55. Indaco






"È soltanto nelle misteriose equazioni dell'amore che si può trovare ogni ragione logica. Io sono qui grazie a te. Tu sei la ragione per cui io esisto. Tu sei tutte le mie ragioni."

A Beautiful Mind (2001)























Non me ne ero accorta, durante gli ultimi giorni.

Troppo distratta, con i pensieri sollevati su nel cielo, a galleggiare in quell'astrattezza e quel tripudio di sfumature che, con estremo vanto, le nuvole mostrano al mondo intero — prigioniero al di sotto di infinite e crudeli patine di realtà. Troppo con le pupille rivestite di quella parvenza impolverata, grigia, di abisso senza fine — incolore, carezze di malinconia —, congiunta da un filo esile ed evanescente a un segreto foderato da mille e mille aculei.

Assilli piccini, se osservati da vicino, con occhio attento — un tribolo d'ombre appena si fa un percettibile passo all'indietro, mettendo distanza.

E quel segreto, io, me lo trascinavo dietro come un ninnolo. Un ninnolo pieno di spine, fievole e fragile in apparenza, orribile e atroce visto attraverso il vetro della tangibilità.

Durante gli anni — ticchettare lento di lancette e susseguirsi di lunghi inverni e primavere effimere —, ho stretto le mani di tanti mostri, ho donato abbracci a tante ombre, ho riservato intensa cortesia e gentilezza a fantasmi che promettevano baci senza volere nulla in cambio.

Mentivano — hanno ottenuto molto di più, mendicando pezzi di me anche quando altro non v'era che anima pulsante, e ferita, e grondante di sangue e illusioni rotte. Al di sotto di quella pelle dilaniata dalle loro stesse zanne, dai loro stessi artigli.

E la nascondevano bene, quell'efferatezza aberrante, oltre quell'identica premura che io non ho mai mancato di riservare a loro, attraverso orpelli di sorrisi. Ingannano meravigliosamente i sorrisi.

È proprio con i sorrisi che sono riuscita a sorreggere quel segreto troppo grande, sostenuto da scampoli di artefatta gioia e steli di menzogne.

Non me ne ero accorta, nemmeno mentre passavo continuamente davanti a specchi, superfici cristalline e vetri riflettenti — circostanze perfette per potermi ammirare da ogni angolazione, orlo dopo orlo, una scheggiatura proprio lì, spigolo dopo spigolo, un angolo ammantato da una fosca ragnatela, filamenti di parole taciute.

Troppo assorta, con la coscienza lentamente a sfumarsi con un pennello tutto suo, ad ascoltare quale rumore potesse mai avere il silenzio. Ed era qualcosa di unico, eteroclito, che strideva negli echi delle mie orecchie, lo strepitio di filo spinato che si inerpicava dentro di me, scavando di più, sempre di più, affondando nella pelle.

Bramando altro sangue, altra sofferenza. Un battito in meno, respiro mancato.

Filamenti caliginosi che attorcigliavano, stringevano, tremebondi al più fioco fremito di ciglia, portando alla decadenza — piano piano — quella gioia nera racchiusa nelle iridi di Leonardo, e donata a me, con amore.

Troppo vincolata, nel profondo, a contare ogni nodo in quel filo spinato, troppo presa dal curare ogni singola ferita — lasciando carezze disperate, un affetto che solo io stessa sono in grado di plasmare. Certe premure devono essere modellate soltanto dai nostri labirinti più nascosti, emozioni talmente intrinseche che fanno paura... troppa.

E allora andiamo a cercarle — implorarle — dagli altri. Dimenticando che noi, soltanto noi, possiamo.

Ero troppo colma dell'essenza di Claudio, che... non mi ero accorta dei vestiti che, inconsciamente, andavano a rivestire le mie membra. Vestiti dalle sfumature fosche, opache... colori spenti, spenti come i miei pensieri, come le mie iridi — eclissi di due lune —, spenti come ogni speranza che andava morendo, un cimitero di tulipani appassiti.

Un lento declino, e io non prestavo attenzione.

Io stavo indossando soltanto i colori bui della notte, dimenticandomi della gioia dell'aver cuciti addosso centinaia, migliaia di bagliori — lo sfavillio dell'alba, lo splendore misterioso del crepuscolo. Le espressioni di un mondo che vive, che pulsa, e che ha tanti colori da offrire.

Potevo deliziarmi del rosso cremisi, tinture di antiche passioni e boccioli di rose selvatiche. E c'era nero.

Potevo bearmi del verde, venature della natura più selvaggia e ritrosa, intrecci di alberi e foglie danzanti. E c'era nero.

Potevo crogiolarmi della bellezza del viola, fautore di incanti segreti e faville di magie — la metamorfosi, la Matilde di prima, la Matilde di dopo. E c'era nero.

Potevo estasiarmi del carminio, del bronzo, dell'arancione, del cobalto, dell'indaco e del lilla, l'arcobaleno assopito dentro il mio armadio, fra morbide stoffe e graziosi merletti. E c'era sempre e solo nero.

Io ho lo spirito di un'artista, addolcito, incastrato sul cuore, e ora è costellato di polvere, come fosse una reliquia preziosa, valore inestimabile. Un qualcosa da osservare, con essenza malinconica e refoli tormentati, nostalgia di un passato che altro non può fare se non quello dell'essere contemplato.

Io stessa l'ho imprigionato in quella cristalliera da museo della psiche... l'ho fatto con facilità, con ferina disinvoltura. E al suo posto, ho accolto lo spirito di un'ombra che non possiede immaginazione e non sa trovare grandi parole per esprimere grandi idee, non più ormai.

Ma... quel filo spinato è stato spezzato, sciolto di ogni suo intreccio di crudeltà, estirpato dall'effigie diafana. Leonardo, con quella sua delicatezza dorata, l'ha stretto fra le sue dita, sradicandolo via — una scia di baci, sentiero di farfalle, vi ha lasciato. Come a irrorare un piccolo germoglio nascente e pronto a una nuova vita.

E dalle cicatrici, con la cura e l'amore incuneati fra le pieghe di quelle dita carezzevoli — rosea dedizione —, sono spuntate tante piccole gemme. Un tripudio di colori. Infiniti petali di conforto e dolcezza.

Ed è stato allora che un qualcosa, dentro di me, si è dischiuso, il principio di un'aurora che si districa lì, fra le incrinature di quel cuore così rovinato.

Anche dalle crepe più buie e profonde si può scorgere un cielo pronto a tingersi di altre mille emozioni, a macchiarsi di venature di sogni e desideri — le stelle più luminose.

In quelle fenditure — dove scorreva e scavava la rovina più cancerogena —, ora vi fluiscono ghirigori d'oro, intrecci capricciosi di arcobaleni lieti. Gli stessi che tutti conserviamo oltre quelle iridi di un singolo colore.

Ognuno di noi ha l'arcobaleno negli occhi, e lui rimane lì, cheto, e in attesa di affiorare nel più meraviglioso degli impeti.

Ora c'è Leonardo, ci sono i colori. Non c'è più Claudio, non c'è più nero.

Quella costrizione è svanita, ogni sua orma, la forma delle dita, modellata tassello di pelle dopo tassello di pelle.

Stamattina, prima di uscire di casa, mi sono soffermata davanti allo specchio e ho sorriso. Per la prima volta, dopo tutto quel silenzio volontario, invischiato sulla punta della lingua, avvolto da catene invisibili, mi sono concessa un sorriso. Tutto per me.

Mi sono rimirata, facendo volteggiare le braccia e flettendo la bordura del collo, mordicchiandomi con delicatezza il soffice del labbro — i ciuffi rosei ballerini —, e ho scelto di godermi i colori di cui mi sono vestita. Non c'è alcuna trama di tinture fosche, morte. C'è solo vita.

Un tremito ha percorso, giocondo e vivace, la lunghezza della mia schiena mentre lisciavo con il palmo della mano i ricami definiti del maglioncino malva. Un luccichio è affiorato a fior di pupille quando mi sono aggiustata le grinze della gonna di velluto, che ricorda tanto un manto di ricci di castagne. E le calze... a strisce bianche e corallo.

Un quadro, io sono un quadro che respira e si muove, ed è questo che mi rappresenta, decorandomi di unicità.

Ho l'arte addosso sin da quando ho imparato a scindere illimitati universi di sfumature da ogni singolo colore, interi reami di fantasia e volute di sogni, sbavature di incubi — poiché non esistono sogni senza incubi, non possono esserci interstizi di luce senza merletti di buio, una le ricamature dell'altro.

E forse ho davvero la magia dei sogni impuntita sulla sommità dell'incarnato — stelle cineree a danzarmi intorno —, allo stesso modo del sortilegio degli incubi — un intrico perfetto nelle sue anomalie.

E avevo smesso di osservare, con quello scrupolo incuneato fra le pieghe delle ciglia — silente, ardente come fuoco tumultuoso al tempo stesso —, la bellezza che si cela in ogni persona, eclissata dalle tenebre di un sorriso. Avevo smesso di intuire le filigrane di emozioni e lo stropicciare del cuore nel bearsi delle piccole cose; come il delicato fulgore del sole a frammentarsi sui lineamenti del mio viso.

Idillico, serafico, dove ora finalmente l'equilibrio ha messo radici. Avevo smesso di ascoltare, poiché sentivo soltanto. Ogni vocabolo pronunciato dalle persone a me care, vicine, mi arrivava smorzato, foderato di apatia.

Ora sento tutto, ascolto tutto.

Intuisco che attorno a me c'è tanta luce, tanta speranza — il rendersi conto che, dopotutto, siamo noi stessi a scegliere cosa vedere: se riverberi chiari o riflessi d'ombre. Un po' come il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Sta a noi, soltanto a noi, decidere da quale prospettiva guardare.

E il dolce vigore del sole a solleticarmi le orlature dei capelli annodati in due trecce piccine, a coccolare lo scrimolo delle mie labbra dischiuse dove un refolo di libertà entra ed esce, mi fa capire che ho scelto di abbracciare i riverberi chiari. Dopo quello che sembrava essere un'eternità...

Ho lasciato che Leonardo entrasse, piano piano, facendogli conoscere un po' del mio tenebrore, standogli vicino mentre prendeva confidenza, mentre stringeva le dita del buio alle sue.

Ci vuole coraggio a farsi carico dei demoni degli altri... io lo so bene.

E Leonardo è una delle persone più coraggiose che conosca. Lui l'ha scorta, quella mano anelante di conforto e tempestata di macchie viola, dall'effigie raccapricciante. Un dolore diverso da quello con cui convivevo anni fa, ma sempre un mostro a tenermi prigioniera, gabbia di rose appassite. Nessun colore.

Lui sa di Claudio, ora il mio dolore è anche un po' il suo. E io posso respirare di nuovo.

Leonardo tollera bene quel fardello, e lo fa perché dice che il mio sorriso è una delle meraviglie di questo mondo — non esiste che mi venga strappato via.

Un tocco delicato, lì, sull'estremità della bocca, mi fa torcere le tulle del cuore, dilatare quella linea di sorriso che non accenna ad andarsene, che inizia a bruciare di fiamme vive — un qualcosa di cui estasiarsi.

Assimilo aria nuova dentro i polmoni, e una traccia di profumo familiare, vicino, deliziosamente mordace, s'inerpica fra le ossa.

Sollevo le palpebre e accetto lo scenario di quella realtà così affine: lui, dinanzi a me, la mano tesa che collide in quella mia parvenza di beatitudine.

E i suoi occhi... che mi sfiorano come se fossero dita — le stesse che non smettono di farmi sentire amata. I suoi occhi... la rovina più incantevole, ruderi di cristallo e uno screzio dorato.

«Sai cosa c'è di peggio di un lettore attento?». Sento la sua voce vibrare a poca distanza, un tumulto nell'aria.

Scuoto il capo; no, non lo so.

«Uno scrittore attento» dice Leonardo tracciando una minuscola spirale sul mio zigomo, la montatura degli occhiali che si solleva poiché sorride anche lui.

«Uhm... e tu saresti uno scrittore?», una risatina di bambina sfugge al mio controllo. Fletto appena il collo per semplificare quel contatto così seducente, zelante.

«Ogni tanto... mi piace scrivere poesie, e certi dettagli, quelli incastrati fra gli spigoli delle lettere esattamente come nei tuoi occhi, non mi sfuggono. Non hanno scampo con me».

«Mi stai paragonando a una poesia...? E quale dettaglio avresti notato?» gli chiedo ammaliata mentre con la mano vado a cercare la sagoma del pacchetto di sigarette, custodite in qualche tasca.

«Tu racchiudi in te gli splendori non di una, ma di mille poesie. Componimenti e inni» dichiara Leonardo osservandomi dalla foschia dorata delle sue ciglia, un luccichio di adorazione si staglia al di sotto di esse, «Il dettaglio della felicità. Mi sono fermato un attimo, restando in silenzio e ho teso l'orecchio... prima era un qualcosa di fioco, quel rumore, distante, ma alla fine è divenuto trasparente. E poi l'ho sentito... il battito d'ali di una farfalla, il ronzio di un'ape proprio lì, in quel cavillo all'angolo della tua bocca».

E punta le sue pupille laddove c'è una farfalla intangibile dove fa vibrare le ali.

Ripetendo le parole che pronunciai fuori dal Twenty One, poco prima che Laira mi scrivesse quel messaggio. Poco prima che venissimo a sapere di Viola.

C'è del folle... come un arrovellarsi di circostanze e avvenimenti perduti, proiettati in un altro mondo, lontani da me e da lui.

«Non vedo più un qualcosa di sfuggente, che vuoi nascondere e che a stento riesci a sopportare. Vedo... te. Io ti vedo e non c'è dolore». Leonardo si china percettibilmente, in un soffio, e unisce le nostre fronti.

"Lui sempre troppo alto", penso con celere leggerezza.

«Da sempre, in te, ho scorto quella sofferenza invisibile agli occhi degli altri. Una guerra senza fine, la stessa che combattevi con me. Adesso hai le fattezze di un uccellino, libero, delicato, spensierato».

Il dolore...

Io ero innamorata del mio dolore — amavo più lui, che Gabriele —, non mi aveva mai lasciata sola e io non me la sono sentita di lasciare solo lui. In un modo tutto suo, c'è sempre stato, con la perseveranza che si addice a un mostro incantevole. Ero divenuta mostro anche io, e per quello gli ho stretto la mano come un vecchio amico.

Ho trattato la sofferenza con il migliore dei riguardi, con la più estrema gentilezza — sentivo di non meritarmi altro. Ho amato di più ciò che mi rovinava, anziché coloro che provavano per me grandi affetti. Ed è stato per questo che... non sono riuscita a distaccare quel filo spinato di volontà, con le mie stesse dita.

Ho lasciato che Claudio attecchisse e mettesse radici malevole, rendendomi un qualcosa di rotto. Che smette di funzionare.

...un'altra volta. Incrinata.

E Leonardo, nel tempo di un sospiro, mi ha presa fra le mani e mi ha aggiustata, rendendomi ancora più preziosa.

«Ama i tuoi demoni interiori, perché saranno coloro che ti terranno sempre la mano... anche quando non te ne accorgi» recito mentre socchiudo le palpebre, quel contatto con la sua pelle che inizia a farsi rovente.

«Non è meglio se te la tenessi io, la mano? Penso di essere migliore di un demone interiore...». Lo sento ridere fievole.

«Tu potresti incarnarne le fattezze e io, che mi arrendo a te, ti lascerei fare» recito con intenzione, crogiolandomi in quella visione di lui, a creatura ammaliante, avvolto di quel fascino freddo, fautore di gesta proibite e dolcemente voluttuose.

Sempre lì, un'incrinatura dorata.

«...devo prenderlo come... un complimento?» mi domanda Leonardo con quell'accortezza che affiora quando, dentro di sé, si ha certezza. Ride ancora. «E soprattutto... perché quando mi elogi non osi guardarmi mai?».

«Perché rischierei di non uscirne più...» ammetto senza remore, le labbra increspate per l'arrovellarsi tempestoso dei miei pensieri, «il mio cuore è rimasto incastrato nei tuoi occhi, intrico senza fine e... amabile inferno». Un soffio di vento fa danzare i miei capelli.

«Per me puoi lasciare il tuo cuore incastrato dove vuoi» sento il suo sussurrare delicato contro l'orlo del mio orecchio, un respiro di velluto, e un profumo di brividi ad ammantarmi.

Riapro le pupille, abbracciando quella luce brillante — un mattino appena sorto, il tripudio di un futuro che non vede l'ora di arrivare —, e scorgo il contorno del braccio di Leonardo a sfiorare la mia tempia, una distanza di flebili millimetri. Le dita della mano premute contro il muro esterno del Caravaggio, e io incastrata in quel suo dedalo di astrazione e modo di irretire i sensi, anche con il solo, semplice, modellare vocaboli.

Ho l'audacia di sollevare un sopracciglio, senza cedere a quel soave richiamo di labbra di marmo — scappate dai sogni di qualche folle pittore. Da qualche parte... ancora... uno di loro vaga senza meta alla ricerca di quel prezioso tesoro perduto.

«...siamo a scuola...» pronuncio sfuggendo a quei suoi occhi predatori — lacci di adorazione.

Il petto che gronda di desiderio, si alza e si abbassa, la brama tra un sospiro e l'altro, spunta di timidezza, con quella ritrosia fanciullina e che... conduce in tentazione.

«Lo so» è ciò che proferisce Leonardo, e la sua tracotanza che lentamente, durante gli anni, ho imparato a interpretare, «... a cosa stai pensando, Atena? Io ho soltanto detto che puoi lasciare il tuo cuore incastrato dove vuoi».

E non replico, continuo a osservarlo con intenzione silente, e un'idea maliziosa a volteggiare dentro di me.

"Lui deve... lui deve sempre... perché deve sempre alludere a qualcosa? Fare allusioni a tutti i costi?".

Leonardo flette i muscoli del collo, gli angoli levigati della mandibola che si piegano leggermente verso destra, e... l'altra mano che va a chiudere quella prigione umana di pelle e respiri dannatamente dominati. Chissà... chissà se il suo petto è affannato come il mio... che si alza e si abbassa, che si alza e si abbassa.

Imprigionata in lui, il cuore che tremula e che vorrebbe farsi piccino piccino. Le spalle prive dello zaino cucite addosso a quella parete ruvida, gelida, e la campanella della prima ora che ancora non suona.

«Suonava... suonava come un qualcosa di... fraintendibile, di equivoco». Conficco i denti quasi con impellenza sulla morbidezza del labbro, sforzandomi di non soffermarmi troppo su quel ghigno divertito ora ben evidente al fior della sua bocca. Mi porto i polpastrelli a rivestirmi come a voler issare una barriera invisibile, un petalo di fiore.

Leonardo china il volto ancora di più, la punta del suo naso a sfiorare la mia, e la volontà sfavillante come il sole che veglia su di noi di raggiungere le mie labbra e impedire ai denti di scavare.

È una volontà quieta, la sua — ed è la prigione perfetta per la brama più irruente.

«Ah sì?» mormora con voce graffiante, sento le proprie sfumature a diradarsi in me.

Piccole lamelle di estasi. Fanno male, ma è un male incantevole, colui che te ne fa desiderare sempre di più.

«Leonardo» lo richiamo lottando contro ogni possibile tentazione, le dita che si piantano contro la mia stessa pelle, decise a resistere, «smettila... non è il luogo adatto per...».

E mando giù il nodo di ciò che stavo per dire, spezzandolo a metà.

«Per... fare cosa?» insiste egli, ormai intenzionato a punzecchiarmi, allietandosi del mio imbarazzo del tutto anomalo.

Non sono mai stata una ragazza che prova oltraggiosa timidezza e palpabile imbarazzo dinanzi a queste... danze di parole. Sono sempre stata io, anzi, a renderle vive, vivaci. Come quel giorno che mia madre ci ha colti in flagrante dentro la mia stanza, io avvinghiata a lui. In ogni senso.

Ma adesso è diverso... c'è qualcosa di diverso, di sottile, di impercettibile, quasi.

Leonardo, per la prima volta, mi ha vista. Mi ha vista davvero.

Spogliata di ogni certezza, di ogni audacia e presunzione con cui mi rivestivo, con cui facevo sì di essere per gli altri Atena. Ha osservato — rimirato — ogni fiore appassito a ornarmi le ossa, quelle trine di terrore a decorare veli di insicurezze, di un raccapriccio anomalo, pieno di schegge. Ora non ho difese, non ho più barriere di superbia e briciole di nichilismo a farmi da scudo.

Io sono... vulnerabile. Di una sensibilità quasi brutale. Ha un potere immenso fra le dita, oltre che il mio cuore. Neanche a Gabriele avevo fatto dono di questo onore — una responsabilità che va oltre i limiti, superando i confini di cieli e di stelle.

Perché io l'ho sempre saputo... qui non c'è spazio per i cuori di cristallo.

«Ti prego, Leo...» sussurro con voce spezzata, e il cuore di cristallo che freme, vibra, mi fa temere per la sua incolumità.

Le sue labbra così vicine, così dannatamente vicine. E nelle mie orecchie esplode un tripudio di violini — un pizzicore di corde che ha il colore dell'indaco —, un'armonia allentata, profonda... stupendamente cupa, che solletica e si aggrappa alla carne come ragnatele.

«Mi stai pregando di fare cosa...?». E il suo timbro ha la stessa euritmia che rintocca nel mio animo, venature di gemmeo brillio che si librano oltre la sua effigie. Un dio greco scolpito nel marmo, niveo e di bellezza crudele.

«Ti prego...», e incuneo le unghie appena ricresciute contro i palmi delle mani, poi, in un battito di ciglia, scorgo un qualcosa di familiare al di là delle spalle di Leonardo.

Un briciolo di logica che si insinua fra le crepe di quell'apogeo di seducenza e venustà, parole intrise di miele.

«...ti prego, smettila. C'è Viola laggiù».

«Viola?» ripete lui con un velo di perplessità a offuscargli quelle iridi troppo sfacciate.

«Viola Angeloni. L'amica... l'ex amica di Olivia, lei ci ha scattato la fotografia al Circolo degli Illuminati» gli ricordo riprendendo il normale ritmo di un sereno respirare, un luccichio strenuo nel mio sguardo saettato su colei che con l'intenzione di rovinarci, ha fatto l'esatto contrario.

Unendoci e plasmandoci ancora di più — io di striature di errori e anomalie, lui di tinte d'illusioni e poesie sussurrate al vento.

«Devo parlarle» chioso con una sicurezza, un qualcosa di deciso, con cui ho familiarità, a inerpicarsi in me, una sensazione di autorità sfibrante e che fa raggrinzire i tendini dei polsi.

Quella scarica di epinefrina che spesso mi ha colpito negli ultimi mesi, sfiorando nervi tesi e parole morenti nella gola.

Quando trovai la foto di me ad attendermi appesa alla bacheca della scuola... quando affrontai Olivia a volto scoperto... quando colpii il petto Leonardo con talmente tanto ardore che altro non avrei potuto urlargli se non quella di baciarmi ancora e ancora, fino a togliermi il fiato. In quel gesto, oh... c'era racchiuso tanto di quel sentimento nascosto e taciuto...

«Devo chiarire con lei. Non posso lasciare la faccenda in sospeso» seguito a pronunciare con le sopracciglia a scivolare verso l'interno, sulla bordura del naso, «tu... tu parli con Claudio, io parlo con Viola».

Leonardo scioglie quell'intreccio di pelle e di ossa, liberandomi da quella meravigliosa prigione di carne ed emozioni uniche, ma trascinando unicamente due dita dallo spigolo della mandibola sino alla sommità delle mie labbra. Dischiuse e che accolgono respiri aneliti. Nel punto preciso dove Claudio ha dato inizio a quei tralci di filo spinato.

«...pensi di poterci riuscire?» mormora tracciando docili carezze, guardandomi dai ricami di quelle ciglia così tenui, dalle sembianze così delicate.

«Sono riuscita a sopportare cose ben peggiori di questa. Non ho paura di Viola, Atena non deve avere paura di niente» recito disegnandomi un sorriso a metà, e poi vado a stringere il suo polso, come ad ancorarmi a qualcosa di atavico.

«Eppure...», la sua voce è titubante, «...eppure lui c'è quasi riuscito... a farti avere paura».

«Gli esseri umani sono l'unica specie consapevole della propria mortalità e stranamente, chissà perché, facciamo di tutto per arrivarci, alla fine. Adesso è arrivato il momento di salvaguardarmi un po'... la paura non è l'unica emozione, c'è molto altro, ben altro, in ognuno di noi».

«E se uccidessi Claudio con le mie stesse mani appena varco la soglia del Caravaggio? Pensi che gli faccia rendere conto della sua mortalità?».

«Quello non è il buon modo di risolvere un problema, e lo sai troppo bene... più di me» dico tendendo la punta dell'indice sino a farla collidere alla guglia del suo naso.

«Sarà una tortura condividere il suo stesso ossigeno in classe. È come se sapessi che quello è un luogo contaminato dalla più peggiore delle malattie e io me ne fregassi, gettandomici con il sorriso e intenzionalità» mugugna con del dolore a infittirsi parola dopo parola, «il peggio è che non voglio affrontarlo davanti a tutti gli altri, non posso, è quello che lui vorrebbe. Come non posso neanche risolverla con un messaggio scritto al cellulare».

Vado a passargli le braccia attorno alla gola, serrando con bramosia i ciuffi biondi dei suoi capelli — costringendomi ad alzarmi in punta di piedi.

«Adesso parlo con Viola. Poi penseremo a Claudio. Sai... adesso che ti sei fatto carico di un pezzo della mia sofferenza fa meno male... non graffia come all'inizio» dichiaro guardandolo dritto nelle pupille, oltre il vetro splendente dei suoi occhiali, cercando di fargli percepire anche il minimo frammento di prodezza che si sta stagliando nelle mie membra.

Facendole palpitare di un impulso antico, familiare, eppure così tremendamente nuovo. «E penso che questa sia una delle cose più importanti».

«Io... va bene, okay. Affrontiamo un problema alla volta, e tu sei abbastanza coraggiosa per entrambi. Dimentico troppo spesso chi sei veramente».

E dopo aver sciolto l'intreccio delle mie braccia — con uno sforzo che va oltre la mia immaginazione — dal calore della sua pelle, stringo le fibbie dello zaino per poi farmele passare attraverso le spalle. Il peso dei libri che preme sulla schiena.

Con un gesto confidenziale e che trapela naturalezza, sfilo il pacchetto di Winston dalla tasca e mi accendo la solita sigaretta di primo mattino, cui affido il compito di farmi distendere i nervi e di quietarmi l'animo — ultimamente spesso tempestoso, forse dovrei scegliere una canzone diversa da "Rock the casbah" visto che di cheto ha ben poco.

«Ci vediamo all'intervallo» sovviene Leonardo alle mie spalle, la voce percorsa da un filo di titubanza e preoccupazione. Tuttavia mi lascia fare, rivestendomi di fiducia, e ciò è un dettaglio vitale per me.

«Ci vediamo all'intervallo» ripeto lieta, un certo pizzicore di speranza a mordicchiarmi ogni centimetro di pelle.
























Viola Angeloni è seduta lì, sopra una panchina dall'aspetto sbilenco e corroso dalle intemperie, vicino al campo da basket esterno; il perfetto dipinto di un qualcuno a cui è stata imposta la solitudine — un connubio di supplizio e crudeltà per chi non ha imparato a conviverci, elevandola al pari di una vecchia conoscente, colei che fu una grande amica armata di pazienza sconfinata e con la mano dalle dita rassicuranti.

Dicesi che per una splendida coesistenza con le altre persone — cuori e menti che esistono e battono all'unisono — occorre saper ascoltare, leggere, i pensieri che regnano dentro noi stessi. Saperli intuire, scoprendo ogni scarabocchio in rilievo, ogni macchia d'inchiostro, quelle sbavature cui ci portiamo dentro e a volte nemmeno siamo a conoscenza della loro presenza intangibile.

Più ci impuntiamo a volerli ignorare, più loro si aggrappano a noi e allo nostre fragili pareti di segreta intimità, d'inconscio, conficcando unghie appuntite, e un grido di desiderio, di considerazione a riecheggiare.

Viola non sembra che conosca il significato di saper accettare l'eco di lei stessa, in solitudine, isolata da parole pronunciate con casualità e risate artefatte, il più delle volte. Affatto.

Le spalle piegate, contratte in una strana posizione, e i lunghi capelli castani a rivestirle il viso chinato verso le ginocchia, le dite intrecciate e tremolanti.

Oh no... Viola non sembra proprio a suo agio in questa circostanza del tutto nuova, a lei sconosciuta. Quasi che li scorgo gli spettri delle sue riflessioni, delle sue ansie a volteggiare sopra di sé — un turbinio estraneo e che incute spavento. Per troppo tempo le ha lasciate avvolte nel mistero, per troppo tempo ha lasciato loro libero dominio, facendole muovere lontano dai suoi occhi, confinandole in un angolo remoto, laggiù, nei tralci della mente.

Le ha ignorate, con la semplicità di chi si circonda di troppe persone senza badare alle loro trame intessute sotto pelle. Un po' come quando scegli una canzone a caso, fra altre mille, e non la stai ad ascoltare. La scegli solo per sentire una sensazione di fredda compagnia — lei suona per te, ma non arriverà mai.

E con questo tumulto di pensieri infiniti, le iridi illuminate da un luccichio di umanità e le labbra tratteggiate di garbo, mi accosto a quella panchina, restando in piedi, la sigaretta in equilibrio fra i polpastrelli. Un po' assaporata da me, un po' consumata dal soffio del vento.

Le sue gote costellate di candide efelidi sono nascoste dalla coltre di capelli, ma si ode, l'attrito dell'arcata dei denti contro l'altra. Un digrignare di morsi, le ossa che scricchiolano pur di soffocare quelle urla troppo alte dentro la sua testa.

A differenza di quando affrontai Olivia... adesso, Viola fa affiorare in me un'orma di pietà per lei.

E ricordo. Lo ricordo con perfezione quando l'afferrai per il collo e la feci scontrare con il vetro della teca dove imperava la mia fotografia. Rimembro di quanto mi sono sentita potente, invincibile e inesorabile — la cattiveria pura che costruiva sentieri dentro le mie viscere, e mi bruciava di estasi, facendo nascere boccioli neri.

...non potrei mai fare di nuovo una cosa del genere. Non ora che la rabbia ha assunto le fattezze di un drago dormiente al di sotto di una montagna.

Le parole... le parole uniscono, la violenza divide.

Ognuno è artefice delle proprie azioni, ma c'è sempre un motivo, dietro. E lei, in un modo tutto suo, che ancora non sono in grado di comprendere, ama Leonardo e prova affetto per Olivia — un affetto, forse, tossico. Non tutte le amicizie sono rigogliose come la mia e quella di Marta. Eppure Viola non riesce a farne a meno.

«C'è sempre qualcosa di ridicolo nelle emozioni delle persone che abbiamo smesso di amare...» chioso in un soffio di voce, lo stesso del vento che delicatamente ci sferza i ciuffi dei capelli, «... ma, probabilmente, c'è del ridicolo anche in coloro che, con troppo impeto, li riempiamo di adorazione e premure... perché sono proprio quelli che non ci vedono. Non vogliono vedere».

D'improvviso, mi ritrovo le pupille dilatate di Viola addosso a me, sbarrate, le ciglia piegate di naturalezza e le lentiggini che sembrano piroettare sinuose da zigomo a zigomo, saltellando sul naso. Ed è come pensavo... è una lotta di tormenti la sua, incastonate nelle iridi.

«Matil...-» pronuncia con un che di spezzato, per poi interrompersi, «Castellani. Che ci fai qui? Cosa vuoi?». L'orlo del labbro inferiore martoriato dai morsi.

«Puoi chiamarmi anche Matilde, non mi offendo» le faccio notare sollevando le sopracciglia, la fronte distesa, il ritratto della tranquillità, «gradisci una sigaretta?».

«Sarebbe strano, lo sai! È meglio Castellani. E comunque, no, io non fumo, fa male ai polmoni. Non mi va di morire».

«Dobbiamo morire di qualcosa, prima o poi. Molto spesso ha più probabilità di incontrare la morte chi non fuma anziché il contrario» proferisco socchiudendo lentamente le palpebre, portando la sigaretta a fior di labbra e assaporandone il sentore.

«Cos'è? Vuoi forse rifilarmi una sigaretta alterata dalla cannabis?» replica Viola marcando la domanda con evidente ironia, stavolta scioglie l'intreccio delle dita e le infila fra i capelli per liberarli all'indietro, oltre le scapole.

Una fievole risatina mi sfugge, senza che la frecciatina arrivi a segno. «Davvero? Non ne hai una migliore?».

«Senti, Castellani, sono seria... cos'è che vuoi? Perché stai parlando con me? È chiaro, io e te non ci sopportiamo... non ci siamo mai sopportate» mi fa roteando le pupille spazientita, i palmi premuti contro il legno della panchina.

Uno sbuffo attraversa la linea della sua bocca.

Getto una nuvola di fumo all'infuori, senza dire nulla, e sfilando una sigaretta intatta dalla scatolina dall'aspetto sgualcito gliela porgo, tendendo il braccio. «Io lo so. So che sei stata tu» recito osservandola attraverso la notte delle mie ciglia, più scure delle sue.

Il petto di Viola trema di un sussulto, il cuore che le si stropiccia come punto da qualcosa di astratto, ma ben affilato. Un'increspatura le sfiora l'apice della fronte, la stessa che si va a modellare agli angoli della bocca. E l'unico rumore che si sente — oltre il gridìo lontano degli studenti, dall'altra parte del Caravaggio — è quello delle mie ginocchia che dolcemente si piegano, e la suola delle scarpe che sdrucciola contro la terra e gli steli d'erba.

Di nuovo l'armonia di quei violini a risuonare per noi, scontrandosi contro l'effigie immobile e rigida di Viola, le iridi dilatate di sconcerto — la consapevolezza che la verità le è sfuggita al controllo.

«C-come... c-come lo sai... non...» un balbettio incomprensibile tintinna dalla profondità delle sue corde vocali.

Ora le sue dita si aggrappano con fare disperato alla bordura della panchina, qualche scheggia che s'infila oltre l'incarnato, un susseguirsi di piccoli fori. Un dolore ad arrampicarsi gradualmente, come la cognizione di essere stata scoperta e la paura che si dirama quasi fosse un traliccio granuloso, ruvido. «N-non sono stata io» ammette con troppo ritardo, chinando lo sguardo attraversato da un lampo di senso di colpa.

«Lo so, questo è l'importante. E volevo soltanto dire che non sono arrabbiata con te. Tu hai scattato la foto, ma la decisione di pubblicarla è stata di Claudio... tra l'altro una bella fotografia, ci hai ritratti davvero bene. Una buona angolazione» dichiaro incassando la testa sull'ossatura delle spalle, «e so che lo hai fatto per lei. Per Olivia. Tu tieni a lei. L'affetto e l'amore ci costringono a compiere azioni folli».

Ancora la sigaretta è tesa verso Viola, bramante di essere accettata e consumata. Se l'afferrasse, è come se una specie di dichiarazione di pace venisse finalmente sancita fra me e lei.

«Te l'ha detto Olivia che sono stata io? Non mi stupirei se fosse così...», la voce di Viola assume la sfumatura del cristallo che si incrina, e qualcosa, nel mio petto, mi stringe tanto da farmi sfuggire un sospiro...

«Non è stata Olivia, puoi credermi sulla parola. Accetti o no questa sigaretta? Inizia a farmi male il braccio» insisto avanzandole quell'offerta di pace a chiare lettere.

E gli occhi di Viola ritornano sui miei, indugiando appena, per qualche labile attimo. Il labbro nuovamente martoriato dai cardini dei denti.

Mi viene da sorridere... perché quel movimento involontario, dettato dall'ansia, è uguale, identico al mio rosicchiare le unghie delle dita, fino alla carne, fino al sangue. Un atto disperato per mettere a tacere il vorticare di grida e ombre che vivono dentro i nostri animi.

«E va bene. Accetto» cede lei alla fine, con quell'arrendevolezza che non viene mostrata a chiunque, e che di solito si fa attenzione a trattenerla ingabbiata, custodita con riserbo. Le sue dita avvolgono l'estremità della sigaretta e me la porta via, modellandola alla sua bocca.

«Sai come si fuma una sigaretta?» mi viene spontaneo domandarle, senza alcuna presa in giro celata.

«Per chi mi hai preso? Certo che so come si fuma una sigaretta! Certe esperienze le ho provate anche io» esclama Viola con l'aria di chi è stato appena punto sul vivo, «hai da accendere?».

Mi sporgo in avanti, arcuando la schiena, facendo unire la punta della mia Winston alla sua, e lei aspira mentre carta e tabacco prendono a bruciare. Un colpo di tosse le fa vibrare le membra, di colpo. Per questo non riesco a nascondere una smorfia di perplessità allacciata a un che di divertito.

«...è perché non tocco una sigaretta da tanto...» mugugna Viola portandosi la mano innanzi allo spigolo del mento per coprirsi, «i miei polmoni sono troppo in salute».

«Tranquilla... ti credo, ti credo» sussurro sorridendole, come se davvero potessi schernirla per una sciocchezza simile.

Entrambe prendiamo un'altra boccata di fumo, lanciandoci occhiate silenziose, cariche di mille parole, ma ancora la campanella non suona, per cui lasciamo che la calma abbia la meglio. Senza fretta.


«Allora...». È Viola che spezza prima quella pace quasi gradevole. «Tu e Leonardo... è un qualcosa di serio, dunque».

«Sì, direi di sì», e non v'è titubanza alcuna nella mia voce.

Una sicurezza del genere è impressa, marchiata a fuoco nel cuore, infiorettata di ogni sentimento benevolo e dolce come il miele.

Viola emette una risatina, ha il suono della rassegnazione. «Immaginavo. Nonostante abbia condiviso con lui delle cose che molte ragazzine avrebbero pagato per essere al mio posto, non l'ho mai visto... così. Non pensavo che dopo tutto quell'odio potesse provare un sentimento così grande. Ti tiene incastrata fra le sue mani come se fossi un qualcosa di prezioso, Matilde. E forse lo sei davvero, lo sei sempre stata, come il cristallo». E finalmente il mio nome abbandona le sue labbra.

«Tutti siamo cristallo, e fuoco. Un dolce connubio. Saggio è non abusarne troppo, senza far pendere la bilancia da una parte più che dall'altra. Serve equilibrio» le rammento con severità.

«Non è semplice», Viola scuote il capo, un diniego palpabile, un altro tiro di sigaretta, «Olivia... mi manca così tanto. Mi ha dato della puttana, mi ha lanciato addosso le peggiori delle offese e le più mostruose delle occhiate... ma, accidenti... quanto mi manca. Non mi sono resa conto di quanto importante fosse la sua amicizia fino ad ora».

«Allora perché hai fatto quello che hai fatto?» avanzo una domanda così delicata, eppure tanto urgente, ma con il dovuto tatto, una morbidezza che non mette paura.

«Perché... perché Leonardo non l'amava. E io non immaginavo di quanto il suo sentimento fosse forte per lui. Credevo che gli stesse vicino perché era il più desiderato, perché la sua bellezza faceva sfigurare anche uno dei modelli più ricercati, perché insieme davvero stavano d'incanto... e Olivia tiene oltraggiosamente all'apparenza. Ecco... avevo la convinzione che fosse tutta apparenza la loro relazione, lei ne parlava spesso come un qualcosa da sfoggiare, come il più scintillante dei trofei. E Leonardo amava l'avventura... perché avere legami quando già, sostanzialmente, ne aveva uno incastrato nel profondo, già fiorito e ricolmo di colori? Poi parliamoci chiaro, Leonardo piaceva un po' anche a me, non ho avuto il coraggio, la forza, di dirgli di no, di tirarmi indietro. Ed è successo, ci sono andata a letto. Olivia, per un motivo ancora a me oscuro, è venuta a saperlo».

«Non sarà più oscuro, perché sono stata io» dico senza alcuna vergogna, senza alcun tremore, «vi ho visti insieme al Forte d'Alabastro, una sera, e vi ho scattato una foto mentre vi baciavate. All'inizio non ero minimamente intenzionata a farne niente, era lì, nella galleria del telefono. Una foto in mezzo a tante altre. Ma poi le cose con Leonardo sono precipitate, è successo un casino all'Assemblea e io ho voluto vendicarmi di lui».

Viola rimane a osservarmi per qualche secondo, un tempo che sembra infinito, e il vento che sobilla di nuovo i nostri capelli. Gandhi diceva che occhio per occhio il mondo diventa cieco... il problema è che non ce ne rendiamo conto quando lo mettiamo in pratica il famoso "occhio per occhio, dente per dente".

Infine le sue labbra si allargano sino a modellare un ovale perfetto, il preludio di una risata trasparente e allietata. La ragazza con le gote costellate di efelidi esplode a ridere, le fessure degli occhi arricciate. «Incredibile... c'è davvero dell'incredibile a questo mondo».

«Non sei arrabbiata?» chiedo con serietà.

«Tu non sei arrabbiata con me. Perché dovrei esserlo io?» risponde alla mia domanda con un'altra domanda, «E comunque, sono andata a cercarmelo... prima o poi sarebbe venuto fuori. Tsk, che povera illusa che sono... perché non ho scelto Alberto anziché Leonardo? Oh, giusto... perché...».

«...perché ad Alberto piace Marta Brunori...» continuo per lei, «e forse Alberto ha avuto più coraggio ad accettare e ammettere quello che prova».

«Quanto deve essere complicato l'amore, dannazione» ammette Viola dopo una breve pausa, portando un ginocchio contro il petto, la scarpa sopra la panchina.

La mia sigaretta è quasi finita, consumata, respirata. Ne conservo il mozzicone fra le dita, in attesa di gettarlo in un secchio prima di andare in classe. E le mie iridi sono più accese, sfavillanti che mai. Grandi parole hanno il potere di farti vibrare le corde dell'animo.

«L'amore è come un fantasma che gli altri non possono vedere...» chioso flettendo percettibilmente il capo, «molto spesso è grondante di terrore, ma... non devi vederlo, devi percepirlo. E quando lo senti a fior di pelle, a carezzarti con movenze delicate, allora scoprirai che non fa poi così paura».

«Tutta questa confidenza mi sta mettendo seriamente a disagio» borbotta Viola sollevando un sopracciglio, tuttavia... il bocciolo di un sorriso è proprio lì, all'estremità delle labbra, tutto ricamato di fili di gioia, «diciamo che ora che abbiamo ammesso le nostre colpe rispettive, possiamo darci anche un taglio. Ne va della nostra dignità, sai...».

«Hai ragione, possiamo darci anche un taglio adesso» convengo tornando a stringere le fibbie dello zaino, poi volto le spalle, un mattino nuovo che mi attende a braccia aperte, «non lo senti anche tu? L'animo più leggero...?».

«Sì, è una sensazione che non penso di averla mai provata prima» asserisce Viola, ormai il suo viso e le sue lentiggini lontane dalla mia attenzione, «e, Matilde... ti chiedo scusa, spero tu possa perdonarmi... per ogni cosa».

«Abbiamo torto entrambe, Viola. Adesso siamo pari. Comunque grazie, sento che sei stata sincera fino alla fine».



































Ancora Marta.








Bruciano.

Come stigma marchiate a fuoco sulla pelle, pezzi di stelle incandescenti cuciti sul mio incarnato diafano. Un filo sottile in rilievo e che pulsa — grondando sentimenti proibiti, adorazioni tenebrose e gioie violente.

Hanno un tremore tutto loro quelle galassie nere, dalle sfumature violacee, disegnate sulla mia gola. E bruciano, roventi. Insaziabili, come a voler impossessarsi di me poco a poco. Come a volermi vedere arresa totalmente, incondizionatamente denudata di ogni mia sicurezza e ogni mia scheggia di ghiaccio.

Le labbra di lui — morbidezza ultraterrena — a indugiare lì, in quel regno celato dalla stoffa di un maglione, a imprimere la sua essenza come fosse un atto di sublimazione, un'impellenza spaccata di desideri.

A volermi vedere come i petali di una rosa, e lui a incarnare il fuoco vivo. Il gelo si arrende sempre alle fiamme.

E quando quel qualcosa in me si è sciolto, sino a farmi tremolare muscoli e tendini, guizzanti di vita propria, io ho provato un morso di timore.

Una sensazione di terrore gocciolante, a solcare i confini degli occhi, gli scrimoli delle ciglia. Lo sapevo bene...

Sapevo che martedì, una volta aver rimesso piede al Caravaggio, tutto si sarebbe in qualche modo evoluto. Cambiando drasticamente.

La consapevolezza di avere ancora Alberto ricamato addosso a me nel modo più voluttuoso... e il prendere atto di dover affrontare Emilio alla terza ora, appena finito l'intervallo.

Ma stavolta non ho quella paura che mi ha costretto a rifugiarmi nei sotterranei della scuola, la scorsa volta, come il più spaventato dei cerbiatti. Stavolta m'impongo di trattenere la testa in alto e le pupille ben aperte, piene di mille libellule. Anche se... sto vagando per i corridoi del Caravaggio con l'attenzione ben affilata — uno sguardo circospetto puntato in ogni angolo, in ogni studente che mi passa accanto —, un intreccio di braccia al petto quasi che voglia difendermi e un'essenza di ombre a dar vigore alle mie gambe.

Passeggio in mezzo a tutto quel teatro di giubilo e allegria, di sorrisi e parole urlate a mo' di scherno, sentendomi fuori posto, sentendomi di troppo. Una macchia d'inchiostro sbavato in un mare di colori e sfumature sfavillanti — o meglio, una pennellata di indaco. Un colore freddo, distante, sempre avvinghiato all'arcobaleno... e... comunque gelido.

Quasi fosse ornato di efferrata insensibilità. Io così mi vedo, i miei occhi non vedono altro per me.

Matilde, Diego e gli altri sono fuori, all'esterno, godendosi del bagliore del sole. Ma è freddo... sempre freddo.

Odio l'inverno. Ho già fin troppo gelo a imperversare dentro di me... quando esco all'aperto non voglio trovarne dell'altro...

Ho detto di non aver paura, eppure, in silenzio, quasi con casualità, sto evitando Alberto, pregando con ogni petalo di speranza di non incontrarlo.

Non sono rimasta in classe, non mi è sembrato il caso di far destare sospetti, di abbattermi così, in questa maniera. E allora ho scelto di passeggiare — anche se sto fluttuando come un fantasma sempre più trasparente —, rinunciando al drum di metà mattino, passo dopo passo, compiendo giri infiniti, rimirando gli stessi visi e sperando di non incrociare il suo.

"Forse è fuori, con Leonardo... oppure con Viviani. Chissà cosa si saranno detti dopo quella sera...".

Involontariamente sollevo la mano, le dita distese, sino all'altezza della stoffa del maglione, che con dolcezza avvolge e nasconde ogni prova. Ogni peccato. Un sospiro mancato mi attraversa la barriera di denti stretti, una cerniera allacciata e che non dà segni di volersi aprire.

Ora inizio a capire il dolore che ha provato quella rosa... quando, petalo dopo petalo, ne ho interrotto l'esistenza. Annullandone i colori, lasciando quel tripudio di decadimento fra le sue dita chiuse in una morsa di orribile meraviglia e strazio interiore.

Ora sto bruciando anche io, come lei. Ma la tortura è ben più lenta, andamento cheto di una triste litania. Ed è riservata solo e soltanto a me. Non è permesso agli altri sentirla. È la mia condanna.

Percorro per la terza, forse quarta volta, i gradini delle scale che conducono al piano superiore del Caravaggio, quando con la coda dell'occhio, un movimento impercettibile della pupilla, discerno in mezzo a tutto quel viavai di giovani una sagoma sin troppo familiare. Dannatamente conosciuta.

Una splendida effigie di pelle d'avorio e zaffiri come iridi. Quei ciuffi disordinati e soffici, dove ho avuto la fortuna di infilarci i polpastrelli, carezzandone con avidità.

No...

No, no, no, no. Non deve vedermi. Lui non-...

Non può.

Ma perché è da solo? Perché non è insieme agli altri? Perché deve vagare per la scuola andando a somigliare allo spettro di me stessa, più di quanto io vorrei? Perché ostenta quei morsi impressi sulla carne come il più prezioso dei trofei? Perché lo fa con quella casualità?

...perché deve essere così bello? Straziante nel suo incanto e di quegli sguardi così voluttuosi che celano mondi chiusi a chiave.

Lui è dannatamente bello, e me ne sono accorta solo dopo avergli guardato dentro, solo dopo aver rivestito le mie orecchie delle sue parole.

...solo dopo aver tremato con lui.

Così non va, così non va affatto. Non deve vedermi. Non deve catturare i miei occhi con i suoi, non di nuovo, non un'altra volta.

Mossa da un istinto primordiale di salvaguardia, di salvezza urgente, sciolgo le braccia dal seno, lasciandole ricadere sui fianchi, e mi volto, ripercorrendo quei tre gradini e piroettando verso l'ascensore.

"Sta scendendo le scale, sta venendo qui". Premo sul bottone, in attesa che l'ascensore scenda giù, aprendomi le porte di un rifugio sicuro, lontano da tutti, lontano da Alberto.

"Diamine, quanto è lento! All'Assemblea di questo mese suggerisco una seria manutenzione! Ma possibile che Gandolfo non si renda conto di una cosa vitale come questa?".

«Ti prego, ti prego, ti prego...» mormoro poggiando la fronte contro la superficie lucida e gelida delle porte, un rombo lontano sopraggiunge alle mie orecchie. E vi incastro le mani, sperando che si aprano per magia.

Lui sta scendendo... manca poco... un'altra discesa di scale e lui mi vedrà.

«Dannazione, muoviti!». Digrigno i denti con disperazione, provocandomi quel fastidio similare alle unghie che stridono contro una lavagna, o una parete ruvida. Intravedo una luce attraverso lo spiraglio, un qualcosa che sta atterrando con tutta la calma di questo mondo.

I miei occhi inorriditi — costellati di un turbamento che difficilmente svanirà presto — guizzano di nuovo verso destra, la direzione dello scalone principale. E scorgo la bordura di una gamba che fa capolino, la suola di una scarpa che va a collidere con il pavimento.

Le porte si spalancano, una flemma crudele. Ma si spalancano, il paradiso che mi piomba addosso.

E io mi ci tuffo con una disperazione aberrante, un'angoscia a sferzarmi come se fossi priva di ogni indumento. E quei lividi, a palpitare sempre di più, stillanti di vita, di promesse taciute e memorie non troppo lontane.

Mi aggrappo con fiato spezzato all'asta che adorna quel piccolo perimetro, un vano punteggiato di pochi e semplici bottoni, e uno specchio. Dove ho la possibilità di ammirare quello splendido terrore a orpellarmi i lineamenti, spaccandone ogni grazia, ogni armonia.

Non indugio un secondo di più e premo con forza esagerata il pulsante che conduce l'ascensore al piano inferiore, senza neanche rifletterci troppo. Voglio isolarmi, nei sotterranei non ci sarà anima viva. Ci sarò solo io e quella sensazione soffocante a infestare la dimora del mio cuore, ben più ferina dei cristalli di ghiaccio che mi porto dentro come un qualcosa di cui poterne fare vanto.

Il buio... necessito solo di uno spiraglio di buio ad annebbiarmi il brillio delle iridi — terribilmente svestite, indifese, il rintocco di un cuore sgualcito proprio lì, dove il verde smeraldo si fonde con le ombre della pupilla, laddove ho trattenuto imprigionato il ricordo di Alberto, il suo nome disegnato di inchiostro pregiato e orpelli argentati.

Lo sto custodendo con dedizione, dove un tempo remoto giacevano le lettere di Damiano.

Oh... con troppa leggerezza l'ho preservato dentro di me, ricevendo in cambio una tormenta di fiocchi di neve. Troppa rilevanza ho dato lui.

Un soffio d'anima muore incastrato fra le costole, adagiandosi supino in quel cimitero di carne — l'ansia ancora a mordicchiarmi come un tarlo fastidioso, quel timore di non essere del tutto al sicuro.

Fletto le ginocchia per riacquisire un briciolo di equilibrio, senza abbandonare la presa da quel poggiamano usurato e scivoloso. E resto a scrutare quelle dannate porte che non danno il minimo cenno a volersi chiudere, il rombo ovattato di un qualcosa in attesa. Come l'angoscia che si sta allargando nel mio petto nell'esatto modo di una ragnatela, andando a corrompere ogni tassello della mia effigie tremolante.

"Avessi una spada laser darei di matto... farei a pezzi questa stupida scatola di ferro! E poi taglierei in due Gandolfo!".

Finalmente il bordo delle porte iniziano a vibrare, avanzando mano a mano... manca poco... ancora pochi centimetri... millimetri... le mie palpebre che vanno a rivestire gli occhi in un atto di completo abbandono e liberazione. Il nodo oppressivo che avevo alla gola che sembra dare il presagio di volersi districare.

Ma qualcosa si blocca, si sofferma nell'aria, il mondo che s'immobilizza e il terreno che svanisce da sotto le mie gambe.

Una mano, delle dita s'incastrano fra le porte e la bordura della chiusura, e la partenza dell'ascensore che viene rimandata.

Le iridi di Alberto si stagliano al di sotto di quei ciuffi scuri a incorniciargli il viso come il più incantevole dei ricami — sguardo da predatore, uno sfavillio ad attraversarlo come una meteora infuocata, il folto delle sopracciglia a decorare quella meraviglia di viso con le stesse fattezze di un gioco di ombre.

Un qualcosa mi si accartoccia al centro del petto, pungendomi il cuore — il groviglio di quei germogli di enigmi appena fioriti.

D'improvviso, mi sento così piccina nella mia statura di un metro scarno e sessantotto miseri centimetri.

L'orlo del labbro inferiore viene colto da un tremito e quella costellazione di lividore — che inneggia alla più estrema delle passioni, a quella bramosia ardente, senza controllo — sembra urlare il suo nome, premendo contro la stoffa. Sento che la vorrebbe lacerare. Ridurla in mille pezzi, strappando anche me medesima se necessario.

E invece... l'unica azione che compio è quella di coprirmi la bocca con entrambe le mani, quasi volessi soffocare un grido d'orrore.

«...sapevo di aver visto bene».

Il ghirigoro di un sorriso gli si disegna all'angolo delle labbra, e risplende talmente di beltà che faccio un certo sforzo per rimanere lì, a rimirarlo senza farmi sfuggire quel battito di ciglia in più. Di troppo. «Eri tu» chiosa con una voluttà talmente tangibile, irrefutabile, che mi costringo a incastrarmi meglio contro la parete riflettente dell'ascensore.

I succhiotti che brillano su quella perfezione d'incarnato opalino — a reclamare gli stessi che ho addosso anche io. Una scia di tremolii lascia docili baci lungo la schiena, in quelle spalle che sostituiscono la bellezza di un paio di eteree ali.

«...s-se vuoi... se vuoi usare... l'ascensore... allora io prendo le scale» un balbettio incomprensibile abbandona la mia lingua, tuffandosi all'infuori e divenendo qualcosa dal suono ridicolo.

E poi oso un passo in avanti, cercando di superarlo... invano. Sperando come una povera illusa che mi avrebbe lasciato passare...

"Quale incantevole illusione... quale strabiliante ironia...".

Mi viene quasi da ridere.

Alberto blocca ogni mia via di fuga con il braccio, un intreccio umano di zaffiri e morsi a mezzelune.

«Tu non vai da nessuna parte» sussurra con una decisione che sollecita una dolce obbedienza.

In un movimento d'aria egli si muove in avanti, sovrastandomi con la sua altezza e sbriciolandomi di ogni mia convinzione, di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Sbeccando il rimasuglio di fragilità impuntito al mio spirito, da sempre avvizzito e alterato troppe volte per potermene ricordare.

E allora io ho lasciato che la neve attecchisse e germogliasse in cristalli di ghiaccio, boccioli alabastrini.

«Io voglio stare da sola...» mormoro con titubanza, anelando disperata a un minimo di zelo, ma ciò che ne esce rasenta la timidezza più antica. E l'unica cosa che mi è permessa di fare è quella di rimanere ad assistere, alle porte che si chiudono alle sue spalle e a lui che si avvicina, lento e sfrontato.

La precisione e l'attesa del cacciatore.

«Anche io, che fortunata coincidenza...» recitano le sue labbra d'intesa.

«Albi... Albi... per favore...». La voce che mi arriva alle orecchie non sembra nemmeno la mia per quanto è fievole, un refolo di delicatezza che non sapevo di possedere. "Così lo istigo... non desistere".

«Tu continua a chiamarmi Albi e meno resterai sola».

«È il tuo nome...» dichiaro tentennante, deglutendo un nodo di vocaboli decisamente poco consoni.

«Non se lo spezzi a quella maniera e lo rivesti di supplica così... così... incantevole». Nel momento esatto in cui va a sfiorarmi con la punta delle dita, scostandomi ciuffi argentei dagli occhi, l'ascensore inizia a scendere, portandoci direttamente all'inferno.

«Mi stavi evitando, per caso?».

Guizzo le mie pupille piantandole sulle sue. C'è un che di divertito che mi fa attorcigliare la lingua, puntellandola contro il palato. «Io volevo stare da sola... non c'è nient'altro». Bugia. Splendida e seducente bugia. «Anche adesso, vorrei tanto...». Ancora bugia.

"Ma tu, Alberto, le sai scorgere le verità travestite da patetiche menzogne... hai inteso che fattezze hanno le mie, da quella notte, in cui ti ho bruciato".

«Vorresti... cosa?».

«...Vorrei...».

«Continua... ti ascolto...» mi incita lui, ormai la distanza fra di noi annullata, il refolo dei suoi respiri a danzare sulle mie ciglia incurvate.

«Vorrei che tu...». Mi mordo il labbro, conficcando senza premura. La sommità del suo naso a carezzare amabilmente la mia. «...vorrei che tu te ne andassi prima che io inizi a pronunciare cose di cui potrei pentirmene. Amaramente».

«Dille pure, non mi offendo». La sua risata mi giunge come una boccata d'aria fresca, energica. Le nostre labbra in rotta di collisione, un'ala di farfalla a dividerle...

E le porte dell'ascensore si aprono, il tenebrore dei sotterranei ci illumina di un fulgore oscuro, impenetrabile.

Un lampo di senno risplende nelle mie iridi, diramandosi in me, facendomi sussultare e dandomi quella forza primordiale di premere le mani contro il suo petto e spingerlo via; tagliandomi una via di scampo.

«Sei proprio uno scemo, Alberto Del Bianco... un vero e proprio scemo...» proferisco a corto di fiato una volta uscita di tutta fretta dall'ascensore.

«Ricordati, ancora ti devo una rosa nera. Me l'hai chiesta esplicitamente tu» replica infilando le mani nelle tasche dei pantaloni e alzando il mento con provocazione, un sorrisino sghembo a orpellargli quei dannati lineamenti che — per tutti i Sith, me ne pentirò dopo averlo detto — mi fanno venire una voglia di riempirlo di morsi, e poi di baci, e di nuovo morsi, e baci a ricucire il dolore.



































La sensazione assillante, stretta opprimente al centro del petto, continua a imperversare nella landa desolata del mio cuore. Soprattutto quando la campanella di fine intervallo suona e io vado a sedere al mio banco, con Matilde accanto a me, e la presenza di Diego e Marco alle mie spalle.

Nemmeno un briciolo di nicotina a irretire questa mia volontà difettosa — ma forse... c'è qualcosa di più incantevole di una sigaretta che sfinisce e danneggia il tessuto dei polmoni.

È la terza ora... e la terza ora del martedì è sinonimo di storia dell'arte, con Lunanuova.

Mi torturo, mossa da un istinto remoto, lunghi artigli e intenzione malevola, l'incarnato dei palmi delle mani scavati di sentieri grondanti di afflizioni, unghie tremolanti a scalfire — lacrimevole punizione —, un consacrare una pena che so essere tenue... inutile. Vana.

E allora, insoddisfatta, passo all'orlo delle labbra, lasciando cicatrici sperando che sfiorino il profondo, bramando fitte, un rammarico che sai di meritare.

Sussulto quando la mano di Matilde si posa con delicatezza sulla stoffa stropicciata dei jeans, rimanendo nascosta dietro ciuffi argentei, che scivolano verso il basso, l'osservo con quella paura nuda e cruda. Con lei, io posso.

«Andrà tutto bene» mormora con un sorriso gentile cucito alle parole — un sorriso che ormai da un po' non le vedevo più.

"Andrà di merda, invece, perché io... perché io...".

La porta del quinto D viene richiusa con un rumore esile, la chiusura che si allaccia teneramente poiché mossa da mani morbide, attente.

Uno spostamento nell'aria, fogli di libri che si spiegazzano e fruscio della carta di quaderni semi-aperti, e un refolo di vento entrato dalla finestra aperta va a staffilare i capelli corvini — piume nere — di Emilio. Colui che, quasi con disperazione, ho rivestito di ghiaccio... e lui mi ha lasciata fare, ha lasciato che le mie dita tracciassero pulviscoli di neve, a riempire le sue crepe così dannatamente infossate, arcane.

Ma forse... è il modo sbagliato per guarire.

I nostri vuoti sono troppo grandi per potersi lenire a vicenda. E io altro non potrei donargli se non angelica freddezza, in quei suoi fiori di ginepro già appassiti.

Non ho i bagliori del sole addosso, ho la bellezza distante della luna. E la luna... per quanto è ricoperta di splendore... non darà mai baci di fulgore, ma carezze di riverberi perlacei, aloni lattiginosi.

Io ho bisogno di luci, di colori danzanti e scintillii a riflettersi sui miei occhi. Mendico il fuoco come l'anima più miserabile, uno spirito tormentato e lacerato da troppe dita.

...con quella casualità che distrugge.

Vorrei alzarmi dalla sedia, flettendo le ginocchia, e mettermi a urlare che mi dispiace, che tutto questo mi ha colpito come la più crudele delle tempeste, che vorrei tanto desiderare di tornare indietro e annullare ogni cosa... ma la verità è che non lo farei, non muoverei un dito. Scegliendo di rimanere aggrappata al presente, senza guardarmi più indietro con quella sfacciata ostinazione.

Perché... in fondo... fra i petali di una rosa bruciata e cristalli di ghiaccio, io ho scelto. Senza nemmeno accorgermene.

Emilio, quando entra in classe, tiene il capo chino, le iridi rivestite di fosche ciglia e la mano stretta alla fibbia della borsa. Non smetto un attimo di osservarlo, nemmeno quando va a occupare la cattedra. «Oggi ripassiamo gli argomenti che abbiamo affrontato fin'ora. Aprite la pagina centosei del libro» ordina estraendo la penna stilografica.

«Ma, prof., proprio dall'inizio inizio?» interviene Veronica con l'espressione arricciata di stupore, gli occhi impressi sulla pagina del libro.

«Per andare avanti non c'è niente di meglio che ripartire dagli albori». È la risposta perentoria di Emilio, un tono solenne, severo, da professore.

«Ma così... così ci metteremo un'eternità ad arrivare alla fine del programma! Ne è sicuro che convenga? La media con la sua materia è abbastanza promettente in questa classe... occorre davvero fare un ripasso generale?» insiste Veronica premendosi una mano contro la guancia.

«Sì, occorre. Penso sia la cosa migliore» taglia corto il professore, scostandosi un ciuffo brunito dalla fronte.

«Non insistere, Vero... per favore. A me non dispiace ripassare un po' le cose già fatte» sento Yousef che si sporge dal suo banco per poi sussurrare a Veronica un chiaro ammonimento.

«A te non dispiace ripassare perché tu non hai voglia di studiare argomenti che poi chiederà a una futura interrogazione, Yousef!» sibila lei roteando le pupille.

E i due iniziano a battibeccare, tuttavia le mie orecchie vengono foderate da una patina di sconcerto e non colgo il succo della loro discussione. Troppo impegnata a trattenere gli occhi sulla sagoma di Emilio, che non azzarda minimamente ad alzare il capo, a incrociare il mio sguardo.

La situazione non sembra avere intenzione di mutare, perché durante tutta la sua ora di lezione incunea la sua attenzione sulle frasi stampate del libro, nero su bianco. Spiegando, parlando, formulando ragionamenti e intessendo precisazioni. La voce costante, che non cede di un solo battito.

Solo il mio respiro è un susseguirsi di trafitture — come le mie dita strette alla matita, scosse da tremiti incontrollabili.

Ma la parte peggiore ancora non era arrivata...

La parte più brutale sopravviene alla fine della terza ora, dopo che lui raccoglie tutti i suoi averi per poi allontanarsi celere dalla classe. E poco dopo... mi arriva un suo messaggio.

Breve, stringato, eppure riboccante di una paura troppo grande.



Emilio, 11:41


- Il tempo ha smesso di scorrere di nuovo. Perdonami.


























Matilde.





«Finalmente sei arrivata», l'accusa di Violetta mi arriva alle orecchie pungendo di flebile livore.

Lo chignon disordinato e i ciuffi sfuggiti all'incastro, le iridi opache, di una bellezza di vuoto senza fine, disseminate di rimasugli di cenere, sono ciò che danno conferma ai miei dubbi.

Lei è stanca. Posso intravedere con chiarezza quei resti raccolti e stretti malamente fra le braccia, stando attenta a non farseli sfuggire. Troppo allentati, come chiodi svitati, troppo sciupati. E stona, terribilmente — una triste disarmonia con le sfumature sgargianti del cinema, tripudio di felicità marchiata anni Ottanta e "L'Estasi dell'oro" di Ennio Morricone a riecheggiare in ogni angolo.

Stona perfino con i colori della divisa e quel papillon annodato quasi con noia.

«Scusami, Vì, sono dovuta andare a fare il pieno alla macchina altrimenti restavo a piedi» mi scuso con la consapevolezza di essere colpevole, un ritardo di quasi quindici minuti sarebbe da omicidio, e un aspetto trafelato a confermare quel fondo di verità.

«Dai... tranquilla... non fa niente. Dopotutto, non c'è molta gente oggi e io non è che abbia chissà quanta voglia di tornarmene a casa» chiosa Violetta lasciandosi andare in un lento sospiro, che racchiude ben più di un semplice "tranquilla, non fa niente".

«Ben arrivata, Matilde!» mi saluta Giovanni tutto allegro e spensierato, sbucando dall'angolo bar. I capelli legati in una piccola coda e quegli occhi scuri così sempre carichi di gentilezza e gaudio. Un contrasto con quelli di Violetta... una vera e propria divergenza.

«Ciao, Jev. Pronto a lavorare?» ricambio con affabile cortesia e una stilla di dolcezza, che ora so di potergli fare dono.

«Per me il cinema non è lavorare, per me è vivere» recita strizzandomi l'occhio.

«Per me è voglia di svanire...» mormora Violetta alzandosi dallo sgabello dietro il bancone della cassa, le mani premute contro la superficie come a bramare un appiglio, uno qualsiasi.

«Violetta... io... io non so come poterti aiutare. Ma ti prego, se c'è un modo, uno qualunque, dimmelo. Nel mio piccolo voglio fare qualcosa» replico mentre mi accosto a lei lentamente, le sopracciglia arcuate di sincero dispiacere.

Anche se dubito di poter lenire soltanto un po' di quel dolore a pizzicarle la pelle, sino a sfiorarle l'animo... non è facile.

Poiché il suo è un dolore grigio, sfumato di mille gradazioni — è quel dolore elevato a prezzo da pagare per aver vissuto accanto a una persona che si è amata con tutto noi stessi... e il prezzo del tempo è caro in questi ultimi tempi.

«Non c'è niente da fare, nessuno può aiutarmi. Forse, la verità, è che voglio soffrire in silenzio, da sola» proferisce in un soffio d'afflizione.

«Perché non vuoi tornare a casa?» tuttavia le domando.

«Perché a casa troverei le mie coinquiline, un continuo parlare... parole su parole... stronzate su stronzate... e soprattutto, mi raccontano le loro cose! Ogni fottuta cosa che accade loro, ecco che vengono da me e si svuotano di ogni dettaglio, considerandomi al pari di un contenitore di vetro. E io sono stanca... per troppo tempo ho avuto la compagnia di tutti, adesso voglio solo la solitudine. È chiedere tanto?».

«Sono tue amiche, Violetta, ti reputano una fonte sicura cui affidare le loro esperienze più personali, belle o stupide che siano».

«Voglio solo sapere perché... Perché le persone mi raccontano le loro cose più intime e delicate? Perché mi fanno carico dei loro problemi? Non voglio nessuno che faccia affidamento a me, perché io non li posso aiutare! Non posso aiutare nemmeno me stessa, capisci?». E Violetta esplode, una crepa che si dilata e che mai più, probabilmente, riuscirà a rimarginarsi.

Stringo gli orli delle labbra, senza smettere di fissarla. Allungo le mie mani verso le sue, carezzandone con delicatezza la bordura delle dita. Un cerotto proprio lì, sull'anulare della mano sinistra. Sorrido sentendo la sua pelle rabbrividire sotto il mio tocco del tutto inaspettato.

«Magari le persone ti raccontano le loro cose perché, nel profondo, è già un sollievo di per sé condividerle con qualcuno. Sembra una sciocchezza, ma... un problema diviso a metà ha un peso diverso. Si sopporta meglio. E, inconsciamente, anche solo stando ad ascoltare, offri la salvezza più grande».

E i miei pensieri danzano sino a sfiorare la sfumatura di Leonardo impressa nella mia mente, colui che si è fatto carico del mio fardello a metà, offrendomi salvezza e un dolcissimo affetto. Ora, il ricordo di quel bacio dato a Claudio ha un peso diverso. Più tollerabile.

Una lacrima trabocca dall'argine dell'occhio di Violetta. Minuscola, inavvertibile quasi, ma c'è e scende lentamente, una scia umida a scavare sul suo zigomo. Il viso deturpato da un urgente bisogno di piangere, di sfogarsi.

«Ragazze» c'interrompe Giovanni venendoci incontro, «ho un biglietto in più per andare a vedere Brunori Sas a teatro. Lo intervisteranno e, forse, alla fine potrebbe cantare qualcosa. Chi di voi due vuole avere questa immensa fortuna?».

Io e Violetta rimaniamo a guardarci per qualche secondo — io che le sorrido e sollevo le sopracciglia in una risposta piuttosto ovvia.

«Credo che...» dico con dolcezza, «credo che a Violetta farebbe molto piacere».

Una dolcezza che, tuttavia, ha il preciso compito di occultare ogni mia sensazione. Perché, alla fine del mio turno all'Arcadium, sarei andata con Leonardo a parlare con Claudio. Ad affrontare il mio demone interiore. E io devo esserci.



















Again Marta.





«Marta? Marta, tesoro... andiamo. C'è Emma al telefono e ha chiesto di parlare con te».

La voce di mia madre attutita dalla porta chiusa a chiave della mia camera giunge alle mie orecchie come un lamento lontano, una preghiera che mai avrò l'intenzione di esaudire.

E più lei bussa contro la superficie di legno, più io mi stringo le ginocchia addosso, incastrandole contro il petto, sperando di modellarmi in un qualcosa di astratto per poi svanire.

«...Marta?». Ancora. Di nuovo che pronuncia il mio nome, sapendo con certezza che non cederò di una singola briciola.

«Adesso no, mamma. Devo studiare, sono piena di compiti» recito con una voce estranea, che stride contro un qualcosa di metallico, zampillando di mille scintille. E roteo le pupille verso lo zaino di scuola sigillato, i libri a giacere all'interno, mai aperti una sola volta durante la giornata...

«Ma tua sorella vuole solo salutarti e chiederti come stai. Non fare la cattiva».

«La chiamerò più tardi». La presa attorno alle mie gambe piegate aumenta, e un sussulto annodato di tormenti picchietta contro il cristallo sottile del mio cuore.

Mi sto rompendo... sento che mi sto incrinando sempre di più... con la lentezza spietata di un ticchettio che scorre placido. Sento che andrò in mille schegge sopra la trapunta del mio letto... brandelli di me ovunque.


«Emma, io non so cosa le sia preso... ha detto che ti chiamerà lei più tardi», sento la mamma che finalmente abbandona quei ridicoli tentativi di farmi emergere dalla mia camera, regno di sospiri e tralicci di triboli.

Ascolto con attenzione i suoi passi a risuonare per tutto il vuoto della casa, silenziosa, allontanarsi poco a poco. Imprimo nella mente quel suono finché non scompare del tutto, finché non realizzo di essere effettivamente sola — l'eco dei miei pensieri bui a rimbombare fra le pareti della psiche, un qualcosa che io, soltanto io, devo sopportare. È giusto che sia io a sopportare.

L'inverno alla fine è arrivato, cresciuto sotto steli d'erba, mirando al cielo. E il mio cielo avverte un bisogno primordiale di piangere — pioggia senza fine.

Il tempo ha smesso di scorrere di nuovo.

E ho smesso anche io.

Complicato... tutto deve essere così dannatamente complicato... perché?

Improvvisamente, le pareti che racchiudono la mia anima rivestita di rovi sembrano piombarmi addosso, volontà di soffocarmi. Costringendomi a compiere un balzo per mettermi in piedi, le ginocchia che fanno male, e il cuore ancora di più.

Costringendomi ad aprire quella porta, fuggendo via, fuori di casa, senza nemmeno la stoffa di un giacchetto a proteggermi dal freddo, e senza farmi vedere da mia madre.

Sto per piangere. Le sento le lacrime pizzicarmi l'effigie delle pupille.

Ma quando metto piede all'esterno, sul cemento del marciapiede, oltre l'antico portone del mio palazzo, una sensazione di freddo s'infiltra in me, fra la pelle, fra i capelli, fra le screpolature delle labbra e fra i sentimenti morenti, accasciati a terra tremebondi. Fiori appassiti.

E cammino, incastrando me stessa in un intreccio di braccia, sperando che almeno loro possano darmi dolcezza... una docile premura. Mia, mia, solo mia.

Soltanto io stessa posso abbellirmi di trine d'amore.

Un qualcosa che vibra si fa strada sulla tasca dei miei jeans, un messaggio di Instagram appena arrivato.

Tiro su con il naso, strofinandomi gli occhi lucidi, mentre vado a impossessarmi del cellulare.




A_DelBianco


- Cosa fai?











...sto bruciando come quella rosa che mi donasti tu.


Ma l'unica cosa che faccio è quella di visualizzare il messaggio senza rispondere. Le dita non ne vogliono sapere di formulare un brindello di risposta... anche la più sciocca.

Ed è per questo che serro le palpebre con estrema fatica, le gambe che non smettono di far muovere il mio scheletro in un'unica direzione.

Però, dentro di me, so con certezza che il secondo nome di Alberto è "insistenza" — testardaggine quanto la mia —, e infatti un secondo messaggio non tarda ad arrivare.




A_DelBianco


- Non sono nella posizione di essere ignorato.








No, Albi... nessuno è nella posizione di essere ignorato, nessuno.

Eppure, non lo facciamo costantemente? Senza rendercene conto, con casualità, e la semplicità con cui respiriamo.

E questa è la stilla che fa traboccare il vaso incrinato di sofferenze senza fine... gemme di lacrime tracimano dalle pieghe dei miei occhi, le ciglia bagnate che mi offuscano la vista. Quanto vorrei che fosse lo stesso per ogni cosa che rovino, quanto vorrei che venissero offuscate anche loro...

Perché io lo so, io so di rovinare tutto... di nuovo... ancora una volta... come accadde con Damiano.








A_DelBianco


- Marta, ma si può sapere che sta succedendo?








Nuovamente spezzata, e un preludio di tempesta di ghiaccio pronta ad avvolgermi e portarmi via con sé.

Non ci sono riuscita ad alleviare il dolore cicatrizzato di Emilio e ho paura — zanne affilate a mordermi e a sporcarmi di sangue nero —, il terrore liliale, di rovinare anche Alberto.

Inizia a fare freddo.





A_DelBianco


- Dammi il tuo numero così ti chiamo!








Non oso rispondere nemmeno adesso. L'unico gesto che mi è permesso di compiere è quello di fermare le mie caviglie, e rannicchiarmi sui gradini di un palazzo vecchio quanto il mio. Una parvenza di umido e gelido attecchisce contro i jeans, ma non ci presto troppa attenzione.

Lascio che catturi il mio interesse lo sdrucciolare delle Vans sul suolo costellato di cavillature, come se fosse davvero un qualcosa di importante.





A_DelBianco


- Bene, vorrà dire che farò a modo mio.








Incastro gli spigoli del mio viso nell'incavo del gomito e i capelli a danzare assumendo le fattezze di un'argentea cascata. Un po' come quella che sta compiendo carezze sull'orlo delle guance.

"Non ti arrendi mai, Alberto, eh?".


E, dopo un tempo che sembra interminabile, il telefono anziché vibrare di un messaggio, squilla facendomi sussultare. Un numero non salvato sfavilla sul display impiastricciato di orme delle dita. Dovrei lasciare che entri la segreteria... dovrei chiudere la telefonata e fine.

Basta solo premere su quel disegno rosso, lì, in rilievo... basta così poco... un semplice gesto, una volontà che agisce per conto mio.

Eppure, quella volontà, non conduce il mio dito laddove avrei lacerato ogni cosa, bensì in una sfumatura verde, l'accettazione di un destino sempre più vicino.

«C-come hai avuto il mio numero...?» mormoro con voce terribilmente spezzata, la schiena ricurva.

«Ho chiamato Leonardo, che ha chiamato Matilde, e me lo sono fatto dare dicendo che era questione di vita o di morte».

Una spiegazione più che chiara, semplice da capire. Ma quella nota ansimante, che gronda preoccupazione, mi stringe il cuore, come se lo imprigionasse nelle sue stesse dita. È amabilità, racchiusa in quel gesto astratto, intangibile, è lo sfavillio di una meravigliosa attenzione affiorata nei pensieri di qualcuno che ha rilevanza.

Il ghirigoro della gioia si disegna sulle mie iridi bagnate... con un pensiero cucito addosso: la gioia non condivisa, muore.

Un singulto di pianto guizza nella gola.

«Stai... Marta, stai piangendo?» mi chiede Alberto con un velo di terrore, e lo vedo premere le proprie labbra al bordo del cellulare, in un gesto d'impotenza.

«Non lo so più neanche io cosa sto facendo...» chioso piegando il capo, e i capelli a cascarmi dolcemente verso sinistra.

«Dove sei? Dimmi dove sei».

«Sono... lontana. Sono divenuta una speranza morta, l'ennesimo fantasma di un grande cimitero e voglio essere abbandonata a me stessa, chiedo questo soltanto».

«Marta» ripete lui irremovibile, una severità che provoca in me l'ennesimo sussulto, «dimmi dove diamine sei. Adesso».

«Perché t'importa così tanto...?».

«Te lo spiego quando sarò con te, di quanto m'importa».

E alla fine cedo. Gli rivelo dove mi trovo, il punto preciso dove scorgere il mucchio di ossa e germogli avvizziti che vanno a comporre la mia effigie.

Realizzando un dettaglio incuneato fra le crepe di un segreto color indaco — noi tutti ci perdiamo per poi essere trovati.






















Le mie iridi osservano il mondo proiettato dinanzi a loro, immobili, come congelate, rimirando con accortezza ogni piccola finezza, persino quelle insignificanti.

Un pettirosso fermo a riposare su una cassetta delle lettere, persone — vite — che entrano ed escono da botteghe e negozi, turbinii di foglie a volteggiare mosse dal vento, cani al guinzaglio, con la felicità disegnata nelle loro lingue penzolanti, le sommità degli alberi, alte e solenni, unici veri dei delle nostre esistenze. Un gatto sull'orlo di un terrazzo con le stesse fattezze di quegli alberi maestosi, portamento da re mentre osserva il viavai sotto ai suoi occhi felini.

«Sei sicura?». M'interrompe la voce di Alberto, spezzando quell'incanto di susseguirsi di immagini, vivide e reali.

E lì, racchiuse fra le fenditure di quella domanda in apparenza semplice, vi sono una vastità di emozioni, compresa quella titubanza che normalmente si riserva a una persona stremata, esausta.

Rivesto per un attimo le iridi di buio, concentrandomi sulle gambe intrecciate, premute contro il sedile della sua Cinquecento, e sullo strofinio di unghie sulla pelle dei palmi. I tendini arricciati, che prudono al di sotto di quell'incarnato raggelato, i battiti lenti a popolare le ragnatele dei polsi.

E annuso — assaporo — il suo profumo... una sigaretta appena fumata e una fragranza tempestata di limone e cannella. Un profumo che inebria. Trame di lui in ogni centimetro, qui dentro.

...forse, anche in me.

I lividi sul collo a bruciare come marchi impressi di quella sigaretta.

«Sì, sono sicura» un soffio di mormorio abbandona le mie labbra, le palpebre che si sollevano verso l'alto, pronta per accogliere di nuovo la luce del pomeriggio.

«Perché proprio lì?» chiede senza distogliere l'attenzione dalla strada, lo spigolo della mandibola teso di apprensione.

«Perché è necessario ripartire dagli inizi... per andare avanti». E ritornare in quel luogo così ricamato di ricordi affatto felici, è la soluzione per affrontare il futuro. Un qualcosa di azzardato, che potrebbe tessere in me nuovi fili di triboli e tristezze... ma lo devo fare, devo provare.

Devo essere coraggiosa, per una volta. Coraggiosa come Matilde. Coraggiosa per coloro che mi sono rimasti accanto di loro spontanea volontà, senza imposizioni.

«Tornare dove l'ho... fatto per la... prima volta con...» recito spezzando parole, modellando la voce, «...con Damiano... mi aiuterà a capire».

La Cinquecento di Alberto si arresta in un parcheggio dall'aspetto deserto e dimenticato dall'intera Firenze, vicino all'ingresso di Parco Fedi. Celato dalle frange di alberi rigogliosi e incolti, e da ombre che mai più se ne andranno da lì.

I miei ricordi vorticano d'un impeto infelice, straziante, che cozza nell'aggroviglio di ghiaccio ed evocazioni assopite. La pelle percorsa da strinature, laddove, un tempo remoto... le dita di Damiano avevano giocato con me come se fossi stata una bambola di pezza e non una ragazza piena di speranza e amore da donare.

Avverto una stretta al cuore, un istante lontano, foderato di un pizzo di solerzia al voler dimenticare e di un merletto di crudeltà — è come se ce l'avessi innanzi a me, lo spettacolo di un animo insensibile che prende il posto di quello vecchio, di quello oramai difettoso, anomalo. Quasi stessi rivivendo quel momento osservando dall'alto, silente, immobile.

È proprio qui, esattamente qui che Damiano Corbaccio mi strappò via la spensieratezza e quella delicatezza che dovrebbe avere la neve... elevandomi a colei che seminava tempesta.

«Io qui mi sono persa» esordisco piano piano, la voce flebile, «è qui che tutto è iniziato».

E me li sento addosso gli occhi di Alberto, così pieni di me, così pieni di un amore inspiegabile... ancora acerbo per poterlo dire ad alta voce. Ma c'è, prova in tutti i modi a uscire da lì, da quelle sbarre di blu profondo, tentando di raggiungermi, per poi stringermi e non lasciarmi andare più via.

«Più vi racconterò di me, meno saprete chi sono. Per questo ho scelto di mostrarti. Mostrare equivale a più di mille e mille parole. Ed era giusto che tu dovessi vedere, di quanto sia squallido il luogo della mia prima volta. Lontano dal mondo e, soprattutto, lontano da colui che fingeva di farmi sentire importante. ...che povera cogliona che ero».

Le lacrime prosciugate sulla sommità delle guance vengono subito irrorate, nuove gemme, un altro abbandono di ricordi cancerogeni.

«Damiano... D-Damiano voleva solo usarmi. Un involucro come tanti altri ero per lui. Ma tu... tu vuoi ascoltarmi, vivermi. Quindi io devo raccontarti di me, devi sapere cosa mi porto dentro come un amico dall'aspetto dolce, ma dalle fattezze di un vero mostro. D-devi sapere che io non ho il dono del guarire le ferite, io le ferite le faccio dilatare di più. Perché io ho imparato l'arte dell'essere neve, a trattenerla in punta di dita e a rivestirne gli altri. Se tu hai delle crepe, in te, ti chiedo scusa... ma non le so lenire. Perché io sono la prima ad averne bisogno...».

«Ferite... crepe... chiedi se ne abbia anche io...» pronuncia Alberto picchiettando sul volante, una ruga di concentrazione affiorata sulla fronte, «ne ho. Come tutti... forse con un'importanza minore, ma ce le ho. Quando avevo undici anni io... ho rischiato di morire annegato. Un semplice bagno in un lago stava divenendo per me la fine dei miei giorni. Ma mi hanno salvato, davvero sull'orlo, un altro minuto e non sarei qui con te, a parlarne. Ad oggi, mia madre è costantemente apprensiva e piena di riguardi per me, ha sempre il timore di vedermi volare via, come un'anima leggera. E io ho paura dell'acqua, evito il mare e la piscina come se fossero le peggiori delle malattie. Ho perfino il terrore di farmi il bagno nella vasca. A volte mi viene da piangere, te lo giuro, per questa mia cordardia che mai più, probabilmente, andrà via. Ma è il mio demone con cui convivere. L'ho accettato tempo fa, Marta, non ti sto chiedendo di guarirmi. Ti sto chiedendo di... accettarmi per quello che sono, forse un disastro, forse una manciata di petali brucianti, forse colui che non fa altro che punzecchiarti, prendendoti in giro per la tua adorazione verso Star Wars... forse...-».

Ma non lo lascio finire. Quella frase non vedrà mai una fine.

Perché, mossa da un istinto inspiegabile, una scintilla di fuoco — la prima che affiora da sola, senza alcuna persuasione o istigazione —, lo bacio. Io faccio collidere le mie labbra con le sue, sporgendomi oltre il sedile, la sfacciataggine a decorare quel gesto così incalzante, ricolmo di desiderio fin'ora taciuto.

Dura fragili istanti, effimeri attimi che ben presto svaniscono in una nuvola di polvere scintillante.

«S-scusa» balbetto specchiandomi nelle sue iridi, dilatate e di un ricamo di stupore... felicità.

Gioia condivisa. Scorgo il suo petto gonfiarsi di una sensazione inaudita.

Alberto si ricompone velocemente, e un ghigno voluttuoso gli affiora in viso, avvicinandosi a me, azzerando quella distanza che io stessa ho imbastito per la seconda volta. Resomi conto di averlo baciato davvero.

«Sei stata poco convincente. Riprova». Il suo respiro alacre si spezza sulle mie labbra, stritolandomi con incantevoli impressioni.

«Ti chiedo... ti chiedo scusa».

«Io non mi riferivo alle tue scuse. Io mi riferivo a qualcos'altro...». E senza aggiungere altro, slaccia la mia cintura di sicurezza, lasciando che saetti all'indietro, liberandomi.

Sfiorandomi con una morbidezza che mi stropiccia il cuore, mi solleva e mi conduce, lentamente, sopra di lui. Per Alberto non sono una bambola di pezza... sono un qualcosa che potrebbe incrinarsi da un momento all'altro, qualcosa di cui prendersi cura.

I bordi delle mie cosce avvolgono il suo bacino e il mio petto si cuce al suo, un cuore a sopraffare l'altro.

Attratte come calamite di estrema potenza, le nostre bocche tornano a modellarsi — un turbinio di desiderio, di carne, di sete, di lingue levigate ci allaccia come anime destinate a non abbandonarsi più, a mai separarsi.

Gli passo le braccia attorno al collo, plasmandolo di più alla mia forma, cercando di armonizzare i nostri battiti, sempre più veloci, sempre più veloci... disperati.

E io, dopo un'eternità che sembrava non conoscere fine, ho paura. Tremo. Tremo come lui. Insieme a lui.

Quella paura che provoca brividi di eccitazione e che rende irrimediabilmente vivi. La dita di Alberto, carezzevoli, scendono giù, dal paradiso verso l'inferno, tracciando linee invisibili di dominio, segni di un ricordo nascente, pronto a sostituire quello tutto sbrindellato e che iniziava a decomporsi.

S'insinuano, bollenti e tremolanti, sotto il maglione, oltre la canottiera dell'intimo... lambendo la mia pelle di una strinatura che non dà dolore, ma voglia di desiderare di più.

Lo sento, mi nutro della sua essenza, del suo profumo, racchiudo in me ogni dettaglio di quel tocco inaspettato.

Lo voglio... dannazione, se lo voglio...

«A-Albi...». La mia voce è tremolio indistinguibile, un rumore che ha del supplichevole... Poi, le sue mani si soffermano, come spaventate, sulla cintura dei miei jeans. Stringendo, lottando contro l'impulso di continuare.

«Albi... io... io voglio». Lo guardo dritto nelle iridi, dolcemente vuote, ammaliate di questo incanto atavico. In quel vuoto ci sono soltanto io. Io e basta.

E sono sicura che nel mio c'è lui.

I suoi denti si fanno strada fra i ciuffi dei miei capelli, raggiungendo la sommità del lobo e mordicchiando. Altre tulle di brividi. La pelle d'oca che mi riveste e mi fa sfuggire un lene lamento.

E la cintura dei calzoni, finalmente, si allenta.

Assaporando il momento minuto dopo minuto, gesto dopo gesto. La sua mano che compie l'ultimo viaggio, l'ultimo girone dell'inferno.

Si posa come la più delicata delle farfalle.

Una vertigine sovviene in me, e mi stringo a lui con maggior ardore, cercando la sua presenza più di quanta ce ne sia già. Un tacito avvertimento di non fermarsi, di non aver paura, perché ci sono già io ad averla per entrambi.

Quando finalmente entra in me, lascio che il suo nome sgattaioli via dalle mie labbra, una preghiera concupiscente che gli fa perdere l'ultimo brandello di logica.

E con il mio intreccio di braccia attorno alla sua gola, il viso incastrato sul suo petto — e l'ultimo fiocco di neve a sciogliersi —, io urlo il suo nome dritto al suo cuore.








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