56. Lion's mercy ½
"Molti di quelli che vivono meritano la morte, e molti di quelli che muoiono meritano la vita. Tu sei in grado di valutare, Frodo? Non essere troppo ansioso di elargire morte e giudizi. Anche i più saggi non conoscono tutti gli esiti."
Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell'Anello (2001)
Marta.
«Quali sono i tuoi fiori preferiti?».
La sua voce giunge alla mie orecchie in una danza leggera, una piroetta di movenze fievoli, e sulle mani, in punta di dita, incastrate certe gentilezze a cui mai sono stata in grado di farci l'abitudine, perché sentivo... lo sentivo che era un candore, una premura non destinata a me, un qualcosa che non avrebbe mai attecchito sulle mie membra gelide, morte di percezioni, un tramonto di emozioni — e le parole che provengono da una bocca amica non hanno lo stesso sapore, odore, di quelle pronunciate da qualcuno che custodisce sentimenti cheti come un sussurro sopito e dolci come il miele.
Ogni lettera, ogni spigolo con ogni sua ombra, è velluto... e si posa sul mio animo come un vello d'oro, in un fibrillio di nervi sotto pelle e nello stropicciare di un cuore appena udibile — un po' rovinato di speranze andate a morire, un po' incrinato di quelle illusioni d'amore che sono soltanto destinate alle fiabe racchiuse in libri antichi e dalle infiorettature delicate, un po' sbeccato di rimpianti eclissati, come quando sole e luna collidono e l'uno cerca di annullare l'altro... un po' ammantato di luttuoso tenebrore, una tintura fosca senza sfumature, una notte senza le sue stelle, e lì, in penombra, un traliccio di rose nere appena fiorite.
Lo stesso colore che si dirama in me come una ragnatela, attraverso il ginepraio delle vene, nel pulsare lento del sangue, un sottile riecheggiare nei meandri interiori.
...ma sento... sento una morsa stretta a pugno incuneata nel petto, incandescente, vibrante delle più nobili fantasie — e da lì nasce la mia prima speranza, in quelle fenditure che il gelo vi attraversa, di quel cuore raggrinzito, castello nero.
E il vello d'oro si adagia in ogni angolo, in ogni tassello, irrorando quell'aridità aberrante che mai, neanche per un attimo, mi ha lasciata libera, nutrendo ogni poro e disegnando orme di tenerezza. Gemme di ossidiana che sbocciano come fiori e divengono quarzi, ametiste, agate.
Oh no... nessun vello d'oro.
Perché io, lui, non lo immagino avvolto da nuvole dorate, brillanti, che celano bagliori di sole. Lui me lo figuro con le sfumature che decorano i miei ciuffi aggrovigliati: argentee, luccichii cinerei a orpellargli ciuffo dopo ciuffo, un pulviscolo che, con fare vispo, discende in quelle fosche pennellate che ha come ciglia, e labbra costellate, grondanti di plenilunio.
Un vello d'argento. Ogni parola pronunciata da Alberto è per me vello d'argento che si posa sulle spalle, foderando le mie ali invisibili, ormai strappate via dalla pelle, con brutalità, una crudeltà che non dovrebbe esistere. Che io non meritavo.
"E io che credevo di star volando nei cieli più belli e infiniti... ma... cadere non è volare. Io stavo solo cadendo".
Esito un attimo, istanti tenui, granuli di polvere. «Perché me lo chiedi?», una domanda che segue un'altra domanda.
Sembra che attorno a noi non vi sia altro che silenzio, eppure è strano... a quest'ora e in una città come questa è normale udire il rumore delle macchine, delle suole delle scarpe a sdrucciolare contro il cemento, l'abbaiare agitato dei cani, chiacchiere lontane di persone sconosciute, clacson che spezzano l'aria e cinguettii fiochi, affievoliti dal vento, degli uccellini.
Ogni cosa che non ha a che fare con noi dà la parvenza di essere distante — essere in un abisso capovolto, a mille leghe sotto i mari e a cento metri sopra le nuvole, oltre il cielo, è questa la sensazione che ci divide dal resto del mondo, che dà questa labile e incantevole illusione.
La mia è una domanda alla sua domanda, incastrata per pochi secondi fra il profilo della lingua e la linea del palato e poi lasciata libera... ma la verità è che nessuno ha mai mostrato un'accortezza simile verso di me — non nel modo in cui Alberto mi accarezza anche senza toccarmi, disegnandomi di brividi —, ed è così meraviglioso... sentirsi così.
Importante. Essenziale.
E questa emozione, quando va a vezzeggiare la carne tesa delle mie braccia, le increspature inavvertibili delle gambe e quel dolce susseguirsi di tremiti dietro la nuca, una morsa che ricorda il fremere di ali di coccinella, rivela essere di un'armonia unica. Irripetibile, scia dopo scia.
Mi ci crogiolo, attorcigliando un briciolo di sano egoismo, rigirandolo fra le dita, in quell'estasi che porta il nome e ha la voce del ragazzo disteso accanto a me... senza sfiorarmi. Vicini e lontani.
Socchiudo le palpebre, sigillando il disperato desiderio di volermi voltare verso di lui per un lasso di tempo che so andrà a perire in pochi istanti, il voler rimirare la sua effigie baciata dalle volute del crepuscolo — un girasole che lotta con zanne e artigli pur di seguire il bagliore del sole, mendicante e disperato.
Io, con il mio stelo delicato e le iridi piene di corolle di girasole, anelo ogni cosa che gli appartiene e che lo va a comporre.
"Di sicuro il mio fiore preferito non è il girasole... dipende troppo da un qualcosa di irraggiungibile".
«Perché vorrei, voglio, sapere tutto di te, anche il dettaglio più nascosto e il più terrificante, andando poi a quelli insignificanti... che poi... parlando di te... niente lo è, niente è insignificante» chiosa Alberto, e di nuovo la sua voce riprende a volteggiare graziosa, echi di sirena nei promontori delle mie orecchie.
Il vello d'argento che si adagia ancora, modellandosi alle mie membra, e io che imprimo con un vigore che non sapevo di possedere — una brama latente, sempre rimasta sepolta sotto manti di insensibilità e fiocchi di neve rivestiti di cinismo — ogni melodia cui si incrina la sua voce, ogni nota che intarsia la sua melopea, sull'effigie di quei boccioli di rose nere appena germogliati.
Il nero non è un colore eterno... e più lui mi riveste di dolcezza, più un calore lontano s'irradia nella mia anima; un fuoco lento, fiamme gelide, inizialmente... ma la pazienza è la virtù dei forti, e coloro che sanno aspettare l'attende il paradiso con campi fioriti e mille e una sfumature di tinte a ingentilire quei lineamenti che hanno sopportato troppi inverni.
Eppure quel fremito di paura — sottile come filo di ragnatela, infimo, e sferzante — s'insinua oltre la morbidezza dell'incarnato, una malattia cancerogena, nebbiolina inavvertibile che invade fagliature e capillari, che altera la forma di quelle certezze smerlettate e convinzioni frastagliate.
Il terrore c'è. Di cadere e farsi male. Di rompersi di nuovo. Il timore di finire ancora in mille pezzi... un ciclo che non conosce fine. Essere racchiusa sulle punta di dita di qualcuno che non dovrebbe. Che decide per te, forzandoti a essere pietra quando invece si è di carne e cristallo.
Alla fine ci spezziamo, ci si spezza sempre, tutte le volte, ogni giorno...
...ma poi... non è qualcosa di dannatamente magico rimettere insieme i pezzi in maniera differente?
Ogni pezzo, ogni scaglia, in un posto diverso dall'ultima volta. Scopri che alcuni s'incastrano meglio lì, altri invece qua, scopri un ordine, un equilibrio quasi perfetto.
E allora ringrazi, dici grazie a quei pezzi che hanno scelto di rivoluzionarti completamente.
Quando sollevo le ciglia, riempiendo le iridi della meraviglia del crepuscolo — ricami lilla come ali di farfalla, lassù, a impuntire quell'etra lontana, sopra di noi, costantemente testimone di dolci tormenti cui non potremmo mai fare a meno e di orribili segreti che ci portiamo dentro racchiusi in scrigni dalle sfumature cobalto, e nastri aranciati a prillare sulle nuvole come sussurri soffiati —, percepisco la sua presenza vicino a me, il suo respiro quieto, incastonato fra le ossa, il suo profumo che ormai ho imparato a conoscere, che lascio fluire in me sapendo che non avrebbe incrudelito nulla della mia persona, il suo calore che ancora sento modellato sulla mia carne, in ogni dove, pizzicore di dita.
Vicini ma lontani.
Gli steli dell'erba premono contro i legamenti dei miei polsi, gli orli delle maniche del maglioncino appena arricciati quel tanto da lasciare la pelle candida scoperta, tanti braccialetti dorati a fare capolino, al confine fra dove finisco io e inizia la morbidezza della natura.
A quest'ora, al tramontare del sole, Parco di Villa Vogel è schiavo della desolazione per via del freddo che morde inesorabile, poche persone scelgono di armarsi di coraggio per passeggiare.
Poche persone scelgono di armarsi di coraggio per distendersi in questa distesa di verde, con solo l'ardore del cuore a scaldare animo e corpo... e io e Alberto siamo alquanto intrepidi ultimamente.
Il gelo e l'umidità del terreno penetra oltre i miei capelli, fastelli argentei che vanno a modellarsi in un'unica entità con quel manto erboso, fino a cozzare contro la nuca, fino a mordicchiare con insistenza pur di ricordarmi che si sta più comodi seduti in macchina, su sedili soffici e asciutti.
Eppure un cielo così... un tripudio di colori che altro non vuole se non di essere rimirato col silenzio a orpellare labbra e gli occhi intrecciati di adorazione, va guardato soltanto in questo modo. Senza compromessi. E con un qualcuno che risplende esattamente come quei ventagli di luce lassù, che vanno a nascondersi come bambini che giocano a nascondino oltre i tetti delle case — quel fulgore arcano, che pare avvolto dalle tenebre, rivestito di splendido mistero e di una notte che sta per arrivare insieme ai suoi fantasmi e ai suoi pensieri taciuti.
Con un qualcuno che vuole sapere tutto di te, a partire da quale siano i tuoi fiori preferiti.
«...di sicuro non sono le rose» recita Alberto con un'ironia gracile quanto aguzza, «dopo il modo in cui hai ridotto quel povero fiore... posso dire con certezza che ce n'è uno in meno sulla lista».
Il principio di una risata nasce e muore al fior delle mie labbra, premute l'una con l'altra, e il ricordo di una rosa che brucia si riversa nella mente, proiettando immagini come se fossero vive, dinanzi a me — quasi che potrei sentire le fiamme lambirmi gli zigomi.
«Hai ragione, non sono le rose» parlo con lentezza, di respiro in respiro, afferrando ogni frammento di quel tempo che va e non si volterà più indietro, inalandolo, focalizzandolo, imprimendolo, marchiandolo a fuoco su una memoria che ha più rimembranze impervie, scomode, anziché gioiose.
Faccio passare le dita attraverso i gambi umidi, freschi di una patina di nebbiolina che casca silente, e piego le ossa delle ginocchia, lo sdrucciolare della suola delle Vans che mi arriva alle orecchie. «...sono un po' banali» poi dico.
Ancora le mie iridi non si sono posate su Alberto nemmeno per un attimo.
Dopo tutti quei lacci di emozioni a inerpicarsi fra le ossa, come una miriade di sussulti incontrollabili, dopo tutte quelle volte, che sembrano infinite, che ho pronunciato il suo nome, ancorandomi a lui come se ne andasse della mia vita, come se fosse la mia salvezza più estrema, non sono riuscita a far intrecciare le mie pupille con le sue...
Neanche un solo, singolo, secondo.
Quando il gelo se ne va, quando i fiocchi di neve cascano giù insieme a lacrime di gioia, è naturale sentirsi... esposti. Indifesi. Totalmente denudati di ogni corazza e convinzione, di ogni difesa e labirinti senza pareti.
Oh... adoravo i miei labirinti impraticabili... che davano la parvenza di essere semplici, facili da percorrere... ma era proprio l'assenza di mura, di pareti a disorientare. La confusione dettata dell'eterno dilemma "Sarà questa la giusta direzione? È tutto troppo facile... dove sono le pareti? Dove? Devono esserci per forza".
Una lenta agonia, un lento cadere verso la follia. Le indecisioni possono essere una salvezza e al tempo stesso un indolente suicidio.
«Ad averlo saputo un po' prima...» sogghigna Alberto, e la sua spalla, finalmente, va a sfiorare la mia.
La sua pelle che vibra al di sotto di quella risata affievolita scatena una scintilla distinguibile, di una sensibilità tutta sua. Lontani ma vicini. Sempre più vicini.
Poi ci siamo stesi, scegliendo Parco di Villa Vogel anziché Parco Fedi, l'uno accanto all'altro.
Io troppo timorosa di toccarlo... lui troppo incerto di fare la prima mossa dopo quello che era avvenuto fra di noi, legandoci in un intreccio inscindibile, un nuovo ricordo che sa di lampone, gocce di rugiada e cioccolato bruciato.
Lontani ma vicini. E io che non ho cercato — non cerco — di scappare come un cerbiatto impaurito.
Lui non è per me il cacciatore, è il chiarore di luna che attende solo il mio passaggio.
«Non ti avrei mai semplificato le cose, lo sai» mormoro con la consapevolezza di qualcuno che mai si sarebbe lasciato avvicinare dagli altri — un merletto d'ombra va a spaccare a metà il mio viso, in un trionfo di beltà e orrore.
E lo stesso spettacolo sta accadendo anche sul volto di Alberto... se solo mi voltassi, se solo inclinassi appena lo spigolo del mento verso destra potrei bearmi di quella delizia... lo potrei finalmente ammirare come un qualcosa che appartiene a me, me e soltanto a me.
«I miei fiori preferiti sono i calicanti d'inverno. Loro sono così piccoli, boccioli che scompaiono nel palmo di una mano, poco appariscenti, ma sono dotati di una peculiarità incantevole, rara... i calicanti sbocciano in pieno inverno, col freddo a rimirarli e nastri di ghiaccio ad abbellirli. Hanno un profumo che allieta i sensi e... nonostante fioriscano nel periodo dove impera la neve... loro splendono di un giallo eccezionale, senza lasciarsi sopraffare».
Ogni parola è un mormorio arcano, quasi avessero un mondo racchiuso nelle curve delle lettere e negli spigoli adombrati, significati soffici come brina depositati negli angoli più remoti... è un sussurrio che segue il ritmo sillabato del mio cuore ora denudato, di carne viva e un po' più fragile di altri. Punge, battito dopo battito, punge di amabilità viva e cruda esitazione.
È... delizia e dolore insieme, un unico abbraccio.
E più osservo quella distesa di cielo sopra di noi, aranciata e di strinature viola — connubio che spezza il respiro —, più sento qualcosa dentro di me che nasce, che preme contro l'involucro del mio scheletro, gridando che vuole fuggire da lì, uscire alla luce, un dimenarsi quasi tormentato.
Vorrei spalancare le braccia come fossero ali senza fine, lasciando che l'illusione di potermi librare in aria irretisca qualsiasi logica e qualsiasi buonsenso, ma lo toccherei... la mia mano andrebbe dritta a schiantarsi contro il suo petto. Volerei per poi perdere l'equilibrio e rovinare a terra.
Un cuore come il mio, adesso, in bilico fra il baratro di un universo e l'altro sarebbe poco raccomandabile.
Perché non lo fa lui? Perché non muove la sua mano verso di me? Perché non mi tocca? Lui deve toccarmi.
Ogni lambello della mia pelle lo desidera, lo brama, prega una sua carezza.
Un movimento dell'aria, accanto a me, mi fa capire che si è appena voltato, con delicatezza, stando attento a non spaventarmi. L'incarnato degli zigomi, la pelle diafana della gola, l'orlo delle labbra — soprattutto le labbra — ardono in quell'abisso gelido di cobalto eterno, pupille accese di curiosità e di stupefazione.
Me le sento addosso, a dipanarsi come bruma dalle trame sideree... si può essere scottati da un qualcosa di freddo?
E allora finalmente lo faccio. Decido di inclinare il capo anche io, volgendo il profilo del viso contro quel dirupo dove so che andrò inesorabilmente a cadere.
Alice che, troppo curiosa, troppo distratta, inciampa e scivola giù, sempre più giù, nella Tana del Bianconiglio.
...un'eternità. Sembra sia trascorsa un'eternità dall'ultima volta che l'ho guardato così, al cospetto di quelle iridi ricamate di rivoli d'acqua, profondi e cristallini.
Entrambi non pronunciamo parola alcuna, nemmeno quando il terreno pare spaccarsi sotto di noi, inghiottendoci senza fretta. Silenzio, quando due abissi si osservano c'è solo silenzio.
"Però tu parla, Alberto... tu devi dire qualcosa", lo imploro con gli occhi.
...e molto spesso negli occhi vi sono più parole non dette, più cuore di quanto si possa immaginare.
Un movimento oltre le mie ciglia mi imprigiona l'attenzione, la mano di Alberto che si solleva e vola vicino, sempre più vicino alla mia fronte. I polpastrelli che si modellano in quello spazio scoperto dai ciuffi dei capelli, una movenza leggera che cela una carezza docile.
«Non ci sarei mai arrivato. Non avrei mai indovinato» pronuncia sottovoce, l'astratto timore che possa essere udito da orecchie indiscrete, «da come ne parli sembra che prima di sbocciare ti abbiano osservata a lungo pur di riprendere le tue fattezze».
Arriccio le labbra in un sorriso cheto, miriadi di increspature vanno a disegnarsi di conforto, una scia di sollievo che si inerpica fra le scapole come viticci.
«Pochi sanno di questo fiore, poco appariscente e di certo non eguaglia la bellezza dei roseti o dei mazzi di gigli. Però in sé vi è una potenza unica, una meraviglia nascosta che pochi possono vedere... e hanno quel profumo inspiegabile che neanche il più bello dei fiori potrà mai vantare».
Alberto continua a osservarmi, sento i suoi occhi disegnarmi migliaia di arzigogoli sulla bordura della pelle, e più avanzano, di centimetro in centimetro, più mi sento scaldare il cuore, la neve che finalmente si scioglie, lasciando spazio agli albori di una timida primavera.
Una primavera in pieno dicembre, tanti calicanti a fiorire fra le ciglia e le caule della mia anima.
«Tu, Marta... sei dannatamente speciale. È come se... come se fossi un superalcolico, di quelli più forti e infuocati, e io... un astemio a stomaco vuoto» dichiara con sguardo riboccante di un qualcosa di innominabile, di cui ho paura a trovargli una definizione, «io non capisco come... come Damiano abbia potuto lasciarti andare via».
«Con la facilità cui si addice a un testa di cazzo», stringo i denti, gli artigli di una verità che per molto tempo ho preferito evitare a graffiare contro il palato, non risparmio nemmeno la più minuscola briciola di acrimonia, «ma... ero stupida, davvero stupida anche io. Cosa credevo? Di essere importante per qualcuno a soli quindici miseri anni? Di voler conoscere per forza a fondo qualcuno pur di considerarlo come qualcosa che doveva appartenermi? Cioè... io di Damiano non sapevo niente... il nulla del nulla, fumo e cenere avevo fra le dita. Mi piaceva terribilmente, solo questo. E nella mia ingenuità ho peccato come il cerbiatto che dà fiducia al lupo. Me ne sono fatta poco della sua bellezza dopo essermi rivestita, dopo che lui si è allontanato da me, accendendosi una sigaretta e dandomi le spalle, sussurrandomi involontariamente, con la sola movenza delle mani, che con me aveva finito, che non avevo altri motivi per trattenermi lì con lui... ma mi sentivo comunque nuda, spogliata, privata, di altro. La stoffa dei vestiti non mi copriva abbastanza... e... lui non mi ha nemmeno riaccompagnata a casa».
La voce mi si incrina, morendo fra le pareti della gola, prosciugata di ogni nerbo, nessuna melodia. Non sono decori di tristezza, quelli a ricamare le mie parole, ma decori di rancore, fiele dormiente.
«Ti ha... lasciata da sola? Nemmeno la gentilezza di riportarti a casa?» ripete Alberto con un'incredulità anomala, la bocca ridotta a una linea aspra e dura, lo spigolo della mandibola che guizza al di sotto dell'incarnato, una disapprovazione irrefutabile si fa strada nel colore dei suoi occhi... senza controllo.
«Una parola come "gentilezza" non rientrava nel vocabolario di Damiano. Un oggetto... per lui altro non ero che un misero oggetto, una bambolina con cui giocare, rovinandola il più possibile per poi gettarla via, fra i suoi rifiuti», stringo in un atto di raccoglimento il vello delle palpebre, l'antefatto a precedere un irto ricordo. «All'inizio avrei quasi voluto ringraziarlo, perché aveva plasmato in me uno scudo di ghiaccio invalicabile... perché mi aveva aperto gli occhi nel peggiore dei modi. Mi sentivo invincibile, superiore, quando usavo i ragazzi e poi li rifiutavo puntualmente. E me ne andavo... in silenzio. Perché so che gli addii più fanno rumore, più fanno male. Il mio era amor proprio, poi pian piano è divenuto egoismo. E allora me ne sono resa conto... ringraziare qualcuno per avermi fatto diventare incapace di provare sentimenti? Per aver instillato in me la paura più grande? ...neanche morta».
Il respiro di Alberto si imprime sulla punta del mio naso, solleticandolo quasi per dolce dispetto.
Estremamente vicini, siamo sempre più vicini.
Poi lui affonda l'arco dei denti superiore contro la morbidezza del labbro, premendo di frenesia trattenuta e fremendo di collera arginata a fatica. Lo stropicciare lieve della stoffa dei jeans increspa quell'idillio silente a signoreggiare su di noi, e le nostre parole rivelate come segreti proibiti.
Scorgo dalla bordura dell'occhio le sue dita che spariscono dentro la tasca dei pantaloni, per poi estirpare un pacchetto di sigarette leggermente sgualcito.
Alberto solleva la Marlboro sino a quel labbro torturato, dove la forma dei denti ha attecchito anche con troppa alacrità.
E quando conduce la fiammella dell'accendino verso di essa, sento un guizzo percorrermi i tendini, i muscoli rattrappiti di estrema apatia — insensibilità e freddezza laddove hanno allignato troppo a lungo, nutrendosi fino alle ossa, le mie ossa, sfamando una fame troppo grande per essere saziata sino alla fine.
Un guizzo che smuove organi e stelle dentro di me, sospiri e polvere opalina come scaglie di luna — che fa piegare le mie gambe in un unico sussulto, che fa discernere il riflesso di me stessa a riempire le sue iridi dilatate, in ogni curva, in ogni lamina a fondersi di quel cobalto abissale.
Alberto s'indurisce come statua di marmo appena mi insinuo sopra di lui senza chiedere il permesso, le cosce a scivolare agli spigoli del suo bacino, una pendice umana che accoglie soltanto me.
Mi modello contro le sue membra nel modo in cui l'acqua si plasma contro le crespe dei costoni e delle rupi — con una perfezione che fa quasi male. E senza aprir bocca, l'arzigogolo di un sorriso da bambina proprio all'angolo, gli rubo via la sigaretta appena accesa, rendendola mia.
Un nugolo di fumo soffio all'infuori, sfortunatamente dritto sul suo viso.
«Mi prendi in giro...?» domanda sollevando un sopracciglio, e una nota voluttuosa intenzionale, poi avverto i suoi muscoli torcersi, i polsi a premere e a far leva per innalzarsi su, verso colei che ha osato soffiargli il fumo fra le ciglia.
Il suo costato che s'incunea al mio, e la guisa dei nostri cuori a combaciare l'uno sull'altro. Un battito da me, un battito da lui. Un battito da me, un battito da lui. Un unico battito che fa tremolare le intelaiature dei nostri scheletri.
Ma tremare così è come assuefarsi, dolcemente, rovesciarsi senza meta, un po' sottosopra.
«...me lo dovevi, ricordi? Un drum» mormoro al fior delle sue labbra, torturandolo di un bacio mancato, a pochi millimetri, la distanza di un respiro
«Dopo quello che è successo prima... sai... ho pensato di non avere più alcun tipo di debito con te» replica Alberto con voce roca, come avvolta da ali di corvo, e un nodo di brividi affiora in un punto indefinito del mio incarnato, e quei lividi bui — senza stelle — iniziano a bruciare, una fiamma di brama e supplica.
E le orme delle sue dita, come fronzoli ad abbellirmi, picchiettano senza far rumore sul vetro dei miei occhi, un'evocazione cucita a me come la valle del suo petto al mio. Due boccioli di rosa spuntano sulle gote, incontrollabili, al minimo pensiero di ciò che, insieme, abbiamo fatto.
«Sei... sei troppo sicuro di te. ...Albi» chioso scrutandolo dalle ombre delle ciglia, unico velo di difesa a dividermi dal suo incanto, «dimentichi che io ho il Lato Oscuro dalla mia parte».
«Te lo faccio vedere io il Lato Oscuro, Signora dei Sith» ringhia Alberto fra i denti, conficcando le dita sul tessuto dei jeans, percorrendo sentieri lungo i segmenti delle cosce, adagio, con l'indolenza degna di un crudele supplizio.
«Non... non nominare il nome di Darth Vader invano» farfuglio dimenticandomi della sigaretta incastrata fra l'indice e il medio, lasciandola consumare al vento, rivestendo le pupille delle palpebre e chinando il capo, i capelli a cascare oltre le spalle, dinanzi alle guance come un ruscello argentato.
Ma una dolce morsa mi attorciglia la sommità del mento, orientandolo dalla parte opposta, verso l'alto, verso di lui. Morbidi polpastrelli innalzano il mio viso con gentilezza... e un'amabile imposizione.
«Vietato nascondersi, te l'ho già detto».
«E io te lo ripeto, sei troppo sicuro di te» parafraso con un refolo a sfuggirmi via.
«Dillo ancora» sento Alberto chiedere, inclinando il volto più vicino a sé, in una posizione di totale vulnerabilità.
«...cosa?». La mia fronte s'increspa con casualità, e lo guardo ancora, dritto negli occhi, lasciandomi annegare di volontà propria in quelle onde cobalto.
«Il mio nome. Mi piace... sentirlo pronunciare da te».
«L'ho pronunciato anche troppe volte, quest'oggi...» dichiaro con una smorfia a deturparmi i lineamenti, le rose sugli zigomi ormai fiorite e pulsanti di rosso vermiglio.
«...non mi basterà mai» mi sussurra all'orecchio, solleticando il lobo sotto la coltre di ciuffi, «dillo».
«A... Alberto... lo trovo stupido» deglutisco un grumo di adorazione e stille di gioia.
«Non il nome completo... ma quando lo pronunci a metà, quanto lo rivesti di quel qualcosa che mi irretisce i sensi contro il mio volere. Come una preghiera lontana, foderata di dolcezza e... adorabile struggimento. È come se mi entrassi fra le costole per stringere il cuore a mani nude».
E Alberto sfodera l'arco dei denti, scivolando dall'orecchio, giù, fino all'orlatura della mandibola, mordicchiando appena. Un supplizio senza baci.
Dunque finirà così... dunque moriremo tutti di baci non dati.
«Io così muoio ad ogni respiro...» la voce mi si spezza come il fragile stelo di un fiore assuefatto dal gelo.
«Dillo... fai morire anche me».
«...A... Albi...», un sussurro delicato si libera dalle catene delle mie labbra, spalancando le ali con come fossi Antonio Vivaldi pronto a volare.
«Morire non è mai stato così bello... dillo ancora» chiosa allacciando le sue braccia alla mia schiena, facendo scattare le mani come fossero lucchetti, aggrappandosi a ogni brandello di me, e alla mia condanna mormorata come una debole folata.
«Albi... Albi... Albi...». E lui rabbrividisce sotto quella cheta supplica — d'improvviso lo abbraccio, per sentirlo con me, annodato a me, lo abbraccio per farlo sentire meno solo, per fargli capire che si può morire lentamente insieme, di respiri infranti, baci mancati e carezze sospirate.
Che insieme si può fare tutto, tremare e grondare stille d'amore crudo, feroce e insopprimibile, tremare ancora, andare in pezzi e bearsi del ricomporsi scheggia dopo scheggia. L'uno fra le dita dell'altra.
«...Albi» sussurro per l'ultima volta, «ma io e te cosa siamo?».
E senza darmi il tempo di vederlo negli occhi scocca un bacio, un modellare supremo di labbra su labbra, carne che riempie fenditure di vuoti. Odo soltanto lo schiocco, e un delicato cigolio di cuore. Poi i due abissi si ritornano a osservare, studiarsi come qualcosa di prezioso.
«Non lo sai? Io e te siamo volontà e meraviglia... volontà di fuoco e meraviglia di ghiaccio» recita Alberto scostandomi in ciuffo dietro l'orecchio in una carezza, «solo che... ora abbiamo un problema».
Un'increspatura sulla distesa della fronte si disegna di semplicità. «Cosa? Che succede?».
«Abbiamo un problema... laggiù». E abbasso gli occhi, senza vergogna e senza imbarazzo. Dove le mie cosce collidono con la stoffa dei suoi jeans, una biforcazione sul suo bacino, oltre i fianchi, nel punto esatto dove, effettivamente, un problema ci sarebbe. Anche ben evidente.
Un sorriso dilettato mi spunta e m'innalza gli angoli della bocca. «E io... cosa dovrei fare esattamente?» celio consapevole dell'effetto della mia voce su di lui, candida, decorata d'innocenza e fiocchetti immacolati.
Alberto rotea le pupille, un guizzo fra l'allietato e l'arrendevole luccica in quel dei suoi zaffiri, mordendosi il labbro.
«Per cominciare potresti smettere di fare il koala e di avvinghiarti a me continuamente, soprattutto se poi non ti assumi le tue responsabilità» rammenta facendomi scivolare via da lui e dal suo problema, delicatamente, accompagnandomi stretta alle sue mani. E io che mi trattengo per inerzia dallo scoppiare a ridere.
«Poi potresti smettere di guardarmi in quel modo, come se... come se mi implorassi di fare qualcosa. E infine, almeno per il momento, meglio se smetti di chiamarmi Albi... sono morto abbastanza per oggi».
«Ma me l'hai chiesto tu... Albi» pronuncio con voce di rugiada, mentre lo ammiro alzarsi in piedi, inclinando percettibilmente il capo, i capelli a rivestirmi come un manto d'argento e il vento a soffiare attraverso, allargando gli occhi più di quanto non siano già.
«Attenta, a giocare con il fuoco prima o poi ci si brucia».
«A me sembra che l'unica a bruciarsi sia stata la tua rosa... e poi, quand'è che avremmo iniziato a giocare io e te, Albi?».
«Sei proprio una Sith, tu! La degna erede di Darth Vader!» esclama Alberto per poi iniziare a camminare verso la Cinquecento, e io... col cuore leggero, dai colori un po' meno spenti, e l'orpello di un sorriso vero, lo seguo.
Matilde.
Una volta, in un tempo che sembra avvolto da un velo di ragnatele e una cortina di brincelli di lapislazzuli, lontano in un angolo remoto, dalle fattezze di un tiepido pomeriggio di settembre — quando ancora avevo ciuffi di capelli azzurrini a costellarmi l'effigie di un viso che stava divenendo spigoloso giorno dopo giorno e il peso dei compiti di filosofia a premere sulla punta delle dita, mentre impugnavo la penna contro lo strato bianco di un quaderno, due ginocchia appuntite che sporgevano sempre e sempre di più, e il fantasma della fame sempiterna ad aleggiare fra le ossa, mendicando amore e affetto nel più crudele dei modi, concedendomi sfregi fasciati di baci —, mia zia Angelica, osservandomi dall'orlo di ceramica di una tazzina di caffè colma sino alla bordura, e quei capelli azzannati da falde di fuoco, disseminati di ribellione, la stessa che covava nel cuore, pronunciò un qualcosa che, a distanza di anni, avrei conservato dentro di me come uno dei tesori più preziosi.
E fu un qualcosa di anomalo, decisamente inconsueto proprio perché si trattava di Angelique, la mia folle, svampita zia dall'animo da eterna sognatrice.
Angelica custodisce in sé quello spirito bohémien dolce come il nettare dei fiori, incastrato nel vetro di quegli occhi così unici nel loro genere — l'unica sfumatura verde in una famiglia di iridi castane, un paio di felci libere, mai destinate a rimanere in catene troppo a lungo.
E lo si intuisce dai piccoli gesti, quelle minuscole movenze tipiche di un film di Bernardo Bertolucci e una parvenza di Eva Green impressa nella pellicola di The Dreamers.
Intramontabile rivoluzionaria, nata con la volontà di essere diversa marchiata sulla pelle e quell'indole selvatica che fin da sempre l'ha tenuta a buona distanza dalla disciplina e dalle omologazioni, destinata a non essere mai domata, a non farsi sottomettere da niente e da nessuno.
Mio padre dice sempre che Angelica è nata con i sogni intrecciati a quei capelli selvaggiamente rossi, e miriadi di fantasie sconsiderate avviticchiate ai polsi.
Eppure... quella frase riecheggia come il trillare acuto di tanti piccoli campanellini argentati nei sentieri della mia testa; mentre premevo la penna contro la carta, cercando di concentrarmi sugli eristi e i sofisti politici — dove Eutidemo e Dionisodoro non avevano la minima intenzione di attecchire sulla cortina del mio sapere —, mentre lottavo, facevo a morsi e a unghiate contro l'impulso di mangiare qualcosa, qualsiasi cosa, e di nascosto conficcavo quei resti mordicchiati di unghie sulla stoffa delle calze, sperando di scalfire la carne, sentire gli spigoli delle ossa, mia zia disse quella frase che, successivamente, ho serbato con estrema gelosia e vivido zelo fino ad ora.
Occultata fra le pieghe di un'anima raggrinzita e le curve smussate di un cuore vivo, lambito di balenii — un'illusione infinita e la fiducia del sole che sarebbe sorto il giorno avvenire. Perché mai ho smesso di sperare.
Angelica si scostò i capelli all'indietro, liberandoli indomabili oltre le spalle, poggiò il gomito sul bracciolo della sedia e mi guardò, uno sguardo sfuggente, misterioso, rivestito da una coltre di ciglia. Modellò la bocca con eleganza prima di parlare.
«Guardarti mi riporta indietro a quei tempi in cui non dovevo niente a nessuno. Dove era lecito volare, un diritto sognare e un dovere ribellarsi. Forse... io sono destinata a rimanere adolescente per il resto dei miei giorni», e sorrise, zia Angi sorrise di quel ghigno sempre troppo imperscrutabile ed enigmatico per le persone comuni, che non riescono a scorgere dettagli inavvertibili nelle occhiate e le parole urlate nei silenzi.
Perché la verità è che quelle come lei non possono essere indagate dalla ragione, troppa insensatezza a danzare attorno a loro, troppa follia, troppi sentimenti provati con più impeto di quello che la normalità impone. Un'equazione irrisolvibile, una teoria che mai potrà essere svelata nemmeno dal migliore dei fisici.
Poi andò avanti, spaccandomi in due.
«Gli adolescenti sono la voce di una canzone non cantata, Matilde... ognuno tenta di acciuffare una sua melodia... li senti? Senti quanto dolore e quanta malinconia? Ma se ascolti meglio, oh, stai sentendo? Ascolta quanta vivacità, quanta spensieratezza, quanta voglia di amare... senti tutto questo? E la tua armonia? La tua armonia qual è? ...la sto sentendo al posto tuo».
La mia armonia... già... qual è?
Ho sempre pensato che a me appartenesse un qualche componimento rock degli anni Ottanta, lievemente sbrecciato nel suono e con un testo che avrebbe attraversato epoche intere.
Poi mi sono convinta che mi si addicesse più un inno classico, che anziché attraversare epoche avrebbe attraversato animi tormentati.
Ma ecco che Fabrizio De André compone La guerra di Piero, Il pescatore e Bocca di rosa, e allora la consapevolezza di appartenere alla voce di quel cantante che è stato in grado di attraversare cuore, carne e sangue si è posata in me con la gentilezza di una prima goccia di pioggia.
Forse nessuna melodia è destinata a me, Matilde, forse mille e altre mille attendono solo e soltanto me.
Poi rifletto... chissà gli altri? Chissà gli altri adolescenti come me quale melodia hanno addosso?
Claudio... che suono ha l'anima di Claudio? Fra poco, forse, potrei essere in grado di sentirla.
Sento il cuore in gola e un groviglio di spine a premere contro le tempie, la paura che mi delizia con le sue carezze. E l'unico modo per quietarla è questo: cercare di capire Claudio e i suoi pensieri neri, sforzandomi di ponderare un qualcosa di logico come le note della melodia che anche lui, come tutti, dovrebbe celare dentro di sé.
La mano che è avviticchiata sotto le dita di Leonardo, docili tralci di carne e affetto, è scossa da un susseguirsi di guizzi, i polsi esili tremebondi di un'impressione primordiale — come un qualcosa a scavare sentieri fino all'osso, stuolo brullo, privo del minimo granulo di vita... perché ogni accenno di energia è impuntato all'esterno, sulle sommità delle dita, sull'incarnato della gola che si alza e si abbassa con aritmia, sulle sfumature scure delle mie iridi, dilatate, che si muovono celeri.
Che mettono a fuoco il portone di un palazzo dall'effigie antica e dalle fattezze signorili — il cognome Patriarchi che si staglia sul bronzo di una placca rettangolare, vicino al campanello.
E noi, in attesa che ci apra il portone dopo aver suonato.
«Dovevamo per forza venire a casa sua?» modello fondendo le parole con un sospiro dalla nota inquieta. Stringendo con più vigore la sua mano, aderendo alla sua figura sinuosa perfettamente delineata a poca distanza da me, ora appena colmata.
«Sono le dieci di sera, c'è ben poco che possa fare di martedì a quest'ora... persino uno come lui. E comunque, meglio affrontarlo in un luogo senza occhi indiscreti, almeno evitiamo di dare spettacolo. Conoscendolo, lui avrebbe largamente preferito un posto come la scuola o un locale. È un vantaggio per noi essere qui» spiega Leonardo con gli occhi immobilizzati sulla superficie di quel portone, nemmeno la più flebile titubanza pare attraversarglieli, «e poi, prima risolviamo questa scomoda situazione meglio è. Non hai idea di quanto sia stato sfibrante, per me, averlo così vicino in classe. Lo guardavo, e in quel suo viso altro non v'era che ridicola serenità, nessuna traccia di mortificazione. Una tortura sapere che c'era un po' di te racchiuso in lui», e stavolta gli esce un sibilo mal trattenuto, percepisco i denti sfregarsi fra di loro in un ringhio di castigo.
«Lo ha fatto solo per rovinare te, questo era quello che voleva» recito chinando lo sguardo, i capelli a scivolarmi con delicatezza sul morbido delle guance, sfuggendo al confine delle spalle, «...io ero solo un mezzo, il punto debole».
«Non lasciarti sopraffare dal vento di chi non ha emozioni, Matilde. Per lui... non ne vale la pena».
E un pizzicore rorido affiora sulle mie pupille, l'apprensione di Leonardo instillata in ogni dita per poi arrivare a me, inchiostro indelebile sul cuore e che, lentamente, annulla ogni paura.
Il pensiero che si sofferma sui vivaci colori della divisa dell'Arcadium, un sostegno in più a sorreggermi, e sugli occhi dolci e cordiali di Giovanni e Violetta — persone che, nel loro piccolo, riescono a disegnarmi un sorriso e una nuvola di leggerezza.
«Leonardo! ...e Matilde. Che sorpresa inaspettata» trilla robotica la voce di Claudio dal citofono accanto alla placca di bronzo — un orpello di estasi, infido e peccaminoso, sempre lì, a intridere quel timbro indistinguibile.
Che innesca in ogni lambello di pelle un codolo fitto di brividi.
Sensazione di filo spinato, di nuovo.
«Irene vi ha visti dalla finestra. Volete salire? Avanti! Più siamo, più ci divertiamo» continua con un ghigno sommesso.
«Perché non ti limiti a scendere e darci un taglio, Claudio?». E quello di Leonardo è un ringhio affatto mite, il suo rinomato decoro che si incrina in maniera inavvertibile, ma si ode... si ode il cigolio di qualcosa che si sta sfagliando.
«Non ci penso neanche, Apollo... voi siete venuti qui, voi mi state cercando, voi salite senza fiatare. Lo trovo un giusto compromesso. Forza, quassù c'è da bere e roba per tutti! Non dovete fare complimenti, non la tollero questa maleducazione da quattro soldi... lo sai».
Uno schiocco, il rumore secco di qualcosa che scatta e il portone che si apre. L'invito a salire nella tana del lupo. «...vi aspetto». E la voce di Claudio oltre il citofono si arresta, lasciando spazio al silenzio.
Senza accorgermene, artiglio il braccio di Leonardo abbandonando la presa dalla sua mano — un gesto involontario, di difesa, come i miei occhi che cercano un contatto, un appiglio con i suoi.
«Stammi vicino. È solo Claudio e io non ho paura di lui. Sono stato in questa casa tante volte» dichiara Leonardo aprendo le dita sopra il legno del portone, spingendo per poi aprirlo.
«Nemmeno io ho paura. Io sono Atena, l'hai dimenticato?» replico per le rime.
«Non l'ho mai scordato neanche per un secondo».
E varchiamo il confine di quell'inferno camuffato da antico palazzo fiorentino, una dolce vista e una dolce dimora; prima lui e poi io, il rumore del portone che si richiude alle nostre spalle e la luce del pianerottolo già accesa. Una colonna di scale si staglia dinanzi a noi, lineamenti nobili, effigi raffinate, e sfumature scure, fosche, resti di un'epoca sfavillante ormai passata incastonati in un presente che di arcaico e di elegante ha ben poco.
Un canterano dalle rifiniture pregiate svetta di lato, e sulla superficie liscia si erge un candelabro con lucignoli di candele dilavate, mangiate da fiammelle che danno la parvenza di essere accese da un bel po'.
«Ma... i suoi genitori non ci sono?» sento la mia bocca pronunciare, involontariamente, senza smettere di osservare ciò che mi circonda, che di familiare non ha niente; e più io tento di sfuggirgli, più mi disorienta.
«I suoi genitori non ci sono mai» m'illumina Leonardo a voce non troppo alta, camminando alla volta delle scale, posando la scarpa sul primo gradino. «Lavoro, eventi, cerimonie, viaggi, vacanze... ogni cosa è buona pur non di non restare a casa, pur di non trascorrere tempo con il figlio».
Chissà... chissà quale melodia ha Claudio?
...quella dell'abbandono. E della solitudine.
Ma ci sono tanti modi, tante infinite vie per contrastare quella sensazione. Le canzoni, le poesie, i libri, i film, i fiori, gli alberi... sono tutte cose che vivono attraverso i secoli, sussurrando sempre la stessa cosa... "Voi non sarete mai soli. Nessuno è mai solo".
Eppure... alcuni scelgono altro, aspirano ad altro.
Alcol per annegare, stupefacenti per andare via, trasportarsi altrove per un tempo sempre troppo laconico, ore stringate. E ritornare lì, allo stesso, esatto punto di partenza, con l'animo disfatto e gli occhi sciupati, sconci di una speranza che ormai non giungerà più. Le cuciture che si allentano e non trattengono più niente.
«Benvenuti».
Una voce mi riporta indietro, strappandomi via da quell'elucubrare che mi ha appena distratta, e la sua figura in cima, accanto alla porta d'ingresso, le braccia allargate in quello che sembra rappresentare uno degli inviti più affettuosi, un sorriso d'accoglienza che decora le sue labbra piene. Che stride con le nostre intenzioni.
«Accomodatevi. Irene se ne stava andando... dico bene?», e si rivolge alla ragazza dai lunghi capelli bruniti intrecciati in un intrico allentato, un castano quasi bruciato, impegnata a riabbottonarsi la camicia d'un bianco immacolato. E le iridi, costellate di pura inedia, la stessa che le fa sollevare le spalle come fosse la risposta all'esortazione di Claudio.
«Come ti pare, tanto si è fatto tardi, me ne sarei andata a minuti. Mi stavo comunque annoiando già da un po'» chiosa tediata Irene Pennelli del quinto B, quasi con distrazione, «ma, se non altro... posso avere la soddisfazione di essermi deliziata della vista dell'Apollo del Classico. Oh... ciao, Castellani. Grazie ai tuoi capelli ti si riconosce anche da lontano», mi scruta, strizzando l'occhio di artefatta intesa.
Qualcosa di aghiforme mi pizzica il cuore, un assillo di gelosia che s'inerpica da un punto indefinito per poi dipanarsi in ogni dove. Un morsa letale, un'euritmia spaccata e che non sa come ricomporsi.
«Li ho tinti proprio per questo... pensa un po'» celio ironica con uno schiocco di lingua fra le labbra, «così non correrò il rischio di perdermi. Che fortuna».
«Signore» ci richiama all'ordine Claudio, con una faccia tosta a calare su di lui, avvicinandosi a un raffinato tavolino da fumo colmo di bottiglie di liquori, alcune più vuote di altre, un posacenere e un bong in ceramica a spiccare sull'orlo.
Il ragazzo acciuffa con i polpastrelli una sigaretta dimenticata che sta finendo di bruciare sul bordo del posacenere, portandosela alla bocca. Il ritratto della quiete, apparente. «Evitiamo di scivolare in patetiche scenate. Così ci annoiate».
«Prima non è che ci stavamo divertendo chissà quanto, Clà» sputa acre Irene, appropriandosi della borsetta abbandonata sul cuscino di una poltrona e infilandosi un lungo cappotto con un fiocco a stringerle la vita curvilinea, talmente flessuosa e aggraziata da far male.
«Ci vediamo domani a scuola. Non fate tardi, ragazzi, mi raccomando» conclude con un che di indefinibile prima di percorrere il nostro stesso percorso, però all'inverso.
Lasciandoci soli, insieme a Claudio, insieme al mostro di una storia a cui è giunta l'ora di mettere la parola "fine", a caratteri cubitali.
Un odore di fumo penetra nelle narici, impregnando i capelli — fumo di sigaretta e fumo di erba.
«Allora? Che fate? Volete sedervi o...-». Claudio riporta l'attenzione su di sé, andandosi ad adagiare sulla pelle del divano, spalancando le braccia come ali, puntando i gomiti sullo schienale.
«Vorremmo che tu ci dessi un taglio!» esclama Leonardo di colpo, alzando la voce, un galoppare di refoli che si avallano nella sua gola — il guizzo di una vena che si affaccia sotto quella pelle diafana, dolcemente nivea.
«Claudio... basta. Adesso, veramente, basta. Sai bene cosa voglio fare, sai bene perché sono venuto fin qui, con lei, e di sicuro non voglio sedermi. ...io so cos'hai fatto. So cosa le hai fatto». Marca l'ultima frase con un fervore che mai gli avevo sentito pronunciare.
E all'udire le parole di Leonardo, il viso di Claudio s'illumina d'immenso — gli spigoli delle labbra si sollevano verso l'alto, quasi fosse rimasto ammaliato, e un anomalo luccichio sfavilla nelle sue iridi verde scuro, serpentine. Potrebbe incutere... timore solo standolo a guardare.
Una fila di denti avorio, intrisi di fumo e nicotina e chissà cos'altro, spiccano dalla prigione delle sue labbra distese, dando il sentore di stare per spezzarsi.
Lo stesso sguardo, la stessa espressione, la stessa esaltazione di quando Ludovico l'aveva afferrato per la stoffa della camicia, per poi spaccargli il naso a ritmo di pugni.
«...te l'ha detto. Lei te l'ha detto...» sussurra Claudio sporgendosi appena in avanti, una risata costretta fra le costole, «è venuta da te e te l'ha raccontato. E dimmi... cos'hai provato? Cos'hai sentito dentro di te, Leonardo?».
L'ossigeno, intorno a noi, sembra essersi trasformato in volute affilate, turbinii intangibili di spilli che al minimo movimento avrebbero colpito inesorabili, di efferatezza. Ho il terrore di alzare anche un solo dito. E all'improvviso mi sento inerme, una pedina nelle sue mani che ha fatto esattamente ciò che voleva lui.
Lo vedo... lo vedo che vorrebbe alzarsi da lì, venirmi vicino, a un soffio dal naso, per poi dirmi che Scacco Matto è stato fatto.
«Gelosia...? Rancore...? Odio...? Vendetta...? Risentimento...? Impotenza...? Consapevolezza di aver sbagliato per aver avuto a che fare con una come lei?».
Claudio imprime le sue iridi sulla sagoma di Leonardo, conficcandole sulla sua carne come fossero coltelli ricurvi, infilandoli nonostante il dolore, nonostante il sangue che non si vede, e inclina il capo, umettandosi l'orlo delle labbra con una movenza della lingua.
«Io provo solo rammarico» la voce di Leonardo s'inalbera nell'aria, la linea del mento innalzata in quella posizione di superbia che tanto gli si addice, cucendosi addosso a lui alla perfezione, «provo solo infinito rammarico per te. Arrechi in me profonda commiserazione, Claudio».
«Rammarico... commiserazione... wow. Devo starti parecchio a cuore, eh?» ribatte Claudio ergendosi in piedi, piegando le ginocchia, camminando a fianco del tavolino e pescando un bicchierino a caso, semi-pieno. Posa le labbra a fior di vetro e si scola quei centimetri di alcol in un solo sorso, senza provare il più flebile bruciore lungo le pareti della gola.
«Tu mi stavi a cuore!» esplode Leonardo a pugni stretti, chiusi di una rabbia primordiale e sopita con eccessiva insistenza, senza starla ad ascoltare.
I tendini ben visibili a torcersi e le nocche punte da rossori, gli stessi cui stanno nascendo sui suoi zigomi attraversati dalla montatura degli occhiali. E Claudio è colto da un sussulto a quell'inaspettato grido colmo di furia e speranze sbeccate, il bicchiere che trema fra le sue dita.
Ma dura poco... dura sempre troppo poco... perché i suoi occhi ritornano vigili, ornati di una impertinenza suprema. Cinici, di noia e di marmo. Sempre pronti a superare il confine, il limite imposto da una quieta convivenza col prossimo.
«Oh... e ora non più? Non ti sto più a cuore? Che disperazione, penso che andrò a tagliarmi le vene dopo queste parole così dure» proferisce Claudio con tono melodrammatico, posando la mano con la sigaretta sul petto, sul cuore, incuneando le dita sulla stoffa della maglietta.
«Non dopo ciò che hai fatto. Perché? Perché hai fatto tutto ciò a Matilde, e a Celeste, e a Gioia? Non ne hai di motivi... non puoi averne» seguita a pronunciare Leonardo, tracotante. La medesima che riversava su di me quando ancora ignoravo.
«Tsk. Davvero t'importa? Be', come se non lo sapessi... Gioia era solo un giocattolino, tu ne hai avuti tanti di giocattolini... di Celeste, oh... avevo voglia di far incazzare quel bestione di suo fratello. E lei... la tua Matilde, ora colei che rasenta l'importanza astrale... e lei l'ho usata solo per farti rinsavire, che cazzo, Leonardo! Tu che sei sempre stato il fiore all'occhiello del Classico non esiste che ti vada a confondere con una che è l'opposto di te. ...non esiste proprio. Era l'unico modo, usare lei per arrivare a te».
Un sospiro sfugge al controllo di Leonardo, trapassando i suoi denti stretti, e infrangendosi sul picco del mio udito, acuto e attento. È... titubante. Percepisco sforzo ed esitazione.
«Claudio, tu...» mormora incerto, allentando appena i nodi delle dita, «...tu stai andando alle sedute con la tua terapeuta, vero?».
...Cosa?
Sedute? Terapeuta?
I miei occhi allibiti saettano sul profilo di Leonardo, restando ammutolita, con grovigli di parole incastrate sulla lingua, incapace di gettarle fuori.
E Claudio, finalmente, esplode in un tripudio di risata. Sfiorando la vetta del sadismo, quella nota che si inclina sempre di più verso la perversione. Si piega in due, in avanti, le palpebre che si bagnano dalle lacrime e le ciglia che si irrorano, incollandosi una ad una.
Avesse il rossetto vermiglio ad allungargli quel riso, potrei giurare di rivedere il Joker in lui...
«Leo... cos'è? Vuoi, per caso, fare il genitore di turno? Ti senti in dovere di sostituire l'assenza che costantemente lasciano i miei? Devi essere completamente rincoglionito...», Claudio scuote il capo senza cessare di ridere, ora colto da una sferzata di singulti.
«Smettila di fare il bambino!» urla Leonardo spazientito.
«No, tu smettila di fare il bambino! Ogni cosa che ho fatto, tutto quello che ho fatto, l'ho fatto per te! Perché sei l'unica cosa che conta, per me, lo capisci?» lo imita l'altro raggiungendolo in uno scatto felino, una distanza irrisoria a dividere i loro visi, le tempie di Claudio a pulsare, come la ragnatela di vena che affiorano sul collo, «ma non vedi quanta adorazione provo per te? Assolutamente no, non ci riesci, perché hai lasciato che Matilde entrasse dentro di te e ti facesse il lavaggio del cervello. Tu non te la meriti Matilde, nel modo più assoluto, una fattona schifosa».
E poi fa qualcosa che non avrebbe dovuto. Che non ha il diritto di fare.
La sua mano che collide con la mia spalla in uno tocco che di gentile non ha niente... una spinta voluta, colma di odio e raccapriccio — il non saper accettare le diversità, il non voler abbracciare la bellezza di chi vede il mondo diverso da te —, e io che in un turbinio d'aria e un equilibrio mancato sento il pavimento spaccarsi sotto di me.
Rovinando a terra, cascando come lo stelo di un fiore strappato e lasciato a morire, e i gomiti a fasciarmi inutilmente il volto, i polsi pronti a proteggermi in nome della mia incolumità.
L'ultima cosa che vedo sono le iridi di Leonardo che si accendono di un'ira antica, scorgo il fuoco su degli occhi che custodiscono la bellezza del cristallo e la meraviglia dei ghiacciai delle montagne.
Non ce la fa, non ce la fa ad afferrarmi in tempo, a impedirmi di stramazzare contro le piastrelle, battendo gli spigoli dei gomiti e le ossa delle dita. Dove un dolore lacerante inizia subito a farsi strada.
«Claudio, adesso mi hai proprio stancato! Non dovevi farlo...» ringhia Leonardo calando su Claudio come una furia implacabile — un'ombra di drago —, la sua mano che artiglia bruscamente il bavero della maglietta, stropicciandolo con noncuranza e il braccio issato all'indietro pronto per scagliare un pugno dritto al suo viso.
Il naso di Claudio Patriarchi già incrinato per via di Ludovico, lievemente tumescente.
«Sì! Sì, fallo! Ti imploro! Per me è un onore essere preso a pugni da te, che sei Apollo. Tu sei davvero il mio dio... fallo, avanti!» grida Claudio ghermendo il polso di Leonardo, l'ennesima esortazione a colpirlo, senza distogliere gli occhi dai suoi.
E io li osservo piegata su me stessa, riversa per terra, i muscoli dell'avambraccio destro colti da tremiti di fitte, morsi di dolore in ogni millimetro. Una lacrima sullo scrimolo minaccia di fuggire via...
«...tu sei il mio dio...». È la voce di Claudio che si modella ancora una volta in quella situazione così folle, così assurda. La venerazione più liliale.
Passano secondi... istanti di battiti ciglia... forse minuti.
Poi, alla fine, la mano di Leonardo si allenta, le dita si distendono, abbandonando la presa da quello stropicciare di stoffa. Il braccio che si ritrae e quello con il pugno chiuso che si abbassa, tornando a carezzare il fianco.
Si volta verso di me, e piega le ginocchia sino a raggiungere l'altezza dei miei occhi, irrorati per mille e nessun motivo; forse troppo stanchi, distrutti troppe volte... soprattutto quando vedevo le persone accanto a me correre leggiadre, mentre io a stento restavo aggrappata a terra, vorticando assieme a venti a me estranei... avevo scarpe di nuvole e pensieri di piombo.
Metto a fuoco i suoi polpastrelli prima che vadano a togliere via quelle lacrime insopportabili. Un tocco docile... sempre a vezzeggiare le mie paure e le mie debolezze, nel bene e nel male.
E nonostante questo... nonostante tutto... mi sto chiedendo quale melodia Claudio celi dentro di sé.
Perché penso che ne abbia una, e che sia tanto triste.
«Ce la fai ad alzarti? Ti sei fatta male?» mi sussurra contro l'orecchio.
«Sto bene... sì, ce la faccio». Annuisco convinta, mentendo sulla condizione del mio polso, ignorando con fatica il dolore che urla in silenzio, sotto la pelle, e accetto la sua presa per rimettermi in piedi.
«Sei sicura? Sei sicura di stare bene?».
«Sì, Leo, sto bene. Tanti cadono e si rialzano. Anche se si spezzano. Ma se ci pensi... alcuni pezzi rotti stanno in piedi anche da soli» chioso senza lasciargli la mano, tenendola intrecciata alla mia.
Quasi che ci dimentichiamo di non essere soli, quasi che ci scordiamo della presenza di Claudio alle nostre spalle.
Ma il rumore di un pianto a dirotto irrompe in quella parvenza di fasulla tranquillità.
Appena ci giriamo, vediamo le guance di Claudio rigate di lacrime, profondi solchi di gemme a impreziosire quell'incarnato pallido come la luna.
«L-Leonardo... t-tu... devi rinsavire... t-ti imploro, io ti imploro. Io senza di te sono smarrito... ho s-smesso... le sedute con la dottoressa Govender ho s-smesso di andarci. Tanto a nessuno importa di me, tanto meno ai miei genitori che mi hanno scaricato nel suo studio solo per misera vergogna... non ho nessuno... non c'è mai stato nessuno per me...». È un lamento di morte quello che gronda dalle sue labbra.
Ma Leonardo è irremovibile nella sua effigie di pietra e di carne. Scuote il capo, i ciuffi biondi ad agitarsi delicati.
«Hai superato il limite. Ora basta, finisce qui» dice prima di tirarmi via con le nostre dita avvinghiate, prima di dargli le spalle definitivamente, un'ultima volta.
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