54. Dietro l'incanto
"Se ammettiamo che l'essere umano possa essere governato dalla ragione, ci precludiamo la possibilità di vivere."
Into the Wild (2007)
«Che... cosa... che cosa era... quello, esattamente?».
Una domanda che suggerisce titubanza — quella parvenza di esitazione che si allaccia con gratitudine a un ricamo di stupefazione nel colore delle pupille —, quasi paragonabile a un farfugliare confuso, si solleva in quel vestibolo di persone radunate a cerchio.
Di coloro che danno l'apparenza di poterlo gestire il caos; quando, invece, altro non è che manipolato da un semplice e piccolo spreco di spazio, occupato dall'effigie in vetro di una bottiglia.
Dal contenuto alcolico sino a poco fa, adesso disseminato in noi e nelle parole goliardiche che non riusciamo a mantenere più sigillate.
E la voce tremolante — il coraggio di fare la prima mossa in quell'intrico greve di rovi spinosi, scheletri taglienti e interrogativi mordaci quanto silenti, custodite con riserbo e timore di osare — proviene da Diego.
Le labbra che non riescono a trattenere un refolo di solenne panico, le iridi che danzano senza una meta ben precisa — osservando tutti, osservando nessuno, chiedendo aiuto, chiedendo spiegazioni. Forse, cercando di aggrapparsi a me, tentando di scovare un appiglio sicuro, l'intenzione di stringere la sua mano una volta afferrata.
«"Che cosa era quello" cosa?» chiosa Giulio Viviani con il petto che si alza e si abbassa senza controllo, il respiro irregolare per via dell'adrenalina che gli scorre dritta in vena.
Ancora eretto in piedi, sulle sue stesse gambe, la bocca appena dischiusa e lo stupore istoriato a fior di volto — che funge da ragnatela, diramandosi poco a poco, intrappolando tutto ciò che incontra nel proprio cammino. La sporgenza del pomo d'Adamo che sobilla la pelle che lo riveste, quasi solleticandola.
«Quello! Quello "che cosa era quello"!». Diego tende il braccio nella direzione di Giulio, il dito indice disteso come se i fasci dei muscoli non potessero fare altrimenti, quasi non ricordassero più la semplicità del piegarsi e ritornare in una posizione più composta, senz'altro meno scortese.
E poi compie la stessa movenza, però nella direzione opposta, nell'angolo dove Marta e Alberto sono spariti sotto le occhiate allibite di tutti — tranne la mia —, svanendo in una nuvola di mistero; cenere nera come i ciuffi informi e scombinati di lui, freddezza opalina dell'assenza come l'animo di lei.
La bottiglia — l'artefice suprema, attraversata da un diletto inconcepibile, e fautrice di grovigli di confusioni e segreti rivelati — se ne sta immobile, ferma nella sua posizione di estremo potere in mezzo a quei cuori ubriachi di paure e di emozioni. Di tremolii nascosti, trattenuti prigionieri all'ombra di false congetture e fasulli "buon viso a cattivo gioco".
E di una palpitazione di troppo, quella che manda tutto in mille pezzi e spezzando convinzioni troppo fragili per rimanere su, issate in piedi, trattenute solamente da ridicola padronanza ed esilarante tentativo di reprimere.
È scontato che un castello di carte crolli sotto la vibrazione del battito di un cuore che ama, e che, più di ogni altra cosa, prova terrore.
Il sublime timore di non essere abbastanza, quel delizioso tormento di non essere all'altezza e di rovinare tutto.
Un bacio di troppo... dato alla persona sbagliata... una carezza imprecisa... una mezza verità che affiora in quel lago di rischi e chete scommesse. E il castello di carte cede, sprofondando su se stesso. Distruggendo tutto ciò che vi si cela dietro l'incanto.
«Ho... ho la netta impressione che sto per svenire di nuovo» la voce tremebonda di Diego seguita a imperare in mezzo a noi, l'unico zampillo di vita in questa stanza, alludendo a quando per poco non perse i sensi di fronte al bacio di me e Leonardo sotto agli occhi del Caravaggio intero.
«Questo gioco mi fa schifo. Non ho nemmeno capito come funziona» s'interpone Ludovico dall'alto del suo tenue garbo insussistente, quella bocca della verità coriacea come il marmo e che non risparmia nessuno.
«Si deve girare la bottiglia e quando il suo collo si ferma su di te, dovrai scegliere tra Obbligo e Verità. Se scegli Obbligo, sarai costretto a fare qualcosa, qualsiasi cosa, noi diremmo. Se scegli Verità, dovrai rispondere a una domanda scomoda e non potrai mentire» gli spiega brevemente Ariadne, trattenendo uno sbadiglio, modellandolo assieme allo spettro di un sorriso a metà — di quelli avveduti, appena peccaminosi.
«Allora non è complicato come sembra. Dirò la verità, a me Leonardo Aspromonte sta ampiamente sul cazzo. E vorrei tanto staccargli la testa dal collo» espone la sua confessione, dando l'impressione che non stava più nella pelle, quasi sentisse il bisogno disperato di far vibrare la sua giugulare sotto quella dichiarazione ben poco cortese.
E di far lustreggiare quelle iridi buie, che non istigano esagerata sicurezza, di uno sfolgorio di innegabile intimidazione. Imprimendoli su di lui, dall'altra parte del cerchio, in quella sua morbidezza di capelli dorati e splendido dominio di se stesso. Soltanto un ghigno di serenità s'inorpella in quel confine di buone maniere e gentilezza.
«Wow... non me l'aspettavo, Auditore, che fossi a conoscenza di un avverbio come "ampiamente". Congratulazioni. E comunque... anche se mi staccherai la testa dal collo, lei non verrà di certo da te a mendicare consolazione».
È la crudeltà avviticchiata a quell'estremo candore — pronunciato con aberrante semplicità —, intersecato nelle fenditure della casualità con una tale maestria, che fa vacillare lo sguardo di Ludovico, come se lo facesse involontariamente arretrare all'interno dei suoi pensieri. Non nella carne, ma nella psiche.
Leonardo che non cede a una mera provocazione, uscendone perfino vittorioso, rivestito di quello scintillio dorato che tanto gli dona.
«Per cortesia...» sibilo abbassando le ali di farfalla delle mie ciglia, lasciando che un sospiro mi trapassi attraverso i denti, privandomi di un briciolo di logorante pesantezza.
La stessa che si ostina a tenermi preda sotto i suoi artigli, non disposta a placarsi neanche sotto qualche stilla di alcol.
«Si può sapere cosa è appena successo qui?» esclama Diego con un ritegno che pare averlo abbandonato, lasciandolo in balia di se stesso e della realtà — le corolle grigie che ha per occhi spalancate, sbocciate come fossero fiori rigogliosi.
«Io penso che devo andare a vomitare» proferisce Marco con fatica palpabile, la voce affannata paragonabile a un velo zuppo di sforzo trascinato per inerzia, «Leonardo... dove lo trovo il bagno?» e quella richiesta dai tratti disperati la rivolge al padrone di casa.
Egli serra le palpebre nella speranza di discostarsi dalla vista del drink che tiene stretto fra le dita, cominciando a respirare attraverso la bocca, mettendo una barriera fra lui e l'odore che emana.
«Se ti rechi in cucina, troverai una porta sulla sinistra. È molto semplice» gli suggerisce Leonardo con il dito teso dietro di sé, a indicare l'ambiente illuminato fiocamente dal bagliore di tante candele profumate, «l'interruttore è facile da trovare, è appena entri sulla destra all'altezza del braccio».
«Avete un bagno in cucina?» s'interpone Diego senza nascondere un alone di stupore.
«Abbiamo un bagno per tutto, Falco. Quello della cucina è perlopiù per lavarsi le mani prima di mangiare... mia madre è fissata con l'igiene, ci tiene particolarmente. Quindi se devi vomitare, Esposito, vedi di stare attento agli schizzi, poi devo sorbirmela io la paternale da parte sua» spiega Leonardo sollevando le pupille su, verso il cielo, al solo pensiero di doversela vedere con Lucrezia.
Non v'è suggerita paura nei suoi gesti, bensì irritazione, come volesse evitare un esito tedioso e schivabile se affrontato con la dovuta accortezza.
«Mio caro Leo, se avessi saputo che i tuoi amici erano così dilettevoli ti avrei suggerito prima di organizzare una serata così» enuncia Ariadne facendo oscillare il capo con cadenza flemmatica, i ciuffi di quel dorato baciato dalle ombre — ben lontano da quello di Leonardo — che danzano con elegante voluttuosità.
«Non sono propriamente miei amici, Aria, è perlopiù l'inizio di una conoscenza» sottolinea l'altro appellandosi alla verità.
«Per l'amor del cielo... preferirei spararmi dritta in fronte piuttosto che passare un'altra serata insieme a te» il sibilo di Costanza costellato di veleno si riversa senza cortesia sulla sagoma di Ariadne, accanto a lei.
«Io non sono suo amico», non tarda ad arrivare la precisazione di Ludovico, soffiata con quel tono funereo in grado di far nascere brividi di gelo all'apice della schiena e all'altezza della nuca.
«Quando c'è l'alcol ad allietare i sensi te ne freghi della compagnia che si ha intorno. Ti inizierebbe a star simpatico perfino colui che odiavi di più» celia Giulio Viviani con un ghigno sghembo che fa capolino dall'angolo delle sue labbra — e che rammenta una nota sardonica — nel contempo che torna ad accomodarsi di nuovo per terra, sedendosi insieme a tutti noi.
L'Obbligo di baciare Marta ormai eclissato, sottratto dal volere di Alberto.
«Comunque, io dovrei baciare qualcuno... chi vuole avere l'onore? Ariadne?» continua a parlare il ragazzo guardandosi attorno, soffermandosi sul viso deliziato di Ariadne Ardinghelli, scagliandole uno sguardo onusto di insinuazione incorrotta.
«Non fare il furbo, dolce Giulio, quello non era il mio Obbligo. E poi non sei il mio tipo, senza offesa» cinguetta come un uccellino allegro colei che — anche se non se rende conto — sta tenendo tutti sotto scacco, osando riversare con fare ombroso un'occhiata allusiva verso Costanza.
«Quindi giriamo la bottiglia di nuovo?». E Giulio fa un cenno con il mento verso la bottiglia, lievemente insoddisfatto della piega che hanno preso gli eventi.
«Giriamo di nuovo» ripete Ariadne annuendo di compiacenza, osservando Giulio dall'alto della sua inviolabile sicurezza e del suo indistruttibile piacere — l'orlatura degli occhi modellati in due spiragli di provocazione.
«E DarthMart e Del Bianco? Vi scongiuro, qualcuno mi spieghi cosa è accaduto poco fa o rischio di impazzire!» erompe Diego per la millesima volta, agitando le mani senza riuscire a controllarsi, premendole più e più volte contro l'incarnato delle guance, quasi a volersele strappare via dall'angoscia.
«Io vado a vomitare, con permesso». Marco scatta in piedi, sgattaiolando via da lì e abbandonando il bicchiere del drink ai propri piedi, facendo attenzione a non farlo cascare sul pavimento.
«Mio piccolo Guevara, ma è ovvio, non ti pare?».
Le iridi feline di Ariadne — le pupille dilatate che le conferiscono una sembianza di saccenza plasmata a una lamella di tracotanza, la stessa che Leonardo ha incastonata sullo spazio infinito racchiuso nelle sue, di iridi — scalfiscono il dubbio di Diego con quel convincimento assoluto che fa vacillare di titubanza.
La consapevolezza di aver appena pronunciato una domanda ovvia, scontata. Con una risposta facilmente raggiungibile a colpi di intuito e logica.
Però non sembra essere quello che vuol far intendere Ariadne, mormorando quei vocaboli quasi volesse suggerire un enigma con una soluzione irraggiungibile e avvolta dalle ombre.
I suoi ciuffi morbidi e cinerei le cascano in avanti, oltre le spalle, oltre gli spigoli precisi e che donano armonia al suo viso, quando va a chinare il capo. Un affinamento superbo si va a formare assieme alla sua coltre di ciglia, reclinate anch'esse verso il basso, e a quel ghirigoro di sorriso di bambina che ha appena combinato qualcosa di poco puerile.
E Diego la guarda come se stesse assistendo al più splendido degli spettacoli — i dreadlocks fulvi che finalmente hanno smesso di tremolare per via di nervi scoperti e muscoli arricciati sotto pelle, formando un garbuglio di agitazione.
«Quello di prima non era altro che una chiara dimostrazione di gelosia e di impotenza. E si sa... quando vi sono gelosia e impotenza vicine, strette, intrecciate l'una con l'altra, poi divampa il fuoco. Perché una, inconsapevolmente, cerca con disperazione un cavillo cui potersi aggrappare trasformando quell'intento in una carezza celata, negando l'evidenza se scoperta. La gelosia è fatta così, soffre con fare cheto e ostenta incoerenza. L'altra, invece, viaggia a braccetto con la rassegnazione, il refolo della rinuncia che obera in un lembo di collo. L'impotenza è sincera, a differenza della gelosia, e sa ammettere i suoi peccati. Purtroppo entrambe non possono convivere insieme, è una coesistenza difficile, inesplicabile, e piano piano diviene un qualcosa di latente, un'infezione destinata a sottomettere o a essere affrontata con lo sfogo di sentimenti edaci».
Alberto stava soccombendo. Marta stava soffocando.
E io adagio i miei occhi sopra quelli di Leonardo, con delicatezza, senza far rumore, sapendo che la forma combacia con i suoi. Sapendo che lì c'è sempre qualcuno in attesa per me, pronto ad accogliermi.
Ma il cuore sussulta appena egli piega le ciglia, assumendo una curva di pungente frenesia; la carne delle dita, delle braccia, delle gote si accende di timidezza, quella ritrosia dettata da ricordi che attorcigliano a morte e dalla sensazione che mi fa sentire sbagliata.
Responsabile di una sofferenza che imperversa, più passano i minuti, più passano i secondi, più mi toglie il respiro. Più mi svuota i polmoni riempiendoli di vuoto — di un tramonto di fiori appassiti, di decadenza, di anomalie di aghi.
«Alberto è semplicemente invaghito perso di Marta, la tua amica, e non poteva reggere la visione di lei che bacia Giulio. La gelosia e l'impotenza l'hanno divorato vivo, scorticandolo a sangue, e lui non ha potuto fare altro che accettare l'impeto del fuoco dentro di sé».
Ariadne congiunge gli orli delle labbra, innestandoli con un soffio di dolcezza e quella venustà labile dell'aver svelato un lene segreto, infiorettato di minuscoli incavi di buio e arcani chiarori.
Il ghirigoro di un sorriso è ancora appuntato lì e stavolta ha la sembianza della gradevolezza. Un delizioso risolino le sfugge, e involontariamente si porta le dita all'altezza della bocca, troppo tardi.
«Quei... quei succhiotti sulla gola di Del Bianco...» dice Diego con voce tremante, sollevando la mano sino a circondarsi la propria di gola. A toccare qualcosa che non c'è.
«Già», annuisce Ariadne.
«Oddio...» borboglia l'altro stavolta oscurandosi il viso anziché il collo, i palmi premuti come fossero delle tendine.
«Almeno loro, a differenza tua, sanno come spassarsela» fa notare Ludovico senza il minimo tatto, senza rendersi conto di quanto sia fragile Diego in questo momento.
«Io so come spassarmela, Ludovico!» infatti esplode come un temporale giunto al culmine, «Non ho bisogno di prendere lezioni da nessuno! Di ragazze ne ho avute anche io, è chiaro? Ma cosa ci posso fare se ora sono innamorato perso proprio di quella che mi è impossibile avere? Dimmi, c'è qualcosa di giusto secondo te? Non trovi che ci sia dell'ingiustizia in tutto questo? Io che stravedo per lei, io che farei ogni cosa per lei, e lei che già stravede e che farebbe ogni cosa per uno che non sono io. E io, a differenza tua, non minaccio di morte il suo fidanzato. No, non ti giustifico nemmeno se si tratta di Aspromonte. Magari mi deprimo, mi lamento rovinando l'umore a tutti quanti, magari ho dimenticato come si fa a spassarsela con volti e cuori diversi da quelli che vorrei... ma so farmi da parte, so accettare il dolore della solitudine. Soffro io e faccio sorridere lei. Piange il mio cuore e faccio dilettare il suo... con la mia amicizia».
Di nuovo il caos. Di nuovo che va e che viene. Spazzando via ogni cosa.
«Diego...» dico in un triste sussurro, spezzato dal dispiacere.
«Questa è la verità e non ho dovuto nemmeno girare la bottiglia. C'è qualcun'altro che ha voglia di confessare qualcosa?» chiede Diego abbassando il viso, nascondendosi nell'incavo dei gomiti piegati e dietro quella coltre di dreadlocks ormai troppo cresciuti, un tempo folti e rigogliosi riccioli infuocati.
Confessare...
Qui tutti abbiamo da confessare qualcosa...
Alcuni con ironia e leggerezza, alcuni con rabbia...
E io non sono pronta, non qui, non adesso. Forse mai. Forse Claudio rimarrà con me per sempre.
«Scusate» mormoro in un soffio alzandomi in piedi, dando loro le spalle, senza osare sfiorare gli occhi di Leonardo sicuramente pervasi dal tentennamento.
Liscio la stoffa della gonna di jeans con fare sgraziato, uno sberleffo di afflizione mi si disegna nelle ombre delle iridi, nei punti nascosti del mio viso, che tento di oscurare aiutandomi grazie ai capelli che si librano dinanzi alla vista.
Mi si increspa la bordura delle labbra, martoriata senza volerlo dal graffiare e graffiare dell'arcata dei denti superiore. Condanna tacita.
Marco in bagno, Alberto e Marta chissà dove... tutti racchiusi con gli scheletri di loro stessi. E io che sto per imitarli — io che altro non so fare se non quello del costringermi dentro la mia gabbia, rinchiudendomi in un limbo senza luce, confinando gli altri all'esterno, dove do loro il permesso di allungare una mano verso di me, ma non il potere di potermi veramente raggiungere.
Lascio che stiano ad assistere al mio assillo che non conosce fine, come crudeli e inabili spettatori di un teatro degli orrori.
Io per tanto tempo ho sentito dolore che ora non ne posso più fare a meno.
Ma posso sopportare, questa ce l'ho la sicurezza — non posso dire lo stesso per coloro che amo, io non so se loro possono sopportare come ci riesco io. Fluttuando in una voragine dove non si vede la profondità.
«Matilde...?». È la voce di Leonardo l'ultima cosa che odo prima di abbandonare quel cerchio di scheletri e caos. Prima che qualcuno scopra cosa vi si cela dietro l'incanto.
Finisco con la velocità di una biglia in un angolo della casa che ancora non avevo avuto modo di vedere di persona.
C'è silenzio fra le mura di questo ambiente — un velo di quiete che si mescola assieme al mio respiro incostante, alla gravosità che mi costringe a serrare le palpebre per qualche attimo. Sufficienti per farmi riacquistare una parvenza di equilibrio che si possa, almeno, definire decoroso.
Il buio fa da padrone, imperando attorno a me; tuttavia un timido fulgore di luce si sporge dalle balze di tendine di mussola — che sembrano levigate e soffici, viene voglia di carezzarle con le dita. V'è un armonioso gioco di chiarore e ombre, qui dentro; li vedo rincorrersi sopra i profili dei libri riposti sulle mensole di una libreria, a inseguirsi sulla stoffa dei divani e sul legno dei mobili.
Un gioco muto, dove si possono immaginare i risolini e i minuscoli gridolini di divertimento, però impossibili da sentire.
È un po' come il silenzio che mi ostino a trascinarmi dietro, con caparbietà e pertinacia.
"Nelle mie parole c'è un silenzio assordante".
Azzardo un passo in avanti, e poi un altro, e un altro ancora. Sollevo le braccia, sino a far collidere i palmi gelidi delle mani contro la pelle del mio viso. Non c'è traccia di gentilezza in questo tocco che mi concedo, nessuna cortesia quando imprimo i polpastrelli sulla sagoma delle sopracciglia, scostandomi all'indietro il ciuffo della frangetta. C'è la stessa freddezza che conservo nei miei arti meccanici.
"Doveva essere una serata in compagnia... divertente... senza pensieri... dovevamo scrivere poesie... non farmi sentire la pressione di una costrizione che non sono riuscita a evitare" penso con amarezza, "dovevo godermi la sua presenza, essere felice che i miei amici fossero qui con me, a condividere la stessa pace che ci siamo conquistati con un certo sforzo".
E invece sono sempre a vertere il pensiero malsano su Claudio Patriarchi.
Claudio, Claudio, Claudio e ancora Claudio.
Perché l'ha fatto? Perché ha dovuto farlo? Perché si è sentito in diritto di potermi fare un qualcosa del genere? Perché non prova rimorso come lo sto provando io? Perché deve voler fare questo a uno dei suoi più grandi amici? Può una persona essere così tanto cattiva? E indifferente?
Può una persona spingersi così oltre il limite perché annoiata?
Con fatica mi sono avvicinata a Leonardo — esitante e con una miriade di dubbi sulle spalle —, facendolo penare gli ho permesso di scoprirmi, rendendolo testimone del tenebrore che covo tacitamente, lo stesso che lascio prendere il sopravvento su di me anziché sugli altri.
Poiché ormai lo considero al pari di un amico, poiché io lo so gestire, lo so sopportare — gli altri potrebbero rimanerne terrorizzati.
Io faccio molta paura.
E forse addosso non ho la magia dei sogni, ma quella degli incubi — coloro di cui non riesco a separarmene.
«Matilde» una voce mi fa sussultare, mi fa sfuggire un gridolino spaventato, uccellino dentro una gabbia, «che cosa ti sta succedendo?».
«I-io... niente... è quello che ha d-detto Diego... mi ha turbata e rattristita. Dovevo allontanarmi, perdonami, ti prego...» sussurro voltandomi, i filamenti azzurri dei suoi occhi che mi avvolgono appena dischiudo le labbra.
I lineamenti di Leonardo rimangono imbrigliati sotto quel susseguirsi di ninnoli di luce e ombre, il dorato degli occhiali che brilla assieme alle pupille.
«È come un incubo... un incubo grande... un mondo dove le persone misurano i loro sentimenti» le parole mi tremolano come fossero ali di libellula, «e tu ti sbagliavi. Io non ho la magia dei sogni addosso, ho il sortilegio degli incubi».
«Quello che ha detto Diego, eh?». Leonardo ha le mani infilate all'interno delle tasche dei pantaloni e mi osserva oltre il vetro delle lenti, con scrupolo.
Non mi crede.
Non mi crederei nemmeno io stessa.
«Sì, te l'ho appena spiegato» ripeto con un filo d'irritazione, quel fare sbrigativo e acre che gli riservavo quando c'era il disprezzo — il rancore — a unirci.
Quando davvero faceva qualcosa per meritarselo, a differenza di adesso, dove le circostanze sono ben diverse. «Potresti lasciarmi da sola?».
«Vuoi stare da sola?» domanda lui sollevando percettibilmente le sopracciglia, un'espressione di finta stupefazione affiora fra le pieghe della sua fronte arricciata.
«Sì, esatto, non voglio nessuno fra i piedi. La solitudine è vitale per me, ti pregherei di non fare troppo l'appiccicoso» chioso con un'acredine aberrante, ne percepisco il cattivo sapore fra i denti, sopra la lingua.
«Mi spiace, non penso sia possibile. E se questa la definisci una "preghiera", sappi che fa alquanto schifo» replica Leonardo lasciando che un sorriso gli affiori a fior di labbra, muovendo qualche passo per colmare la distanza che ci separa. Lentamente, quasi avesse timore di spaventarmi.
Non si lascia ferire dalla mia empietà, sadismo allo stato puro.
Azzardo ad arretrare — una volta soltanto, poiché l'indecisione mi sta divorando viva.
«Io non sono praticante e nemmeno credente, pregare non rientra nelle mie abilità. Lasciami sola, Leonardo, te lo ordino. Non ti sto implorando, te lo sto ordinando».
«No, non ti lascio». È la sua sentenza, il suo verdetto inoppugnabile.
E poi, senza darmi il tempo necessario per modulare una risposta logica, indubbiamente tagliente e destinata a distanziarci ancora di più, cancella la lontananza che ci separa in tre semplici falcate — il leone che avanza, elegante ed esiziale. Invincibile e la precisione del predatore.
Vani sono i miei tentativi di retrocedere, frivoli sono i miei sforzi di premere le mani e le dita contro il suo petto ampio, rivestito della stoffa di una camicia.
Leonardo si china, incurante del mio voler scappare via, avvolgendomi le cosce, rivestite di sottili calze nere, con un braccio e con l'altro a ghermire l'orlatura dei fianchi. M'issa su, imprimendomi contro di lui, innalzandomi come fossi un mucchio di foglioline avvizzite, piume bruciate, ali di farfalla tagliate.
«No!» esclamo sapendo di non avere scampo, «No! Mettimi giù, Leonardo! Per favore, per favore, per favore...».
Voglio che sciolga l'abbraccio, voglio che mi abbandoni, voglio che mi adagi a terra... e allora perché lo stringo a me? Perché intreccio le mie braccia attorno al suo collo, aggrappandomi ai suoi ciuffi di grano con gesto disperato?
«Io impazzisco...» ammetto con voce tremula, che nasce proprio al centro del petto, turbando — incasinando — ossa e sensazioni. Portando caos a ciò che attecchisce e fiorisce dietro l'incanto.
«Sento che potrei smettere di respirare, sento che potrei volare via...» gemo addolorata e fuori controllo, schiacciando le mie labbra contro l'incarnato della sua gola.
Poggiando lì, in quell'incavo che traspare sicurezza, tutti quei pensieri che mi stanno martoriando. «Sento che sto per morire...».
E Leonardo si accomoda sopra il cuscino del divano, con delicatezza, senza movenze brusche e sgarbate, tenendomi stretta, vietando alla mia affermazione di avverarsi. Di volare via...
Lui... lui è sempre così accorto quando si tratta di me, così soave... mi paragona al cristallo.
Questa dolcezza porta un dolore tremendo con sé. È una lenta tortura.
«Lo senti il mio respiro?» percepisco la sua domanda ovattata, offuscata e attorniata da nebbia invisibile, ma la odo, «Senti che rumore fa? Respira con me, coraggio... ne sei capace».
Il suo respiro è regolare, pulito, senza scie di sporco e di evocazioni sbagliate. «...respira... con... me».
Di nuovo.
Ancora parole intrise di bontà e destinate a placarmi. E poi vi sono le sue dita, tornite, dalle fattezze di un marmo lavorato dal migliore degli scultori, a deliziarmi di carezze, blandi ghirigori all'altezza delle scapole. Laddove, un tempo, avevo ali spezzate.
Dicesi che la malattia che avevo era come una farfalla — fattezze leggiadre e movenze fini, e dietro tutti quei colori smaglianti e fulgenti, la si intravedeva quella fragilità. Quell'ombra schiva di qualcosa che avrebbe potuto rompersi da un momento all'altro. E io le sentivo... io le sentivo le ali che si stavano spezzando, poco a poco.
Sentivo la loro pesantezza in quell'artefatta soavità.
È un sollievo, adesso, potermi beare di un vezzo così amorevole, così pieno di affetto.
I miei respiri si trasformano, divengono coordinati, assumono una ciclicità precisa e che rassicura.
«Lo vedi?» sussurra Leonardo attraverso i miei capelli, depositando un bacio sulla cartilagine dell'orecchio, «L'impeto della tua anima non è facile da attraversare, non lo è mai stato. Ma una volta placata, si adagia fra le mie braccia e si rende mia».
«...respiro con te» dico in un soffio, allentando la presa attorno al suo collo, rilassando le dita.
Rilevo i suoi tocchi delicati, impegnati a modellare spirali di brividi attraverso la lana del mio maglioncino dai bottoni che ricordano la corolla d'un fiore, trasmigrare dall'arcata della schiena sino a raggiungere quella dei fianchi — da sempre con la carne troppo attaccata alle ossa del bacino, quasi si fossero giurati amore eterno e non disposti a dirsi addio —, e poi sempre più all'insù, un peregrinare di effusione verso gli spigoli del viso e alla punta del mento.
Me lo solleva, con l'estremità dell'indice e del medio, intrecciando le mie iridi alle sue. Distanza di un battito di ciglia.
«Ricordi quel giorno in cui io ho baciato te e tu hai baciato me sotto gli occhi di tutto il Caravaggio?» enuncia a bassa voce, approfittandosi della quiete che ci abbraccia.
Io annuisco.
Come potersi dimenticare il giorno in cui è avvenuta la più splendida delle esaltazioni? Rilevando me e lui.
«Ricordi che, prima che c'interrompesse la campanella, io stavo per dirti qualcosa?» seguita a raccontare senza cedere la presa.
Il giorno stesso in cui Claudio mi ha rovinata.
«S-sì, lo ricordo... poi non hai più fatto accenno al riguardo». Deglutisco un nodo invisibile di oppressione.
«Stavo per dirti qualcosa di veramente importante per me, ma poi ho deciso di attendere, poiché mi sono reso conto che non c'era fretta, che nessuno ci avrebbe rincorso. Che avevamo, che abbiamo, tutto il tempo del mondo» narra Leonardo continuando a conficcare le sue iridi contro le mie, sbattendo le palpebre senza impazienza, «con te è sempre un turbinio di emozioni e di avventure, non è vero? O attiriamo la tempesta su di noi oppure noi stessi siamo tempesta. Non c'è mai un attimo di tranquillità».
E si lascia andare in una risatina sommessa, discreta.
«L'ho sempre saputo... che tu eri diversa, proiettata in una realtà alternativa, tutta tua. Parallela alla nostra, seppur distante, separata da un velo di frequenze differenti e differente modo di raccontare la storia di te stessa. E il tuo contenuto ha sempre attirato il bramoso lettore che è in me».
«Io sono fatta di scarabocchi... e non esistono lettori che leggono di sbavature e parole illeggibili» sospiro affranta, tuttavia lieta, felice che Leonardo si stia aprendo sempre di più.
E più si apre lui, più mi chiudo io.
«Stai parlando con un classicista, non puoi neanche immaginare quanti libri abbia letto. Come non posso immaginare i film che tu avrai visto» replica quasi con un che di provocazione, «io vacillo nel leggerti, Matilde. Vacillo anche al semplice pronunciare il tuo nome. Tu non puoi entrare dentro la mia testa, ma... è tumulto ogni volta».
«Cosa volevi dirmi quel giorno, a scuola?» chiedo con un pizzico di desiderio nascente a fior di cuore, che punge e che m'incita a rispondere per le rime al suo essere provocatorio.
«Volevo dirti che... volevo dirti che rientri fra quelle persone che più mi stanno a cuore. E che probabilmente io provo per te qualcosa sin da quando ti ho baciato, alla fine del terzo anno. Che era così logorante poter provare un sentimento così nuovo e così terrorizzante che altro non ho potuto fare se non tramutarlo in odio e riversatelo addosso nel peggiore dei modi. Se tu me lo permetterai. Se mi permetterai di avere paura insieme a te».
«L-Leonardo...». La voce di pizzica le pareti della gola, e mi lascio sopraffare da un senso di arrendevolezza non voluta. «I-io devo dirtelo... altrimenti non ce la faccio più. Altrimenti sento che potrei scoppiare».
«Perché stai piangendo?» è ciò che mi domanda, una parvenza di seta e preoccupazione trapela dall'orlo delle sue labbra. E mi sfiora con il polpastrello un lembo di guancia.
«Perché io sono una persona cattiva... tanto cattiva. Che distrugge ogni cosa che tocca. Che porta disperazione anziché gioia e felicità...». Il castello di carte tremola, dietro l'incanto.
«Tu che porti disperazione? Non ci credo neanche se ti vedessi» scuote egli il capo.
«Vorrai guardarmi ancora dopo che te l'avrò detto? Dopo che ti avrò detto cosa ha fatto Claudio? Con che occhi mi osserverai...».
«Claudio?». E il ritratto della confusione gli si dipinge sulla faccia, modellandosi insieme a quelle iridi trasparenti e a quel brincello dorato. I muscoli degli zigomi si distendono in una crudele espressione di sospetto.
È l'essenza felina che spunta esteriormente. «Che ha fatto Claudio...?».
«...Claudio mi ha...». Sto per cedere al suo volere di correre da lui, come un coniglietto impaurito, per rivelargli tutto, permettendogli di rovinarlo come ha fatto con me.
«...Claudio ti ha?!» esclama inorridito.
«...voleva che te lo dicessi!» scoppio definitivamente in lacrime, un pianto tormentato, di liberazione, il filo spinato che allenta la presa e un respiro di conforto si inalbera dentro di me — facendo spuntare boccioli e fioritura di ogni cosa —, coprendomi il viso con le mani vergognandomi di me stessa, «Voleva che corressi da te, obbedendo al suo sadico desiderio... voleva vederti rovinato, voleva che ti sentissi come lui ha fatto sentire me... mentre mi baciava, mentre mi costringeva a subire una lenta tortura. E non ce l'ho fatta... non ce l'ho fatta a tirarmi indietro, a reagire... volevo soltanto svanire, smettere di esistere.
«E allora hai deciso di farti carico della mia sofferenza, portando altro decadimento dentro di te».
Leonardo mi prende il volto tra le mani, con delicatezza, la stessa dolcezza che mai si dimentica di darmi in dono, passando l'estremità del pollice sopra quelle labbra che ora sento contaminate e sporche. Non mie. «Lui... lui ti ha baciata... quel testa di cazzo... pazzo... fuori di testa...».
«S-scusami» chioso tirando su con il naso, i denti che battono gli uni con gli altri, «scusami... io... non ti merito... perché vuoi stare con me? Perché?».
«Perché io tengo a te! Vuoi capirlo?» mormora Leonardo con le sfumature della voce che danno l'impressione di volersi spezzare, facendo collidere la mia fronte con la sua. Uniti, sempre e comunque uniti.
«Non mi sono spostata...» dichiaro per l'ennesima volta la mia colpa.
«Ti ha costretta, non te lo aspettavi... Quando», e Leonardo fa una pausa, «quando è successo?».
«Il giorno stesso che abbiamo dato spettacolo al Caravaggio. È venuto... lui è venuto ad aspettarmi fuori dal cinema, il pomeriggio. Jevanni era dentro e Violetta si stava vestendo per darmi il cambio turno. Loro non hanno potuto aiutarmi» racconto mentre vado a sfiorare con le dita le mani di Leonardo, bisognosa di un contatto fisico.
«Qui le cose stanno andando ben oltre i limiti e Claudio non se ne sta rendendo conto. È sempre più senza controllo» asserisce lui chinando il capo, scuotendolo percettibilmente. E mi abbandono all'ennesimo sospiro.
«È chiaro che abbia un'estrema ossessione per te» dico angosciata, «Leonardo... mi dispiace, non dovevo permetterglielo».
«No, ti prego, per favore, per favore, per favore, per... favore... non dire che ti dispiace. Perché non è colpa tua, ma sua... sua e del suo voler a tutti i costi fare il cazzo che gli pare!» i vocaboli gli escono rapidi, quasi con un impeto incontrollabile, «E del suo disobbedire per forza».
«Cosa intendi dire?». Una piccola ruga dettata da una smorfia di disorientamento si forma proprio al centro della mia fronte.
«Lui... è difficile da spiegare. Prima risolvo la questione con il diretto interessato e poi ti racconterò quello che devi sapere, okay? È un giusto compromesso?» mi chiede con cautela ed estremo riguardo, infilando le dita attraverso i miei ciuffi rosei, un tocco caldo e familiare, lo accolgo in me con gratitudine.
Mi abbandono a colui che non vuole distruzione e rovina per me, ma che esige dolcezza, premura e petali d'amore.
Annuisco cheta, piccole gemme di disillusione che ancora stillano dagli scrimoli, lasciando scie umide sulla mia pelle.
«Non riesco a immaginare quello che avrai provato... e quello che hai dovuto sopportare nel dopo» enuncia Leonardo senza cessare di vezzeggiarmi. Blande carezze per sopire il mio animo irrequieto. «Neanche Marta lo sapeva?».
«No, nessuno di loro. Solo io. E lui».
«Dio, non ho parole per poter esprimere il mio dispiacere, Matilde... non ce l'ho» s'interrompe gettandosi all'indietro con la schiena, stringendomi e portandomi con sé, cullandomi fra quelle braccia in cui io stessa ho affidato la mia anima.
«Basta che... basta solo che tu mi tenga stretta. Così. Tienimi stretta. Fammi capire che non vuoi lasciarmi andare, che faccio parte di te, insieme a te, dietro il tuo incanto» mormoro inumidendomi le labbra secche, costellate di piccole crepe dettate dal troppo freddo, e sangue rappreso.
«Negli ultimi giorni sembra quasi che abbia fatto di tutto per tenerti lontano da me, per proteggerti. Adesso fammi sentire che ci sei».
Marta.
«Alberto, perché non mi guardi?». Sento le mie labbra che modellano più un'implorazione che una domanda. E quella lacrima che spicca lì, sullo spigolo della guancia, che brilla lettera per lettera il suo nome, racchiudendolo in quei millimetri — un intero universo dentro uno spazio così piccolo.
Con il senno di poi, mi accorgo che Alberto ci ha condotti nella stessa sala dove un secolo fa si era tenuta la festa di Leonardo.
Quando io — con fare cocciuto degno di una bambina in tenera età — mi ero appropriata della ciotola dei pistacchi per poi rintanarmi in giardino, a rimuginare in totale solitudine. Quando Alberto mi confessò quello che prova per me e io, per rendergli il favore, gli offrii un drum.
Le raffinate lampade da parete sono accese e illuminano con chiarezza le nostre sagome, e le nostre parole.
«Perché... perché è dannatamente orribile avere le mani legate, non poter fare niente, stare solo a guardare...» arriva la risposta frammentata di Alberto, ostinato a volersene rimanere con le spalle voltate, impedendomi di ammirare le emozioni che gli stanno orpellando il viso.
Perché io credo che le emozioni esistano per essere ammirate, in tutto il loro splendore e in tutta la loro crudeltà. «Ho avuto paura. Che tu lo avresti baciato... Giulio è mio amico e so che è maledettamente idiota. Non avrei potuto sopportare il guardarti nelle spire di qualcuno che non sa... vederti. Tu sei arte, Marta, e deve finire questa cosa che finisci sempre fra gli artigli di coloro che non sanno apprezzare».
«...Era soltanto un gioco...» chioso con voce lieve, conficcando i denti contro la carne del labbro, premendo e premendo con ardore — lottando con quell'impulso primordiale conosciuto come palpitazione, tentando con disperazione di ignorare quel suo magnifico gesto di avermi rivestita di pura poesia.
«Non lo dire. Non dire che era soltanto un gioco...» dichiara egli sofferente, premendo le mani contro le palpebre, con foga.
«Fosse toccato a te... lo avresti fatto? Mi avresti baciato?» ignoro il suo discorso battendo la suola dello stivale contro il pavimento.
«...io lo farei anche adesso...» ammette senza alcun timore, «e... non parlarmi così».
«Parlarti così come?» domando con repentina sincerità, le iridi che si dilatano e osservano l'effigie delle sue spalle attraverso le ciglia orpellate di nero mascara.
«Con questo tono voluttuoso... sembra tu voglia provocarmi» proferisce a denti stretti, quasi fosse in guerra interiore con se stesso.
«Voglio solo che tu mi guardi! È scortese ed estremamente maleducato parlare con qualcuno cui ti dà le spalle, lo sai? E se c'è una cosa che io detesto è proprio la maleducazione. Per cui hai due scelte: o ti giri e mi fai l'onore di vederti negli occhi, oppure me ne ritorno di là, a tener fede all'Obbligo di Ariadne. Bacerò Giulio» esclamo mentre mi pulisco con la manica del maglione, togliendo via quel sentore di umidità.
«Non lo faresti... ho visto quanto ti sei irrigidita mentre Ariadne emetteva la sentenza» dice Alberto tuttavia voltando flebilmente il capo, uno scintillio di occhi azzurri riesco a intravederlo.
«Lo faccio eccome! Lo faccio nell'esatto modo in cui tu hai pronunciato davanti a Diego quella palese allusione... inopportuna, decisamente indecente» insisto imperterrita e con le gote accese di un pudore che credevo di non avere.
L'avere le movenze baciate dal gelo e dal freddo è una cosa, il candore e l'innocenza sono arti ben diverse, che non si sono mai accostate a me.
«Smettila, Marta». È il suo avvertimento ultimo e indilazionabile.
«Sennò?», ma io non sono una che si arrende con tanta facilità. A me piace infierire.
E ottengo il silenzio per risposta. Silenzio e ancora silenzio.
«Molto bene. Hai preso la tua decisione» taglio corto inarcando un sopracciglio e rivolgendogli un sorriso beffardo che mai ammirerà.
Il rumore dei jeans che si piegano e delle scarpe che sfiorano il pavimento in un gesto di voler togliere il disturbo si solleva nell'aria, spezzando quel silenzio altero e insopportabile. Io che cammino nella direzione da dove siamo venuti, con l'intento di allontanarmi, lui che rimane immobile, con l'intento della staticità.
La mia mano, palmo aperto e dita tese, che si avvicina alla maniglia della porta, senza più aspettare. Uno spiraglio che s'intravede oltre l'usco semi-aperto; e poi un tonfo sordo, secco.
Le braccia di Alberto che mi circondano, mi stringono, mi riducono in un groviglio di brividi, allacciata — modellata — contro il suo petto. Con una mano va a richiudere la porta, scostando via le mie dita costellate di anelli in preda agli spasmi.
Percepisco il refolo del suo respiro, ansimante, attraverso i miei capelli, sino a raggiungere la pelle. C'è calore, c'è desiderio e finalmente ci sono i suoi occhi che guardano me.
«Non ti azzardare», un ringhio cupo vibra all'altezza della gabbia toracica, e che s'infrange contro l'arco della mia schiena.
Dovrebbe apparire come un'inclemente minaccia... eppure suona come una sublime preghiera.
«Non... non giocare con me. Perché sai bene che per me non è un gioco, non lo è mai stato».
«Ora non siamo ubriachi» chioso deglutendo, un fremito mi artiglia quando le sue dita fredde prendono a vezzeggiarmi la gola, facendosi strada nella stoffa del maglione a collo alto. Sfacciato. «Ora...».
«Ora...?» ripete lui posando un bacio accanto allo scrimolo dell'occhio.
«Voglio essere di chi scopre in me fantasmi di sorrisi... per poi intuire che incuneato v'è dispiacere. Ecco... insomma... qualcuno che sappia leggere in silenzio, rivelando dettagli inavvertibili. Ora... ora lo sai» mormoro con voce roca, socchiudendo le palpebre, reclinando il volto... per fargli avere maggiore dominio.
«Cazzo!».
Una voce si leva nell'aria, proveniente dall'altra stanza. «Cazzo, Ariadne sta baciando Costanza senza nemmeno aver girato la bottiglia! Così non vale!».
A quanto pare Giulio Viviani deve aver appena fatto la scoperta del secolo.
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