiti per terra sul tappeto?» domando fioca e il cuore a sprigionare quel battito in più, quel battito in eccesso a riecheggiare solo per me.
Voglio darmela a gambe, anche solo per un capillare istante, anche solo per realizzare... anche solo per non mostrarmi così stupidamente rattristita.
Oh sì. Sono stupida, così stupida, dannatamente stupida.
Stupida, stupida, stupida!
Eppure... le punte dei miei piedi non toccano terra. Non toccheranno mai terra.
Le mani di Alberto si aprono a ventaglio sulle mie spalle, un lambello della sua pelle a collidere sulla mia clavicola, nuda, scoperta, e il suo odore mi ammanta con una semplicità astrale, deliziosa innocenza. Respiro, lo respiro, come se ne andasse della mia stessa vita, socchiudendo le ciglia, e contraendo le labbra sullo spigolo della mandibola, cesellandone ogni linea.
Un brivido mi percorre l'arco della schiena quando metto a fuoco i contorni nitidi del suo volto... a un soffio dal mio, e le pupille impresse in ogni centimetro di me, a ricucirmi di un affetto così candido, profondo... vero.
«Marta...» pronuncia per poi lasciare che un attimo di tenue silenzio si dipani in mezzo a noi, la pressione delle sue dita che mi fa rimanere lì, seduta in quel punto d'un tratto scomodo, «se mi facessi parlare... avresti capito una cosa, semplicissima, facile».
«...cosa?» chiedo smarrita, seriamente all'oscuro di quello che vuole farmi capire.
«Dio...», e un lividore di pensiero stupefatto lo vedo creare una breccia nel suo sguardo, trasecolato dal modo con cui ho modellato quella domanda, «lo sai, sì... che se mi dovessi stendere accanto a te, sul tuo letto, nella tua camera... rischierei di... ecco... non potrei essere poi tanto carino dopo...» tenta di spiegarmi con voce spezzata, dando quasi il sentore di aver corso per molto tempo, «La tua... la tua presenza e il tuo profumo... ogni cosa, qui, sa tutto di te... mi mandano fuori di testa. Ecco perché... be', la razionalità della fisica è in grado di calmare i bollenti spiriti».
«Allora stammi vicino, senza toccarmi. Mi...» mormoro trafelata, sentendo di aver tenuto lo stesso passo della sua "corsa", «...mi piace quando sei vicino. Come quel giorno, a Parco di Villa Vogel. Stenditi qui, accanto a me, a parlare di tutto, a parlare di niente. A osservare il soffitto, vedendoci stormi di uccelli dalle piume d'argentite e costellazioni eterne e senza fine... a farci viaggi mentali anche solo restando con la schiena premuta contro una trapunta. Passando in punta di piedi prima per il Giappone e infine giù, giù fino alla fine del mondo, l'Africa intera. Immaginandoci quel dolore gentile di coloro che amano senza essere ricambiati, o quella dolce indifferenza di coloro che sono amati con ogni sentimento e non lo immaginano neppure... gli esercizi di fisica, di matematica... cosa sono i numeri in confronto all'immensità di un'immaginazione condivisa in due?».
«Sei in errore. Hai sbagliato affermazione. Cosa sono i numeri in confronto all'immensità di un'immaginazione condivisa con... te».
Fatico a modulare una risposta senziente, di logica e di senso. Intrappolata, ormai, fra le spire di ogni cosa a tracimare dalle sue labbra.
E nel fitto delle sue ciglia d'ombra, intravedo uno scintillio avido, la favilla di chi è estremamente affamato ed è stato a digiuno troppo a lungo.
"Stolta", mi ripeto mentalmente.
Stolta ad andare di propria volontà nella tana della bestia, danzando con scarpette di cristallo. E ne prendo atto con un'amarezza frammentata, con la bocca serrata, ammutolita.
Ammaliata dal modo in cui ha carezzato l'ultima parola: "te".
«Hai paura?» mi chiede solcando la morbidezza del labbro inferiore con l'arcata dei denti, a premere come se stesse lottando, come se si stesse trattenendo davvero.
«...No. Pensi che faccia male a non averne?», scuoto la testa, delicata, i ciuffi d'argento rasenti le mie guance, allargando gli occhi.
«No, fai benissimo a non aver paura» ammette Alberto con un sorriso affilato a tagliargli la fessura della bocca, una mezza luna incantevole.
La punta soffice delle dita — indice e medio — a incidere disegni astratti sull'incarnato dei miei zigomi. Un tracciare lento, ipnotico... tenero. Sento il cuore tremarmi, come anche il cristallo delle pupille, immerlettati dalle ciglia, e i tendini increspati dei polsi, candidi come neve. A sfiorarsi con i suoi, che paiono d'alabastro.
Le vene come strade, la pelle come una mappa illuminata dal bagliore della notte. Insieme, in cerca di un'unica direzione.
«...così ti lascerai azzannare di tua volontà...» chiosa infine, piegando appena il viso, avvicinandosi di più, sempre di più.
Finché...
...finché il suono del campanello m'impedisce di spaccarmi in tanti pezzi di cristallo, neve a grondare dappertutto. Salvata dalle zanne del fuoco.
«Ma chi...?» modula Alberto con la fronte corrugata e una nota d'irritazione a intridere nella voce. Una nota che cigola insieme al mio trillo di risolino, esilarata.
Sollevo il gomito e tendo l'indice verso l'ingresso del mio appartamento, oltre la porta della mia camera.
«Ecco... questo è il corriere».
Matilde.
È facile sorridere per le cose semplici.
Notarle.
Quelle che molto spesso diamo per scontate.
Notarle, renderci conto di quanta bellezza hanno in ogni spigolo appuntito e in ogni rifinitura levigata.
È facile, flettere i muscoli e accumulare aria, respirare. È facile distendere la morbidezza della pelle, e illuminarla con la forza e la spensieratezza di un sorriso.
Molti non ci credono, molti fanno fatica... ma è... naturale, un qualcosa di elementare e che fa conciliare con ciò che abbiamo intorno.
Il cielo è una cosa semplice — nel suo cheto dipanarsi all'infinito, fra crepuscoli aranciati e albori d'albicocco, nelle sue nuvole bianche, di un lindore sorprendente, e nei suoi nugoli cinerei, di temporali inesorabili —, sempre lassù, muto e magnifico nella sua costanza a colori, di mille emozioni.
Dovremmo sorridere più spesso a quel regno proibito, lontano a perdita d'occhio, vicino tanto da poterlo toccare con un dito.
Dovremmo sorridere più spesso, e basta. Far tesoro della luce nel momento migliore, ché poi... quando arriva il buio, i rimpianti si appiccicano addosso come pezze di stoffe senza bisogno di cuciture. Modellandosi a noi con una naturalità inaspettata — finché non ci chiediamo, rannicchiati nelle nostre stesse paure e rammarichi, perché non abbiamo fatto una cosa così tanto semplice prima.
Gioire delle piccole cose.
Amélie Poulain ci aveva visto giusto, lo aveva capito.
...e anche se non è uno stuolo di legumi cui far inghiottire una mano in punta di dita... anche se non è una crosticina di crème brûlée da spaccare con il cucchiaino, ognuno ha un buon motivo per incurvare gli angoli delle labbra. In ogni momento, per ogni ragione.
Tutti hanno il loro cestino di legumi personale.
E io... il mio buon motivo per sorridere oggi è la semplicità con cui si organizza un'Autogestione.
La mia ultima Autogestione al Caravaggio, l'ultimo dicembre che passerò fra le pareti di questo istituto. Il lento scandire del tempo rintocca sempre più forte nei dedali dei miei pensieri, fa sempre più rumore il suono della mia adolescenza che scivola via, goccia dopo goccia, lasciandosi rivoli alle spalle, macchie indelebili e che mi porterò dentro come un tesoro prezioso.
Oh sì... è facile davvero come si dice, sorridere così.
Restiamo per un momento che pare lunghissimo seduti attorno al lungo tavolo dell'Aula Magna; noi, Rappresentanti d'Istituto, e due professori per visionare le nostre scelte organizzative.
Le vacanze di Natale sarebbero iniziate ufficialmente il 22 dicembre, e abbiamo tre giorni pieni da riempire con attività didattiche e istruttive, al tempo stesso che siano coinvolgenti e interessanti per qualsiasi studente dell'istituto. Non un compito del tutto comodo, con un dolce complicato che rende ogni decisione magica e sensazionale, quanto... estrema, e rischiosa.
Mettere d'accordo due indirizzi come Classico e Artistico, l'uno l'opposto dell'altro, è un compito delicato, friabile come vetro soffiato. Bisogna agire con mani di piuma e intenzioni di zucchero, danzare, muoversi in fini piroette, e non perdersi fra le gambe di una corsa a perdifiato.
Inciampare, poi, è inevitabile.
Un tramestio delicato di fogli a muoversi, sfiorarsi l'uno con l'altro, suole di scarpe a sdrucciolare sul pavimento, e la caviglie a pizzicare di necessità giocose, e mormorii appesi a un filo esile di risolini riempie quel vuoto silenzioso che inghiottisce l'Aula Magna.
Siamo soltanto noi, qua dentro. Nessun altro. Fatta eccezione per Giordano Borghetti, che aveva l'esame pratico della patente esattamente il pomeriggio stesso.
«Appena finisce ha giurato che mi avrebbe mandato un messaggio» sento Giulio Viviani dire a Leonardo, seduti vicini, «spero che venga promosso. Non sai i passaggi che mi deve quel beneamato figlio di-...».
«Tè? Cioccolata? Caffè? Sto andando a prendere qualcosa alle macchinette, gradite qualcosa?» chiede con premura la professoressa Chiastri, insegnante dell'altro indirizzo.
Ferma, ritta in piedi, a stagliarsi dinanzi alla nostra schiera di visi, le pupille imbrigliate di una dolce cortesia.
«Un caffè, sì, volentieri... iniziano a chiudersi gli occhi. Ma le ridò i soldi, prof.» chiosa Leonardo con la schiena a premere sugli spigoli della sedia, e un polso a sporgere appena in avanti, sulla bordura del tavolo, l'altro che collide sulle palpebre, scostando appena la montatura fine degli occhiali.
«Non se ne parla, Aspromonte. Ho chiesto se gradite qualcosa, non "datemi i vostri soldi"», la Chiastri scuote la testa, incurante dell'occhiataccia del suo studente, e le guance piene pizzicate dall'ombra di un sorriso buono e gentile, «qualcun altro che vuol fare richiesta? Il treno quando parte poi non torna indietro».
«Sì, un tè per me, senza zucchero. La ringrazio, professoressa» la voce di Marta vibra dall'angolino in cui è seduta, la schiena ricurva sopra un plico di fogli, ordinati e trattenuti dalle sue dita affusolate costellate di anelli, fini, diverse dalle mie... un po' da bambina, e con l'effigie delle ossa a rivelarsi quasi timide sotto l'incarnato pallido, d'una sfumatura seppur più rosea.
Un dolce crepitio di primavera oltre la sbavatura d'inverno.
Il mormorio di voci ci avvolge ancora, piano, appena la professoressa si volta di spalle per farsi inghiottire dalla porta d'uscita — abbasso la nuca, stringendo le labbra, imprigionandole all'arcata dei denti.
«Tu non prendi niente?» sento domandarmi e quando sollevo gli occhi mi ritrovo la mia amica a osservarmi curiosa, le iridi verdi a fremere come fronde di alberi sospinte dal vento, quello sfavillio familiare che scoccano ogni volta che sbatte le ciglia.
«No, ho preso il caffè da mio padre. Zia Angelica ultimamente ne sta bevendo tantissimo, vive di caffeina, se potesse lo inietterebbe in vena portandosi dietro una bombola piena. E... a fine pranzo ha messo su la moka gigante... a papà non piace granché e pur di non farlo consumare tutto a lei ne ho trangugiato metà...» dico con un timbro a scivolare fuori tranquillo, anche se... un po' intinto di preoccupazione. «Quel Titòu la sta... uccidendo. Ne risucchia ogni spirito. Il problema è che lui non lo fa intenzionalmente, è un qualcosa che dipende solo e soltanto da lei».
«Ti rendi conto?...» esala Marta con un alone di malinconia a far da contorno alle parole, il mento ad affondare nel palmo della sua mano, il gomito puntellato sul tavolo, «L'indomabile e ribelle Angelica... anima selvaggia e capelli di lava... interessata a qualcuno. Invaghita seriamente di qualcuno».
Ma quella di Marta è una malinconia che sento essere docile, lene.
«Io... me ne rendo conto. Ma è lei che non riesce a farlo, non riesce a dirlo a se stessa. Comunicare con noi stessi a volte è più difficile di farlo con gli altri». Un tepore fastidioso m'invade il petto.
«...Non mi sento di darti torto...» ammette Marta, distogliendo per un attimo lo sguardo dal mio, strecciandolo quasi con urgenza, di fretta. Le gambe ad accavallarsi meccanicamente.
«Okay, ora ascoltate».
La vocina esile di Midorin, con quella sfumatura esotica, un accento a pinzare piacevole ai timpani, si libra nell'aria, muovendo quella calma distesa in un tumulto discreto. Basta quello per far ruotare i nostri volti verso di lei, senza esitazione.
C'è dell'abissale differenza dalla prima riunione, dove Classico e Artistico ha fatto — ha dovuto — fare fronte comune per la prima volta.
«Io e Jeanine abbiamo riflettuto e...» emette a occhi nudi, quelle mandorle deliziose a decorarle il visino a cuore, le mani intrecciate sopra il plico di fogli dinanzi alla punta del mento, «abbiamo entrambe convenuto che una buona e grande idea sarebbe quella di... trattare l'argomento dei diritti LGBT, scandagliando le sezioni per le tre giornate. La lotta per averli conquistati è stata lunga e sofferta, troppo importante per non citarne almeno la metà».
Jeanine Bonham schiude la bocca quando Midorin smette di parlare. I suoi ciuffi corvini le sono ricresciuti un po' in questi ultimi tempi, cascandole dolcemente attorno agli zigomi, rivestendole gli orli delle orecchie.
Ma quell'aria disordinata, da folletto, caotica come il suo animo, è rimasta sempre lì, impigliata in ogni ciocca, dondolando dispettosa. «Molti ragazzi non sanno nemmeno cosa significhi LGBT. Alcuni credono addirittura sia un brand d'abbigliamento... e questo penso sia inaccettabile. La disinformazione è una rovina. Per cui sarebbe un ottimo argomento, non trovate?».
«Uhm... se andiamo verso il terreno LGBT, automaticamente subentra anche il fattore sessualità. Una rapida parentesi mi sembra giusto farla» sostiene Giulio Viviani con l'angolo delle labbra sollevato all'insù, iridi incuneate all'apice delle ciglia.
Senza ignorare l'osservazione di Giulio, mi sporgo in avanti con i gomiti, scivolando verso l'estremità della sedia. Una consapevolezza mi si sradica nella mente.
«Sarà istruttivo oltre che... interessante... approfondire il capitolo "educazione sessuale". Il modo in cui il nostro corpo ci parla» intuisco con le sopracciglia increspate, con la capocchietta della penna incastrata fra i denti.
«Perché no? Io me lo segno... si sa che gli adolescenti vanno matti per tutto ciò che ruota intorno al sesso. Unire l'utile al dilettevole, è importante dare qualche dritta a fin di... bene» mi viene dietro Elettra, scribacchiando sui suoi appunti. «Che bravo che sei, Viviani. Hai avuto un'idea geniale per la prima volta nella tua vita. Sentiti di andarne fiero».
Il sorriso a mezzaluna di Giulio si tramuta in fretta in un ghigno, tagliato di quella malizia che non lascia scampo. Si muove percettibilmente sopra la sua sedia, quel tanto che basta per accostarsi allo spazio vitale — e prezioso! — di Elettra.
«Ho il vostro permesso, contessina? Non vorrei... arrecarvi dispiacere» schiocca lui la lingua in un tono che avrebbe fatto arrossire qualsiasi ragazzina, riuscendo a far ammutolire qualsiasi bocca, a far abbassare qualsiasi sguardo; tutte... ma non Elettra O'Connor.
Leonardo, accanto a lui, scuote il capo rassegnato, non senza celare un ghigno divertito.
Quell'unica frase è sufficiente per iniettarle nelle pupille uno strato di veleno. Gli lascia addosso quell'illusione di averla vinta per soli pochi istanti ancora... e poi decide a non far tardare la sua risposta: «Fosse per me, conte, ti priverei dell'aria che respiri e sprechi. Poi però te ne esci con queste idee... e allora cambio pensiero, mi fai venire la pietà».
«...Quindi pensi che io sia utile. Allora non sono proprio da buttare via» celia l'altro azzardando ad avvicinarsi ancora di più.
«Se solo ti avvicini di un altro centimetro ti mando alla ghigliottina, porteremo questo all'Autogestione: Giulio Viviani condannato a morte».
Con la coda dell'occhio intravedo Ang Louis sporgersi in avanti, dall'altra parte, imitandomi, il suo sguardo a scivolare dai suoi appunti scritti insieme a Chiara Sordini.
Si schiarisce la voce prima di prendere parola, i capelli che racchiudono il buio della notte aggiustati in una treccia a cascare oltre le spalle.
«Lasciando scannare quei due... io e Chiara sosteniamo che anche la visione di film istruttivi come American History X, Il Pianista o L'attimo fuggente sia di estremo valore. Unire l'utile al dilettevole, no? Film con una morale alla fine, un insegnamento».
«Sono d'accordo» mi ritrovo ad asserire, e il mio cuore scricchiola di ricordi al sentir nominare quelle pellicole, tutte e tre conservate nel mio animo di eterna e inguaribile cinefila.
«Poi ne potremmo proporre altri, per ora ci sono venuti in mente questi tre».
«E che ne dite dei tornei sportivi? Coinvolgono partecipanti oltre che spettatori» Marta si scioglie in un respiro, senza riuscire a smettere di far dondolare le gambe.
«Tornei... di che tipo?» le chiede Leonardo acceso d'interesse.
«Uhm... pallavolo, stavo pensando. Magari anche basket» continua l'altra inclinando il viso, i capelli a muoversi appena.
«Non male, non male... io segnerei anche ping-pong, il Caravaggio ha due tavoli. Potremmo fare il primo giorno pallavolo, il secondo basket e l'ultimo ping-pong, che ne dite?».
Un rumore di consenso brulica l'aria, insieme al ritorno della professoressa Chiastri e del tè per Marta e del caffè per Leonardo. Un gentile grazie fa da eco a quella bontà piccina, seppur gradita.
«Okay, tutti che propongono filmoni spaziali sul razzismo e sulla bellezza della vita, tutti che citano il politicamente corretto e il sesso in ogni pillola... nessuno che proponga della sana musica? Insomma... abbiamo ancora diciotto anni, non siamo mica dei vecchietti!» erompe Diego, che fino a quel momento era rimasto in quieto silenzio, prestando accortezza a ogni suggerimento.
«Diego ha ragione» gli dà corda Thalìa in un sorriso, «in ogni Autogestione che si rispetti la musica è vitale».
«Che avete in mente?» enuncia Jeanine coinvolta, le pupille a sondare gli zigomi del mio amico, quel bridge a scintillare all'apice della linea del naso, e i dreadlocks a divampare di fiamme vive imbrigliandosi a quelle eclissi di iridi.
E in un istante di silenzio carico di aspettative, le labbra di Diego si arcuano di perfetta schiettezza, un guizzo gli percorre le increspature della fronte, lampo di genialità.
D'improvviso, intuisco.
Marta intuisce, e anche Thalìa.
«Marco ha una band... i Denuclearizzati. E sono molto, molto bravi», a quelle parole, i polsi di Diego iniziano a fremere di eccitazione. «Dategli le ultime due ore di una mattinata, e renderete Marco il ragazzo più felice del mondo. Andiamo... l'avete visto tutti, no? È sempre apatico, sempre depresso... se si tagliasse le vene prima di Capodanno? Non so voi, ma io non me lo perdonerei».
Ogni Rappresentante, compresa me, si ritrova incapace di parlare. Ma con un'eccezione...
Qualcosa simile all'esaltazione e all'emozione s'inerpica in me, in ogni ossa, a scuotermi dal torpore.
«Certo che tu, Falco, hai una fantasia spropositata, immaginazione da vendere...» dichiara Leonardo schioccando la lingua contro i denti, un lieve frustata attraverso l'arcata precisa e ammantata di lindore, gli occhiali reclinati sul profilo del naso.
«Perfett-... Aspromonte» si corregge Diego prima di piombare nel vortice di un'offesa inevitabile e gratuita, «guardami. Vado all'Artistico e sono una caricatura vivente, ormai... l'immaginazione è l'unica cosa che mi è rimasta».
E la sento, la sento Thalìa irrigidirsi... in ogni muscolo... in ogni piega astratta e visibile.
Perché lei sa che lui sta soffrendo, nonostante tenti in ogni modo, in ogni maniera di non darlo a vedere. Di non darlo come qualcosa di intuibile... nascondendolo sotto una nube di ironia e bruma di energia infinita.
La ferita di Diego ancora non si è del tutto richiusa... quel taglio ancora sanguina, gronda sentimenti impossibili da arrestare. Inutile metterci i cerotti... prima o poi vengono via...
...oppure... molti non sono della misura adatta. Soprattutto per i cuori logorati...
«Lo so» esala Leonardo in un muto tentativo di volergli andare incontro, aiutarlo a non affogare nei suoi stessi rimpianti, «per me va bene. Va bene far suonare la band di Esposito. Gandolfo non potrà dire di no a un programma fatto in maniera così impeccabile».
«Gandolfo non potrà dire di no ad... Apollo» lo apostrofo io, affilata di provocazione, marcando con cura e scrupolo l'ultimo epiteto, imbevendolo del liquore più dolce... e potente.
Un sorriso mordace mi si apre in viso ricamandomi di un'espressione affatto benevola — e quando sbatto le palpebre, in uno sfarfallio di ciglia, la postura delle labbra di Leonardo mi si staglia nitida nei suoi contorni, identica alla mia. L'orlo superiore appena increspato, una smorfia di totale istigazione.
Un pungolo inavvertibile, forse, per gli altri. Ma non per me.
Le mie guance si tingono di una sfumatura nuova, piena di aspettativa. Io e lui quasi fossimo soli in mezzo a tutte quelle persone. E, dopo un tempo che ha la sensazione d'essere infinito, Leonardo finalmente dischiude quelle labbra così piene... così morbide... così dolci... così perfette...
È possibile morire nel nostro stesso battito?
«E ad Atena...? Cosa direbbe a lei?».
Adesso le guance bruciano, roventi d'imbarazzo, di quello che t'impedisce di distogliere le pupille, che te le riempie di uno stupore malsano, intessendo pensieri contorti, di quello che t'impedisce d'arretrare anche solo con il pensiero. Arrestandoti lì, in tendini rattrappiti e dita intirizzite, polsi di marmo, caviglie d'alabastro.
Con un senso di vertigine a farti vacillare poco a poco, irritante.
Tutti i Rappresentanti pendono dalle nostre labbra, la professoressa Chiastri che non osa pronunciarsi.
«P-Probabilmente mi regalerebbe un piccione per l'impegno. Lui adora i piccioni». I miei occhi appiccicati ai suoi.
«Però... questa organizzazione d'Autogestione è alquanto producente... m'inchino a voi» s'intromette la prof. dopo un momento a osservarci come fossimo due attrazioni da circo.
E fondamentalmente è così: Apollo e Atena non hanno fatto altro che dare spettacolo in quel circo che è il Caravaggio, acrobati d'amore e d'odio, equilibristi di giusto e sbagliato, bestie selvatiche anelanti di libertà, di proibito.
«Nella forma umana vi sono infinite sfumature... e per potercene vestire bisogna comprenderle, prima di tutto».
La voce di Antonio Berni, ragazzo di quarto D, assume la forma di uno specchio perfetto, candida, pulita, cristallina. Nutrita della consapevolezza di ogni parola a grondare dal suo sapere.
Una bandierina arcobaleno brilla sulla pelle della sua guancia, bagnata da un nastro di sole a filtrare timido dalle tendine abbassate.
«Il movimento di liberazione omosessuale, meglio conosciuto come movimento LGBT, è l'epiteto comune e generico che viene associato ai gruppi accomunati da quell'intenzione di voler cambiare la condizione sociale, culturale, politica, giuridica, ma soprattutto... quella umana, di coloro che sono omosessuali, bisessuali e transessuali. Persone, di mente e di cuore, che hanno lottato mettendosi in gioco» continua il ragazzo, modellando con minuzia e bravura ogni termine, moderando il timbro, prestando accortezza per ogni dettaglio, anche il più piccino.
Un'altra ragazza, stavolta di terzo anno, gli si accosta vicino, rasente la spalla; la stessa bandierina dipinta sul viso, e un delicato chignon a raccogliere le sue ciocche infinite di capelli.
Qualcosa di intimo le si contorce nelle pupille, un'emozione silenziosa e buona.
«Sì, perché non dobbiamo mai dimenticare, neanche un solo momento, che dietro un disegno come questo...», e si sfiora con la punta del polpastrello quella bandierina variopinta, «...che dietro a uno slogan sopravvissuto a intere annate... che dietro ogni vittoria, c'è stata una persona e un sacrificio. Una persona e un sacrificio, sempre, mettendo davanti a sé, prima di ogni altra cosa, i propri ideali per cui urlare al mondo intero, scegliendo la parte più difficile. Tacere è facile, sì, ma poi c'intrappola in una scomodità sconcertante e dolorosa».
«In breve, io e i miei amici, vogliamo spiegarvi un po' come è nato tutto questo movimento, citandone i passi più significativi, e poi vorremmo farvi vedere un documentario che riteniamo importante farvi vedere, farvi comprendere» prende parola l'altro e ultimo ragazzo di quarto anno, che insieme agli altri due si sono offerti volontari per sostenere la decisione di parlare a tu per tu di quello che maggiormente facciamo fatica a capire e... ad accettare. Spesso.
Le prime due ore di quel venerdì sempre più vicino al Natale, prima giornata di Autogestione, due sezioni di secondi e di terzi assistono alla lezione dedicata ai diritti e al movimento LGBT.
Gli occhi mi si chiudono di riflesso appena realizzo che quei ragazzi hanno la situazione sotto controllo, trattenuta con forza fra i pugni, padroni di quello che dovranno fare.
Le mani che trattenevo incuneate alla bordura ruvida dei jeans, finalmente, si allentano come fiocchi sciolti con delicatezza. E insieme un mio sospiro...
Trasalisco senza volerlo quando la spalla di Thalìa va a sfiorare la mia, in un sussulto di cuore e di gambe apro le palpebre, in uno schiocco veloce pianto lo sguardo sul profilo avvolto dalle ombre di colei che ha le fattezze di Angelina Jolie dall'incarnato di cioccolato, e su quello di Midorin, più in là.
L'eco dei miei pensieri viene stracciato dalla meraviglia intessuta nelle loro iridi, allargate e vigili, rapite da tanta realtà, splendida e drammatica.
«...direi che...» mormoro con la forza di un cardellino, «...qua la situazione è stabile. Sembra che sia accattivante per gli studenti, non credete?».
Le ginocchia cigolano appena, lamentandosi di essere rimaste erette troppo a lungo a differenza dei ragazzi seduti a riempire la nostra visuale.
«Assolutamente. Nessuno osa fiatare, tutti stanno ascoltando. E non con quella noia tipica di una lezione di matematica o di latino... qui c'è della pura curiosità... loro non sentono, loro ascoltano» risponde Midorin con il palmo della mano modellato a coppetta, senza rischiare di far udire troppo il suo mormorio, un ricciolo d'estasi ad allungarle il risolino delle labbra.
«Amo quando i ragazzi finalmente iniziano ad accettare ciò che per loro rappresenta il "diverso"... il cuore mi piange sempre» asserisce Thalìa con le ciglia tremule, le iridi intingolate di lacrime a pizzicare.
E mossa da un brivido di empatia, amorevole affinità, sporgo il mio polso verso il suo e realizzo un intreccio incantevole con le linee dritte delle sue dita.
Fili simili, uguali nella loro fisicità, vicini in quel colore a discostarsi.
«Io sono... felice di aver conosciuto persone come voi... di entrambe le parti...» dice piano, il rumore di un sorriso caldo, «non smetterò mai di ripetere che non bisogna mai giudicare un libro dalla copertina. Molto spesso siamo più belli dell'involucro che ci ammanta».
«...spesso è l'involucro stesso a proteggerci, sai?» interviene Midorin, «Si riveste di bruttezza agli occhi degli altri proprio per preservarci».
«Ti adoro, Rin, dico davvero. Tu sei l'anti-tesi perfetta per ogni mia convinzione. È illuminante averti come amica».
«Ehi... che si combina di bello qui?». La presenza di Marta c'invade con la potenza della notte e l'incanto delle stelle, emersa dalla porta appena socchiusa.
«Cerchiamo di non metterci a piangere come bambine...» le racconto esitando sulle sue iridi guizzanti e vivide, «e tu cosa combini in giro, miss Rappresentante?».
«In realtà ero venuta a vedere come stavano andando le cose qui, poi ho l'intenzione di andare a dare un'occhiata all'aula di disegno... stanno proiettando American History X e non mi dispiacerebbe guardarne giusto un pezzettino. Qualcuna si vuole unire?» spiega Marta liberando una ciocca di capelli dietro lo scrimolo della spalla, lasciando la curva della gola nuda e pallida in quei ghirigori di ombre mossi dal documentario appena proiettato al bianco della parete.
«Ti dispiace se passo? Ci terrei tanto a rimanere qui» pigola Thalìa, imprimendo l'arco della schiena alla durezza del muro.
«Vengo io. Thalìa è in buone mani» mi affretto a dire abbandonando la mano tiepida della ragazza, lanciando uno sguardo d'un istante a Midorin.
La guardo candidamente, chiedendomi se lei avesse mai davvero covato dei sentimenti ostili per noi che studiamo dalla parte dell'Artistico.
E forse no, la risposta giunge subito, come l'arcobaleno a tagliare il cielo terso dopo rivoli di pioggia... forse Midorin non ci ha mai disprezzati sul serio. E nemmeno Elettra... o Giulio Viviani... neanche Viola Angeloni.
Odio... odiarci...
Non credo tutto questo sia stato qualcosa di reale, di radicato in angoli oscuri, dove il sangue diventa nero... dove tralci di nulla proliferano come malattie... dove sensazioni sbagliate infestano della cancrena peggiore...
Si odia quello che non si conosce abbastanza, quello che non riusciamo a capire, quello che non rientra nell'ottica del nostro vivere.
Noi non ci odiamo. Noi non ci siamo mai riusciti a comprendere.
...Ma il rancore viene covato anche da chi si rifiuta di fare il primo passo... uno come Claudio che non ne vuole sapere di me, che odia la mia esistenza, maledendo il giorno in cui Leonardo ha accettato di avermi capita ben prima di quanto volesse ammettere.
L'ostilità non sempre viene estirpata via, poiché le radici conficcate troppo a fondo...
A volte... non c'è proprio nulla da fare.
«Okay, allora noi andiamo. Ci si becca più tardi, ragazze» cinguetta Marta accogliendo la mia mano sulla sua, stringendola quasi trattenesse un fiore.
Chete e delicate, sgusciamo via da quello stuolo di persone, lasciando che la luce del mattino ci bagni i ciuffi dei capelli e i veli delle palpebre appena abbassati, immergendoci nel corridoio del piano del Classico completamente svuotato di ogni suono e rumore.
Incespichiamo in avanti quando Marta pianta in malo modo la suola del suo stivaletto per terra.
In questa Autogestione in vesti estreme di Rappresentanti ci eravamo promesse di fare le serie e soprattutto le severe, un esempio per chi è più piccolo di noi, più inesperto... e invece... restiamo a osservarci per la brevità di un secondo, lei a guardare i miei capelli ridotti in uno sbuffo roseo, io a guardare le grinze della sua gonna sollevata verso l'alto... un brandello di intimo le si intravede fra la cortina sottile delle calze e laddove si interrompe la stoffa della gonna.
Persistenti, le nostre pupille ci sondano a vicenda... e... infine... quell'idillio di silenzio viene letteralmente spezzato in due dal nostro ridere in modo sguaiato.
E più cerchiamo di smettere, di darci un contegno, più le lacrime grondano dagli scrimoli degli occhi e le bocche non accennano a volersi serrare.
«Di' la verità, hai bevuto un po' di quella grappa che produce tuo nonno stamattina, eh?» celio dandole un buffetto a fior di spalla, facendole perdere l'equilibrio vacillante ancora di più. «Copriti, svergognata», poi aggiungo, indicandole il punto incriminante.
«E tu hai lavato i capelli nella lavatrice ieri sera?» sghignazza Marta senza ritegno, portandosi le mani davanti al pizzo degli slip.
Siamo noi, io e lei, in quella naturalezza con cui ci basta guardarci per poi intuire quello a passarci per la mente.
«Che stronza che sei... i miei capelli sono così perché stamattina c'era troppa umidità quando sono uscita di casa! Piuttosto, quelle lì non sono mutandine adatte per venire a scuola, lo sai?» insisto fingendomi oltraggiata, la volontà di protendere quell'ironia ancora per un po'.
«Ora la stronza sei tu! Hai superato il limite, Matilde! Ora ne pagherai le conseguenze...».
«In guerra e in Autogestione tutto è lecito» la punzecchio mostrandole la linguaccia, arretrando d'un passo, timorosa.
Marta ne sarebbe capace. Di saltarmi addosso e di rendere i miei capelli in un nugolo di rovi. Nido promettente per qualche merlo.
«Ullallà... cosa abbiamo qui».
Entrambe ci raggeliamo sulle caviglie, immobili nel palpito vibrante dei nostri cuori. Quella sfumatura di spensieratezza e di gaudio che svanisce piano piano dalle nostre bocche, scivolando nell'oblio.
Ma chi...?
I nostri visi ruotano insieme, in sinfonia, all'indietro, nell'angolo che ci era impossibile da scorgere e... proprio lì... rasente all'ingresso dei bagni delle ragazze vi sono...
«Costanza» recito sorpresa, «e Camillo... e...».
«Alberto» pronuncia DarthMart in un sospiro affaticato, appassito nei polmoni.
«Ah-ha» ripete la stessa voce che ci ha fatto sussultare, cogliendoci di sorpresa, «non una, ma ben due Rappresentanti a gironzolare per i corridoi», e Alberto sorride decidendo che quello rappresenta l'apostrofo perfetto per chiudere quella simpatica parentesi.
«L'hai detta giusta, noi siamo Rappresentanti, abbiamo il diritto di muoverci come ci pare e piace. Voi... ops... no», Marta si preme le dita contro il petto, costernata, estremamente dispiaciuta, «voi state gironzolando senza permesso, cazzeggiando per i corridoi».
«Chiameremo la Vigilanza» li minaccio agitando il dito dell'indice teso, quel ghigno di prima che ritorna a orpellarmi la linea della bocca.
Prima che possa aggiungere altro, l'espressione di Costanza si tramuta in una smorfia di sdegno... e di schifo... forse più di schifo che di sdegno. Uno sbuffo di palpabile contrarietà le scivola all'infuori, e potrei giurare che non nemmeno ha fatto niente per trattenerlo fra i denti.
«La Vigilanza è affidata ai ragazzini di primo e di secondo anno. Se permetti, io non li temo i nanetti» enuncia Costanza battendo piano le palpebre, elegante e decisa nella sua postura ben dritta, «per di più, la maggior parte di noi è in giro a cazzeggiare. Poco fa abbiamo superato una sezione e c'era un gruppetto di ragazzi a giocare a Bestia, hanno addirittura unito quattro banchi. Sembrava che fossero in un Casinò».
«Non mi stupisco» ridacchia Marta ravvivandosi la chioma argentea, tutta in disordine.
«Io, comunque, stavo andando a far pipì, se vogliamo essere onesti fino in fondo. Alberto e Camillo, queste due piattole viventi, si sono accollati senza che io li abbia chiamati» marca con irritazione Costanza, le iridi sollevate al cielo, a un passo dal bagno.
Marta si blocca in ogni vena, nemmeno uno sfarfallio di ciglia, appena sente l'affermazione di Costanza. Tossicchia un grumo di qualcosa di inspiegabile prima di sorridere in un modo talmente forzato da mettere i brividi, come se avesse stalattiti di ghiaccio a spuntarle come zanne spaventose.
Inclina il capo, l'esatto movimento con cui sta per inaugurare una battuta colma di fiele, di quell'essenza velenosa con cui spesso ha avuto a che fare. I ciuffetti delicati a carezzarle la curva del collo.
E io, per un momento, provo un moto di terrore liliale.
«Cos'è? Vi sta forse annoiando la conferenza sull'accettazione del proprio corpo?», non vacilla sulle gambe quando lo dice, non c'è traccia d'incertezza nella sua voce.
Sembra essere un qualcosa a riversarsi su tutti e tre, Costanza, Camillo e Alberto... ma la verità è che le sue iridi cinabro guardano in un'unica direzione, letali e tremendamente... provocanti.
«In realtà io volevo solo fumarmi una sigaretta...» ammette Camillo stringendosi nelle spalle, con indifferenza.
Ma è quando Alberto che muove le labbra che lei innalza lo spigolo del mento, guardandolo da lontano. «Non direi. Ma ora stanno discutendo di educazione sessuale e... non per fare l'egocentrico... ma sono tutte cose che già so. Non ho bisogno del ripasso».
Silenzio.
Gelo.
Le iridi di Alberto a sostenere quelle di lei senza fatica alcuna.
E Camillo mette il carico da undici, come se non bastasse. «"Come non far deteriorare un preservativo e consigli utili su come applicarlo"» esplode a ridere, accartocciandosi su se stesso.
«A te il preservativo dovrebbero applicarlo direttamente in testa. E no, non ho il ciclo. Sono stronza così di natura» sibila Costanza.
«...e sei così divina per questo...» dichiara Camillo rimirandola al pari di una divinità da venerare, estasiato.
«Tanto non te la do, Camillo», e poi Costanza scompare all'interno del bagno, dandoci le spalle e lasciando Camillo ammutolito nelle sue medesime parole.
«Marta...?» modula Alberto piano, un ringhio ad affiorare dall'antro delle sue ossa a formare la gabbia del cuore.
«Che c'è, signor IoNonSonoEgocentrico?» esclama indispettita, stringendosi le braccia al petto.
Con lo sguardo, seguo la linea delle iridi di Alberto, sino a collidere con il punto esatto in cui sta a guardare con estrema attenzione, vivace impeto.
E allora capisco, arrossisco al posto della mia amica. Mi copro il viso con i palmi delle mani.
«...hai... hai la gonna sollevata... ti si... ti si vede-».
Accade in un attimo.
Marta che incrocia la sua occhiata fin troppo curiosa e si accorge.
Io che creo uno spiraglio di luce fra le dita, per accertarmi che non avvenga un omicidio in piena regola.
Alberto che sta per aggiungere dell'altro e che mai pungerà i timpani di Marta, perché lei ruota su se stessa, impigliandosi fra le sue caviglie, lanciandosi in una corsa disperata.
Di nuovo io, che rimango sola come una perfetta cretina. Alberto a inseguirla.
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