58. Aletheia
"Lei di sicuro non rischia di essere un ortaggio, perché perfino un carciofo ha un cuore."
Il favoloso mondo di Amélie (2001)
I cambiamenti fanno parte di noi.
Camminano al nostro fianco, fattezze di ombra, muti e sorridenti, estrinsecandosi piano piano — come dita che scorrono lente fra ciuffi annodati, sgrovigliando qualcosa di troppo, briciole incolori che non ci appartengono più.
Il loro, è un processo silente, graduale, allentato.
Lo schiudersi di una corolla di petali, un uccellino che impara a volare, a sfidare il cielo e le nuvole, la matita che preme sul foglio e dà vita a linee armoniose... l'accettazione di una parte di noi che rifiutavamo con ostinazione e, forse, anche con un po' di puntiglio.
Piano, piano... lentamente... senza fretta.
Metamorfosi di pensieri e parole, di fatti e realtà, di convinzioni e sbagli.
...piano, piano... ci destiamo al mattino, e quando andiamo a specchiarci, a guardare noi stessi con gli occhi di chi non può mentire, ci trasformiamo poco a poco.
Non ce ne accorgiamo mentre sfioriamo con disattenzione gli spigoli degli zigomi e la mandibola cesellata, e quello sguardo imbrigliato in sequenze di ricordi, turbinio di stati d'animo. Non ce ne accorgiamo mentre scegliamo dall'armadio quali stoffe si addicano meglio al nostro umore. Non ce ne accorgiamo mentre ci tuffiamo nella quotidianità, mordicchiando brandelli di biscotti e di croissant.
Non ce ne accorgiamo perché non ce l'abbiamo, la consuetudine.
Quell'inclinazione a notare — scorgere — e apprezzare l'incanto delle piccole cose.
Coccinelle, spilli d'argento, fili di cotone e il profumo dei pastelli appena temperati.
Lo stupore infilato fra le pieghe delle ciglia, colui che fa emozionare davvero e che orpella le labbra di infinita gioia.
Lamponi mangiati in punta di dita, la frase migliore del nostro libro preferito, lacci di scarpe e un seme di girasole a sparire sul palmo della mano.
Il cambiamento, il mutare, è come un semino di girasole. Uno, da solo, non significa niente e significa tutto. Ma quando si unisce al girasole... allora qualcosa in noi si ferma, ingranaggio arrugginito, che si è dimenticato come operare, come andare avanti.
...già... come si fa? Come si fa ad andare avanti?
Ci sentiamo smarriti, fronde di alberi in balìa del vento. Ci sentiamo sbagliati, parole acri pronunciate al momento inadatto. Ci sentiamo imperfetti, di nuovo. Perché fossimo stati perfetti allora non ci sarebbe stato bisogno di cambiare.
Io — la mia metamorfosi di farfalla, la mia costrizione. E in quelle ali portavo la notte. Una lunga notte di cambiamenti.
Loro sono in noi, sono cuciti addosso a noi, lungo le membra, nell'increspare dei tendini, nei guizzi astratti sotto pelle, nei riccioli delle ciglia, nelle corde del cuore.
...a ogni tremito di palpebra... cambiamo.
...a ogni palpitazione di sangue... mutiamo.
...a ogni scoccare delle labbra... siamo diversi.
Siamo. Diversi.
Io sono diversa. Io mi sento diversa.
Io e Leonardo siamo diversi, adesso. Siamo cambiati. Non più gli stessi di allora. Di quel mattino così distante e gelido, foglie a far da cornice, sospiri di vento a far da similoro. Parole dette in un ascesso di impeto e un debordare di risentimento. Gesti estremi, colpevoli, quasi disperati.
Quando, in nemmeno un'ora, avevo scoperto che furono proprio Olivia e Claudio ad avermi umiliata davanti a tutto il Caravaggio con quella fotografia.
Quando mi ero sfogata su Leonardo, ingiustamente e con cattiveria, mentre lui mi allacciava a sé per non farci vedere dalla Camonte.
...e poi, troppo fuori di me, quando decisi di non voler entrare a scuola... scegliendo di andare in ritiro spirituale dalla "Venere" di Botticelli, salvatrice di animi inquieti e cuori distrutti.
L'arte salverà il mondo.
Lui... lui venne con me. E forse, non avrei voluto nessun'altro al posto suo.
Nel mio essere detestabile, un susseguirsi di sberleffi affatto amichevoli e in quella mia rabbia a far da acrobata fra le dita, lui scelse di stare con me. Scelse me e non Olivia. Con la fatica che comporta l'avvolgere il piombo di un sentimento pesante, ingombrante, e con la temerità — sublime follia — con cui ci si getta nel vuoto, a braccia aperte.
E Leonardo si gettò nei codoli del vuoto, quel giorno.
Facile, per chi sa volare. Semplice, per chi possiede il vanto di una diade di ali.
Lui le aveva, le ali. Ma tenuto stretto, addosso al suo petto, aveva un macigno con il mio nome scolpito sull'effigie, e un cappio attorno alla gola.
Leonardo scelse me quando, nel mio sprezzo indomito, gli dissi che sarei andata alla Galleria degli Uffizi.
E se c'è una cosa che amo dei cambiamenti, come anche dei musei, è che loro sanno darti una seconda possibilità.
Muoiono nel loro trionfo — consapevolezza che affiora, accettazione di una nuova pagina bianca nel nostro diario. Bruciano di fiamma viva, cancellando ogni traccia di quello che era e di quello che non tornerà mai più.
Io non... io non credo che possa tornare a odiare Leonardo come prima. Di tenermelo vicino elevandolo al veleno più letale del mondo.
Ora, per me, lui è l'estate, la melodia del violino ascoltata seduta sul davanzale della finestra e le gambe sospese nell'aria, è il migliore dei film francesi, la meraviglia celata in ogni tetto di questa città.
Ora, per me, lui è vivere. È dolcezza... non un qualcosa che crea dipendenza, è delicatezza dell'essere. Viverlo in ogni istante, in ogni ticchettio.
È l'aprire persiane di una stanza buia per scoprire che fuori, poco più in là, c'è una distesa di grano e papaveri soltanto per me. Che solo io posso vedere.
«Dove vorresti mangiare?». La voce zuccherina di Leonardo mi ingoia in boccoli di brividi, trapassando il tessuto dei vestiti, dita di marzapane a imprimere a fior di pelle.
Fletto i muscoli del collo, la testa che si inclina appena e una cortina di capelli adombra i riverberi di lui sulle mie pupille. La cintura pungola nell'orlo delicato della clavicola, plasmando l'arco della mia schiena contro il sedile.
«Cosa?», esito prima di chiedere, ammettendo volontariamente distrazione.
Quando mi lascio avvolgere dai pensieri, soprattutto se vi è lui a far da cardine, le mie orecchie è come se venissero foderate di un distacco astrale. Velo di nebbia fievole quanto denso, e sovente.
Indugio sulle sue mani, falangi inghiottite dalla pelle del volante. Un gesto così semplice, il guidare la macchina, ma addosso a lui ha un'eleganza estrema... una dolce veduta che irretisce i sensi e che imbriglia ogni volontà.
...di nuovo.
L'angolo della bocca di Leonardo si increspa in un sorriso esiguo, arginato in quella sua rinomata compostezza, irrigidita e marmorea. Diafana finezza.
«A cosa stavi pensando, dolce Atena?» domanda senza distogliere lo sguardo dalla strada, allacciato al traffico rumoroso dell'una e quarantacinque.
Morbidamente.
Ogni vocabolo che sfiora la sua lingua, incuneandosi al palato, ai denti, ha il raro onore di venir rivestito di amabilità. La sento... io, quell'armonia... brincello dopo brincello... brivido dopo brivido. Corda del cuore che vibra.
Sempre.
Quell'ingentilito soffio di brezza a sobillare le criniere dorate di quel grano... e i dentelli scarlatti dei papaveri.
Un ricordo lontano fiorisce in me, sboccia di apoteosi — sbavature che non andranno più via —, e ammorbidisce le mie labbra in uno sberleffo di letizia, una goccia di nostalgia.
«Stavo pensando a quanto somigli a David Bowie. Per un attimo mi sono incantata» pigolo con quella reminiscenza in punta di dita, ormai allacciata a me, stabile e immutabile.
...le stesse parole di quel giorno.
Leonardo esita, le dita che stringono le curve del volante e avvolgono il cambio per calare una marcia, rallentando appena alla volta di un semaforo. E poi, proprio lì, sulla pelle morbida della sua guancia, si disegna una fossetta di delizia.
Increspatura impercettibile, lieve... da allungare il braccio e posare il polpastrello su di lei, tracciandone la forma.
«...è un complimento?», e mentre lo pronuncia con quella nota di voluttà solleva il sopracciglio, osservando dallo scrimolo degli occhi, sguardo silente.
Nascondo il volto fra le pieghe del gomito, ma senza smettere di guardarlo neanche per un solo, misero istante. L'incurvatura delle ciglia, pupille di corteccia lambite dalle ombre della notte si affacciano con innegabile, docile timidezza.
Non più rabbia, non più frustrazione — ma coriandoli di idillica incertezza e soffice riserbo.
Un cuore punto da baci infiniti, adorazione che gronda e cola come miele.
«Sparatemi dopo che l'avrò detto... ma sì. È un complimento» ripeto gli stessi vocaboli di quella volta, un sapore nuovo, più dolce, più mio... più nostro... di quell'essenza allacciata al ricordo attecchito nei miei pensieri ammantati di incanto.
Il calore del mio respiro s'infrange sulla stoffa della mia camicetta — il cappotto che giace nei sedili posteriori insieme allo zaino —, trafelato all'immaginare me e lui, insieme, in uno dei luoghi che più amo, cui sento la mia anima più vicina, senza essere uniti e plasmati nell'odio reciproco.
...Una coccinella, spillo d'argento, filo di cotone, profumo dei pastelli appena temperati...
Piccole cose, minuscoli oggetti.
...Lampone mangiato sulla punta di un dito, frase migliore del mio libro preferito, laccio di una scarpa, seme di girasole che sparisce nel palmo della mano...
La felicità è tutta nascosta lì, in quelle crepe piccine di oggetti misteriosi, zuccherini, spigolosi.
Leonardo che stringe la mia mano — lui che s'intreccia a me — e mi segue dentro i sentieri di un museo... dove storia e arte vivono insieme, fondendosi in un'unica ragione, un'unica realtà.
Può una gabbia di ossa e pareti di carne contenere tutta questa felicità? Può un cuore di cristallo sopportare, sopravvivere a questi tremori convulsi, terremoti di emozioni, scosse di aneliti?
Una lama di luce va a squarciare il suo viso, mento cesellato, lineamenti di un dio, e d'un tratto mi rispondo da sola.
La gabbia resiste, il cuore di cristallo sopporta... ma è una scommessa ogni volta a chi crolla per primo.
«Che cos'era quello? ...era forse un guizzo di timidezza a scintillare nei tuoi occhi?». Osa farsi beffe di me.
«Sei proprio uno sbruffone» faccio schioccare la lingua in un gesto stizzito, seppellendo interamente la mia faccia nell'incavo del gomito, «e sappi che, comunque, preferisco David Bowie a te».
«Però... come siamo cattive» celia Leonardo senza scomporsi, provocazione viva. «Ops, dimenticavo... l'essere cattiva fa parte di te».
«E io dimenticavo quanto fossi simpaticone. Se non la smetti mi faccio riportare indietro e ci vai da solo agli Uffizi», mastico parola dopo parola, un lamento più che una frase in sé, e la fronte che si arriccia di ostinazione, capriccio di bambina.
«Troppo tardi, hai già avvertito tua madre. Ormai sa che sei con me» recita lentamente, in uno scocco di labbra, e una solida certezza a rivestire ogni lettera, «e poi... non ho mai detto che ti lascerò andare. Ora sei mia per tutto il pomeriggio, finché il dovere non ti chiamerà dietro la cassa di quel cinema».
«Ho diciotto anni, sono maggiorenne, e posso fare quello che voglio» chioso di presunzione, lo spigolo del mento che tracima dall'incavatura del braccio, esponendomi a lui e a quel "sei mia per tutto il pomeriggio", «soprattutto decidere dove e con chi andare».
«Oh... ma che grinta. Guarda, ho la pelle d'oca», e scopre la pelle del polso, il tessuto della camicia che lascia spazio a un lividore ialino, dove un intrico di venule s'inerpica delicato, imbrigliato dall'allacciatura di un orologio.
La pelle d'oca... naturalmente non c'è. Ogni frammento sembra cesellato nel marmo puro, icastica freddezza. Ed è un qualcosa che si dirama nelle mie pupille come dettaglio incantevole: ho sempre pensato che l'aureola dorata dei suoi ciuffi si concatenasse di meraviglia al pallore del suo incarnato.
...uno scherzo del destino se si pondera, per un attimo, all'epiteto che porta cucito addosso come una seconda identità. Apollo di nome e di fatto...
«Perché stai guidando, ma appena scendiamo le prendi, sappilo» borbotto spazientita, un sospiro arrendevole che arranca nella gola.
E ritorno con la schiena a imprimere contro il sedile, silenziosa, e con l'orlatura degli occhi impiccinita e acuminata, dove pensieri muti vagano come spettri al di là di uno specchio soltanto mio.
«Le prendo? ...cosa prendo?». Intravedo quel bagliore malizioso in punta di labbra, e incuneato alle iridi celate dagli occhiali. Peccaminoso.
«Guida, Leonardo, guida. E muoviti che ho fame» taglio corto intrecciando le braccia contro il petto, guardando in avanti, decidendo che la targa dell'auto di fronte alla nostra sia divenuta d'un tratto interessante.
«Anche io ho fame, lo sai...?» insiste lui, non demorde.
«...ah sì?», inghiottisco una lama inavvertibile, lenta tortura.
Ma stavolta lo fa, distoglie lo sguardo dalla strada, districando l'attenzione per flebili istanti e si avvinghia a me, quegli occhi che sembrano dita... ogni volta...
«...sì» sussurra in un soffio roco, gutturale, a provenire da angoli bui, inesplorati, «tanta».
«Appena... appena arriviamo, io... io... devo chiamare mia nonna!» dico senza ragionare, le palpebre colte da un tremolio incontrollato, soggiogate da quella voce troppo proibita.
«Tua nonna?» ripete Leonardo con un accento di perplessità al centro della fronte.
«Sì! Devo chiamarla! Devo parlare con lei, questione di vita o di morte».
Ed è la verità... sarà lei a scegliere se lasciarmi in vita o uccidermi dopo che le avrò spiegato il perché non sarei andata a Livigno, quel Natale.
La schiacciata del Vinaio è racchiusa fra le mie dita come un diamante prezioso, calda, frange di fumo si innalzano nell'aria, come teneri arzigogoli a rincorrersi senza mai stancarsi.
Due birre stappate sono adagiate vicino alle nostre scarpe, sui gradini gelidi di Piazza San Firenze, dove, dietro l'orlo delle spalle, si staglia in tutta la sua maestosità il complesso che porta lo stesso nome di questo luogo.
Non soffia un filo di vento e non è particolarmente freddo, un timido bagliore di sole , tiepido e docile, vezzeggia i capelli e scalda gli animi.
L'osservare Leonardo nel semplice atto del masticare, mi scalda l'animo e il cuore intero, fino ai confini di dove inizio e dove finisco. Aprirsi e chiudersi.
Il saperlo con me, insieme a me, in un momento di familiare consuetudine come il pranzare su degli scalini qualunque, a Firenze, mette a dura prova quella delicatezza incastonata fra le ossa.
Scommessa a chi crolla per primo.
...e dentro di me capisco.
Stringo questa scheggia di quotidianità, frammento di beatitudine, con un solipsismo che va oltre i miei limiti, me lo impuntisco addosso con quella gelosia intima, confidenziale. Lo metto insieme agli altri, tasselli di vita che custodisco con accortezza, lasciati a prendere la polvere su una mensola nascosta dall'ombra e da ragnatele argentate.
Me li immagino raccolti in sfere di cristallo, come ricordi trasformati in antichi cimeli, lontane leggende da rievocare e narrare in punta di labbra, mormorii quieti.
Un pulviscolo a danzare su in alto, magico incanto, pupille di vetro e mani d'avorio.
Sono di mille colori, mille sfumature, mille sensazioni — dal viola che inibisce razionalità, solleticando fantasia e inneggiando all'amore... al nero che soffoca e stringe, di dita attorno alla gola, serrate. E tutte, ognuna di loro, hanno un perché, un motivo, uno scopo. Poiché deposte lassù, ripiano dopo ripiano — legno sbeccato e sussurri in ciascuna fessura.
Bei ricordi, brutti ricordi. Danza classica e Gabriele, anoressia nervosa.
Due facce della stessa medaglia. Il cinema, uno specchio rotto.
Parti che si completano. Una canzone che amo, un luogo rovinato.
Se esiste l'uno, esiste l'altro. L'amare i miti greci, l'odiare l'essere Atena.
I perfetti antipodi. Leonardo, Claudio.
Inclino appena il capo, i ciuffi rosei che soffiano sugli zigomi, e sollevo le iridi per osservare Leonardo attraverso le pieghe delle ciglia.
Il suo profilo bagnato da fili di luce, nastri dorati ineccepibili su quell'incarnato latteo, si staglia d'armonia innanzi a me. L'asticella degli occhiali che percorre una linea perfetta sino all'orlo dell'orecchio e le crespe pallide delle sue di ciglia tremolano a ogni morso.
Esito quando l'arcata dei miei denti affonda sulle labbra, punta da troppa beltà, estrema grazia, leggiadria alla minuscola movenza.
...lo scostarsi un ciuffo via dalla fronte.
...il sistemarsi la montatura degli occhiali... il semplice guizzare delle pupille.
Lo sdrucciolare delle scarpe contro il marmo dei gradini. Il petto, fasciato da uno strato di gilet e uno di camicia, ad alzarsi e ad abbassarsi mosso dal respiro.
Il bere dal collo di una bottiglia di vetro.
Leonardo Aspromonte — il Perfettino per eccellenza — sta bevendo birra direttamente dalla bottiglia e seduto su una superficie poco consona. Alla buona.
Lui, che ha sempre prediletto un pregiato calice di vino al suo adorato Forte d'Alabastro, è con le gambe distese in questo posto così distante dalle sue abitudini.
Ed è dannatamente bello — bello... come si addice a quegli angeli caduti... bello... come solo le creature ultraterrene, trascendenti sanno esserlo. Irreali.
Bello di un'effettività che fa male.
Il sole... quando stai lì, a guardarlo con impeto, per troppo tempo... ti acceca. Brucia di spilli roventi. E sei costretto a distogliere gli occhi, sei costretto a chinare le ciglia in un atto di splendido asservimento.
Al sole non puoi resistere.
Io non posso resistere a lui. Non posso.
Non voglio.
«Chi l'avrebbe mai detto...» modello piano, una nota di beffa a intridere nella voce, ricordandomi di respirare, «Leonardo Aspromonte che pranza così. Ti ho sorpreso dicendoti che ho preferito venire qui?».
«Affatto, e almeno ho assaggiato la famosa schiacciata dell'Antico Vinaio, è sorprendentemente deliziosa» chiosa increspando l'angolo della bocca in un lieve sorriso, «lo trovi così strano?».
«Che tu non abbia mangiato prima d'ora la schiacciata del Vinaio? Sì, è strano. Sei folle. Strambo. Io non ti conosco. Chi sei?» celio ostentando indignazione e raccapriccio, scostandomi più in là e lasciando che una fievole distanza s'insinui fra le sommità delle nostre spalle.
Ma le sue dita schioccano celeri attorno al mio polso, una gabbia di carne morbida quanto determinata, e... con la grazia di chi si fa dominare e con l'incanto di lasciarsi andare — arrendevole come fa il fiore quando si schiude per una corona di luce —, mi lascio condurre dal suo volere, sedimentandomi contro il suo petto, allacciando le mie cosce alle sue.
L'incarto del pranzo quasi minaccia di rovinare per terra quando mi ritrovo a un refolo dal suo volto, dai suoi occhi... dalle sue labbra.
«Sei tanto insistente, te l'hanno mai detto?» pronuncio in un mormorio spezzato, chinando lo sguardo, «E insopportabile. E snervante. Ecco perché mi riusciva così facile odiarti».
«Sei insopportabile anche tu. E snervante. E per me era una tortura odiarti» sussurra con voce cheta, lenta, incuneando il suo viso nell'interstizio della mia gola, pelle bollente sulla mia, cuciture a sangue.
«...sai di birra...» recito in un ricciolo di brividi.
«...sai di favole... sai di Firenze al tramonto, sai di quegli istanti che appartengono al domani ma invece sono qui, adesso, unica eccezione. Sai di quella singolarità che è precipitata nel Paese delle Meraviglie. Oh, Alice, piccola Alice...». E le braccia di Leonardo si allacciano intorno a me, annodandosi per non lasciarmi andare. Un intreccio dal quale non vorrei mai fuggire.
E capirò, io, nel tempo, che il cuore non mi apparterrà più... si sentirà stretto — sempre più stretto — fra le crespe della mia carne e gli spigoli delle ossa. Disobbedirà alla mente, sua regina, e vorrà fuggire da me, intrepido, a farsi aggrovigliare dalle dita di qualcun'altro.
«Leo...» pronuncio sottovoce, nota dolce, «dobbiamo... dobbiamo muoverci. Ogni minuto che passa è un minuto perso. Alle sei io devo andare al lavoro».
«Con te non è mai un minuto perso, con te è meraviglioso anche bere una birra sulle scale di una piazza. Ma sì, hai ragione, se vogliamo goderci il museo allora dobbiamo accelerare i tempi», lo sento acconsentire dall'incavatura della mia gola, dove il suo respiro solletica anche angoli remoti.
«...dovrei scendere. Dovresti lasciarmi, sai... allentare un po' le braccia».
Quel "dovresti lasciarmi" eppure stride nella mia bocca, non c'è quella convinzione — quella decisione secca — del chiedere qualcosa che si vuole davvero. Una supplica mancata, incagliata negli alveoli dei miei polmoni.
«Ancora un po'», Leonardo reclina appena il volto verso di me, un girasole mosso dal suo sole, i veli delle palpebre socchiuse, serrate di beatitudine.
Lo sondo per qualche secondo, istanti sottili, ciglia fra le dita, i suoi zigomi fra le mie di dita. La sua pelle scivola sotto il mio tocco come nastro di raso, eburnea e morbida, fattezze di angelo imbrigliate in quella giovinezza che pare eterna.
E d'un tratto mi sovviene una delicata sottigliezza: mio.
Lui è mio — uniti da un filo tenue, esile... in uno strato astratto che forse nessuno avrebbe mai visto, mai compreso.
Sua — annodata a lui, stretta a lui, come estensione di ali.
Quelle ali che ho sempre mendicato, cercato, nella perfezione... ora io le dono a lui.
«Ancora un po' perché fra tuo padre, fra la mia famiglia, amici e non amici, Claudio e forse la scuola intera, non ho avuto quella gentilezza di ascoltare il tuo cuore cantare per me. Ancora un po'» ripete cheto.
...ancora un po'.
«Ancora un po'» mi affretto a dire per poi cercarlo con le labbra.
Le spalle si sciolgono non appena stringo il biglietto degli Uffizi fra l'intreccio delle dita, un sospiro eccitato arranca sino a congiungersi con il palato, soffiato all'infuori dal mio desiderio di respirare senza affanno.
Occhieggio ogni angolo, ogni spigolo attorno a me, avida, vorace. Ogni vetrata, dove vi si annidano cordicelle di luce, resecate dalla bordura del legno.
Ogni statua, meraviglia di storia, aggomitolata da quei codoli fulgenti.
Un pulviscolo ammaliante danza sopra le nostre teste, lento e muto, e nel pavimento lucido, preciso in ogni sagoma, perfette geometrie, si proiettano le nostre ombre che paiono essere senza fine.
Se solo venissero denotati anche i nostri sorrisi... le nostre bocche arricciate in quella gioia così antica, rara, esaltazione in sussulti e pelle d'oca. Antica come l'anima conservata qui dentro, viva, accesa.
E in ogni portone schiuso, dietro, vi si cela un mondo lontano, altra dimensione, fiaba nascosta e avvenuta davvero.
Restituisco lo sguardo a Leonardo, consapevole dei suoi occhi a pungere sull'effigie del mio corpo, percependo il contatto della sua mano sulla mia, palmo su palmo, dita nelle dita.Io che finisco con lui, lui che comincia con me.
Un andirivieni di persone, turisti, cittadini, studenti anelanti di arte e di storia — come noi — sgusciano nel largo corridoio, al di sotto dei soffitti affrescati e fra le sale dall'odore tutto loro, unico. Profumo di narrazioni, bellezze impresse su tele e su marmo, e quella vetustà che istiga stupore. Stile e ingegno.
Più avanziamo, le suole a premere sulla pavimentazione, più ci allontaniamo dal nostro concetto di realtà.
Più camminiamo, insidiandoci in quel turbinio di vita, più le persone sembrano cascare dalle nuvole quando gli passiamo vicino.
Le loro pupille pare vengano mosse da un volere incorporeo, inavvertibile, una calamita muta che porta il nome di Leonardo, sembianze maliarde e che posseggono il fascino delle divinità immortali. Esattamente come quel giorno, a valicare Ponte Vecchio.
Ma... adesso è diverso.
...adesso... me le sento cucite addosso anche io quelle occhiate silenti. Celeri, timorose di essere colte nell'atto inverecondo di aver guardato abbastanza, di aver osato abbastanza.
Guardano me. Guardano lui. Guardano noi, insieme.
I miei ciuffi rosei, le sue ciocche dorate a baciargli le tempie come un'aureola. Le mie iridi a ospitare lontani tenebrori, le sue ad accogliere tutti i cieli del mondo. Io... così esile, gambe mingherline avvolte da calze nere e una delicata gonna con le bretelline, lui... così eminente, gambe interminabili e nobile portamento.
Ci rimirano e io lo so. So cosa vedono.
Quell'evidente e abissale differenza, più opposti del fuoco e dell'acqua, del cielo e del mare... seppur allacciati da un tempo ormai dimenticato, destinati a restare sempre vicini, uniti dalla divergenza, discrepanza idillica.
Uno non esisterebbe senza l'altro, probabilmente.
«Leo» pigolo quasi esitante, poiché ci stavo affogando con dolce violenza in ogni suo dettaglio.
Lui piega il suo viso verso di me, mosso dal mio richiamo.
«Sì?».
«Vogliamo vedere per prima la sala di Botticelli? È una delle sale che amo di più».
«Perché ogni volta è come la prima». Sorride, e scorgo uno spicchio di affermazione, accondiscendenza, dentro ciò che ha appena pronunciato.
Mi accontenta. E i capolavori del maestro Botticelli riempiono i miei occhi facendomi vacillare sulle mie stesse gambe, le ginocchia le sento cigolare sotto il peso dei miei desideri.
La "Primavera"... la "Nascita di Venere"... la "Madonna del roseto"... l' "Incoronazione della Vergine"...
Dimentico addirittura il mio nome tanto l'arte ce l'ha, questo potere, oscuro e attraente al tempo stesso.
La mia attenzione si incunea in quei dipinti con disperazione, scolpendo, tacita, attraverso quelle tele tutto ciò che sono, che sono stata. Ogni batuffolo di cotone e ogni pezzo di filo spinato.
Ogni mia Matilde, colore dopo colore, sfumature su sfumature — e nel mio abbandonarmi con docilità liliale, realizzo.
Lo capisco seguendo le occhiate delle persone, inebriate, d'invidia... dove una punta di dolore emerge acuminata.
Dentro di me sento spaccarsi qualcosa, un pezzo di vetro, un frammento di cristallo, una scheggia di cocci, una ferita che sanguina.
Imito quegli sguardi, adagiandolo delicata sul profilo di Leonardo.
E io non me ne ero mai accorta, le pupille foderate dal troppo rancore, dalla troppa irritazione, la prima volta che siamo venuti qui.
Le meraviglie di Caravaggio, di Botticelli e di Michelangelo avevano colmato la mia fame di bellezza e la mia sete di estasi.
...tanto che mi avevano fatto dimenticare che colui che stava allacciato al mio fianco aveva scolpite addosso le fattezze di un'opera d'arte, e ricamato nelle iridi il fascino tormentato del poeta e dell'artista.
Leonardo, mi accorgo osservandolo in silenzio, che sarebbe un incanto proibito racchiuso nella tela di un quadro, cornice di broncio. Intrappolato per sempre.
Eterno, uno splendore di sfumature azzurre, oro e pallore elitario. Custodito fra le mura remote di un museo destinato soltanto a me...
"Io ti vedo".
«...perché» dico piano, senza fretta, «perché siamo venuti qui?».
La fronte di Leonardo s'increspa di perplessità. «Perché entrambi amiamo l'arte in tutte le sue forme. E perché volevamo stare insieme in un posto che sentiamo nostro».
«Ma... io ce l'ho già... la mia opera d'arte».
E mentre modello quella verità non smetto di guardarlo neanche per un attimo, non cedo di un battito di ciglia. La "Nascita di Venere" alle mie spalle, muta beltà.
Davanti, lui, vivo e pulsante. «Ed è un peccato, sono stata una stolta... avrei potuto goderti lontano da tutti, soltanto per me, soli».
Basta quello.
Una sola e unica ammissione.
È sufficiente nella sua semplicità e nella sua certezza.
Perché in uno sbuffo di vestiti, respiri trafelati e bocche di baci mancati, accartocciate nella loro insoddisfazione perenne, piene, cuori vibranti a grondare dai loro orli... mi ritrovo con la schiena calcata contro il muro, a mendicare intimità fra le pareti del bagno di questo museo.
Issata all'insù, le cosce sollevate dalle mani di Leonardo e incastrate intorno al suo bacino. Io mi aggrappo alle sue spalle, e alla sua gola così calda, lui si aggrappa a me quasi timoroso che scappi via, svanendo nell'aria.
La porta chiusa a chiave, sigillati dal resto del mondo.
E nelle sue labbra mi ci tuffo con tutta me stessa, inabissandomi dolcemente. Non lo risparmio nemmeno dai morsi — quelle labbra sono fatte per essere divorate azzannate.
«Non...» mormora titubante sulla mia bocca, staccandosi appena, morire per poi ricominciare, «...mi avevi...», e restituisce ogni morso, con gli interessi, «...mai detto...», la lingua che esita nella mia, «...una cosa del genere».
Vibra contro il mio petto, freme il suo cuore addosso al mio.
«Perché io...» chioso scricchiolante, sgualcendomi e bruciando sotto quei baci, stringendo le gambe sui suoi fianchi per sentirlo più mio, «...sono sempre stata abituata a rimanere chiusa».
«Resta chiusa... che ci provo io ad aprirti».
«A volte sono un lucchetto senza chiave. Tanta ruggine... suono che stride».
«Tu sei come un fiore, Mati... nessun lucchetto arrugginito. Ti dischiudi soltanto quando è il momento, quando il clima lo senti tuo, quando scegli di svelarti senza costrizione». Leonardo disegna con la sommità del naso piccoli buffetti sulla guancia, rivolgendosi a me con quell'accortezza, quella delicatezza che da quando mi sono rivelata a lui per la prima volta non ha mai mancato di riservarmi.
«C'è una parola, in greco. E sembra fatta proprio per te» seguita a dire, carpendo steli di curiosità. «Aletheia. Lo stato del non essere nascosto, lo stato dell'essere evidente. Dischiudimento, svelamento, rivelazione. Tu che ti riveli a me. ...e sei... sei illegale».
«Prima o poi dobbiamo studiare insieme davvero... sai troppe cose interessanti, me le devi insegnare», mi sfugge una risatina flebile.
«Sì... ti devo insegnare tante cose» acconsente Leonardo, «dobbiamo studiare insieme».
«...quando non devo dare ripetizioni a Ludovico...» aggiungo incerta, ma la parte sadica assopita in me mi spinge a modellare quella sentenza di egemonia esemplare.
«Vuoi... vuoi per caso punzecchiarmi?». Si irrigidisce sotto di me, ma un sorriso beffardo si incatena alle mie iridi, insolente. Di chi ha appena raccolto una provocazione, stringendosela fra le dita come una lama tagliente, dove rivoli di sangue non tardano ad arrivare.
«Giammai» sentenzio come fosse una recita già scritta, un'espressione angelica scivola sul mio viso, «è solo la verità».
La stoffa del maglioncino lascia scoperta la punta della clavicola, l'indice di Leonardo a scostare silenzioso quel lambello di tessuto, sfiorando la mia pelle, irta di sentieri torridi, che scottano al suo tocco.
Appena la guglia dei suoi denti collide contro la sporgenza dell'osso, vengo colta da un sussulto, indifesa, impotente.
«Leo... io-».
«Non dirmi che devi chiamare tua nonna».
«No! La chiamo dopo mia nonna!» esclamo incuneando le mie unghie mordicchiate sulla camicia, arrendevole sotto lo schioccare della sua bocca. Suono che riempie il silenzio intorno a noi.
«Ho iniziato da poco a tollerarlo, Matilde. Per favore, non farmi cambiare idea».
«Leo... ti sta vibrando la tasca... mi auguro sia la tasca» proferisco con voce arrochita, accorgendomi di un tremolio anomalo lungo il suo fianco.
«...e se fosse stato qualcos'altro?» domanda mentre estrae il cellulare senza lasciarmi cadere.
«Non intendo risponderti» sogghigno di crudeltà.
«Oh sì, che lo farai. Manca ancora un po' prima che tu debba andare a lavorare, sono un tipo molto paziente» esplica per poi accettare la chiamata, «mamma?».
Soffermo la mia attenzione sulle sue sopracciglia, folte e precise... dorate come la corona di capelli che gli incornicia il capo. E, lentamente, mi accorgo che le pieghe della fronte divengono man mano più evidenti, marcate.
Un sentore di sconcerto affiora in lui, tenue come un velo di tulle incolore, fili sottili insipidi.
La voce informe di Lucrezia mi giunge attutita alle orecchie — ma lo sento... lo sento quel tono preoccupato di genitore. Lo stesso che sta deturpando i lineamenti di Leonardo in una smorfia contratta, irrigidita.
Eclissata quella complicità di pochi attimi fa, spenta come la fiamma piccina di una candela, quella sublime leggerezza che da un po' aveva preso le distanze da entrambi.
«Va bene. Adesso ritorno, prometto di fare il più presto possibile. Tu intanto tienila occupata».
Con il dito va a premere contro il display, chiudendo la telefonata. Senza dire una parola mi fa scivolare con delicatezza verso il pavimento, accertandosi che abbia entrambe le ginocchia ritte e le suole delle scarpe ben piantate per terra.
Le sue mani che mi abbandonano, lasciando orme incancellabili.
«...cosa...?» sussurro disorientata, confusa.
«Olivia». Ed è sufficiente un nome per riempirmi di raccapriccio, ancora più confusa. Mi sento raggelare il sangue nelle vene. «È con mia madre, adesso».
«P-Perché?».
«Penso che lo scoprirò soltanto tornando a casa. Ha detto che deve dire una cosa a entrambi e che non aprirà bocca finché non sarò lì».
«Devi andare a casa...? Adesso?», la mia voce... sento che ha un suono strano.
«Mi dispiace... è una tortura per me, credimi. Ma devo farlo. La mamma non era particolarmente gioiosa mentre me lo spiegava», Leonardo infila una mano fra i capelli, intrecciando dita e ciuffi, «ti riaccompagno alla tua macchina, okay?».
«O-Okay... m-ma» pigolo masticando parole, inciampando nella mia stessa lingua, finché il mio cellulare non prende a squillare.
Il desiderio di prenderlo e scaraventarlo addosso il muro del bagno è estremo. Ma m'impongo controllo e calma. Non devo cedere proprio adesso.
È Costanza.
...Costanza?
«Pronto, Cost?», premo il ricevitore contro l'orecchio nascosto dai capelli.
«Matilde, lo so, scusami per aver importunato te e il signorino Apollo ma è una questione importante... almeno credo...».
«Cosa... ti serve?».
«Il numero di Marta. So anche questo, perdonami, mi sono sempre dimenticata di chiederlo direttamente a lei... ma il fatto è che mia sorella Ilda le deve parlare di una cosa molto importante, molto urgente, che non può aspettare. Sii comprensiva... non ho scelto io di avere una sorella così scassa-nervi».
«Ilda? Cosa le deve dire Ilda?», il suolo sotto di me lo sento spaccarsi in due. L'ossigeno che si straccia in ogni mio respiro.
«Questo non me l'ha detto. So solo che è importante. Ti prego... sappi che la sto già giudicando io in silenzio» ringhia Costanza fra i denti dall'altro capo.
Esito, in silenzio, i miei occhi a specchiarsi in quelli di Leonardo, dove nuove sfumature — fosche — stanno prendendo la totale supremazia, senza lasciare un brincello incustodito, vuoto.
«Mati, ci sei?» mi richiama la voce di Costanza.
«Sì, ci sono. Sono qui».
No, non ci sono. E non vorrei essere qui.
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