52. Germogli di enigmi nel cuore
Marta.
È sangue che gorgoglia, un turbinio sconvolgente di gentil piacere che fluisce sotto l'epidermide nutrendo psiche e carne. È vigore che ritorna a sfavillare come stelle, occultando memorie di carta e antracite — quella sensazione di decadenza che ha portato a tutti quei cumuli di ghiaccio.
Un'esplosione di gaudio spunta in me appena metto piede fuori dal locale della festa di Midorin; appena noi mettiamo, Alberto mi segue come se fosse la mia ombra fedele. Eroe valoroso della mia favola piena di diavoli e spettri cupi, di mostri senza identità avvolti nella nebbia — e io non sono una principessa, io sono colei che per troppo tempo si è sfamata di speranze e desideri, e poi ne ha fatto indigestione, divenendo il fantasma di se stessa, strega che non conosce serenità.
Si era abituata a quel reame senza più un trono, dalle colline increspate e dai promontori acuminati.
Lui non mi abbandona neanche per un secondo, il pensiero non l'ha minimamente sfiorato da quando ho fatto prigioniere le sue labbra. Non contempla una possibilità del genere. E quando ho fatto capire senza tanti giri di parole la mia intenzione di andarmene dal Twenty One, ha intrecciato le mia dita alle sue, conducendomi all'esterno senza che facessi danni o senza che inciampassi nuovamente su qualcuno e il suo drink.
Fino alla porta d'ingresso è andato tutto liscio, perfino dopo aver recuperato i cappotti dal guardaroba — senza nemmeno sborsare un centesimo dal momento che la serata è tutta a carico di Rin-chan.
Ma è quando che noto appena con l'orlo dell'occhio un rapido dettaglio proprio lì, per terra, accasciato al suolo, che vacillo sulle mie stesse gambe. Le ginocchia che minacciano di spezzarsi sotto il peso delle mie ossa.
È in quel momento che percepisco la realtà galoppare veloce, così veloce che non riesco a contemplare una simile tangibilità.
Tutto vortica intorno a me, tutto che verte in quei centimetri freddi di pietra, il suolo che sta dinanzi all'ingresso del locale. Ogni cosa sembra istigarmi ad abbassare lo sguardo, una mano invisibile che mi fa piegare la nuca con delicatezza, nell'esatto punto dove ora giacciono i resti della rosa bruciata che Alberto voleva accettassi — petali distaccati e anneriti, calpestati dalla moltitudine di persone che ora si trova all'interno.
Rischio di scivolare per terra per colpa di una minuscola lastra di gelo, formatasi all'estremità di una grondaia che si affaccia sul bordo del vicolo. Rischio di farmi male poiché mi chino con lo scopo di abbrancare quei rimasugli corrosi per mano mia, le dita tese, uno sberleffo di rammarico a orpellare gli angoli della mia bocca.
«La devo salvare...» boccheggio come se fossi trafitta da parte a parte da una lama di contrizione.
E la suola dello stivale finisce proprio su quella superficie di ghiaccio, facendomi perdere l'equilibrio — mi dimentico di come si faccia a rimanere ben eretti, in piedi.
Metto a repentaglio l'incolumità del mio didietro, pronta a collidere contro il lastricato di una delle molteplici vie fiorentine, pronta ad accettare il mio infausto destino.
Ma Alberto è più veloce del fato crudele, il suo volere si compie per primo. Vengo ghermita — salvata — dalle sue dita, un braccio che va ad avvolgermi le spalle, l'altro che riveste la bordura del petto, ricoperto ancora di quel liquido alcolico e dall'odore dolciastro.
Egli mi allaccia contro il suo costato, il suo respiro ansioso che va a titillare il ciglio del mio orecchio, oltre i ciuffi scompigliati, privati di qualsivoglia logica. Esattamente come noi — non c'è più nessuna logica a dividerci. Si è arresa. Ha ceduto nello stesso modo in cui ho fatto io.
Mi stringe a sé quasi con un che di disperato — annodati grazie a questa combinazione di crepuscolo e di illecito —, di terribilmente urgente, fregandosene dello schifo che impera sulla stoffa del mio vestito, libero dell'allacciatura del lungo cappotto.
Sono sollevata, mi sento alleggerita del fardello dell'effettività, sommerso da cascate di alcol e spensieratezza; la testa sgombra di turpi pensieri — ormai la fiamma di Alberto mi ha sciolta, ormai sono capitolata a lui e al suo volermi bruciare senza far male. Mi ha insegnato con somma padronanza di quanta semplicità è necessaria per potersi abbandonare ai sentimenti, di quanto sia facile come respirare assecondare il cuore.
Ed è appellandomi a questa semplicità che vado a catturarlo — approfittando di questa incommensurabile adiacenza —, incastrando le mie dita attraverso i suoi capelli, conficcando le unghie nella pelle, sino a far collidere le nostre labbra in un impeto quasi indecente.
Io anelante del suo sapore. Insoddisfatta dei baci che ci siamo scambiati fino a qualche minuto fa. La frustrazione che mi fa tremolare gli arti.
È un contatto svelto, la necessità di sentirlo ancora mio e constatare che non se ne andrà via — una boccata di ossigeno... respirare. Alberto è qui con me, anche quando sa di essersi impossessato di quel qualcosa che con morbosità nascondevo a tutti.
Mi distacco da lui con la stessa veemenza con cui l'ho condotto a me. Riprendo il controllo delle facoltà motorie, consapevole di poter far affidamento su una decente stabilità. Tuttavia, la mano di Alberto non accenna ad abbandonare il tocco dalla mia schiena, timoroso mi possa schiantare a terra da un momento all'altro.
«Chissà dove sarà finito Leonardo... è da quando siamo entrati che non l'ho più visto» si domanda Alberto dopo aver fatto un sospiro ricolmo di malizia — tutta questa "impertinenza" da parte mia deve avergli rimescolato ogni cosa dentro la sua mente.
«Sarà da qualche parte con Matilde» ipotizzo soffocando un ghigno ancor prima che nasca, premendo il palmo della mano contro la bocca.
Il ragazzo rimane piacevolmente sorpreso da questo mio lato all'insegna della spontaneità, glielo leggo in quelle iridi che con tanta fatica sono riuscita a guardare senza veli, senza quella patinatura che con ostinazione non potevo farne a meno.
E, forse, è per questo che lo fa. Accade all'improvviso, nessuno dei due ad aspettarselo.
In un attimo di effimera follia — di quella follia cui solo i sognatori possono farne sfoggio, senza dover fingere pallida modestia — si china all'altezza delle mie ginocchia e, facendo passare un braccio dietro di esse, mi issa su, allacciandomi a lui in un incastro di cuori imperfetti, trattenendomi in braccio quasi fossi una bambina.
Mi viene istintivo cingergli il collo con le mani, avvolgendolo con il terrore che possa volare via da me.
E io che rido mentre lui inizia ad avanzare tenendomi stretta — non sembra costargli fatica alcuna. Abbandoniamo alle nostre spalle l'entrata del locale e il buttafuori che ci studia con espressione interrogativa.
«E osa! Sì, osa! Osare sempre! Adesso, come ieri! Osa, perché domani potresti ritrovarti a guardare l'inferno anziché il paradiso!» grida Alberto con quella voce che trapela una maestosa caduta in tentazione, ammaliato dall'incanto proibito di quella notte e da me.
Perché Alberto, quando mi guarda, urla tante di quelle parole... mi sussurra che senza ghiaccio ad avvolgermi sono di una tragica delicatezza, soffice ed esile come il gambo e i petali di quella rosa che sono andata a carbonizzare.
Ed è dannatamente complicato, non sono abituata a rimanere così nuda.
«Lo vedi, Albi? Di quanto è complicato con te? Non sono io che sono difficile, è quello che potrei provare che lo è...» mormoro tra la bolla di un respiro e l'altra, mordendo la morbidezza del labbro inferiore, «quando andavo a letto con chiunque rasentava un qualcosa di facile. Con loro era tutto più semplice... perché non me ne fregava un cazzo. Stavamo insieme, io li consumavo e, disegnata di crudeltà, lasciavo al vento le loro ali strappate. Alcune riprendevano a volare, altre si accasciavano a terra» racconto con una tristezza infinita, stufa di rimanere recondita — forse non compresa come vorrebbe —, nascondendomi contro il calore e la dolcezza della sua gola.
Di colpo il mio umore cambia, si stravolge completamente — il prezzo da pagare per essermi ubriacata, il prezzo da pagare per essere andata a cercare coraggio in maniera illegale.
C'è dell'assurdo in tutto questo... c'è qualcosa di sbagliato, qualcosa che blocca i miei ingranaggi già contorti di per sé.
«Questo mondo quasi ci obbliga a trattenere dentro tutto ciò che proviamo... ma noi siamo umani, siamo persone, siamo anime desiderose della vita e dei colori, delle emozioni forti e dei pianti disperati, di vento e di cocci rotti. Dei brividi a dilaniare pelle e cuore, in bilico sul ciglio di un dirupo. Non si può confinare un intero universo dentro una bolla di vetro qualsiasi... non si può proprio, Marta» replica Alberto spiazzato da tanta sincerità, la mia, e lo sento carezzarmi i capelli con il semplice sfiorare delle labbra. Un vezzeggiare talmente tracimante di dolcezza che potrei morire...
E la pronuncia con voce cheta, la coscienza di non voler rovinare un significato così prezioso. C'è della sofferenza, perfino. Ne riconosco ogni suono, ogni sfaccettatura. La sua giugulare vibra sotto quel rumore, tremula contro il mio viso infilato nell'incavo della gola.
Ciò m'induce a volermi staccare, mettere una piccola distanza fra me e lui, e a riflettere... riflessioni che galoppano come cavalli selvaggi su sconfinate praterie. Reminiscenze su reminiscenze, impressioni su impressioni. La mia mente si fossilizza sugli orpelli dei suoi vocaboli e sulla singolarità della meraviglia che egli pronuncia ogni volta lasciandomi disorientata.
All'inizio dell'anno — come gli anni precedenti, del resto — Alberto non suggeriva minimamente l'idea di camuffare una personalità così profonda e intrinseca, un vero labirinto senza pareti. Di splendido complicato e di intemerata autenticità. Mi veniva naturale non tollerarlo, odiarlo, a tratti.
È facile disprezzare qualcuno che non ha nulla di rilevante interiormente, è facile serbare ostilità verso coloro che sono soltanto dipinti di noioso grigio.
E ora siamo arrivati al punto di non ritorno dove lui, Alberto Del Bianco, è in grado di disorientarmi, dove lui mi sta mostrando ogni tonalità del suo arcobaleno.
Non c'è grigio dove credevo vi fosse... quale immane delusione, eh?
Per questo, mugugnando parole incomprensibili che non ne vogliono sapere di staccarsi dai denti e dal palato, gli faccio capire che voglio scendere, che mi deve lasciare, che voglio ritornare coi piedi per terra — sulle mie stesse gambe.
Titubante, mi accontenta. Con finezza mi accompagna affinché possa posare le suole degli stivali sul terreno, rinunciando a malincuore della mia presenza avviticchiata a lui come se gli appartenessi da sempre.
Ma ho dovuto allontanarmi, è stato necessario; altrimenti le mie movenze non avrebbero più risposto di me. Sono ubriaca, eppure quell'imposizione di fottuto controllo grava sulla mia persona come un'ombra maligna, dalle lunghe zanne.
Sospiro appena realizzo di essere perfettamente in equilibrio — mi rifugio in un abbraccio dettato dalle mie stesse braccia e confino Alberto alle mie spalle, socchiudendo le palpebre decorate di ciglia che ricordano le striature dei rami rivolti verso il cielo notturno, il mascara sciupato per gli avvenimenti decisamente... burrascosi.
Il labbro inferiore viene morso da denti che cercano invano di non tremare, la lunga battaglia che mi porto dentro da mesi, anni.
«Io scappo» proferisco dopo aver deglutito un groviglio di rammarico, non oso rivolgergli le mie pupille per nessuna ragione al mondo, «scappo perché ho paura di racchiudere in me qualcosa che mi terrorizza alla follia».
«Puoi dirmelo anche guardandomi negli occhi, nel modo in cui mi hai fatto capire senza tanti giri di parole di quanto tu sia follemente gelosa di me. Non darmi le spalle» mi fa notare Alberto mentre lo sento accendersi una sigaretta, non sembra turbato, e il tono della sua voce è sempre il solito. Lascivo e di un'arroganza tutta unica — da pelle d'oca.
«Guardare negli occhi ora mi costa un certo sforzo... prima non me ne accorgevo, adesso ci sto attenta. E i tuoi... i tuoi, Albi, hanno un bel colore» ammetto con il costato che non riesce più a contenere tutte quelle emozioni, che non riesce più a tener domato quel cuore ormai privato del suo gelo perenne — amico e nemico.
Scuoto il capo come a scacciar via qualcosa di troppo grande, ma che incombe inesorabilmente.
«Wow... prima la rosa nera, ora i miei occhi che hanno un bel colore. Dovresti ubriacarti più spesso, almeno finalmente dici la verità» replica Alberto avvicinandosi al mio fianco, alla mia scatola di ossa e strati di tormenta.
Il suo profumo raggiunge le mie narici... mi ammalia... mi rapisce... Serro con più vigore le palpebre. È il fuoco che fa il suo dovere.
«Nella mia bolla di vetro fa tanto freddo...» esalo stringendomi nel cappotto, tremolante, «niente fiorisce in me».
«Ma forse, gelida come sei, non ti è stato possibile sbocciare. La tua rosa può ancora fiorire». E finalmente riapro gli occhi, li spalanco dinanzi alla sua affermazione.
Senza pronunciare parola alcuna, gli sfilo la sigaretta dalle dita e ne saggio un tiro — se non altro, ora lo guardo in viso.
«Ho fame» dico carpendo quell'intenzione dal nulla, lo stomaco che brontola — mi fa capire che gradirebbe qualcosa da mettere sotto i denti, stufo di tutto quell'alcol in circolo — sorridendo con quell'euforia che si abbraccia magnificamente alla sfrenatezza dell'essere ubriachi.
Sposto il peso da una gamba all'altra, osservando la sagoma di Alberto di sottecchi, quasi volessi incarnare il gesto di un dispetto di bambina — le sopracciglia piene che si inarcano sotto quello scopo, simbolizzando le ali di un uccello errante.
«E cosa vorresti mangiare, Signora dei Sith?» sogghigna Alberto assecondandomi, scuotendo il capo di cedevole soavità. Non reclama la sua sigaretta.
«Te» confesso andando volteggiare su me stessa, rivelo qualcosa che mai avrei fatto avessi il controllo autoritario, i capelli che vivificano di spirito, impeti di sfarzo argenteo — ornano il mio viso e si allacciano alle mie iridi in un connubio troppo irreale, fiabesco.
Non esistono principesse dai capelli color dell'argento, ma forse le antagoniste sì.
«...magari prima voglio un hamburger. Voglio andare da Burger King» aggiungo con un accento di serietà.
«Vuoi che ti porti in macchina prendendoti in braccio o preferisci fartela da sola a piedi?» domanda lui esitante, lo colgo in flagrante a mordersi il labbro, uno scavare di denti come a voler soffocare un che di illecito — le pupille abbassate, rivestite temporaneamente dal velo delle palpebre.
Una mano va a premere contro di essi, le dite camuffate di desiderio di nascondersi.
E poi accade in una reazione a catena.
Getto la testa all'indietro, rovesciando i capelli in una cascata, e il viso che viene illuminato dai raggi della luna, luccichio che si staglia nella penombra del vicolo, la luce artificiale che si dimentica di angoli segreti. Rido di limpida naturalezza — mi ero quasi dimenticata di quanta facilità ci volesse per ridere così, di quanto poco bastasse. Lo spessore di una nuvola per raggiungere l'apice di autentica estasi, è questo il segreto.
E crogiolandomi in quella sensazione di potere — detriti pungenti di efferatezza — e ricordi lontani, poso l'attenzione oltre la sagoma di Alberto — che tracima provocazione e sensualità da ogni movenza, anche quella più insignificante, come il mero atto di piegare gli angoli della bocca all'insù.
Anche il silenzio comunica... soprattutto il silenzio.
Poso lo sguardo superando la presenza che ho di fronte, incuneandola addosso a qualcosa che mi fa zampillare la curiosità in una maniera che sfiora l'indecenza. La bocca allargata sino a formare una "o" a regola d'arte.
«No... impossibile... ma quello è... è veramente...» esclamo spalancando le iridi per merito di un innaturale stupore — la sigaretta che viene consumata inesorabilmente dal soffio di vento.
«Chi hai visto?» m'interroga Alberto voltandosi di conseguenza, mosso da una forza invisibile, la stessa cui si destreggia con ineccepibile abilità Maestro Yoda. Tentando di riuscire a vedere ciò che sto vedendo io.
«Cazzo, che svolta! Quello è proprio Lorenzo Il Magnifico! Ed è vestito come Obi Wan! Devo farmi fare un autografo» spiego con un'espressione di adorazione, senza smettere di fissare quella figura che altro non è che uno dei pilastri della Firenze che fu. Ridacchio per la millesima volta.
«Marta... quello è...» proferisce lui sfiduciato, invischiando le dita fra i capelli, spettinandoseli.
«È Lorenzo vestito da Cavaliere Jedi!» lo interrompo inflessibile, scuotendo il capo.
«No, è un poster di Paco Rabanne... sai, il profumo. È il modello quello che stai scambiando per Lorenzo De Medici, non proprio uguali. Men che meno Obi Wan» sottolinea Alberto osservandomi mentre avanzo verso quella che è la vetrina di una profumeria... per l'appunto.
Una luce al neon illumina il volto del giovane privato dei colori e ridotto solo al bianco e nero, l'immagine racchiusa dietro una lastra di vetro. Una parvenza fasulla, un po' come la smorfia che è andata a dipingersi sul mio volto e che scorgo riflessa sulla superficie, sopra l'icona di One Million.
Odo la voce di Alberto arricciarsi in una dolce risata, non mi sento presa in giro, mi sento coccolata.
Senza che me ne accorgo, quasi a volermi ribellare del mio errore, innalzo la sigaretta verso il cielo, glorificando voluttà fugaci — labili nel loro frammento di tempo, lontane da tutti. Perché ora — ancora — siamo noi due. Prima dentro quel locale, due mostri — egli come me — di una fiaba senza fine avvolti di pesante oscurità, destinata a tramutarsi in leggenda; adesso fuori, dove tutto quel tenebrore può finalmente brillare.
Ogni volta che le nostre dita stringono quell'ago invisibile, intessono illusioni e memorie per non scordare. Qualunque nostro gesto — lo sfiorarsi, il toccarsi, il mordersi, il baciarsi, il leccarsi, il consumarsi — suggerisce un incantesimo d'adorazione, e più ne evochiamo, più ne restiamo irretiti. Qualcosa che va ben oltre la più pesante delle droghe...
«No, ti dico che è Lorenzo. Ora glielo vado a chiedere» insisto caparbia, la sigaretta ridotta quasi a un mozzicone stretta fra le labbra.
Ma destino vuole che non arrivi mai alla meta — inciampo in una pietra del lastricato più in rilievo delle altre.
L'ultima cosa che sento sono le braccia di Alberto che mi salvano di nuovo dal far collidere il didietro per terra e il suo sospirare inquieto prima di essere sovrastato da un riso cristallino.
L'abitacolo della Cinquecento di Alberto, parcheggiata alla penombra di una successione di alberi, è uno scrigno estremamente ristretto per i nostri cuori — brividi paragonabili a maestosi giganti con la testa fra le nuvole.
Tuttavia ancora non si è manifestato in me quell'impulso improrogabile, incombente come un temporale, di volermene fuggire a casa, serrandomi contro il tepore delle lenzuola del letto, estraniandomi dal mondo intero e riprendendo coscienza, riappropriandomi di ogni mia attitudine — sublime stronzaggine, tediosa freddezza e turbinosa egemonia che praticamente esercito su chiunque.
Diego, Marco, qualsiasi studente del Classico, Thalìa, Laira, Costanza, qualsiasi studente del Classico di nome Alberto, T1, T2, Ludovico, un tale che fa di cognome Del Bianco... lo stesso che occupa il sedile vicino al mio, lo stesso che non manca di riservarmi sguardi insinuanti, di assoluto e tacito desiderio, una scintilla di tormento carnale s'illumina a intermittenza all'interno di quelle iridi, irradiandomi di sfolgorio, alimentando l'imperiosa combustione che si propaga in ogni centimetro del mio pallore.
Trattengo un universo infinito, incastrato fra il costato, nel punto preciso dove regna il cuore — minaccia di scapparmi via a ogni respiro. Big bang di sensazioni umane.
Mi sono slacciata la cerniera degli stivali prima di iniziare a mangiare, sfilandoli e stringendomi le ginocchia al petto. Lo squarcio delle calze è arrivato sino all'altezza del polpaccio, tracciando una linea netta e decisa quasi a voler recidere la carne sottostante. Ho realizzato ore fa che le avrei dovute buttare, l'indomani.
Stringo con bramosia la carta arricciata del cheeseburger che Alberto ha preso al Burger King, per me. Sbocconcello pezzetto di pane dopo pezzetto di pane, dopo aver accuratamente tolto il bacon, abbandonato sul fondo della busta con il logo in rilievo. Dopo tutto quell'aspro sapore lasciato dallo scorrere dei drink, ci voleva proprio la sapidità del cibo spazzatura; le papille gustative fremono di goduria.
«Quando torniamo al Caravaggio ti restituisco i soldi» mormoro ricordandomi di una cosa decisamente importante, pagare la mia metà.
«Ti farà stare in pace con te stessa?» replica Alberto mentre sorseggia con lentezza la Coca Cola dalla cannuccia.
Il braccio che dondola sull'orlo del finestrino abbassato, le dita ancora piene dei vezzi che non ha cessato un solo attimo di darmi. La nuca attaccata al poggiatesta, i ciuffi di capelli che non hanno mai serenità, ornano un viso così bello... un paio di occhi che non dovrebbero essere legali. Un po' come i miei.
Gli occhi come i nostri non devono aprirsi troppo... moltitudini di segreti sono conservati dietro quei colori eterei, le scelte di non osare a desiderare troppo, perché la meraviglia è tutta lì, nel preservare — tenere al sicuro — nel tenerseli stretti, i sogni.
«Probabilmente sì... forse» dico senza smettere di guardare l'hamburger e tutto quel formaggio di plastico che cola.
Sono le quattro e sei del mattino, ho controllato sul pannello dei comandi. Una dolce "Nights in white satin" dei Moody Blues si diffonde in questo piccolo spazio, aderendo nelle nostre menti; la radio è accesa grazie alle chiavi inserite e fatte scattare di un solo movimento.
«È tutto da vedere se io li accetterò» sottolinea esibendo un sorriso sghembo, riducendo il mio stomaco, già provato di per sé, in un vortice di farfalle dalle ali nere, macabre e piene di buchi.
Le mie farfalle devono ricordarsi di come si fa a volare — le loro ali sono forate di occasioni perdute e fantasmi di baci dati a troppe labbra, inscurite di rimpianti, viscosi e oppressivi. Le tinture lucenti sono svanite, neanche il minimo sfavillio. Ma la libertà... ancora la cercano, la bramano.
«Albi...» pronuncio il suo nome smezzandolo, un che di rimprovero, lo sento avere più armonia senza quelle ultime tre lettere.
«Dio... lo fai apposta? Non fai altro che chiamarmi Albi, Albi, Albi e Albi. Vuoi torturarmi, Signora dei Sith?» erompe portato all'esasperazione.
«Preferisci "cretino"? O "bamboccio"?» ribatto roteando le pupille, «Magari "Perfettino del cazzo"».
«Quando ritorneremo al Caravaggio, oltre a ridarmi i soldi, cosa farai?» domanda all'improvviso, la sua schiettezza paragonabile al mio essere velenosa e sarcastica torna a colpire. In pieno viso, uno schiaffo dritto dritto alla moralità. «E comunque preferisco Albi... decisamente» aggiunge poi.
«Perché mi chiedi questo? La conosci già la risposta» farfuglio titubante, una ciocca mi scivola coprendomi lo zigomo, separa il mio sguardo dal suo.
«Vuoi dire che faresti come Leonardo ha fatto con Atena? Limone davanti a tutta la scuola?» se la ride lui agitando i cubetti di ghiaccio all'interno del bicchiere, «Un'altra coppia che nasce nel mezzo delle due fazioni nemiche penso che non andrebbe a scandalizzare nessuno».
«Noi saremmo una coppia?» asserisco sollevando un sopracciglio.
«Diamine, mi hai mostrato di quanta gelosia provi per me, l'avresti sgozzata quella ragazza stanotte. Mi sei saltata letteralmente addosso al Twenty One, e io non ho alzato nemmeno un dito. Per cui, se mi rifilerai la stronzata del "Non mi piaci, non sono gelosa e non ricapiterà più", sappi che mi vedrai scoppiare a riderti in faccia. Quando un qualcuno non ti piace, non provi gelosia, non gli stacchi le labbra a morsi, non gliele riempi del tuo sapore attraverso la lingua» chiosa Alberto improvvisamente con l'ombra della serietà calata su di lui, «cazzate. Sono tutte cazzate. Perché i tuoi occhi sono frasi impeccabili di quello che pensi, non di quello che dici. E credi quello che ti pare, ma noi... amici... giammai».
«N-non... non voglio essere tua amica. Io non l'ho detto» barbuglio con la lingua che incespica su se stessa. La fame che magicamente scompare.
«Non prendermi per stronzo, tuttavia lascio che tu mi consideri egoista. Non ha senso coltivare amicizia laddove è impossibile che cresca. Che Falco oppure Esposito siano amici tuoi. Scommetto che con loro non hai mai fatto ciò che hai fatto con me... mai lo farai con loro».
«Non mettere in mezzo i miei amici» digrigno i denti, rabbuiandomi.
Le dita di Alberto mi raggiungono senza fatica, scostandomi quella barriera che non avevo cercato ma che mi stava tornando utile, necessaria — sposta con delicatezza la ciocca di capelli, sistemandola dietro l'orecchio dove tintinna il cerchio di un orecchino.
«E tu smettila di nasconderti. Avevo detto che con me non c'era bisogno, non occorre che tu trattenga niente» mi rimprovera ritraendo la mano nella sua metà.
«Non so cosa accadrà quando ritorneremo al Caravaggio, non so nemmeno cosa accadrà domattina, al sorgere del sole. Non so niente!» taglio corto, mettendo in bella vista il chiodo di quello che penso. Il cheeseburger avvolto dalla carta abbandonato sopra le mie gambe, adesso distese e non più raggomitolate contro la gabbia toracica.
«Te lo dico cosa accadrà, se vuoi, se mi permetti» avanza lui la proposta, quasi a rivelare un qualcosa di osceno, di terribilmente immorale.
Ogni frase che prende il volo dalle sue labbra assume le fattezze di peccaminosa sentenza, che procura pelle d'oca e arrovella le viscere, la parte più recondita. E ciò sembra essere apprezzato da quel lato di me fuori controllo — sciolto dalle fiamme.
Vedendo che non oso dare alcuna risposta, Alberto avanza senza remore, senza paura di superare il limite invisibile. Anzi... sembra quasi anelante di trapassarlo.
«Stanotte ti addormenterai con il mio nome conficcato fra i denti e il palato, ansiosa di pronunciarlo ad alta voce, terrorizzata forse. E domattina ti sveglierai, aprirai gli occhi, tornerai al mondo urlandolo, scandendolo lettera per lettera. Sentirai qualcosa dentro di te che si spezza per poi ricomporsi in una forma diversa, differente, migliore. Ti domanderai cosa diamine è successo, sarai basita. E poi, quando te ne renderai finalmente conto, correrai da me e vorrai soltanto che io sia tuo» narra come un cantastorie scappato dalle spire di un racconto andato perduto, antico, letto da pochi prediletti, «e ti dirò di più. So anche cosa accadrà adesso. Mi ghermirai per i capelli, sovrastandomi con la te fatta di carne, mi zittirai, stufa di sentirmi parlare, stufa di sentire la realtà, con il semplice unire labbra su labbra. Mi farai capitolare e io mi abbandonerò totalmente alla tua volontà. Condanna che sono disposto ad accogliere a braccia aperte».
Un sottile spillo di remissività mi punge l'involucro del cuore — ne perde un battito, vibrazioni di un anelito esanime e sepolto riecheggiano nell'incavatura della gola.
"Se il mio cuore si abitua a perdere questi battiti mentre cammina, va a finire che si ritroverà bello che morto".
Ma lui lo fa, noncurandosi a cosa sta irrimediabilmente correndo incontro, il suo scrigno tremula ogni volta che ode l'armonia dell'autenticità — chiave indorata che sta giungendo al sussulto di quel meccanismo di lucchetto. Si sta aprendo.
E ora comprendo Matilde — recepisco ogni singolo frammento di sensazione che lei stessa prova in riflesso a Leonardo. Capisco che una percezione come l'odio — guglia oscura e avvolta dalla nebbia — non può essere più contemplata. Non quando viene mostrata con così tanta spontaneità empatia, umanità e finezza.
Come posso odiarlo? Come faccio a odiare Alberto?
«Hai indovinato, sono proprio stufa di sentirti parlare» emetto con un familiare respiro ansante, dal cuore germogliano enigmi, «non ti facevo così chiacchierone».
Metto da parte l'involucro dell'hamburger, posandolo sopra il cruscotto, e senza chiedere il permesso gli sfilo via dalle mani il cartone della bevanda, calibrando bene i movimenti al fine di non rendere gli interni della sua macchina come la stoffa del mio vestito.
«Tuttavia hai ragione a metà» aggiungo in un soffio di mormorio paragonabile ai petali dei fiori seccati dall'autunno, e la sua smorfia di trionfo si eclissa dal volto, quasi la stesse assorbendo dall'interno. Il segmento della bocca si distende rinunciando alla sua forma di curva ghignante.
Troppa sicurezza, troppa altezzosità.
Non vado a ghermire i suoi capelli — vado a conficcargli le unghie sul contorno della sua mascella, vertendola di lato, ottenendo uno splendido lembo di pelle sotto i miei occhi, scia di biancore priva di imperfezioni. Qualche neo funge da stella in quel cielo che non conosce notte.
Alzo appena il vestito con la mano libera per agevolarmi, per sedermi meglio sopra di lui, lasciandomi alle spalle il sedile del passeggero. Nelle mie iridi c'è una scintilla di famelico, risplende nell'ombra di quel momento.
«Il mio essere chiacchierone mi fa guadagnare dei nove da invidia alle interrogazioni» m'illumina Alberto con un sarcasmo che gli fa fremere la forma del corpo, proprio sotto al mio, «vuoi che t'insegni?».
«Neanche morta» dichiaro passandomi la lingua sopra il labbro, «accetta la tua condanna in silenzio».
Premendo i polpastrelli contro le sue guance, flettendo ancor più la gola e facendo distendere tendini dall'aspetto così stuzzicante, mi avvicino dischiudendo la bocca.
«Marta, Marta... non starai osando troppo? Non sono ammessi pentimenti il giorno dopo» mi avverte ridacchiando.
Non rispondo. Le parole sarebbero l'ennesimo accento di inutilità in questa brama così urgente.
L'ultimo refolo di respiro che ha il compito di alimentare di vita i miei polmoni viene districato in quella distanza che lentamente va scemando, la forma sconnessa di Alberto è l'ultima cosa che metto a fuoco. Smorzo l'interruttore dei pensieri quando vado a far scontrare labbra e denti — una fitta ragnatela di inibito e di esaltante —, sulla carne di lui, tessuto diafano. Serro con con vigore, quasi con quella violenza frettolosa e celere di chi non vuole spendere più pazienza per aspettare.
Ad Alberto che sfugge un mugugno di spasimo misto ad appagamento, le sue dita che vanno a intessere fiocchi sulla mia schiena, il palmo che mi incolla a sé. Effigio su di lui lo stesso ghirigoro che con, fine capacità, anch'egli ha realizzato su di me. La sua tela ancora bianca.
Un morso che trasmuterà quel brandello di pallore a uno splendido arzigogolo dalle tinture viola e bluastre.
«Quanto sai essere vendicativa...». E che rimarrà lì per un po'. Il segno che lì, in quel punto esatto, vi sono passata io.
In questo istante, il succhiotto che mi ha fatto all'interno del locale, inizia a bruciarmi, e stavolta io non ho in mano nessun accendino.
Matilde.
Spalanco le iridi e mi isso su a sedere — e mi ritrovo dinanzi mia madre, ai piedi del letto, interamente avvolta da nastri scintillanti, dove vi sono appese palline di ogni dimensione, cordelle e nastrini.
Attorno alla testa ha una ghirlanda di pungitopo e aghi di pino. Oggetti che dovrebbero decorare un albero di Natale e non una persona. Ma questa regola non vale quando si tratta di Adele Del Gaudio.
«Allora?» m'interpella lei allargando le braccia e piroettando su se stessa, «Quali decorazioni preferisci per quest'anno?».
«Che intendi dire con "quali decorazioni preferisco"?» borbotto con il palato impastato dal dolce dormire, le labbra secche, ruvide, screpolate. Nella mente i resti di quel sogno dagli orpelli così fiabeschi, parvenze di un gatto con una luna sul musetto.
«Suvvia, Matilde! Non scherzare, sono le dieci, è ora che tu metta in moto il cervello! Domani è l'otto dicembre, giorno in cui si fa l'albero di Natale» m'illumina lei lanciandomi un'occhiata stranita, «anche stavolta hai avuto difficoltà a smaltire l'hangover?». Un luccichio malizioso fa capolino nelle sue iridi dispettose un giorno sì e l'altro pure.
«No... stavolta non mi sono ubriacata. Dovevo guidare io, ricordi?» le ricordo sbadigliando.
Dovevo guidare io e riaccompagnare Marta a casa... però di Marta nemmeno l'ombra.
«Coraggio, sto aspettando il tuo giudizio. Quale ti piace di più? Sfolgorante dorato e rosso lussureggiante, oppure incontaminato blu e argento luccicante?».
Prima si indica il nastro rosso e dopo il nastro blu. Fidandosi seriamente del mio giudizio a quest'ora del mattino, appena sveglia e ritornata nel mondo dei comuni mortali.
Improvvisamente mi rendo conto di avere la risposta in tasca.
«Rosso e oro. Risaltano di più sul verde dell'albero».
«E rosso e oro siano! Domani decoreremo l'albero più bello e maestoso che tutta Firenze al completo abbia mai visto» proferisce tutta frizzante la mamma, battendo i palmi delle mani di candida gioia.
«Rischiamo la congiura peggio di Medici e Pazzi, mamma» asserisco con un sorriso disegnato a fior di labbra.
«Sono pronta ad accettare ogni conseguenza!» esclama lei battendosi il costato con un pugno delicato, dedito a fare scena, «Ah! A proposito di conseguenze, Matilde, salta giù dal letto e muoviti a lavarti e a vestirti. Tuo padre ti aspetta per pranzo. Aspetta te e... Leonardo. Il ragazzo che ti volevi divorare per cena».
Il mondo smette di girare. La voce di Adele ha il suono di un'infausta novella.
«Che... cosa... hai... appena... detto?». Ha nominato "padre" e "Leonardo" nella stessa frase. L'apocalisse.
«Fabrizio vuole pranzare con te e Leonardo. Per cui, spicciati. Devi telefonargli e avvertirlo che non presenzierà a casa sua all'ora del pranzo. Sai com'è fatto quel matto che ho avuto il coraggio di sposare...».
«Ma... ma... ma... chi ha fatto, cosa, come, ancora, cosa? Cioè, mamma!» balbetto, le parole che inciampano l'una sull'altra, «Come l'ha saputo papà?». Ora il mio tono vocale è stridulo, neanche avessi ingerito l'elio dei palloncini.
Adele esita sulla soglia della mia stanza, abbassa lo sguardo. Evita i miei occhi.
«Tua zia Angelica è peggio del diavolo in persona, mi ha sibilato all'orecchio che dovevo farlo e alla fine ho ceduto! Quindi io non c'entro niente, addio!».
E svanisce senza darmi il tempo di controbattere, di realizzare, di rendermi conto che Leonardo ha ufficialmente le ore contate.
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