57. Kill the thrills
"I cuori non saranno mai una cosa pratica finché non ne inventeranno di infrangibili."
Il Mago di Oz (1939)
Un cuore ha lo stesso principio del cristallo.
Effigie delicata e velatura raffinata — corde inavvertibili a diramarsi, un inerpicarsi di fiori di carne, nudi... fragili... anomala vulnerabilità.
Non esistono cuori di pietra, in ogni battito, in ogni tremito di sentimenti, si sente echeggiare il tintinnio dell'involucro di cristallo. Le pietre ce le incastoniamo negli occhi, cineree, stele fredde, un tenebrore di spigoli ruvidi e aspri; pietre al posto delle iridi.
...ce le incastoniamo negli occhi per proteggere quel soffio di cristallo così esile, così fine che custodiamo nel petto, fra pieghe di desideri irretiti e pretese di bambino, e un po' di disincanti intirizziti incuneati fra le ossa. Catene senza lucchetto, e chiavi a cui sono spuntate le ali.
Non esistono cuori di pietra, esistono gli occhi di marmo, dove — fra sfumature di speranze fiorenti e cimiteri di reminiscenze appassite — si stagliano torri d'avorio e algidi castelli. Guglie che devono proteggere.
...ma i castelli vengono costruiti per essere conquistati...
Con l'amore o con la violenza. Con gesti d'affetto o con zampilli di sangue. Schiocco di baci o schianto di ossa.
...i castelli sono fatti per crollare... mattone dopo mattone, una crepa dietro l'altra.
E insieme a loro crollano tutti. Dalle macerie non si salva nessuno, resti ai resti.
Gli occhi si denudano di ogni certezza e tenacia, e il cristallo s'incrina. Una vibrazione troppo grande gli è impossibile da sopportare — ecco la prima fenditura. Un brivido sconosciuto s'insinua dove non gli è permesso — e una seconda fenditura.
La coscienza che qualcosa di anomalo, sbagliato, acre è attecchito come pulviscolo deleterio — un'altra fenditura. Niente bagliori d'amore, ma ombre di violenza. Niente vezzi d'affetto, ma schizzi di sangue, cinabro, di pelle strappata. Nessuno schiocco di baci...
...ma una litania di ossa spezzate, melodia macabra di vittoria non voluta, non desiderata.
Doveva farlo, però, doveva avvenire.
Era un destino che non si poteva evitare. Zanne che incidono la carne, zanne che portano il nome della negazione, dell'impotenza e di un sentimento non ricambiato.
Il cuore di Diego è di cristallo, spaccato in due. E... nonostante tutto, nonostante tutti... sopra non vi è cesellato il nome di Laira, ma quello di Thalìa.
Un cuore ricoperto di schegge altro non può fare che provocare dolore, altrettanta sofferenza. Altro non può fare che disegnare una crepa identica alla sua...
Non esistono cuori di pietra, esistono persone dai sentimenti forti e dalle speranze dilaniate.
Perché tutto non può andare sempre bene. Non possono esserci solo gioia e felicità.
...non è contemplato, sarebbe troppo facile.
E ciò che sto osservando al di sotto delle pieghe delle ciglia ne è la prova.
Lacrime roventi solcano gli zigomi di Laira, rivestendola di un'identità che non le appartiene, che le sta stretta — le cuciture di quelle stoffe troppo strette si sfaldano, cascando ai lati come un velo pesante, opprimente —, un lento deturpare delle sue fattezze in una smorfia di puro rammarico e innocente rancore.
Innocente... perché, sì, Laira è tanto innocente, ancora.
Piccola in quei suoi occhietti vispi e quei ciuffi che sfidano le leggi del caos. Piccola in quelle salopette che le stanno sempre troppo larghe, dove le balze dei maglioni le foderano eccessivamente la pelle dei polsi. Piccola in ogni pezzo di cioccolata che mangiucchia con espressione incantata, sospesa oltre le nuvole, a giocare con le stelle.
Lei che, a differenza di Gioia che intesseva ragnatele, davvero scova la più immensa beatitudine nel cogliere un fiore per poi fare "m'ama, non m'ama" con i petali... lasciandoseli alle spalle come dolci letizie mancate, di vita stringata.
Piccola in ogni dettaglio, dalle unghie mordicchiate per troppa ansia, il peso delle aspettative che le fa incurvare le spalle, agli angoli delle labbra sollevati in un sorriso di chi ha ancora tempo per crescere, e diventare grande. Piccola nella sua costante attenzione ai particolari che nessun'altro scorgerebbe, come quei baci invisibili lasciati di nascosto, in luoghi proibiti e da persone che mai avremmo pensato.
Piccola nel suo affetto per Diego... in un amore forse giusto, imperfetto — troppo imperfetto —, provato al momento sbagliato.
Le pietre incastonate negli occhi di Laira hanno ceduto, e i suoi castelli crollati.
...non c'è spazio per i cuori di cristallo... ma forse per quello che ne rimane sì, c'è sempre un piccolo rifugio per loro.
Cocci di vetro e sangue e ruderi di fiori dai petali neri. A ogni "m'ama, non m'ama" una ferita sanguina, una lacrima si cristallizza dentro scrimoli di occhi, gabbie di carne e impressioni di primavera.
La vedo, la scorgo, io, quella lacrima.
Vedo — sento, ascolto — un sacco di cose ultimamente.
Il terreno si sgretola sotto le scarpe di Laira, Converse dal tessuto stracciato, consumato, un po' come il suo cuore adesso; mentre quello di Diego è ancora uniforme, solido oltre le sue gambe irremovibili e composte.
A differenza di quelle di Laira non sono percorse dai tremiti, le ginocchia non mostrano ammicco di cedimento. Da vittima è divenuto carnefice, lunghe zanne e unghie ricurve, distruttore di cuori accidentale. Imitando ciò che Thalìa fece con lui: dire di no nella maniera più crudele possibile.
Sì, di crudeltà. Perché in questi casi non ci si può permettere di essere delicati e mostrare bontà, in questi casi bisogna essere trasparenti come vetro, diretti nelle intenzioni e rigidi nelle parole che gronderanno dai denti.
Zanne e artigli sdruciscono, pelle dilaniata e promesse sfiorite, scorticate, una spina nel petto. Dolore, dolore, infinito dolore.
Poi però accade il miracolo, da quei tagli sbocciano cicatrici.
Marchi che decidiamo di mostrare come il più scintillante dei trofei oppure di nascondere, come il fardello più amaro. Ma non fa più male, non c'è più tormento.
...le carezze... e le dolci parole sussurrate senza sentimento quelle uccidono nel tempo.
Un lento scavare nell'anima, nella carne, negli intrecci di nervi, premendo dappertutto, un vibrare di ossa che scuote, gocce di sangue che piovono dagli sfregi. Non si rimargineranno mai, continueranno a piangere... inconsolabili nel loro castello di tristezza che crolla piano piano, pietra dopo pietra.
E Diego ha scelto la via migliore, la più difficile.
Ha scelto di non mentire più, né a se stesso né agli altri. Nemmeno alle rovine di Laira, trionfo di devastazione e sentimenti nudi dinanzi a lui. Dinanzi a tutti.
Tutti abbiamo visto, tutti abbiamo sentito, tutti abbiamo assistito a quello che altro non è che un rifiuto. Un rifiuto privo di cattive intenzioni.
Nella tranquillità di questo mercoledì di dicembre, una mattina come tante altre, di scuola, sigarette e interrogazioni, qualcosa si è incrinato... anche in Thalìa.
E io sono così impotente nella mia consapevolezza che prima o poi sarebbe dovuto accadere. Il rendermi conto che a Laira è capitato nel modo peggiore, poiché quello doveva essere un momento — per quanto doloroso sia — intimo, loro, e di loro soltanto. Noi non avevamo il diritto di starli a guardare.
...ad ascoltare. Perché ora so, a malincuore, che ognuno di noi ha la propria melodia a suonare nell'aria, e tutte non possono portare le note della felicità.
Dalle iridi di Diego gronda il suo cuore a nudo, un po' ammaccato, infiorettato di fenditure, un cristallo non più perfetto, ormai. E nelle labbra arricciate vi è disegnato il dispiacere più profondo. Un chiaro affiorare di quel ricordo opaco, un po' distante... di quando lui si è dichiarato a Thalìa, quando ha scelto di mettere in gioco la fragilità di quel vetro incuneato nella gabbia toracica.
Abbraccia la sua nuova identità di carnefice, esitante, e vorrebbe urlare che non l'ha mai voluto, che non ha mai chiesto nulla del genere.
Uno spiffero delicato di vento soffia sulle nostre orecchie come un tenue sussurro, rabbuffando capelli e stoffe dei giacchetti, consumando l'estremità di sigarette appena accese e facendo cantare le fronde degli alberi, foglie secche e pronte ad andarsene.
Nessuno di loro osa muoversi, nemmeno il più flebile guizzo. Le uniche cose che sembrano avere vita propria sono le gemme umide che rigano i morbidi zigomi di Laira e quegli occhi affranti di una Thalìa che a stento riesco a riconoscere.
Nessuno azzarda un movimento — ed è per questo che i migliori amici esistono, restando accanto a noi come nobili angeli di salvezza.
Le dita di Roona avviticchiano dolcemente la mano di Thalìa, come tralci di pianta gentile, docile, e l'attira verso di sé, volontà di portarla via, insieme a lei, lontano da quello spettacolo di cui Thalìa stessa, prima di Diego, era stata l'artefice. Di cui solo adesso si sta accorgendo quanto deve averlo fatto soffrire... senza volerlo.
Perché anche se non lo vogliamo, anche se siamo le persone che hanno la bontà più eterea, feriamo, facciamo del male involontariamente. Una parola, un gesto, un balenìo degli occhi.
E causiamo dolore.
Estirpando emozioni dal profondo — con violenta casualità —, e non sapendo come controllarle... allora le sbricioliamo.
La pelle un po' più scura di quella dell'amica crea una deliziosa armonia mentre si allontanano, avvicinandosi agli archi del Caravaggio. Una dolcezza che dedica solo e soltanto a lei, in questo istante di bisogno. Una supplica muta, tacita, incastrata in quegli occhi brillanti, luccicanti di lacrime represse con ogni forza. ...anche se una le è sfuggita, anche se una è scappata via da lei.
E per Laira non c'è.
Non c'è niente di tutto questo, nessuna Roona che va da lei, accostandosi piano, nessuna Roona che la prende per mano, di tocco gentile, nessuna Roona che la salva da se stessa.
C'è solo Laira, insieme a sé.
Solo le sue iridi arrossate, gonfie di pianto che sembra non conoscere fine, solo quel maglione slabbrato che contiene la sua effigie così minuscola e quelle aspettative ormai massacrate, solo quello zaino decorato di scritte indelebili, allegri scarabocchi e rappezzi cuciti con dita leggere, solo quelle labbra alla Natalie Portman deturpate dall'arcata dei denti... solo Laira.
...E quella margherita invisibile, con quei petali caduti, strappati via, dove soltanto uno si staglia in quella corolla di solitudine...
Un silenzioso, compassionevole "non m'ama".
E siccome è solo Laira, Laira — da perfetta amica di se stessa — sceglie di scappare.
Sceglie di mettere in moto le gambe, un cigolio di ginocchia che straccia quel silenzio irreale — assieme alla sua melodia addolorata, colma di tristizia —, sceglie di fuggire come un piccolo coniglietto impaurito, di fuggire da un qualcosa più grande di lei.
L'amore, il desiderare con disperazione qualcuno a tal punto da mettersi in bilico in un crepaccio di ombre e cuspidi affilate, in equilibrio, con una sola gamba, sopra la follia, una meravigliosa insania... cucita addosso quella potenza, quella dominanza degna di un vero dio. Sensazione di essere invincibile, vigore di ferro.
A Laira, forse, sarebbe piaciuto essere soprannominata come una divinità dell'Olimpo... a differenza mia, che in un modo o nell'altro, ho sempre disprezzato.
Oh, Laira...
...adesso ti sembra tutto più grande di te, non è vero?
E lei... lei non è la sola ad aver bisogno di un amico.
No, anche Diego ha quella disperata necessità.
Marta decide di restare al fianco di Diego, io decido di restare al fianco di Laira... di colei che c'è sempre stata per me, a sostenere le fondamenta di quella bizzarra amicizia nata per caso.
Ci si rifugia negli angoli nascosti, in solitudine, per ascoltare meglio il proprio dolore. Il cuore che lentamente si sgretola. Dove il mondo si allontana dalle proprie orecchie per brevi, flebili, istanti.
Abbracciati da un silenzio irreale, singolare, braccia astratte che avvolgono senza indiscrezione, un'aggraziata accortezza che non troveremmo in nessun'altro... non abbiamo bisogno di nessun'altro.
Accogliendo dentro noi stessi un'emozione sconosciuta, arcana, ignota come due occhi d'ossidiana. Vogliamo solo stare da soli, da soli con ciò che si agita al di là delle pupille, al sicuro da sguardi curiosi.
Ed è un qualcosa che io so bene.
È un po' la stessa cosa che accadde quando ho incontrato Ludovico per la prima volta, fra le pareti del bagno delle ragazze, lui che si sporgeva oltre la porta per cercare sua sorella, io con le guance striate di pianto e il desiderio estremo di rimanere sola. Un egoismo antico e remoto che percorreva ogni lambello di pelle, tanto mi faceva vibrare le membra.
L'egoismo di non volere nessuno vicino, di anelare quell'emarginazione da ogni cosa e ogni persona.
Perché ci si sente dannatamente fragili a mostrare i propri lividi, ferite sanguinanti, agli altri, ecchimosi che incarnano le costellazioni del cielo, ma che di poetico hanno ben poco nel loro trionfo di viola e pervinca, patine di polvere e ghirigori di orme di zanne.
Morsi, morsi, e morsi.
«...Laira». Dalle labbra si modella un suono stremato, che segue il ritmo celere e scandito del respiro che fluisce nei polmoni.
Ho corso per raggiungere Laira, con le fibbie dello zaino a gravare sulle spalle e il peso dei libri cucito alla schiena, ignorando l'improvviso calore che si è irradiato come filamenti di ragnatela sotto gli strati di stoffa e di lana.
La mia testa è divenuta un'aureola di ciuffi caotici, un gioco di sfumature rosee che danzano sugli zigomi, sfiorando la sommità del naso, il piccolo cerchietto sulla narice, e gli orli delle mie labbra costellate di crepe, pelle screpolata e rovinata dal freddo. E un rossore familiare appena sbocciato sulle gote quasi mi fa sorridere... quasi mi fa sentire felice, a dispetto di ogni cosa.
A dispetto del vedere Laira rannicchiata su se stessa, una gabbia umana di braccia e di gambe, nascosta fra le fronde ghiacciate di un groviglio di arbusti e uno stuolo di fogliame appassito.
Ritagliandosi un angolino tutto suo vicino al campo da basket, deserto e quieto, dove la rete sciupata dalle intemperie volteggia pizzicata dal vento. Lo stesso che si è infilato al di sotto del mio giacchetto e degli intrecci del maglioncino, lo stesso che sta decorando la pelle attorno all'ombelico di riccioli di brividi.
«Laira» la richiamo una seconda volta con una certezza di piombo su ogni lettera, e con la punta dei polpastrelli aggiusto l'estremità di quella frangetta ribelle, incollata alla fronte.
Mi scosto i capelli liberandoli dietro le orecchie, oltre le spalle, il tintinnio delicato dei miei cerchietti appesi ai lobi echeggia armonioso.
E lei è lì, rimane lì, per terra, con il volto chino, le spalle ricurve, e quei ciuffetti così corti a vezzeggiarle gli spigoli delle guance. Le gambe intrecciate e le dita ad avvolgere steli d'erba con violenza stremante, strappandoli, gesti che stridono con quel suo aspetto di bambina.
Se ne frega, della terra che le macchia l'incarnato delle falangi... se ne frega, dei minuscoli sfregi che affiorano sulla sua carne per aver tirato via con troppo impeto, lo stesso con cui le è stato spezzato il cuore... se ne frega, degli occhiali che le scivolano sull'orlo del naso per colpa delle lacrime.
...se ne frega di essere Laira, per un attimo.
«Laira, se non la smetti ti farai male sul serio. ...guarda, ti sta uscendo il sangue, non vedi?» mormoro con infinita dolcezza, e un cenno di preoccupazione a orpellarne il suono, i miei occhi che indugiano sul rossore di quei piccoli taglietti.
«Non importa. Non m'importa. Ha importanza, secondo te?» dice con un tremito nella voce, un'incrinatura alla fine, che le spezza la parola fra i denti.
E Laira continua a strappare, persistente, virulenta, un'anima in tempesta che non ha la più lieve intenzione a placarsi. «...che importa se io sento dolore... non importa a nessuno».
«A me sì. A me importa se tu senti dolore».
Piego lo ginocchia, chinandomi verso il terreno, umido e fresco sotto i palmi delle mie mani, dita che si aprono come la corolla di un fiore. Incueando i miei occhi ai suoi, o almeno ci provo dal momento che lei sta in tutti modi cercando di ottenere il contrario.
«Lo so, fa male. È dura respirare, a volte. Vorremmo solo chiudere gli occhi, esprimendo il desiderio di non svegliarci più» recito con delicatezza, quel briciolo di tenerezza cui non v'è esagerazione, che carezza e allieta piano, senza fretta, con pazienza.
Con il cristallo va adoperata la più estrema della docilità, soprattutto se ha appena realizzato che, prima o poi, si sarebbe rotto anche lui.
Perché niente è indistruttibile, ogni cosa, qualsiasi cosa ha la sua fragilità... chi più recondita, remota agli occhi degli altri, chi più tangibile, reale. Nemmeno la pietra che s'incastona inesorabile nelle iridi di ognuno.
...nemmeno lei è incrollabile. Resistente e insormontabile, sì... ma non incrollabile.
E il cristallo non lo sa, lui pensa di essere speciale, pensa di non meritarsi crudeltà e brutalità. Nel suo quieto esistere, nella sua assoluta eleganza, crede che nessuno oserà volere per lui la più piccola delle incrinature...
I cuori non lo sanno — hanno l'animo disobbediente e ribelle, sognatore, visionario, galoppante come un cavallo selvaggio. Non ascoltano la testa, pensieri razionali e monotona ragione.
«Io voglio solo stare da sola, ecco il mio desiderio. Anzi... credo proprio che oggi non entrerò in classe, me ne voglio andare a casa» pigola Laira, sottile, inglobando ossigeno con un gesto secco.
Un sospiro gronda dalle mie labbra, lungo e disilluso; ora Laira ha smesso di strappare quegli steli verdi, i taglietti devono aver iniziato a bruciare. Il dolore ferma anche gli animi più irrequieti.
Restando avvinghiata a quel silenzio voluto — che rasenta il peso gravoso di un fardello, dove nemmeno il vento più feroce e il gelo più ostile avrebbe potuto spazzarlo via —, abbasso la spalla per far cascare la fibbia dello zaino. Slaccio la cerniera della tasca più in basso, dove spesso conservo accendino, un pacchetto di sigarette e lo spuntino per l'intervallo.
Dove stavolta conservo un bicchiere di Estathé, che decido di offrire a lei.
Sporgo verso di Laira la mano e quell'offerta tacita — oltre le mie pupille si rovesciano petali di ricordi e ritorna a galla il momento in cui lei ha fatto lo stesso con me, donandomi la sua seconda merendina.
«Per te» pronuncio morbida, senza vacillare sotto la sua occhiata diffidente, simile a mille spilli pungenti. Ma adesso mi sta guardando, finalmente.
«Non è necessario che tu faccia lo stesso che io ho fatto con te. Io non ti ho chiesto niente» ribadisce incarnando le fattezze di un animale ferito, un uccelletto con l'ala spezzata.
«Nemmeno io ti avevo chiesto niente, quella volta» insisto senza cedere, il braccio ancora teso, l'Estathé a pochi centimetri dal suo viso. «Ma... mi hai sollevato il morale in una maniera esemplare. Tu, soltanto tu. Coraggio, Laira! Bevi».
E i lineamenti di Laira si rilassano in uno sberleffo di rassegnazione, con la sommità dell'indice si sistema la montatura rotonda degli occhiali prima di afferrare — accettare — quel dono di pace.
Le dita avviticchiano l'involucro di plastica e con urgenza, quasi avidità, va a bucare con la cannuccia per poi bere, assaporando ogni stilla di tè. Il velo delle palpebre abbassato, increspato come a voler reprimere qualcosa di scomodo, che non vorrebbe albergasse dentro di sé.
«Che siano maledetti i ragazzi» dichiara allontanando gli orli delle labbra dalla cannuccia, ansimando, «giuro che non prenderò mai più una cotta per nessuno nella mia vita, mai più», il petto che si alza e si abbassa con irregolarità, l'accettazione che quello che più temeva è accaduto e lei ne sta prendendo atto soltanto adesso.
Poiché sta affiorando l'odio, una nota di rancore che prima non c'era.
La fronte di Laira si arriccia, e crespe tenui si disegnano contraendone la pelle.
«...e ora detesterò Thalìa fino alla fine dei miei giorni».
Le sue dita vengono percorse da un guizzo e si chiudono a scatto attorno al bicchiere di tè, accartocciando la plastica sotto quella presa virulenta e colma d'astio. Un fascio di nervi a rattrappirsi oltre quel pallido incarnato, parvenza di porcellana. Un susseguirsi di tremiti ai polsi cerca di nascondere, un tremolio troppo apodittico per una come me che — per un tempo infinito — non ha fatto altro che stare attenta ai dettagli, minuziosi come le calorie celate in ogni genere di alimento.
...A me non sfugge più niente, ormai.
Una caligine di silenzio — un'altra ancora — ci riveste con aberrante spontaneità, come il cielo stesso ad attecchire sulle nostre teste, dandoci l'illusione di volteggiare insieme alle nuvole. Parole morte in gola.
Come diceva Mia Wallace... questo non è un silenzio che mette a disagio.
Laira, per me, è davvero un qualcuno di speciale... e tenere chiusa questa cazzo di bocca per condividere il silenzio in santa pace, adesso, è un qualcosa di naturale.
Le persone che hanno visto il peggio degli altri sanno quanto siano preziose le parole, quelle crepe di vuoto tra un'emozione e l'altra. Un limbo dove si rimane sospesi, a fluttuare in onde invisibili, mare eterno e dai riverberi perlati.
Ma quel limbo di requie artefatta si spacca d'improvviso, sgretolandosi in lamine sottili attraverso la foschia delle mie ciglia... il terreno sotto le mie scarpe sembra sfaldarsi per poi inghiottirmi quando Laira serra le palpebre, incuneando il viso sulla forma del suo braccio, dove un pianto inconsolabile va a schiantarsi contro il tessuto del giacchetto sbottonato.
Un lamento così doloroso che mi fodera le orecchie, pungendo e pungendo. Tanto da provocarmi fitte al cuore.
Un abisso profondo, identico al suo, si allarga sul mio petto... nero... buio... che sanguina.
«...M-Matilde...».
Un suono spezzato gocciola dalla sua bocca, smorzato in quel suo rifugio che di salvezza non ha niente... e che instilla in me un moto d'intensa tenerezza. Che mi fa piegare gli angoli delle labbra in quello che pare uno sberleffo per niente amabile, intriso di pena.
"Laira... vorrei fare qualcosa per te, qualsiasi cosa... ma la verità è che non posso fare niente. ...a volte non si può proprio fare niente...".
«...se avessi la pelle più scura, gli occhi meno da bambina... le labbra più carnose... e un covo di dreadlocks a cascare oltre le spalle... potrei mai piacere a Diego? Potrei piacere a Diego in quel modo, Mati?».
Ed è quel Mati che mi arriva dritto al cuore, attraversando barriere e confini che nemmeno sapevo di avere, issati di volontà propria, come quelle pietre che scavano negli occhi voragini che non vorremmo... ma che posseggono del vitale...
Giunge in quel groviglio di carne nuda, svestito di ogni certezza e di ogni difesa, pizzicando con petulanza, senza cautela alcuna.
Una sbavatura che non sarebbe andata via con semplicità.
Mati. Una supplica errante. Svuotata di tutto, come chi l'ha appena pronunciata.
La punta delle mie dita collidono con la morbidezza degli zigomi di Laira, appena spigolosi, levigati, e azzardo la leggerezza di un carezza, scostando un ciuffo sbarazzino dietro l'orecchio. Poi le sistemo la montatura degli occhiali, appena un po' di ordine in quelle macerie disastrose. E le faccio vedere che io non sono annichilita, che io sono forte abbastanza anche per lei.
Che può permettersi di cadere ogni volta che vuole, perché al mondo non ci sono regole, perché ogni volta che si cade, prima o poi, ci si rialza. Lentamente, senza far rumore, poiché il rumore dei cocci rotti non tutti tengono a farlo udire a chissà chi.
...poiché è un rumore intimo, che vogliamo ascoltare con precisione soltanto noi stessi, e basta. Sentire dove abbiamo sbagliato per evitare di ripetere lo stesso errore in futuro.
«Detesto anche loro» pigola Laira tirando su con il naso, le mie dita che indugiano sulle asticelle delle lenti, «vorrei vedere senza aver bisogno per forza di questi stupidi occhiali! Vorrei essere diversa da così... vorrei non essere io... vorrei essere all'altezza di Diego».
«Laira!». Alzo la voce, non riuscendo più a trattenermi e la ragazza sussulta colta da uno spavento. «Diego non vuole nessuno che sia alla sua altezza. Diego vuole solo che le persone siano loro stesse, fino alla fine, ed è stato proprio quello ad averlo conquistato di Thalìa. Il suo accettarsi e sorridere nonostante tutto».
Mi innalzo in piedi, le caviglie appena doloranti, che cigolano sotto il peso del mio corpo, e le ginocchia che scricchiolano poiché rimaste in una posizione troppo scomoda. Percepisco i muscoli che si distendono in uno schiocco sordo, e la pelle si arriccia in un cumulo di brividi.
«Tu lo sapevi?» domanda. E intuisco senza che lei debba aggiungere dell'altro.
Mi ritrovo ad annuire lieve, senza esitare, la verità che scivola dinanzi ai nostri occhi.
«Ma non spettava a me dirtelo, nonostante ti abbia suggerito diverse volte di lasciar perdere» aggiungo sapendo che quella è la cosa giusta da dire.
Laira digrigna i denti, uno stridio fastidioso a graffiare i timpani. E in un battito di ciglia mi ritrovo il suo dito indice, teso, puntato contro di me, critico.
«Lasciar perdere... come se avessi potuto! Ma tu lo hai fatto molto bene... con Viola... perfino con Claudio!» esclama con un ghigno di superbia, «Sai cosa? La vicinanza di Apollo ti sta facendo rammollire! Apollo sta facendo rammollire l'Atena che conoscevo!».
Rammollire...
Quanta mal interpretazione riveste questo vocabolo.
E anziché sentire quell'ira antica a inerpicarsi fra le ossa, familiare, ombra oscura, sento un guizzo d'allegria. Che distende le pieghe delle labbra in un sorriso.
«La vicinanza con Apollo» modello con lentezza, senza smettere di sorridere, senza smettere di osservare Laira dall'alto, «mi sta facendo accettare cose che prima sembravano impossibili. Il perdono, il saper perdonare io credevo fosse roba da deboli, senza un briciolo di amor proprio... e invece... saper perdonare è un qualcosa per i cuori coraggiosi. E il rancore consuma, Laira, richiede troppa fatica. Prendi esempio, per me questo è il mio ultimo anno al Caravaggio. Mentre a te ne aspettano altri due. Ragiona».
«...almeno tu l'hai trovato il tuo Apollo...». Un mormorio indefinito, tremolante abbandona la sommità della sua bocca.
«Sappi che Diego si rifiuta categoricamente di associarsi a queste etichette, però ricordati che lui è più Ares che Apollo. E poi... hai ancora sedici anni, Laira... ti sembrerà scontato ciò che sto per dirti ma... sai quanti Apollo incontrerai nella tua vita? ...troppi, per l'esattezza».
«Io non ho detto che ho bisogno di un ragazzo. Mi sento completa anche senza fidanzato... però Diego mi piace davvero, lui mi piace tanto...» sospira gettando il capo all'indietro, le lacrime finalmente appassite sulle guance e le iridi rivestite dalle palpebre, «e io non sono Thalìa».
«Esatto, non sei Thalìa Obi Malek, sei Laira Visparelli. Una delle ragazze più furbe e carine che conosca. Ora avrai il cuore un po' ammaccato, esattamente come Diego, perché anche lui ce l'ha, anche lui è stato rifiutato allo stesso modo. Ma Diego non si è arreso, è caduto e si è rialzato. C'è sempre vita dopo un amore non corrisposto. I pezzi rotti stanno in piedi anche da soli, Laira. E tu ce la fai, so che ce la fai».
Laira mi osserva con scrupolo per qualche secondo, istanti che durano un'eternità. Ma poi si decide.
Preme i palmi contro gli steli d'erba umidi, fa leva con i polsi e finalmente si alza, mettendosi in piedi.
E me ne rendo conto.
Mi rendo conto che di pezzi rotti che stanno in piedi da soli, al mondo, ce ne sono tantissimi.
...si sanno nascondere bene. Anche io ero brava.
È un po' che io e lei — la mia persona preferita — non stiamo insieme da sole. Anche in un momento così semplice come quello dell'intervallo. Orlate di nubi di pensieri, parole sussurrate con il semplice osservarsi, sigarette a metà, labbra disegnate di sorrisi e uno sbaffo di spensieratezza proprio all'angolo, spigolo increspato.
Giovane avventatezza in punta di dita, che stringono melodie custodite dentro la memoria di un cellulare e fili di un paio di cuffie. Una tenera innocenza a prillare dalla bordura delle nostre maniche stracciate, quell'animo da eterne bambine che mai andrà via... deciso a rimanere impresso a fior di pelle.
Quest'anno abbiamo la maturità, io e Marta, e tanti altri studenti di quinto anno... come noi.
La linea invisibile che conduce nel vortice di un'età adulta apparentemente lontana, eppure... eppure sembra ieri.
...sembra ieri che abbiamo iniziato a studiare qui, fra i banchi sbeccati del Caravaggio, volando in un turbinio di esperienze acri e dolci, dolci e acri — limone e cioccolato.
Chi è mai pronto a diventare grande?
Diego... tu sei pronto? Con il tuo cuore selvaggio e ribelle, sempre predisposto alla rivoluzione, mai che ti tiri indietro, tu che non accetti mai le ingiustizie, e che in sella alla tua moto conquisteresti il mondo.
Marco... invece tu? Tu lo sei? Con quell'animo costantemente leggero, un pugno di piume al vento e una trasparenza che lascia intravedere qualsiasi emozione a rovesciarsi dentro di te. Calma apparente, mare baciato dal sole, ma c'è ben altro in te... perché trattiene immobili le tue onde? Tra non molto saremo grandi, Marco. Dovresti urlare al mondo intero tutto quello che vuoi, finché sei in tempo.
...E tu... tu, Ludovico? Che affronti la vita a pugni stretti, muscoli contratti e sopracciglia incurvate, a te che non ti hanno mai permesso di conoscere dolcezza e affetto, che ti hanno convinto che per risolverli i problemi vanno spaccati con cazzotti e parole pronunciate fra denti stretti. Perché bisogna sempre mostrarsi forti, mai deboli.
Sbaglio, Ludovico?
Chi l'avrebbe mai detto che proprio voi tre, così diversi, con occhi talmente intrisi di sentimenti contrastanti, sareste diventati così amici?
E li osserviamo, io e Marta. Nell'intermezzo di un sorriso e l'altro.
Osserviamo Diego seduto su un gradino delle scale anti-incendio, attraverso i nugoli di fumo che lasciano le nostre bocche, da lontano. Scorgiamo Marco, Ludovico e Yousef che, in un modo tutto loro, s'impegnano a sollevare l'umore a Diego.
Essere rifiutati fa male, ma rifiutare a nostra volta uccide... per quanto non abbiamo potuto fare altrimenti, è un qualcosa che taglia in profondità e con impeto.
«Hai notato che ultimamente accadono solo cose tristi?» chiosa Marta con voce lieve, passando le dita attraverso i suoi ciuffi argentei, un lento sgrovigliare di minuscoli intrecci, l'estremità della ciocca dolcemente attorcigliata intorno all'indice con movenza involontaria.
Distoglie lo sguardo da Diego, risalendo fino alle mie pupille, quiete e fosche, dove un cumulo di ombre resta intrappolato fra il vetro dell'iride e l'aggraziato incurvarsi delle ciglia.
«Accadono cose tristi per farci assaporare meglio i momenti come questi. Di pace. Non la senti anche tu questa sensazione?».
Lo scrimolo delle mie labbra si arriccia appena, chiudo gli occhi e in un istante un regno di buio si staglia dinanzi a me, dove un flutto di quiete mi bagna la pelle. «Bisogna stare bene, prima o poi» aggiungo.
E quando sollevo le palpebre Marta è sempre lì, con un turbinio di farfalle nello sguardo e i capelli a cascarle vicino alla bordura del naso, spaccandole il viso a metà. La schiena modellata contro la cancellata un po' consumata, spruzzata di ruggine, i jeans che premono sullo spigolo del muretto.
«...non quando ci attende un'altra ora intera con Ferraresi. Ascoltare il Papa è più divertente» celia lei roteando gli occhi in un'espressione colma d'ironia... quell'ironia che decora Marta da sempre. Mi è mancata. Come ogni suo piccolo dettaglio.
«A proposito di cose divertenti...», una curiosità sbucata dal nulla arranca fra le pareti della gola, risalendo celere, e la fronte tremula, un fibrillio di stravaganza che sta per incontrare fili di luce.
E c'è malizia, in ogni mia parola. Un diletto senza dolore — avrebbe pronunciato Dante facendo riferimento a Epicuro. L'orlo del labbro inferiore di Marta viene colto da un guizzo, delicato, ma gli occhi... gli occhi indugiano su di me strenui, immobili.
Una collisione arroventata dettata dalla consapevolezza di quello che sto per modellare... Tuttavia, una scintilla di estasi brilla nel mio occhieggiare, incontrollabile.
«Alberto ha detto a Leonardo di chiedermi di dargli il tuo numero ieri», schiocco la lingua contro il palato in un rumore secco, preciso. «Che cosa avete combinato? Abbi la grazia di illuminare la tua migliore amica».
Per dare una chiusura teatrale a quella frase, accosto la Winston all'altezza delle labbra — strette come il bocciolo di un fiore che conosce per la prima volta filamenti di sole — e ne aspiro con intensità.
In un istante, alacre battito di ciglia, respiro che si spezza come lo stelo di una rosa, i nervi di Marta s'irrigidiscono, un affastellamento di gelo e immobile soffio di vento. Ogni cosa di lei si ferma, un reprimere voluto di emozioni e movimenti... tranne i capelli, una ciocca bloccata dietro l'orlatura dell'orecchio, tempestato di cerchietti e perline dalla forma piccina.
E forse il muto desiderio che il suolo si infranga in una voragine sotto di lei, abbastanza grande da inghiottirla per intero.
Cordicelle argentate sfiorano i suoi lineamenti distesi in una calma apparente, artefatta, disegnando giochi di ombre sulle guance, sul profilo dritto del naso, sulle ciglia tremolanti e sul vibrare convulso laddove, poco fa, vi albergava un sorriso gentile.
Non arrossisce, Marta. Non coltiva petali vermigli, in quegli zigomi levigati. Ma bocci dai riverberi malva, pallidi, esangui.
Un apatico pulsare scarlatto s'intravede al fior della sua bocca, piena, svestita di rossetto e cerea — pallore anemico. Come granuli di neve a riposare su uno stuolo di roseti.
Di sangue e di latte.
Scaglie di cinabro conficcate nelle vene.
«...non... è successo nulla di che». Un lugubre proferire attraversa i denti di Marta in un sibilo di ghiaccio, crudo come lo stridere delle unghie su una parete, incolore come la sfumatura della sua stessa pelle.
«Uhm... non credo che Alberto Del Bianco abbia scomodato me e Leonardo soltanto per far succedere nulla di che» pronuncio con insopportabile ostinazione, quella petulanza che istiga le peggiori ipotesi di tortura, sollevando le sopracciglia con movenza voluttuosa. «Io credo che...», e mi accosto a lei lentamente, piano piano, senza smettere di guardarla dritto nelle pupille, allargate di terrore, «...tu e Alberto...», l'ultimo tiro di sigaretta, il più amaro, quello che uccide i brividi, «...qualcosa abbiate fatto eccome».
«No». Crepuscolo di notte, tundra d'inverno. «E non spettava a te dare a lui il mio numero».
E tu, Marta? Tu sei pronta per diventare grande? È così meraviglioso rimanere immaturi... un po' bambini.
«Leo ha detto che era parecchio sconvolto» recito senza cedere un solo attimo, rimembrando alla perfezione la supplica di Leonardo di cedergli quel tanto agognato numero di telefono. La sigaretta ormai finita. Spenta. «Lui ha... finalmente sciolto il ghiaccio che è in te, eh? Dimmi la verità. Fra noi non devono esserci segreti».
Le iridi di Marta, verde vivo, alberi rigogliosi di foreste sconfinate, guizzano dall'altra parte, distanti dalle mie, come punte di vergogna. Offuscate da una patina di esitazione, una delicata discrezione.
«Lui...» un flebile sussurrio gocciola all'infuori come acqua lenta che cade.
«...lui?» insisto.
«Lui ha...».
«...lui ha...?». Inclino il capo percettibilmente, quel tanto che basta a far ricadere i ciuffi di lato, a carezzare la spalla. Tra poco trilla la campanella di fine intervallo e Marta è ancora qui a bisbigliare parole insensate.
«Lui... ha... fatto... qualcosa», e lei serra le palpebre, minuscole rughe costellano gli scrimoli dei suoi occhi dove hanno appena accolto il buio, il suo petto che si riempie di ossigeno e audacia, «...a me».
Esito qualche secondo restando in silenzio.
«Davvero...?» chiedo sollevando un sopracciglio, anche se non attendevo risposta differente.
«Io... devo... devo uccidere questi brividi. Me li sento dappertutto quando parlo di lui, quando penso a lui! Me li sento addosso come una malattia!».
Marta ruota il collo, rivestito di un foulard dalle tinte vintage, quei muscoli che riesco a scorgere guizzano sotto la pelle, e i capelli che soccombono a un caos voluto, premendo le punte delle unghie contro la stoffa della maglia, quasi a voler graffiare ciò che le sta mordendo l'incarnato con ferocia. A sopprimere quello che di Alberto si è sedimentato in lei... e non come una malattia, ma come una fiamma lenta, che ustiona.
Gli smeraldi di Marta sembrano urlare una cosa sola: uccidi i brividi.
Perché lei, dei brividi, non ne riconosce più il sapore, il tatto, il profumo. E ora le fanno male.
Ora malattia, infezione, lei li ha sempre visti così. Non più come una cura, e spensieratezza.
Le prendo i polsi esili tra le dita, trattenendoli delicata, me li sento vibrare come corde d'arco sotto le mani.
«Io una cura ce l'avrei, a questa malattia» mormoro delineando un sorriso solo.
«E cioè?» balbetta appena.
«...cioè che devi ricambiare il favore. A lui. Ecco il rimedio alla tua malattia» chiudo il discorso con un buffetto all'altezza della sua guanciotta ora non più tanto livida, indugiando su quel velo di stoffa legato attorno alla gola, «e puoi anche toglierti questo foulard. Non hanno mai ucciso nessuno per dei succhiotti».
«Ti prego!» esclama Marta punta a carne viva, sfilando via le mani dal mio intrico, «Sono davvero indecenti! Non li ho mai sopportati i succhiotti, né prima, né adesso».
«Eppure ce li hai», rigiro il coltello nella piaga. «E pure Alberto».
«Non eravamo in noi quando ce li siamo fatti, smettila, Matilde» sibila trattenendosi dal mettersi a stropicciare la maglietta come prima.
«Smettila tu, Marta... tanto ormai hai capito che quello che vuoi è lontano anni luce da quello che ti saresti mai aspettata. Non ha più senso mentire, e tieniteli stretti i tuoi brividi. Augura loro lunga vita, non una morte violenta». Sollevo le pupille verso il cielo.
«...lo so» sussurra Marta, il viso chino e le dita intrecciate, modellate contro la pancia, «ripeti spesso che sono rari. E i miei più ho provato a ucciderli, più sono sbocciati nello stesso modo dei calicanti... insieme al freddo, danzando con l'inverno».
«Tu ami i calicanti» realizzo soffice, annodando le braccia al petto.
«Già... io li amo...» ripete lei assieme ad un sospiro, un microscopico ricciolo di sorriso che si apre all'angolo delle labbra. «È un fiore splendido, non trovi?».
«È il fiore che risplende in mezzo alla neve, un po' come te. E infatti risplenderai con l'intensità di mille soli quando andremo a Livigno per Natale da mia nonna. Lassù ha già nevicato».
«Ehm... Matilde?». Sento che la sua voce subisce un cambiamento repentino di suono... più rammaricato e di scuse. «Io non... non potrò venire a Livigno con te. Mi scuso enormemente con Fauste ma... vedi, mia sorella ritorna da Parigi proprio quella settimana e mia mamma mi ha implorato di restare. Le manca passare un po' di tempo insieme con la famiglia, soprattutto per una ricorrenza come il Natale...».
«Non sapevo che Emma tornasse a Firenze, è una cosa molto bella. Non preoccuparti... m'inventerò qualcosa con la nonna. Lei sarebbe capace di fare i bagagli e venire a casa nostra anche adesso pur di stare con me» pronuncio senza alcuna orma di astio.
«Mati, Mati, Mati... più che inventarti qualcosa per tua nonna, dovresti inventare qualcosa per domani, invece. Domani c'è l'Assemblea, e dobbiamo tenere a bada un intero istituto. I Sex Pistols dovevano cantare "God save the school representatives" e non "God save the queen"».
Il tempo scorre attorno a noi in soffici cigolii metallici, a volte, come lo scoccare delicato di una lancetta in un orologio piccino dall'effigie dorata e infiorettature fini. In altri casi, è un rintocco lento, pesante, che pare trascinarsi dietro istanti infiniti, epoche intere — una grande corolla dal vetro opaco e giganti numeri allineati a formare un cerchio perfetto.
Il tempo dà l'impressione di avere regole tutte sue, estranee a semplici occhi umani. E sorride quando, di colpo, si trasforma, mutando il ritmo, da alacre e incalzante a fiacco e dolente. Da repentino e celere a rilassato e intorpidito nelle movenze.
Sembra che sia passato veloce... lesto... dall'ultima Assemblea d'Istituto.
Quando ancora un odio profondo e tagliente era incuneato fra me e Leonardo, dividendoci di ancestrale disamore e occhiate logore come velluto rovinato, un aleggiare silenzioso nei nostri petti, senza sfiorarci. Una malevolenza così vicina... eppure dannatamente distante.
Perché il più violento dei desideri, il più proibito, assume le vesti di qualcosa di sbagliato... filamenti di livore e nastri di presunzione a stringere attorno alla gola, al petto, alla vita...
E la sete di baci si trasfigura in sguardi pungenti, viperei, la brama di dita sulla pelle si muta in denti stretti, dove proliferano parole mordaci, la voglia di quella persona diviene dolore incastrato fra le ossa, marchi impressi a fuoco sulla pelle.
E fu guerra, di torti, di offese, e sfregi intangibili. Tutto pur di rimanere vicini, di stare vicini.
L'accettare di non toccarsi, mai, disposti a sopportare quelle lame appuntite ogni volta... sanguinando al buio, leccando le proprie ferite in un angolo remoto della nostra mente, fuori dal mondo.
Per poi ricominciare. Da capo. Ininterrottamente.
Sembra che sia stata ieri la prima Assemblea, dove Classico e Artistico sono entrati in collisione a cielo aperto.
...eppure, dinanzi alle mie iridi, dove ciglia nere si sollevano leggere, si stagliano le due fazioni. Rumorose, bocche ridenti, capelli ordinati e ciuffi colorati, e sguardi vivaci, dove vaporose nuvole di serenità spirano di dita in dita, di battiti di ciglia in battiti di cuore, in fogliettini di carta stropicciata e lanciati a qualcuno, mendicando attenzioni nella maniera più dolce e antica possibile.
L'Aula Magna sembra quasi un regno magico, luogo d'incontro di persone diverse con menti diverse... e gli occhi terribilmente uguali — armoniosamente uguali.
Peccato che Gandolfo strida con questa idea di idillio perenne... la sua figura delineata davanti al nostro tavolo di Rappresentanti, ferma e in posa elegante nel suo completo dalle sfumature sempre eccentriche.
«Cari studenti, deliziosi ragazzi» formula attraverso il microfono, e la sua voce echeggia in ogni angolo, soffice e roca, di colpo un silenzio di rispetto piomba nell'aula, «è per me un grande piacere annunciare questa seconda Assemblea d'Istituto, è per me una gioia vedervi tutti qui riuniti, in un clima di pace e di solidarietà. Perché è questo che il Caravaggio offre da sempre, una culla di giovani artisti e futuri luminari, dove un'atmosfera di amicizia veglia su di ognuno».
Il preside muove i polsi in gesti teatrali, e gli occhiali a mezzaluna rafforzano quell'aria di stravaganza che si porta dietro allo stesso modo della sua fedele lente d'ingrandimento. Con adorazione. I baffi rigogliosi tremolano mentre parla.
Ma c'è un guizzo anomalo nei cenni del capo, deducibile se gli si osserva con scrupolo i muscoli del collo e della nuca. Comprensibile.
La professoressa Sefora Villaggi, la degna rivale di Bianca Camonte — la Vipera Centenaria —, è issata in piedi a fianco a lui. Vestita di una sobria camicia dalle maniche a sbuffo e calzoni a sigaretta. Le mani intrecciate premute contro lo stomaco e, ci scommetterei, quel lieve tic all'occhio destro, un susseguirsi di tremiti alla piega della palpebra.
Si è tagliata i capelli, l'insegnante del Classico; non sopporta — non tollera — che i ciuffi le crescano di un sol centimetro. Ma stavolta il suo parrucchiere di fiducia deve aver esagerato con le forbici...
«...vuole dire forse qualcosa, gentile professoressa?».
La domanda di Gandolfo è lapidaria, c'è della titubanza proprio lì, alla fine. Ma l'intenzione della Villaggi è chiara: vuole parlare al microfono. «N-ne... ne è sicura?».
Esita ancora il preside, guardando oltre la docente in cerca di un appoggio morale, quale quello del vice-preside o di Cristinella.
«Sì. Sono calma. Le garantisco che sono tranquillissima. Il mio esaurimento si è placato, il mio terapeuta mi ha consigliato di abolire la caffeina e gli alcolici, e di abbondare con le tisane. Mi ha suggerito di dedicarmi ad attività rilassanti come le passeggiate e la meditazione. Le emicranie e l'insonnia sono quasi sparite, sull'irritabilità ci sto ancora lavorando» spiega la professoressa senza avvicinare la bocca al microfono, decisa. «Devo solo dire due paroline... nulla di più, preside».
Ottavio Gandolfo annuisce, e si può intravedere tutto il suo tentennamento in quel debole assentire.
Sollevo le mani a coppa contro la fronte appena la Villaggi avvolge l'apparecchio con le dita.
«Dolci ragazzi» enuncia con una sfumatura talmente artefatta che raschia contro i timpani. "Dolci ragazzi"... come una lama cosparsa di zucchero... «Avevo piacere a spendere con voi due brevi parole» seguita a parlare, stringendo con forza, mentre con l'altra mano si sistema un ciuffetto di capelli, «in proposito della gita che faremo il prossimo mese. Volevo avvisarvi che sarò uno dei docenti che vi accompagneranno per tutta la durata del viaggio, mi sono offerta volontaria io stessa».
Eppure, io, in quel "mi sono offerta volontaria io stessa" leggo che il suo terapeuta le ha suggerito di proporsi, inchiostro sulle sue pupille rivolte verso l'intero corpo studentesco.Un brusio disordinato sobilla al di sopra di quello stuolo di ragazzi... di preoccupazione e inquietudine palpabile. Nervosismo che gronda dalle bocche di ogni alunno dell'ultimo anno.
E, in tutta sincerità, m'irrigidisco anche io. Perfino Diego, seduto di fianco a me, incunea le unghie contro il metallo della seggiola, e la mandibola che si contrae come fosse disegnata da una matita.
La Sefora Villaggi che viene in gita a Berlino con noi fa attorcigliare emozioni contrastanti assieme agli interni dello stomaco... fa aggrinzire la pelle, un racconto dell'orrore sussurrato al bagliore fioco di una candela immersa nelle ombre.
Leonardo... Leonardo imprime la morbidezza delle falangi contro il viso, foderando gli orli della bocca e la punta rotonda del naso. In cuor suo, sa che non può farci niente.
Ma in tutto quel rollio di parole confuse e vociare incomprensibile, succede il disastro. Veloce quanto lo scoccare delle ciglia.
Uno studente di quinto, pazzo, sicuramente folle nella sua stoltezza, con le mani a coppa firma la condanna di tutti. E addirittura Giulio Viviani realizza la gravità della situazione, con i suoi occhi allargati di terrore.
«Prof., se viene in gita sperando che qualcuno di noi le passi una dose per calmarsi misà che ha fatto male i conti...».
Si odono risate, perlopiù, sberleffi divertiti e sguardi intrisi di sarcasmo. Tuttavia il tremolio della Villaggi incatena del tutto la mia attenzione... ora sì che è pronta a esplodere come una bomba a orologeria.
«Signor Torrini, mi ha forse scambiato per una tossica? E voialtri che avete da ridere, eh? Piccoli stronzetti striscianti! Vi sembro forse un pagliaccio?» sibila la professoressa contro il microfono, trattenendosi dal lanciarglielo direttamente addosso.
«P-Professoressa, la prego...» tenta di intervenire Gandolfo, facendo un cenno rapido al vice-preside Nobilis di avvicinarsi.
«Sta pregando me? Dovrebbe pregare quell'esserino insolente! La maleducazione non deve essere tollerata in questo istituto» rimbecca indignata, «perché non viene qua, signor Torrini, a dirmelo in faccia se ho bisogno di una dose! Venga qua, la aspetto!».
«Nobilis, per cortesia, faccia qualcosa!» strepita il preside disorientato. La Villaggi non sembra disposta a mollare quel microfono tanto facilmente.
«Chiamo la sicurezza, signore?» domanda Nobilis allargando le braccia, confuso quanto lui.
«Siamo a scuola, non abbiamo la sicurezza!».
Scuoto il capo al pensiero che, istanti prima di entrare, avevo sperato che questa Assemblea si sarebbe svolta nel migliore dei modi. Mi sono sbagliata.
E nel contempo che assistiamo alla scena della Villaggi che viene allontanata dal tavolo dei Rappresentanti, mi delizio osservando visi familiari in mezzo a tutto quel caos di giovani.
Viola... c'è Viola che mi sorride... e nonostante quella solitudine forzata, lontana dalle quelle che furono le sue amiche, il suo volto è costellato di ombre ridenti e liete. Un qualcosa di placido alberga in mezzo a quel trionfo di efelidi e in quelle iridi che danno la parvenza essere di vetro. Ora, lei è in pace con se stessa.
Vedo Claudio. Accerchiato da Olivia e Isabella... e nel suo, di volto, è disegnata un'espressione assente, un vuoto incolore che sprofonda in quegli occhi che altro non hanno conosciuto che sguardi pungenti, sinistri. Olivia gli sta parlando, ma lui non ascolta, non pare sentire.
E poi c'è Costanza. La divina Costanza seduta vicino a Diana e a Celeste. È così... diversa quando non c'è Ariadne nei dintorni a punzecchiarla. Sorrido a questo curioso pensiero.
«Bene, ragazzi, io direi di iniziare». Una voce maschile straccia quel disordine di borbottii e applausi sconnessi. Leonardo ha acceso il suo microfono, Apollo ha parlato.
«...cominciamo dalla Manifestazione che si terrà la prossima settimana. Coloro che vogliono partecipare sono esonerati dalle lezioni mattutine, e non verrà considerata come assenza. Ma, badate bene... non è un'occasione che deve essere spesa per cazzeggiare... mi sono spiegato?».
E quando Apollo parla... tutto tace.
Marta.
Una scia di ragazzi sdrucciola attorno a me. Una pigra apatia si trascinano dietro come aquiloni spezzati — dopo quasi due ore di Assemblea la voglia di ritornare in classe è prettamente assente, come la voglia di produrre fino a che la campanella non annuncia la fine di un'altra mattinata scolastica.
Alle orecchie giungono rumori conosciuti, con cui ho familiarità — scricchiolii di ossa e tendini che crepitano dopo essere stati seduti per troppo tempo. Sfarfallii di capelli, parole mormorate al vento e risatine trattenute.
Ogni cosa mi scivola sulla pelle quasi fossero gocce di pioggia, bagnandomi di quotidianità, mentre parlo con Ang Louis, Rappresentante della Consulta come me.
La sua effigie alta e ben eretta si staglia innanzi a me con naturalezza — statua d'avorio — il gomito a premere contro la parete al suo fianco. E quegli occhi dagli scrimoli orientali mi scrutano edaci, attenti, seguendo il pronunciare candido delle mie labbra, schioccare di lingua sull'arcata del palato.
Un lungo intrecciarsi di capelli corvini, riverberi d'ossidiana, cascano con delicatezza oltre la sua spalla, una collisione magnifica con il suo incarnato diafano, complici le sue origini provenienti dall'estrema Cina.
D'un tratto, vedo il suo polso sollevarsi, e due dita — pollice e indice — tese verso i miei zigomi.
«Ang... che fai?» domando d'istinto, le pupille che si allacciano a quei polpastrelli sempre più vicini, andando lentamente a sfocarsi mentre si accostano.
«...c'è... hai una ciglia proprio...» chiosa Ang senza fretta, tono soffice, assottigliando le palpebre, «...qui». E preme sopra la carne, appena vicino allo spigolo dell'occhio. Quando ritrae il dito, una virgola minuscola, scura, esile, spicca su di esso.
Aveva ragione.
«Oh» incurvo le mie labbra in un ghigno sorpreso, sfiorandomi in un gesto involontario la sommità del naso, «non me ero accorta. ...grazie».
Ang Louis solleva gli angoli della bocca all'insù, una piega appagata, a suggerire un anomalo diletto. Perfino in quegli spilli neri, profondi, ornati da fronde scure, brilla qualcosa di prezioso. Un luccichio fuggevole, una stella che solca il velluto della notte.
«Esprimi un desiderio» sussurra solo per farsi udire da me, inclinando il dito verso l'insenatura dove il soffio di un respiro convulso si aggroviglia su se stesso.
«...che cosa stupida» recito dopo un flebile secondo di esitazione.
«Avanti, io lo faccio sempre».
D'improvviso sento la pelle del mio braccio ardere sotto il tocco di qualcuno.
Dita a imprimere solchi profondi, desiderio di arrivare alle ossa, all'anima. Fino al cuore.
E mi strattona, quella presa, ingabbiandomi in uno schianto addosso a lui.
«Con permesso, Ang Louis, devo scambiare due parole con la Rappresentante della Consulta dell'Artistico. È di vitale importanza».
«Fa' pure... Del Bianco. Con comodo» replica Ang increspando la fronte in minuscole pieghe di riluttanza.
«Esprimilo tu un desiderio per lei. Conta comunque, no?» recita Alberto strizzandogli l'occhio.
In uno sbuffo di passi sregolati, scombinati, di un'impazienza che taglia, in un nugolo di parole scomposte e occhiate scoccate come frecce non andate a segno, mi ritrovo nel laboratorio di biologia, dove di consuetudine il Classico svolge esperimenti congiunti alla materia.
Mi ritrovo in questo spazio a luci spente con lui, stretta a lui. Mura nivee ci abbracciano in silenzio, e poster su carta raffiguranti disegni di molecole e dell'anatomia umana osservano ogni nostra movenza.
Uno stuolo di microscopi si delinea con impeccabile ordine sopra banchi dalle sfumature cineree.
Deboli nastri di luce, filtrati dalle tende pendule alle finestre, s'infrangono sull'effigie e sugli spigoli dei nostri visi.
In un lampo, il caos appartenente all'Assemblea di poco fa sembra distante intere ere. Una quiete chimerica spaccata dall'anelare dei nostri respiri ci avviticchia in un vello delicato. Familiare...
Crespe di labbra si modellano contro il mio orecchio, un mormorio voluttuoso... roco... attraversa il manto dei miei capelli in un soffio caldo, rovente.Che dà origine a riccioli di brividi in ogni dove.
...Brividi... brividi... brividi...
Uccidi i brividi...
«Quale sarebbe stato il tuo desiderio...?».
E una mano scivola giù, percorrendo sentieri sulla bordura del mio fianco, zittendo quei brividi disperati, strepitii assordanti.
Un'onda argentea di capelli casca oltre gli occhi, offuscando ogni contorno sicuro.
«Non sono affari tuoi» pigolo in un soffio, aggrappandomi a un brincello di coraggio che arranca con fatica. E mi domando, cheta, se un'affermazione del genere possa mai essere contemplata da Alberto... che d'intensità è germogliato fra le ossa che ingabbiano il cuore — fra crepe piccine — condannato a un'eterna vita da ergastolano.
Alberto affonda il profilo del suo volto fra i miei ciuffi profumati di acero, lavati appena la sera prima... assimilando con energia... quasi volesse plasmare quell'odore delicato nelle pagine ruvide dei suoi pensieri.
«...sai che... durante l'Assemblea, i ragazzini più piccoli del tuo indirizzo non ti staccavano gli occhi di dosso?» pronuncia dilettato, lieve, «...e nemmeno Ang. Lui pendeva dalle tue labbra mentre parlavi. Ti rimirava come fossi una dea».
La sua voce, colta da una sfumatura di gelosia, mi pizzica le guance e mi istiga ad aprire le mani a ventaglio sopra il suo petto, vigoroso e... accogliente.
Quel tocco produce in me l'ennesimo refolo di brividi. Uno sbuffo di ghirigori graziosi, incanto in pillole.
...come le pillole che vorrei ingerire per placare questa sensazione, pillole che dovrebbero uccidere quella parte di me non più di ghiaccio.
Svigorita. Sfiorita. Ingentilita.
«Non so di cosa tu stia parlando», esalo un profondo respiro, schiarendo la voce, allontanandolo dal groviglio che lo allaccia a me, «non mi sono accorta di niente».
Bugia.
Ang mi guardava.
Per troppo tempo e con troppo sentimento.
Certe cose sono impossibili da farsele sfuggire come nebbia fra le dita...
«Normalmente, quando si ricopre un ruolo importante come quello di Rappresentante della Consulta non si possono far caso a dettagli così... ridicoli» oso proferire guardandolo dritto nelle sue pupille di quel blu così etereo.
Dove filigrane di emozioni e i boccoli di chiarore si rincorrono beati. Una liliale collisione che stare ad ammirare per ore.
Lo spigolo del mento di Alberto s'innalza verso l'alto, in un tacito gesto di limpida provocazione, superando l'orlo della mia fronte con facilità. Dominandomi con la sua ombra solenne, eclissi ammaliante.
Mi osserva dall'alto di una percettibile tracotanza.
«Devo ritenermi fortunato?» chiosa lento, facendo attenzione a scegliere le parole giuste, «Ad avere la considerazione di Marta Brunori, la suprema Rappresentante della Consulta del Caravaggio».
«No» dichiaro di decisione, muovendo appena il capo, senza perderlo di uno sguardo, «...devi ringraziare anche per il solo fatto che io ti rivolga la parola».
Alberto si indurisce. Nei nervi, sotto la carne, nelle iridi, nei polsi che fino a pochi istanti fa vibravano di emozioni primordiali.
Nemmeno le pieghe delle ciglia osano guizzare.
Esita, immobile, fossilizzato in se stesso, prima di riversarsi su di me con l'impeto di un'onda... inaspettata, virulenta, fautrice di fremiti di piacere.
E non riesco a trattenere quella frase come ho fatto fino a ieri, fino a prima. Non nel momento in cui mi circonda le cosce con le braccia, un abbraccio di dolce potere, issandomi su e cucendomi addosso a lui, in ogni centimetro.
«...uccidi i brividi... devi ucciderli» mi lascio sfuggire in un sussurrio, attraverso l'arco dei denti, e a occhi chiusi. I miei polsi si muovono meccanici, come avessero percorso altre volte quel sentiero tremendamente conosciuto... si annodano d'incanto attorno alla sua gola. Stringendo, per non lasciarsi cadere.
«Ascoltali i brividi... sanno cosa vuoi ancora prima di te» ringhia sottovoce.
E dentro di me sento come se volesse mettermi in guardia... come se mi stesse dicendo di stare attenta, di avere cautela.
Il rumore dei passi si sgomitola sotto di noi, diramandosi in lontananza in fili di ragnatela. E poco dopo mi ritrovo adagiata sopra la superficie di una cattedra, gelida attraverso la stoffa dei jeans. La presa di Alberto si allenta, e per un secondo credo davvero che mi abbia abbandonata del tutto del suo tocco.
Ma mi sbaglio.
Egli conficca le sue dita sul tessuto, stropicciandolo, e mi allaccia a sé come la più potente delle calamite. Uno scontro di brividi, di stelle, di fuoco, e di neve.
Inclina il volto prima di parlare.
«Grazie che parli con me, Signora dei Sith... ti faccio vedere come te ne sono grato».
E le sue dita, fredde contro il calore della mia pelle, s'inerpicano al di sotto del maglioncino, patetico strato che divide lui da me.
Esse mi sfiorano quasi volessero scandagliarmi come la più rara e la più antica delle mappe... senza fretta... ricami di zelo.
Pungono... e i brividi si beano, ne vogliono sempre di più.
...soprattutto quando si arrestano sul pizzo del reggiseno... sul piccolo filo di ferro che ne percorre la forma, indugiando d'impudenza.
«No, Albi... ti credo sulla parola, ti ringrazio» asserisco, tentando di sottrarmi in maniera lacrimevole... ridicola!
Ridicola perché ciò istiga Alberto a stringermi sempre di più, a volermi sempre di più.
«Eh no, così non vale... così è barare. Soprattutto quando mi chiami in quel modo...», si delizia del mio mancato autocontrollo, depositando un lento mordicchiare proprio sul contorno delle labbra... appena all'angolo... dove un bacio è pronto per essere spedito come una lettera dalle mille parole impresse con inchiostro indelebile.
E nello stesso istante, la porta del laboratorio si apre in un ventaglio di luce accecante.Una figura opaca, ritta, perfettamente in equilibrio si sofferma su di noi.
...Leonardo?
«Okay, ho aspettato anche troppo, ma adesso devi venire via, la Camonte ti vuole interrogare. Mi dispiace per te, Marta» recita con il tono di chi non ammette replica.
«No! Ti prego, portalo via!» esclamo sottraendomi via, tentando di mascherare quel rossore evidente al fior delle gote, «Portalo più lontano che puoi!».
«Hai visto come mi ama?» sentenzia Alberto con un brillio divertito nelle pupille, accettando tuttavia quello spiacevole risvolto inaspettato.
Leonardo si disegna un sorriso beffardo. «Cristallino».
«Io sono il suo lato oscuro, e lei è la Sith più crudele della Galassia» dichiara prima di andare via, lasciandomi avvolta — abbracciata — a quei brividi totalmente insoddisfatti, costellati di lacrime.
Matilde.
Le dita di Leonardo s'intrecciano d'incanto alle mie.
Nodi di emozioni sulle loro punte, grovigli di regni nascosti gli uni sugli altri.
Stiamo vicini, quando usciamo. La campanella di fine lezioni che trilla nelle nostre orecchie, ricordandoci che adesso siamo liberi fino a domattina.
Avevo esitato, all'inizio, quando mi aveva offerta la mano, sperando che io gliel'avessi stretta esattamente come lui voleva stringere la mia.
Mi ero preoccupata dei giudizi che gli altri si sarebbero fatti di noi — coloro che ancora fanno fatica ad accettare questo nuovo universo di realtà, dove Apollo e Atena non si odiano più. Ma ho capito che la felicità è racchiusa nei piccoli gesti, il semplice stringere qualcosa di importante, tenendolo avvinghiato con amabile dolcezza... ho capito che è quello che voglio.
Io lo voglio, e non m'importa dei pensieri che le persone possano farsi di me, delle mie decisioni.
«Senti...» enuncia Leonardo, delicato, interrompendo il movimento delle nostre gambe, «stavo pensando... hai voglia di pranzare insieme e... andare a visitare la Galleria degli Uffizi? Stavolta in maniera decorosa, magari godendoci la visita a differenza della prima volta...».
Le mie iridi si illuminano di una risposta anche troppo celere.
«Sì... volendo possiamo riprovare». Gli occhi ridono come una bambina. «Prendiamo la mia macchina o la tua?».
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