6. L'insufficienza della menzogna
Io devo assolutamente essere la persona più masochista che esista sulla faccia della Terra.
Anzi no, non è affatto così, non posso essere la persona più masochista che esista sulla faccia della Terra — il pianeta vanta l'incredibile cifra di sette miliardi di abitanti, di persone, di umani che portano avanti ognuno la propria esistenza.
Più corretto e saggio affermare che io sia una delle persone più incline a trarre piacere dal dolore autoinflitto — compiacersene in un atto di puro egoismo interiore, un solipsismo criptico, ambiguo, che potrebbe essere etichettato come un qualcosa di strano dalle persone con un briciolo di amor proprio — che esistano sulla faccia della Terra.
Già... in questo modo ha un suono migliore, più credibile, tangibile.
Sono così masochista che uno come Émile Zola o Gustave Flaubert mi avrebbe volentieri preso come ispirazione per scrivervi un saggio — mi sarei accontentata anche di pochi versi, brevi seppur significativi.
Sono una delle persone più proclive a quel lato distruttivo che normalmente nessuno cerca e nessuno mai vorrebbe averci a che fare — e una delle più sciocche, perché in quella parte nascosta così contorta in me è cucito addosso un sottile filo di stoltezza, ne fa capolino quasi con timidezza... ma c'è. E anche un microscopico bottone di inettitudine, talmente recondito che per scorgerlo si fa fatica.
Tante cose sono rammendate addosso al mio spirito, e la maggior parte di loro mi hanno procurato tanto di quel dolore che nemmeno me ne accorgo più quando una nuova parte ne viene imbastita. Sangue, probabilmente ci sarà anche del sangue, eppure ho smesso di sentire.
Masochista — perché sembra proprio che io trovi un innato compiacimento nell'avvilire me stessa e subire umiliazioni. Sciocca — perché nonostante abbia spaccato letteralmente lo specchio del bagno del cinema di Giovanni con un pugno e nonostante sia a conoscenza del reale motivo di questa mia azione avventata, sto tentando in tutti modi possibili di inventarmi una bugia che regga da raccontare e che non riguardi nella maniera più assoluta Leonardo.
Perché il motivo effettivo di questo trionfo di schegge, di vetro e di sangue è esattamente lui. L'ho fatto, è accaduto... mi sono umiliata dinanzi ai suoi occhi inesorabili, occhi del nemico — è come se avessi dichiarato la sconfitta, urlandolo a pieni polmoni.
Masochista, masochista, masochista. Sciocca. Sprovveduta.
Non dovevo cedere, non dovevo lasciare che la rabbia prendesse il sopravvento delle mie azioni e della mia testa, non dovevo lasciarmi sopraffare come una gracile e povera novellina. Non dovevo permettere alle provocazioni di Leonardo di scavarmi dentro l'animo. Non dovevo perdere il controllo — invece dovevo trattenermi, mi sarei dovuta fingere sorda se necessario, oppure mi sarei dovuta mettere a canticchiare una canzone.
Avrei potuto inventarmi qualcosa, che diamine!
Sarebbe andata bene qualsiasi altra cosa, ma non questo. Non il mio spettacolo che riduco in frantumi questo dannato specchio, perdendo quel briciolo di ragione che stava vacillando pericolosamente nell'ultima mezz'ora.
Leonardo c'è riuscito, mi sta spingendo oltre quell'orlo cruciale dove sono involontariamente confinata — mi sta facendo diventare matta, mi sta carpendo fuori quella parte di me che era riuscita ad assopirsi, usando artigli, usando zanne, osando dove non dovrebbe osare.
Stasera ha superato ogni limite; anche se... un limite quando mai c'è stato fra noi due? Nessuno di entrambi ha mai anche solo riflettuto di andarci piano l'una con l'altro, tale pensiero non ha mai sfiorato le nostre menti, neppure un flebile istante.
Da parte mia c'è solo il vantaggio che a un certo punto lascio perdere e me ne frego.
Per quale oscuro motivo mi sto sorprendendo, allora? Perché sono esplosa davanti a lui rivelando quella che sono? Perché gli ho mostrato che sono una pazza sfasciata con problemi di rabbia? Adesso ce l'ho, ho il timore che il giorno dopo lui possa correre dritto a raccontare questa vicenda ai suoi amichetti e riderci sopra, ridere di me, come fossi il fenomeno dei fenomeni da baraccone. Un qualcuno che, secondo loro, ha necessità di essere preso in giro. Il dito puntato.
Scambiata per un mostro, anziché vista per ciò che realmente sono... un fantasma ricoperto di tormenti di cui ancora non ne conosco tutte le rispettive sfaccettature.
Scommetto che nemmeno il mio ex psichiatra saprebbe spiegarsi il perché io stia ipotizzando quale scusa a rifilare a Giovanni, a mia madre, a mio padre, a Marta, a Diego, ai professori... perché quando mi vedranno con questa ferita la domanda sorgerà senza se e senza ma.
Potrei tranquillamente dire che la colpa è stata di Leonardo e della sua pressione psicologica, ma a quel punto il peggio sarà per me.
I miei, se sapessero una cosa del genere, mi rispedirebbero dritta dritta nelle mani del dottor Mantovani, e, per quanto sia immensamente bravo e professionale con i pazienti, io non voglio riaverci niente a che fare. No, no, no, non voglio, non posso permettere che accada di nuovo.
Non voglio dovermi rispiegare, dovermi riaprire a un nuovo percorso per gestire al meglio la rabbia e le annesse retrovie. Molteplici arzigogoli, infiniti labirinti ancora inesplorati.
Non quest'anno... Non adesso che sono all'ultimo anno di liceo, non ora che vado incontro a degli impegni seri come quelli di Rappresentanti d'Istituto e come quelli della maturità.
Voglio godermi il quinto, voglio assaporarlo e non voglio che niente si metta di traverso rovinando tutto!
Devo studiare alla svelta una scusa che stia in piedi e rifilarla con convinzione. Devo volerlo davvero, soltanto così una menzogna può reggere.
Ma cosa? Che cosa m'invento? Porca puttana, è difficile pensare quando si ha un dolore così lancinante alla mano!
Mi rendo conto ora di quanta sofferenza sto provando! Deve essere stata l'adrenalina a farmi dimenticare per qualche attimo del taglio sopra la mano destra, tutt'altro che piccolo.
Taglio dal quale sta uscendo anche parecchio sangue. Brucia tantissimo!
È come se ci fosse passato sopra un pezzo di ferro arroventato fra le fiamme, e lasciato sopra per più di quello che si riesce a tollerare.
Oltre alla delusione e all'umiliazione mi tocca subire anche questa tortura, devo sempre sopportare io. Ma stavolta non riesco a rimanere in silenzio, non ce la faccio a tenere la bocca sigillata.
Dischiudo le labbra mentre afferro con la mano sana il polso di quella rovinata. Stringo con un velo d'angoscia e d'irritazione, emettendo un grido sia di afflizione che di delusione per me stessa, e per la mia mancanza di controllo.
È un grido disperato, graffiante, quanto liberatorio, e lo faccio perché so che nessuna delle persone dentro le sale del cinema mi possano sentire. Eccetto Leonardo e Giovanni, ovviamente.
Leonardo — lo stronzo infame — dovrebbe essere ancora alle mie spalle. Non ha proferito parola, non un singolo vocabolo, eppure quando si tratta di me ne trova tanti di vocaboli... Adesso sembra quasi che si sia ridotto a una misera presenza trasparente, però c'è, è qui, è dietro di me, presente come il bruciore perpetuo della mia ferita.
Decido di voltarmi, decido di guardare in faccia il nemico. E preferisco non farlo attraverso uno specchio ridotto a brandelli, bensì occhi contro occhi. Mi giro lentamente nella direzione opposta, calpestando senza farlo apposta qualche frammento di vetro. Si sente il rumore fioco sotto le mie scarpe.
Aspromonte è in piedi dove l'avevo lasciato prima di sferrare il colpo, l'unica differenza è che non è più poggiato con la spalla contro il cornicione della porta — è ben eretto, quasi sulla difensiva, una maschera di scompiglio gli è rammendata addosso, le iridi incrinate, nascoste dietro le lenti degli occhiali, in un'espressione di adombrato sgomento.
La fronte terribilmente corrugata quanto le sopracciglia, la linea delle labbra pare spezzarsi, ridotta in una smorfia di... sconcerto? Confusione? Sembra quasi spaventato di ciò cui ha appena assistito.
Fossimo stati in un contesto diverso, con un esito diverso, mi ci sarei crogiolata in questa soddisfacente sensazione...
Il ragazzo dinanzi a me ha la braccia rimaste immobili a mezz'aria, sollevate all'altezza del petto, come se non sapesse cosa fare, come muoversi, come agire. Completo smarrimento.
«Io ti odio!» mi ritrovo a urlargli contro senza prenderne atto, riducendo gli occhi in due fessure ricolme di disprezzo e abbattimento; la presa dal mio polso ben salda, evitando di guardare il risultato di quel disastro.
Scarico ogni sorta di frustrazione verso di lui.
«Mi stai rovinando la salute mentale, dannazione!» continuo a gridare con la mascella che comincia a tremolare dalla collera. L'arcata dei denti che collide con quella inferiore.
L'espressione di Leonardo cambia lievemente quando ode le mie parole — la bocca si distende in una linea dritta, sostituendo quella sconnessa di pochi secondi fa, segno che lo spigolo dei zigomi sono contratti e che sta serrando la mandibola. Sta incassando l'effettività di questi ultimi, assurdi istanti.
Non abbiamo modo di aggiungere altro né io, né lui, dal momento che Giovanni — che evidentemente deve aver sentito le mie urla da fuori di testa — interviene entrando di persona all'interno del bagno, cosparso non solo da Coca Cola e pop corn, ma anche dalle schegge di vetro e dalle gocce del mio sangue. Il lavandino ne è costellato.
Fantastico.
Il ragazzo giunge al fianco di Leonardo e i suoi occhi, già grandi e rotondi di loro, s'ingrandiscono ancora di più. Le iridi eseguono un esame completo della situazione e dell'ambiente circostante, saettano velocissime.
Prima si soffermano sul disastro del pavimento, poi si dirigono verso lo specchio ormai andato a puttane, infine sulla superficie del lavandino e su di me — sulla mia mano avvolte da diramazioni di vermiglio.
Cazzo, devo dire qualcosa! Non posso starmene zitta proprio adesso. E al più presto, perché sembra che Giovanni stia per avere un attacco di cuore, tanto sembra sconvolto nel vedermi con questo fottuto taglio.
«C'era un ragno» dico senza distogliere lo sguardo da quello del mio capo, con voce piatta, le emozioni si sono congelate. Gli occhi spenti, privi di quella fiamma di vitalità.
La verità è che mi sto odiando, mi sto augurando le peggio sorti dell'Universo — questa è la scusa più imbecille del mio repertorio... "C'era un ragno". Persino io penserei si tratti di una stronzata.
«Ehm... un ragno. Ho cercato invano di ucciderlo... stava proprio sopra quel cazzo di vetro e, be'... andava ammazzato, capisci? O avrebbe riempito il bagno di ragnatele appiccicose e per niente belle da vedere. I clienti si sarebbero accorti e, magari, avrebbero deciso di non venire più nel tuo cinema. Ti ho fatto un favore, Jevanni» continuo a borbottare senza nemmeno rendermi conto di ciò che sto dicendo.
«Hai... ucciso un ragno?» sussurra con voce roca Giovanni, sbattendo le palpebre quasi sforzandosi.
«Sì, cioè no! Volevo ucciderlo, ma l'ho mancato. È fuggito via, per mia sfortuna» insisto cercando di non tradirmi.
«E stava sopra lo specchio?» domanda lui tentando di comprendere la scia degli eventi, indicando la scena del crimine con l'indice.
«Esattamente. Ho colpito con troppa forza, non l'ho fatto apposta... lo specchio si è rotto, come vedi... non era previsto» biascico deglutendo un enorme groppo che mi si è andato a formare in mezzo alla gola.
«...e tu ti sei affettata una mano» constata senza smettere di fissare il danno che mi sono procurata, e non per colpa d'un ragno.
«La mano guarirà. Il danno dello specchio toglimelo dallo stipendio» gli ordino immediatamente, senza pensarci due volte.
Giovanni non dà una risposta effettiva alla mia frase, abbandona la posizione accanto a Leonardo e avanza verso di me, calpestando qualche granello di vetro — le schegge del mio orgoglio. Allunga il braccio verso il contenitore della carta igienica e ne strappa un pezzo generoso per poi porgermelo.
«Tamponati il taglio, sta uscendo un sacco di sangue» suggerisce con un tono che non ammette repliche, un tono che raramente — anzi quasi mai — gli ho sentito uscire dalle labbra.
Non mi sento nella posizione disobbedire a un simile ordine — soprattutto per via del bruciore inspiegabile. Afferro con uno scatto l'involto di carta bianco e lo premo senza accortezza contro la ferita, lasciandomi sfuggire un gemito di sofferenza.
Il respiro mi si spezza, un po' come le ossa ora divenute di vetro.
«Devi chiamare tua madre e farti venire a prendere. Devi andare al pronto soccorso subito, Matilde» mi ordina Giovanni, però ammorbidendo la voce.
E ha ragione, per quanto io non voglia farlo, lui ha ragione.
Devo chiamare la mamma, metterla al corrente e farmi venire a prendere. Non posso rimanere qui in queste condizioni. Ma come diavolo faccio a raccontarle una balla del genere?
Visto che Giovanni mi ha, tutto sommato, creduta, forse ho un minimo di speranze anche con lei — dovrei riuscire a fargliela bere senza ostacoli.
«Va bene» acconsento mentre annuisco con il capo, «ma potresti chiamarla tu? Ti prego... ho la voce provata e non vorrei allarmarla. In fondo, è solo un taglio, non è niente di grave» gli chiedo con il tono di voce colto da un tremito.
«Certo, lo farò io, non è un problema» accetta con quella sua naturalezza innata — accetterebbe qualsiasi quando si tratta di me.
«Il suo numero è accanto al mio nome, nella sezione "emergenze"» gli ricordo, «non so come ringraziarti, Jevanni».
Giovanni sparisce senza perdere tempo dalla mia vista, e da quella di Leonardo, andando ad adempiere alla mia richiesta come un perfetto cavaliere delle favole — quelle favole che ormai hanno dell'irreale e dell'insensato.
Non posso fare a meno di provare un certo rammarico per lui, perché è andato proprio a interessarsi a una ragazza come me. Non che sia la ragazza sbagliata, solo non sono la ragazza giusta e adatta per lui.
Rimaniamo di nuovo soli in questo bagno del cazzo, io e Leonardo. In silenzio.
Io che osservo l'involto di carta tingersi di rosso, lui che non so minimamente ponderando in quella sua mente buia e contorta. Fino a che non decide di rompere la quiete — è talmente profonda che se ne notano le bordure, le rifiniture immonde —, fino a che non decide di fare ciò che gli riesce meglio: mortificarmi e castigarmi per il reame parallelo dal lento sfacelo che custodisco lontano da occhi disumani, inclementi.
«Tu...» parla con un tono strano, quasi irriconoscibile dal momento che non gliel'ho mai sentito pronunciare, «dovresti assolutamente farti vedere da qualcuno».
Ma che cazzo! Non ci posso credere. Non posso davvero credere a quello che ho appena udito!
Cioè... Leonardo non tenta, non osa porgermi uno straccio di scuse avvolte in un fascio di falsità, oppure non prova a domandarmi come sto o come mi sento. Non ammette di avere esagerato, non ammette di essersi superato e non ammette di sentirsi in colpa. Niente di tutto questo. Lo stronzo dice che dovrei farmi vedere da qualcuno...
"Wow... incredibile, davvero incredibile".
Ha l'audacia di dirmi una cosa così impietosa, di una bassezza unica, ardisce sputare una sentenza come questa sorvolando con esemplare leggerezza su ciò che ho dovuto già passare — quello che ho dovuto affrontare con spada e scudo, un intero esercito di tenebre e quella notte senza fine, luogo comune a persone fragili e con l'anima in pezzi.
Il buio attecchisce meglio dove ci sono cavillature, si dipana più in fretta della luce — e questo è un qualcosa che ancora non mi so spiegare.
Leonardo si ostina a infierire e a umiliarmi, come se ancora non gli bastasse, come se ancora non fosse sazio abbastanza. Mai ne sarà sfamato. Lo fa come se io fossi priva di coscienza, paragonandomi a un manichino spoglio di solerzia, vuota.
Lentamente alzo lo sguardo, ritornato a essere effigiato d'odio e affilato come una lama, verso di lui — stavolta niente stupore, nessuna sorpresa.
Nel suo viso vi è orpellata durezza mista a strafottenza, l'espressione tipica che sfoggia con estrema compiacenza. E lo fa — ciò che temo di più — mi sta guardando come se avessi le braccia e il petto avviticchiati da una camicia di forza e i capelli carbonizzati per l'elettroshock.
Come se fossi qualcuno da mandare in un manicomio.
«Oh, andrò... ma non senza aver spaccato un altro specchio con il tuo inutile cranio. Uno più grande, uno più resistente di questo. Così avrò un motivo più che valido, non trovi?» rispondo sibilando come un serpente, osservandolo di traverso e tentando di riversargli addosso quanto più veleno possibile.
«Ora che abbiamo terminato di sparare cazzate a oltranza ascoltami bene, razza di stronzo, siccome non conosci un emerito cazzo di me, non azzardarti mai più a dire una cosa del genere, chiaro? Altrimenti il pugno non andrà verso uno specchio la prossima volta» proferisco con autorità e durezza, senza tremolii sospetti nella voce, fissandolo dritto nelle iridi.
Voglio incunearmi a esse e non uscirne più, voglio condurlo alla dannazione.
Io ho già avuto a che fare con qualcuno — uno psichiatra — e di certo non ho l'intenzione di tornarci di nuovo. Soprattutto perché non ne ho bisogno.
Come per magia, nemmeno avesse cronometrato il tempo, Giovanni ritorna dentro il bagno con il cordless del cinema fra le mani.
«Adele arriverà a breve. Tutto a posto, dunque» mi mette al corrente.
«Di nuovo grazie, Jevanni» replico calibrando con cura il tono e distogliendo l'attenzione da Leonardo.
«E non sparare minchiate, Matilde, lo specchio non lo detraggo dal tuo stipendio. Lo ripago io».
La vera sfida si presenta il giorno dopo, a scuola.
Ieri è stato abbastanza facile raccontare quella piccola, sebbene al tempo stesso grande, bugia.
Con Giovanni si è rivelato sin da subito un gioco da ragazzi, contando che ero al culmine delle emozioni e contando che la mia voce era quella che era: sconvolta, roca, affatto normale.
Con la mamma, invece, mi sono dovuta impegnare leggermente di più, ho dovuto calibrare con cura non solo il tono vocale, ma anche soppesare senza esagerare la pressione delle iridi, senza renderle troppo da cane bastonato o troppo da scatenata euforica.
Mi sono subito scusata con lei per averle mandato in fumo la serata film con la sua amica di lavoro, poi le ho mostrato il danno della mano, tirando via lentamente l'impacco di ghiaccio.
Il taglio me lo sono procurata uno dei frammenti più affilati dello specchio ed è piuttosto esteso — valica il lembo di pelle delle nocche che contorna il bordo inferiore. Il sangue che ne è fuoriuscito era notevole, ma quando Adele mi ha ghermito il polso tendendolo verso di lei per esaminare lo stato della ferita, la sua fronte non sembrava deturpata dalla singolare preoccupazione di una madre. Ha mantenuto i nervi saldi, tempra indurite grazie a tempi tutt'altro che radiosi.
Ha visto di peggio — le volte che sono esplosa a causa della rabbia mal gestita sono state molteplici e le ferite che mi sono conquistata sono state decisamente più gravi di questa.
«Non sembra profondo» ha stabilito aguzzando al meglio l'attenzione, rigirando le mie dita con delicatezza all'interno dell'abitacolo della macchina, «per cui, non dovrebbero essere necessari i punti di sutura».
«Niente ospedale?», ho tirato un sospiro di sollievo dopo il suo verdetto. Il senso di liberazione è stato talmente infinito e avvolgente che mi sono sentita rivestire di fattezze di un seme di soffione. È stata una sensazione inesplicabile sapere che non mi sarei dovuta stendere sopra il lettino di un ospedale.
«No, non credo proprio che sia il tuo caso. È esteso, ma non profondo, basterà far arrestare la fuoriuscita del sangue. A casa disinfetteremo la ferita e poi applicheremo un bel cerottone con tanto di garza» mi ha illustrato il piano rivolgendomi un sorriso che è stato vitale al fine di farmi distendere i nervi.
«Meno male, meglio così» ho detto mentre tiravo il secondo sospiro di sollievo della serata.
«Ma come cavolo hai fatto, Matilde, si può sapere?» mi ha domandato la mamma, finalmente citando il quesito tanto stavo aspettando con ansia. Era arrivato il momento di dare prova delle mie capacità d'inganno.
«Stavo pulendo il pavimento del bagno quando mi sono andata a specchiare per aggiustarmi la frangetta, a un certo punto ho notato che proprio al centro c'era un ragno. Ho subito pensato che non sarebbe stato professionale far trovare un simile insetto nel bagno di un cinema, ho pensato che avrebbe potuto far schifo ritrovarsi delle ragnatele sopra il soffitto. Così, senza pensare ad altre soluzioni, ho stretto la mano a pugno e sbam! Mi sono accorta davvero troppo tardi di aver fatto una cazzata» ho raccontato prestando attenzione a non sbattere troppo le palpebre, la cura a non accelerare la voce, a non sfiorarmi più del dovuto zone del viso come naso o mento, e, soprattutto, sono stata ben solerte a non scoppiare a ridere.
Conseguenza istintiva, correlata in via diretta con la menzogna stessa. Bisogna mantenere le giusta concentrazione.
«Be', non è stata una mossa intelligente la tua, eh. Avresti potute prendere un pezzo di carta igienica e toglierlo da lì, semplice no?» ha ribadito la mamma con un sopracciglio sollevato, intenta a immaginarsi la scena che vorticava nella sua immaginazione.
«Ogni tanto può capitare, di agire senza rifletterci troppo. Ho sbagliato», mi sono prontamente difesa, dando giustificazione alla mia azione.
«Non devi giustificarti mica con me. Lo specchio che hai rotto è di Giovanni, non il mio», si è messa a ridacchiare mentre rimetteva in moto la macchina.
«Jevanni ha detto che se lo ripagherà da solo...».
«Ti fa male? Il taglio» mi ha chiesto dopo una piccola pausa.
«Brucia un po', ma sai... mi sono fatta di peggio, ho sopportato di peggio» ho pensato che sarebbe stato intelligente rivangare il passato con della scherzosa vacuità, avrebbe reso più credibile la mia bugia.
E infatti questa mossa ha dato i suoi frutti. La mamma non ha fatto ulteriori domande scomode e si è fatta disegnare in volto un sorriso a metà fra il malinconico e il divertito. Non ha affatto sospettato che abbia tirato un pugno a quello specchio per colpa del mio mostro assopito — gli scatti di rabbia.
Ma, tralasciando ciò, la vera sfida si presenta il giorno dopo a scuola. Ossia adesso.
Ho appena varcato la soglia d'ingresso del Caravaggio, le dita della mano sinistra — indice e medio — pervase dell'odore di fumo di sigaretta e le cuffie avvolte attorno alla gola quando qualcuno mi strattona all'indietro, artigliando lo zaino.
«Sai essere proprio una bella stronza quando ti ci impegni!» esclama furiosa DarthMart costringendomi a voltarmi verso la sua sagoma trafelata e accaldata, i ciuffi argentei appiccicati alla fronte e le gote arrossate — lei ha corso per raggiungermi.
Ed eccola qui, la sfida a cui alludo.
Il livello dieci.
Gli studenti che ci passano accanto non possono trattenersi dal lanciarci qualche occhiata stranita, quasi non fossero abituati a sorbirsi uno spettacolino del genere ogni mattina, per un motivo o per un altro.
«Non mi sembra di essere proprio una bella stronza. Non ho fatto niente per esserlo» dichiaro costringendo le fibbie dello zaino fra le mie mani, dondolandomi avanti e indietro, mantenendo un aspetto indefinito, neutrale.
Marta fa scattare la testa verso di me, come se avessi pronunciato qualcosa di scandaloso — indecenza graffiante. Si protende come se le fosse sfuggito qualche dettaglio importante.
«Non ti sembra di essere stata una bella stronza? Oh, io dico di sì» bofonchia contrariata e accigliata.
«E perché mai, sentiamo» pronuncio con calma socchiudendo le palpebre, facendo un sospiro tutt'altro che di sollievo.
Ma io lo so già, so il perché Marta sia incazzata nera con me, non occorre fantasticare oltre. Però non voglio che scopra il mio averle mentito, dunque continuo a reggerle il gioco.
«Vuoi sentire il perché? Con piacere! Vediamo... ieri sera, verso le dieci, mi scrivi un messaggio dicendo che ti sei fatta male al lavoro. Esattamente così me lo scrivi. "DarthMart, mi sono fatta male al lavoro". E fin qui tutto bene, nulla di strano, nulla di rilevante.Poi scelgo di buona lena di non risponderti per scritto bensì scelgo di telefonarti, come farebbe qualsiasi migliore amica che si rispetti» parla come una macchinetta senza fare pausa alcuna, le guance paonazze dal fervore e le iridi verdi che zampillano in ogni dove, «e tu, invece che rispondere come farebbe un'altra migliore amica che si rispetti, decidi di ignorarmi! Tu che ignori me, che ignori le mie chiamate! Come se non sapessi della mia preoccupazione per te, della mia apprensione».
«Non ti ho risposto perché non avevo voglia di parlare, semplicemente» rispondo sempre con pacatezza, l'espressione cheta, e forse non è esattamente la spiegazione che Marta si aspettava. Forse non è nemmeno la spiegazione che vorrei darle io — che si merita —, ma non posso fare altrimenti.
Ieri sera non avevo la minima volontà di rifilare quella bugia del ragno per la terza volta e soprattutto a lei, la mia amica più grande. Volevo dirglielo, quello sì, era la cosa giusta da fare. Ma le avrei parlato di persona la mattina a scuola, la decisione questa è stata.
«Non... avevi voglia di parlare?» ripete lei incredula, soppesando le mie brevi parole.
«Può sembrare strano, ma succede qualche volta che anche le persone come me non abbiano voglia di parlare. Con nessuno» sottolineo intersecando le braccia al petto, la mano fasciata in bella vista sopra il gomito sinistro.
Appena Marta nota la garza bianca non bada a replicare, si limita ad afferrare senza chiedermi il permesso la mano infortunata. È rapida, tuttavia delicata. Lei non sa né il come, né il dove... né tanto meno il perché. Ora inizia a sospettare qualcosa.
«Com'è successo? Nel messaggio non me l'hai spiegato» m'interroga turbata, senza distogliere gli occhi.
"Forza e coraggio, posso riuscire a mentire a Marta. Ce l'ho fatta con la mamma, posso farcela anche con lei". Va a finire che a furia di raccontare di questo ragno ci credo persino io.
«Stavo pulendo il bagno dell'Arcadium quando ho notato un ragno sopra lo specchio. Mi sono detta che avrebbe potuto dar fastidio ai clienti, così, senza pensarci, gli ho tirato un pugno, rompendo lo specchio e facendomi, abracadabra, male» narro in breve la scusa che mi sono inventata la sera precedente, mimando il gesto di abracadabra con la mano sana. Per sdrammatizzare un po'.
DarthMart rimane zitta e immobile, senza emettere alcun tipo di parola. Nessuna espressione, nessuna reazione.
Perché non dice niente? Se la sarà bevuta questa grottesca cazzata? Me lo auguro, altrimenti avrei dovuto raccontare la vera natura degli eventi e mettere in mezzo, ancora una volta, Leonardo.
Per la milionesima volta. E rendere presente che lui ha talmente potere sulle mie azioni tanto da rendermi distruttiva perfino me stessa.
«Matilde» mi richiama la mia amica con voce stavolta distesa, docilità in pillole, niente sfuriata e nessuna incazzatura, «per me hai la stessa, identica importanza di mia sorella. Reputo di conoscerti come fossi uscita dalla vagina di mia madre, reputo di sapere tutto di te. Quello che eri stata, quello che eri diventata, quello in cui ti eri trasformata e quello che hai affrontato. Ciò in cui credi, ciò che ti rifiuti di accettare, ciò che non condividi minimamente. E so, al cento per cento, dovessi mettere la mano sul fuoco, che tu non uccideresti mai e poi mai un animale con le tue mani. Nemmeno un insetto, nemmeno un ragno».
Cazzo. Come diamine ho potuto pensare di poter fregare Marta con una stronzata come questa?
Lei lo sa, sa che io odio far del male agli animali, non sfiorerei nessuno di loro, mai.
Una volta, d'estate, sono andata a dormire nel divano per via di una mosca che mi ronzava nell'orecchio; ho preferito spostarmi io, che far fuori il fastidioso animaletto.
È chiaro come il sole che non avrei mai potuto tentare di schiacciare un ragno con la mano, tanto meno stretta a pugno. Se davvero ci fosse stato un ragno nel bagno, l'avrei preso con delicatezza in un fazzoletto e liberato fuori dal cinema. Vivo e vegeto.
E Marta questo lo sa perfettamente. Per cui, sì, mi ha colta in flagrante.
Quando nota che non apro bocca per replicare, inclina di poco il capo, facendo ondeggiare la sua chioma non troppo liscia, non troppo ondulata, morbida come un tessuto di seta argentato. Senza abbandonare la presa dalla mia mano, emette un lungo sospiro, poi comincia a disegnare dei piccoli cerchi sopra la garza con il polpastrello dell'indice.
«Hai avuto un attacco di rabbia» intuisce alla svelta, facendo rapidamente i calcoli senza problemi, «ma non riesco a capirne il motivo» conclude alzando le sue enormi iridi verde chiaro verso le mie.
Marta è una delle persone con gli occhi più grandi che abbia mai visto; non hanno un taglio orientale come il mio, hanno un contorno lineare, dritto — di un'armonia che toglie il fiato —, così che quando deve mostrare emozioni come stupore o compassione, si allargano quasi a raggiungere una forma tonda e maledettamente espressiva. Proprio come in questo preciso istante.
Mi viene quasi da piangere, perché lei riesce a capirmi sempre e so, io so alla perfezione che non è una cosa semplice. Io sembra voglia sforzarmi di essere complicata, sembra che me li costruisca da sola gli intrecci di un groviglio senza fine — ginepraio dalle fredde ramificazioni e che scampo non danno.
Ed è fottutamente triste perché ho cercato di mentirle, mi fa sentire una persona di merda. Non devo tenerla fuori dai miei problemi dal momento che Marta non oserebbe mai puntarmi il dito contro e, soprattutto, dal momento che conosce la mia situazione con Leonardo. Lei è l'unica capace davvero a starmi vicino senza farmi sentire inadeguata o anormale, è l'unica che sorride dei miei pezzi rotti, giocandoci a fare un puzzle o divertendosi a dipingerli di tinture sgargianti.
«Hai ragione, non ucciderei mai e poi mai un animale con le mie mani. Tanto meno un insetto, tanto meno un ragno. Hai ragione, ho avuto un attacco di rabbia» proferisco a bassa voce guardandomi gli stivali e soffermandomi sulle sbucciature della loro superficie, un tremolio mi sfugge, «Leonardo è venuto al cinema, ieri sera».
DarthMart si acciglia appena ode il nome del dio Apollo, le sopracciglia le si increspano mostrando tutto il suo livore che improvvisamente viene fuori in dose spropositata.
«Come scusa? Aspromonte era all'Arcadium?» ripete come se avesse capito male.
«Sì, è venuto assieme a qualche suo amico a vedere un film. Non sapeva lavorassi lì, quindi è stata tutta una terribile coincidenza» spiego annuendo, ancora che mi rifiuto di guardarla negli occhi.
«Cosa ha combinato quel demente?» si premura di chiedermi la mia amica con voce turbata.
«Durante l'intervallo è andato in bagno e ha sporcato il pavimento con della Coca Cola e pop corn, sapendo che poi sarebbe toccato a me a pulire. Ma il bello è venuto dopo, mentre stavo rimediando al suo schifo ha cominciato a provocarmi, ormai lo sai anche tu come è fatto. E... non ce l'ho fatta, sono uscita di testa. Ho perso il controllo» giungo alla conclusione della verità, parlando con un tono abbastanza tranquillo e con il cuore privato di qualche battito di troppo, «mi ha provocata fino all'umiliazione».
«Quindi la colpa di questo...», e solleva a mezz'aria la mia mano fasciata, «è sua» constata con una smorfia di repulsione e di sdegno.
«Non sai quanto mi vergogno di me stessa. Praticamente è come se lo avessi dichiarato vincitore, è come se gli avessi dato potere su di me» ammetto con amarezza, risentita.
«Lui dovrebbe vergognarsi di se stesso, Matilde! È lui che dovrebbe farsi un bell'esame di coscienza, non tu! Dio... mi sta venendo una tale rabbia, butterei giù un muro anziché uno specchio» tuona Marta cominciando a tremare dall'ira che sta nascendo di lei, anche se non primordiale quanto la mia.
Appena la mia amica porta a termine la sua minaccia, dall'ingresso del Caravaggio fa la sua entrata proprio il soggetto della nostra conversazione.
Leonardo entra all'interno del corridoio della scuola fiancheggiato da Alberto Del Bianco e, naturalmente, da Olivia. Quest'ultima ghermisce il braccio di Aspromonte quasi fosse rivestito di materiale prezioso, mentre lui — anziché abbracciarla o intrecciare le dite con quelle di lei — si limita a tenere le mani ficcate dentro le tasche del lungo trench color avana, abbottonato sino alla gola.
I miei occhi si piantano con prontezza sul trio Vogue, in maniera tale che anche Marta si accorge che la mia attenzione è rivolta non più su di sé, ma su qualcosa dietro le sue spalle. Non fa in tempo a voltarsi che il ragazzo dai capelli biondi lancia un'occhiata decisamente evidente alla mia mano, ancora aggomitolata nella presa della mia amica.
Olivia addirittura si blocca accanto a noi, notando dell'attenzione che il suo cavaliere riserva verso di me — ficcanaso a livelli biblici —, costringendo a fermare persino quest'ultimo e Alberto.
«Che cavolo hai combinato?» domanda con tono schizzinoso e senza avere il minimo ritegno — fuori luogo senz'altro e testa di cazzo come poche.
Tuttavia, nonostante il suo naso lungo e la sua indole da impicciona e sfacciata, rimango esterrefatta. La mia bocca che va a disegnare la forma di una O, poiché realizzo.
Se Olivia mi ha appena chiesto come mi sia procurata questa seccatura, significa solo una cosa soltanto... Leonardo non ne ha fatto parola con nessuno di quello che è accaduto ieri sera, dentro le mura di quel bagno.
Altrimenti sia lui, sia Alberto e sia Olivia non mi avrebbero risparmiata da irritanti battutine e risatine sgradevoli, atte a lenire la mia precaria sopportazione.
No, è impossibile... non ci credo...
Perché prendere una decisione del genere? Perché non raccontare ai suoi amichetti di un evento tanto scioccante? Perché non rendermi ridicola di fronte a tutto il liceo? Avrebbe potuto — un'occasione d'oro, come questa, difficile farsela sfuggire.
E se ci sono arrivata persino io a una conclusione simile, lui ci sarà arrivato anche altre cinquanta volte — dimostrare che Matilde Castellani è una pazza fuori di testa, con evidenti problemi di nervi e di gestione della rabbia. E con le elezioni dei Rappresentanti d'Istituto alle porte, poi!
Ci avrebbe guadagnato, in tutti i sensi — dunque, perché non l'ha fatto?
La tentazione di domandarglielo di persona è immane, seducente nella sua forma più sensuale ma essa muore, veloce come è nata, quando Marta mi precede abbandonando la presa dalla mano, lasciandola cadere all'altezza del mio fianco.
«È tutta colpa tua! È di nuovo colpa tua! È sempre colpa tua!» esclama fuori di sé dalla collera, rivolgendosi in tutto e per tutto verso Leonardo, «Vedi di scendere dal tuo cazzo di Olimpo fatto di nuvole dorate e atterra in questo mondo pieno di merda, dannazione!», gli punta il dito contro, quasi lo fa cozzare sul suo petto.
«Ehi, mi dite che cosa sta succedendo qui? Io e Marco vi stavamo cercando...», giunge una voce dietro di noi. Di un familiare talmente palese che mi provoca brividi di terrore seduta stante.
E interrompe il discorsetto di Marta, ci fa voltare tutti verso la direzione da cui sono arrivate tali parole.
Oh no, ci mancava solo lui. Ci mancava solo Diego all'appello... porca puttana!
Nessuno dei presenti fa in tempo a replicare alla sua domanda, che Diego immediatamente incunea il suo sguardo sulla mia fasciatura. E nota che Marta sta mettendo in atto una lavata di capo ad Aspromonte — egli non ci mette chissà quanto a fare due più due, a incastrare i pezzi.
Il risultato non è altro che il cambio repentino d'umore e la sua espressione divenire deturpata dall'odio e da un'ondata di furia. Identica a quella del mattino precedente, quando ha visto Leonardo afferrarmi con la forza per il colletto della maglia.
Esattamente come quel momento, Diego perde la testa e parte alla carica verso di lui — e questa volta non c'è Thalìa Obi Malek a cercare di impedirgli di compiere un atto di violenza. Diego è una forza della natura quando perde la calma e quando ha di fronte a sé una delle persone che odia di più.
Con poche falcate raggiunge la figura di Leonardo e lo afferra per la stoffa del trench, le dita che si chiudono di scatto come una tagliola e lo strattonano con la totale assenza di garbo.
«Stavolta hai superato il limite, figlio di puttana!» ringhia Diego come mai gli ho sentito fare.
Olivia si copre la bocca con i palmi con le mani, rivestendola di terrore, incredula di ciò a cui sta assistendo. Leonardo, sotto la furia di Diego, è costretto ad arretrare di due passi visto che ha quasi perso l'equilibrio per colpa della veemenza del mio amico.
«Levami le mani di dosso, lurido drogato» sibila Aspromonte osservandolo dall'alto della sua superbia con un'occhiata tagliente, il gelo dell'inverno trabocca dall'orlo. Senza mostrare paura.
Alberto, notando che le cose stanno decisamente prendendo una piega orribile e spiacevole, s'interpone fra i due, spingendo via sia Diego, che Leonardo, arrischiando di dividerli. Però il mio amico è un osso duro ed è anche molto forte, non è affatto facile far staccare le sue dita ora scivolate contro la pelle della gola dell'altro.
«Falco, stammi a sentire, se non lasci la presa finiremo in mezzo alla merda! Ehi, mi stai ascoltando?» esclama Alberto spalancando le iridi verso di lui.
«Prima lo ammazzo e poi lascio la presa!» sbotta Diego per tutta risposta.
Oh mio dio, che caos... che situazione sfibrante... un pandemonio senza fine. Tutto per causa mia e della mia stupida mano del cazzo.
Ora Leonardo e Diego rischiano di ammazzarsi proprio dentro il Caravaggio, e Alberto rischia di rimetterci un occhio o un zigomo se non si toglie di mezzo. Per colpa del mio controllo da due soldi, per colpa dei miei nervi sempre tesi, che minacciano di spezzarsi, sempre pronti a schizzare alle stelle.
Rischiamo di essere sospesi tutti per questo. Io, Marta, Olivia, Leonardo, Diego, Alberto. Tutti quanti.
Ma perché ogni fottuto giorno in questo liceo deve essere difficile e così complicato da affrontare? Deve esserci sempre qualcosa a far da ostacolo, a rendere la mia esistenza un inferno. Io me lo voglio godere questo ultimo anno, ma non così... non con tutta questa pressione addosso.
Senza rendermene effettivamente conto, mi afferro la testa con i palmi delle mani e, incastrando le dita fra i capelli, premendo con forza contro la cute, scoppio in lacrime. Un vero e proprio fiume tanto che mi si appanna addirittura la vista. Rivolgo il viso verso il soffitto mentre mi lascio sfuggire un lamento di morte, stringendo le fessure degli occhi.
«Andate tutti all'inferno!» grido senza remora e senza preoccuparmi di dare spettacolo.
Il fatto è che sono stufa, stufa marcia, quindi non m'importa un accidente di far mormorare la gente su di me.
Lascio che mi guardino, i miei due amici e i tre componenti della fazione dei Perfettini. Lascio che mi guardino mentre fuggo via da lì, per rintanarmi da una qualsiasi parte. Da sola.
"Una qualsiasi parte" è sottinteso come il bagno delle ragazze, quello situato al primo piano per l'esattezza, il piano del Classico.
Ma sapete cosa? Non me ne frega un cazzo se questi qua sono i cessi dell'altro indirizzo, io ho tutto il diritto di andarci tanto quanto ne ha una Isabella Granieri o una Costanza Notai.
È un paese libero questo.
Infatti, quando spingo con foga la porta dell'ambiente sento quasi di essermi conquistata una bella vittoria — un trionfo di cui festeggiare. Vorrei tanto mettermi a sorridere, ma l'umore attuale che mi ammanta me lo impedisce.
Mi sento gli occhi gonfi e arrossati, il naso che ha urgente bisogno d'un fazzoletto e la testa che necessita di essere messa in pausa. Addirittura mi lascio scappare un lamento misto a un singhiozzo.
Potevo benissimo rimanermene a casa stamattina e invece no, ho deciso di venire a scuola e mostrarmi cazzuta come sempre, mostrarmi come se non fossi stata minimamente intaccata dalla scia degli eventi di ieri sera.
Sarei dovuta rimanere a casa, almeno avrei evitato questa circostanza spiacevole, non voluta. Per una misera volta avrei potuto astenermi dall'essere forte come una roccia e coraggiosa come un eroe — avrei dovuto togliermi le vesti di Atena.
Avrei potuto, avrei potuto, avrei potuto; ormai il condizionale è diventato parte focale di me. Non faccio che usarlo, mai che lo metta in atto.
Sto quasi per entrare dentro uno dei piccoli cubicoli, quando mi accorgo che c'è qualcosa che non va, che non coincide, che non fila. Che stona.
Mi accorgo che non sono sola. Mi accorgo che c'è un... ragazzo? C'è proprio un ragazzo appeso con le mani sull'estremità della porta chiusa a chiave di uno dei cubicoli — con il wc rotto, per di più —, dentro il bagno delle ragazze, con il capo che sporge dall'altra parte! Un ragazzo, un maschio, privo di vagina e munito di testicoli.
Che cazzo ci fa un ragazzo qui? Tutto ciò lo trovo abbastanza inquietante.
Il lui misterioso si accorge della mia presenza, come io mi sono accorta della sua, dal momento che non ha più gli occhi rivolti verso ciò che sta dietro la porta; li saetta verso la sottoscritta.
Egli si lascia cadere sino a far collidere le suole degli anfibi contro il pavimento, abbandonando la presa e atterrando con maestria senza perdere l'equilibrio. Io rimango di sasso, non oso muovere un muscolo. L'unica cosa che si muove in me è la mente, che sta tentando di elaborare se abbia mai visto la sua faccia. Perché sembra proprio che non abbia mai visto costui dentro il Caravaggio, neanche di sfuggita.
Sembra in tutto e per tutto una faccia nuova.
Lo sconosciuto è tremendamente alto — più alto di Diego — ha una massa folta e disordinatissima di capelli castano scuro a incorniciargli l'effigie del volto, labbra carnose e due occhi castano scuri alquanto incazzati, un cipiglio più contrariato di così non l'avevo mai intravisto.
È rivestito semplicemente d'una camicia a quadri sbottonata e con sotto una t-shirt, niente traccia di un giacchetto — nonostante fuori faccia un freddo cane, nonostante novembre sia quasi giunto alle porte.
Jeans neri, strappati sulle ginocchia, spiccano poco dopo e con una cintura che fa capolino da sotto la camicia; la sommità dei jeans è nascosta all'interno la pelle degli anfibi, alti quasi sino sino al ginocchio.
Non posso fare a meno di notare la catena che porta al collo chiusa con un lucchetto, identica a quella che Sid Vicious sfoggiava con orgoglio, e orecchini a cerchio su entrambi i lobi delle orecchie.
No, questo ragazzo non è uno studente del Caravaggio. Uno così saprei se frequenta l'Artistico. Praticamente conosco ogni faccia di questa scuola e so per certo che lui non è mai stato qui prima d'oggi.
Ma soprattutto, cosa è venuto a fare nel bagno delle femmine?!
Entrambi rimaniamo a osservarci e a studiarci per qualche attimo. Lui con quell'espressione truce e intimorente, io con gli occhi rossi e le guance rigate da rivoli di lacrime — ancora le tracce evidenti dello sfogo.
"Accidenti, certo che è proprio un bestione!", penso mentre lo guardo e più lo guardo, più quella convinzione si aggrappa dentro di me.
«Io non soffro di prosopagnosia» apro bocca inconsciamente, sentendomi in obbligo di dire qualcosa, qualunque cosa.
Il ragazzo corruga ancor di più la fronte appena sente questo termine, raro, non utilizzato con consuetudine. Credo di averlo appena mandato in confusione.
«Non sei una faccia familiare. Io le riconosco tutte le facce di questa scuola e tu sei una faccia nuova. La prosopagnosia è un deficit che non ti permette di riconoscere i volti delle persone, il succo è questo» spiego con voce titubante e tirando su con il naso.
Egli continua a non rispondere e a fissarmi con insistenza con quello sguardo bieco e sinistro. Comincio quasi a irritarmi.
«Cosa ci fai nel bagno delle ragazze?» uso la domanda di riserva, digrignando i denti senza volerlo.
E se non parlasse la mia lingua? Magari è straniero.
«Sto cercando mia sorella», finalmente si degna di farmi sentire la sua voce; una voce profonda, che cela un ringhio rudimentale, quasi che rasenta il suono di un predatore. Una cosa è certa: è un tipo di poche parole.
«Tua sorella?» ripeto sbattendo le palpebre stranita. Sì, be', c'è dello strano in tutto ciò.
«Dobbiamo andare dal vice-preside» replica il ragazzo, tuttavia continuando a non farmi capire.
«Cos... il vice-preside?» ripeto di nuovo, come una perfetta tonta.
«Siamo nuovi. Dobbiamo andare dal vice-preside per farci dire dove sono le nostre classi» bofonchia roteando gli occhi, palesemente seccato.
Ecco, mi pareva che non l'avessi mai visto prima! È uno studente nuovo.
«Perché mai dovresti cercare tua sorella qua?» gli chiedo sollevando un sopracciglio.
«È timida. Aveva paura del primo giorno di scuola e so che si è andata a nascondere nei bagni» spiega parlando quasi come un robot.
«Non può essere qui tua sorella, avresti udito un lamento di morte come il mio», faccio spallucce mentre scuoto il capo.
È evidente che non si trova qui la persona che sta cercando. Magari si è rintanata nei bagni del mio piano, o in quelli della palestra. Il Caravaggio è grande.
«Cosa t'è successo? Perché hai avuto la stessa idea di Celeste?» m'interroga senza preoccuparsi di risultare inopportuno, e chiaramente Celeste deve essere il nome di sua sorella.
«Tsk», mi lascio sfuggire mentre la bocca si allarga in un sorriso da psicopatica.
Cosa mi è successo, vuole sapere... "Non basterebbe una mattina intera per raccontare ciò che mi è successo".
«Ti rivelo una cosa, ragazzo nuovo, questa scuola è una scuola del cazzo, con persone del cazzo e con due indirizzi del cazzo che non potranno andare mai d'amore e d'accordo. Perché la diversità è vista come minaccia e non come un qualcosa di cui gioirne. E mi dispiace, mi dispiace per te e per tua sorella, perché da oggi ne farete parte» dichiaro con quella enfasi che appartiene ai poeti che furono e agli attori devoti al teatro, e un certo accento da schizzata, strofinandomi gli occhi provando a rimuovere i rimasugli del pianto.
«Mi chiamo Ludovico, non "ragazzo nuovo". E anche io vengo da una scuola del cazzo, con persone del cazzo che mi hanno espulso» sottolinea Ludovico rivelando di avere un nome, senza rimanere spiazzato dalla mia dichiarazione per niente ortodossa.
Ed è allora che mi viene da esplodere in una risatina sprezzante, senza farlo apposta.
«Benvenuto al Caravaggio, Ludovico. Benvenuto nel liceo dei drogati e dei figli di papà, per meglio dire dei venduti», gli do il benvenuto allargando platealmente le braccia e inchinandomi, prima di andarmene da lì, uscendo fuori.
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