51. Valzer dei mostri
"Ognuno deve morire, ma non tutte le morti hanno lo stesso significato."
Buongiorno, notte (2003)
Marta è ancora tra noi. (Speriamo più fra i vivi che fra i morti!)
Le ombre.
Ho sempre trovato che le ombre delle persone posseggano un non so che di incantato e di ammaliante, allo stesso tempo di arcano, ghirigori di segreti sfavillanti — celati a caro prezzo, valore smisurato —, scie luminescenti di enigmi proibiti, fautori di nera beltà e fascino fumoso, sfocato, irraggiungibile.
Ho sempre trovato un connubio sublime quel punto di unione fra quella parvenza di tenebrore e quei segmenti di albori accecanti. Come se la figura di quelle persone venisse spezzata da semplici linee di bagliori, raggiungendo quell'armonia di due metà perfette, di due parti equilibrate fra di loro: chiaro e scuro, luce e buio, sussurri, pensieri nascosti e dichiarazioni, confessioni scoperte.
Parti equilibrate... come i petali delicati e vermigli di una rosa, come la fiamma famelica e scarlatta di un accendino.
Non è, forse, un sommo connubio?
«Adesso avvicinati».
La Terra continua a volteggiare, il tempo — ore, minuti, secondi — continua a scorrere, le persone continuano a vivere, le figure continuano a ballare. Corpi sudati, volti nascosti da ciuffi di capelli dal colore alterato dalla luce del locale, tristezza e malinconia camuffate di sorrisi e artefatta allegria, contraffatte dall'effetto magico dell'alcol.
Ogni cosa danza intorno a me, unico punto fermo, radici legate al suolo. Ogni cosa mi oscilla vicino, sentore di essere sfiorata ma mai toccata.
Le loro facce... le facce di tutti loro, troppo gioconde, troppo ridenti, troppo felici, un modello di spensieratezza che mi appare tanto lontano, terribilmente distante.
Ma dov'è la normalità? Perché loro sorridono, perché loro si dilettano e io no? Perché gli angoli delle mie labbra altro non fanno se non quello di rimanere piegati — inesorabilmente — all'ingiù, direzione di immaginario inferno? Perché le mie pupille non riescono a colmarsi di seducente menefreghismo, abbassandosi quasi con movenza ammiccante? Perché devo stonare per forza, quasi io stessa me lo imponessi di volontà propria?
«Adesso avvicinati».
Magari sono gli altri a essere i mostri — non sono forse loro ad apparire così sfigurati... così deturpati dalla loro ombra, dalla luce che non gli appartiene, e da quell'inganno con cui sperano di cavarsela con sporca facilità?
Valzer dei mostri, valzer dei mostri, valzer dei mostri, il vostro non è altro che un orribile valzer dei mostri!
«Adesso avvicinati».
L'ombra che assembla pezzo dopo pezzo del mio puzzle — pezzi rotti e con le fattezze integrali andate perdute, ormai scheggiate — di emozioni e impulsi trabocca, troppa per essere contenuta soltanto dai miei amabili resti di ghiaccio e di neve, troppa per essere confinata da miseri lampi di luce, troppa per essere rivestita da simulate euforie e fasulli sorrisi.
No, io non riesco a incastrarmi in mezzo a quel valzer — non riesco a nascondermi dietro a niente. Perché attraverso quell'ammasso di vitalità, sforzi tramutati in sudore, piroette di mani, labbra che danzano su altre labbra, attraverso quel valzer dei mostri, diciottesimo compleanno di Midorin Ayasaka, io sono l'unica con le braccia cucite ai fianchi, sono l'unica che sta vomitando ogni sensazione, ogni sentimento, senza costringerla in qualche profonda interiorità.
L'unica che non mostra inno alla felicità, l'unica che neanche a volerlo si potrebbe divertire di una serata come questa, l'unica che si sta rendendo conto di essere caduta nella trappola senza accorgersene nella maniera più assoluta.
«Adesso avvicinati».
No, non sono l'unica.
C'è un'altra persona che si sta muovendo esattamente come me, quasi io rappresentassi il suo specchio, quasi ci fossero stati disegnati uguali contorni, uguali linee punteggiate di interruzione — una guisa di sbavatura si sporge dalle nostre fattezze, come increspatura di acque appena sfiorate.
C'è un'altra persona che non si è lasciata rapire da questo valzer macabro e perpetuo.
Un'altra persona — diversa da me, ma con lo stesso cuore, la stessa costellazione di speranza nelle iridi, la stessa brama di osare.
"Diversi, noi siamo diversi... siamo sempre stati diversi... eppure perché abbiamo lo stesso cuore?".
Non sono l'unica, non sono sola, nonostante qua dentro potrei ben sentirla quella percezione di velata solitudine, solitudine non fisica, ma quella della mente.
Ora non sono sola, non quando quegli occhi mostrano la volontà incombente, urgente, di graffiarmi, di solcare la mia pelle e di imprigionare.
Io glielo avevo chiesto — lo avevo implorato — di rimanere un cliché del cazzo vivente, gli avevo chiesto di allontanarsi; perché io non potevo, non sarei riuscita a sopportare il peso del conflitto interiore, il peso della decisione. Gli avevo chiesto di rendermi le cose più facili...
E lui mi ha regalato una rosa, e io gliel'ho bruciata. Spezzandogli il cuore.
Non avrei voluto spezzargli il cuore, nessuno merita di ritrovarsi un cuore in mille schegge affilate... perché poi le schegge tagliano, feriscono, fanno sanguinare. Tanto tempo richiede guarire e non tutti sono disposti ad accelerarne il processo.
Però io glielo avevo chiesto...
E lui — con sfacciata insistenza e ostentata arroganza — ha seguitato a incarnare quell'ideale di cliché del cazzo vivente che tanto gli ho pregato di non fare.
No, no, no, no... io non le so gestire tutte queste sensazioni. L'ho dimenticato... io ho dimenticato come si fa. Sono un disastro, nient'altro. Una tragedia pura.
"Perché questo mio essere disastro non ti ha allontanato, Alberto?".
«Adesso avvicinati». Lui vuole che io mi avvicini. Mi vuole vicino, non mi vuole lontano come tanto io ho sperato.
"Perché questo mio essere disastro non ti ha allontanato, Emilio? Perché ti ha spinto verso di me?".
Perché attiro tutti quasi fossi una calamita? E no, la stronzata degli opposti che si attraggono con me non attacca, siamo persone, non oggetti di ferro!
Siamo persone e le persone straziano, addolorano, lacerano.
Io vorrei indorare Emilio di dolcezza e di quella leggerezza che ormai per lui è divenuta sconosciuta, vorrei rasserenarlo con il mio essere me, con l'arte di risollevarsi anche grazie a se stessi, al sapersi accettare. E vorrei preservare Alberto dal morso pungente della delusione e del rammarico, non voglio vederlo spezzato per colpa mia.
Eppure, inconsciamente, come fossi caduta in un dirupo senza fine, sto sciupando entrambi, li sto rivestendo di logoramento e di scaglie di struggimento — una dolce tortura abbellita di pizzi.
"Perché mi lasciate fare? Se non rappresento sollievo alcuno per voi, perché mi lasciate fare? Perché volete avere a che fare con me?".
Lui vuole che mi avvicini — è ciò che ha carezzato il suo palato prima di essere pronunciato —, ma è proprio lui stesso a muovere un passo verso di me, a colmare quella flebile e ridicola distanza che ci divide.
Il suo scudo e la sua spada, sono quelli ad abbassarsi per primi, il capo chinato, arrendevole, e quell'espressione di coraggio — coraggio che io non ho. Iridi blu. La vittoria ha un bel colore.
Senza volerlo, mossa da una primordiale inclinazione verso lo scappare via, indietreggio di un passo. Non esercito autocontrollo, ormai è sepolto sotto una coltre densa di alcol, dormiente, ignaro di quale assurdo pandemonio sta accadendo qui all'esterno; regno di mostri mascherati da comuni mortali.
Un tremito alle dita mi coglie di sorpresa, lo stesso cui è succube il contorno del labbro inferiore — brivido di terrore o di... eccitazione?
Talmente di sorpresa che gli anelli che ne decorano la sagoma diafana si vanno a incastrare contro il velo delicato delle calze. Troppo delicato per riuscire a contrastare — sopportare — quella pressione acuminata.
Ma il cuore... il cuore è troppo delicato anche lui? Riuscirà a reggere quella tensione dettata da iridi ricolme della tintura del mare e delle sfumature del trionfo? O a quelle punte di dita — le sue dita —, che piano piano si allungano verso di me, verso la pelle delle mie gote dove da poco sono sbocciate corolle di fiore rosso?
Un respiro muore sull'orlo della bocca. La mano di Alberto sempre più vicina. E io che strattono via la mia, di scatto, bruscamente, il tessuto delle calze che si strappa e che ne lascia un buco identico a quello che porto nel petto.
Speriamo che non se ne accorga, speriamo che Alberto non lo veda... di quello delle calze non me ne importa, a me preoccupa quello che si sta allargando sulla gabbia del torace, mostrando con atroce innocenza un cuore che batte, stremato.
Fragile.
Indifeso.
Avvolto da miriadi di crepe ora perfettamente in rilievo, quasi da poterle carezzare coi polpastrelli, apparse nell'esatto istante in cui ho visto il collo, i capelli, il mento e labbra di Alberto avviticchiati a quelle di una sconosciuta. E lui che la lasciava fare.
Eppure mi ha regalato una rosa...
"Gelosia nuda e cruda"...
"Era ciò che volevo"...
"Io sono un cacciatore, le trappole sono il mio forte"...
"Era l'unico modo, perché finalmente sono riuscito a tirare fuori il fuoco che è in te"....
Ci sono cascata — la farfalla che finisce dritta intrappolata nella rete.
«Adesso avvicinati».
«Non farlo», la sua voce mi fa ripiombare dritta nelle spire della realtà, all'interno di quel valzer dei mostri, fra luci e ombre — e i miei demoni che lentamente affiorano in superficie.
«F-fare cosa...?» balbetto incerta, consapevole che, nonostante la musica alta, mi abbia sentita.
Quando lo vogliono davvero, le persone sì che sanno ascoltare.
«Scappare. Non farlo, non adesso che finalmente ti sei decisa ad accettare» proferisce con voce spezzata, la mano sollevata nell'aria, manovrata dall'incertezza se sfiorare oppure no, «non dopo aver traumatizzato quella ragazza, almeno...».
«Chi era?» sento la lingua, le labbra, le corde vocali, sfacciata curiosità, pronunciare al posto mio.
Urgente bramosia di sapere — più agito le ali all'interno della rete, più quella percezione comincia a pungere, ripetutamente, aumentando il malessere e l'inquietudine; gelosia? La stessa che ho provato quando vidi Emilio assieme a Ilda la prima volta? Ricordo che scorticava... ricordo che era un qualcosa che decisamente non mi piaceva, che mal riuscivo a gestire.
«Nessuno di mio interesse. Non la conosco. Mi sono semplicemente seduto sul divanetto e lei era già comoda e con la testa in orbita. Mi ha guardato per qualche attimo per poi sorridermi, nel frattempo io stavo guardando te e il tuo patetico tentativo di osservarmi senza farti notare. Ho manipolato, diciamo, la situazione a mio vantaggio. È stato sufficiente lanciarle uno sguardo ammiccante e lei era già sopra di me, a mordermi le labbra» spiega Alberto ostentando orgoglio, ancora quel colore di vittoria, ma almeno dice la verità... lui dice sempre la verità, «il resto è storia, Signora dei Sith. Il resto è storia... E comunque, la gelosia ti dona da morire».
«Non... io non ero gelosa... non lo sono neanche adesso! Smettila, stai zitto, non parlare! Mi fai infuriare quando parli!» scuoto il capo cercando di scacciare via le sue parole, cercando di affogarle in acque torbide, cercando di lanciarle in aria, verso cieli sconosciuti, la linea della mascella in preda ai tremiti.
«Sto cercando di metterti nel tuo peggior umore, così da farmi odiare. L'odio genera passione, a quanto si dice...» mormora lui con un tono di voce dannatamente lascivo, quell'impudico che ti scatena ogni sorta di brivido in ogni lembo di pelle, che ti fa serrare le pupille poiché necessità di calma, buio e... respirare per riprendere controllo.
Alberto muove una gamba, accorcia la distanza.
Per perfetta antitesi io azzardo a compiere l'identico passo, seppur all'indietro. Ma vengo fermata.
«Non farlo, Marta. Per una volta, per una fottuta volta, potresti dare ascolto alle tue emozioni, potresti far parlare il tuo cuore, potresti avvicinare la fiamma, la stessa fiamma che io ti ho dato, e privarlo di tutto quel ghiaccio... primo o poi rischia di morire, lo sai questo? Smettila di trattenerti, smettila...» esclama con quel tormento che sgretola l'anima e ogni barriera, con quella dolce disperazione che ti costringe non più ad arretrare ma ad avanzare. Colei che attrae.
Ma inevitabilmente mi farà male, io lo so. Gli insetti non vengono forse attratti da luci accecanti e sensuali, per poi morire carbonizzati?
«Ci accorgiamo sempre troppo tardi di aver avuto fra le mani il diamante più prezioso, fiore più raro, il più pregiato, il più vivace. Sono di nuovo un cliché del cazzo se ti dicessi che io vorrei stringerti fra le dita senza lasciarti andare più perché già me ne sono reso conto di tutto il valore, di tutta la tua unicità?» continua Alberto quasi stesse recitando i versi malinconici di un'antica ballata, le labbra che si imbevono di desideri espressi, e sperando che vengano esauditi, «per i rimpianti io non ne ho il tempo».
«N-non sei un cliché del cazzo, te l'ho già detto...» proferisco deglutendo un groppo di mille schegge di cristallo, le gambe frementi, agognanti di un qualsiasi, piccolo movimento, o avanti o indietro, a loro non interessa, «ciò non toglie che il tuo gesto è stato... è stato... ».
«...essenziale. Urgente. Di importanza vitale» m'interrompe lui, avendo già la risposta in tasca.
«È stato riprovevole e vomitevole!» lo correggo io ansimante, il cuore succube di battiti troppo veloci da sopportare, gli zigomi brucianti e la bocca rovente.
«Tu sei gelosa di me. E io lo sono di te. Che senso ha continuare a negare? A fingere? A proferire menzogne? Alla fine anche Pinocchio si stancò di raccontare bugie».
«Per favore, non dirlo! Non dirlo! Perché non è vero!» urlo di colpo scuotendo il capo con fervore, i capelli che fluttuano in ogni dove, in balìa della mia intensa afflizione, e le braccia che vibrano perché senza sapere cosa fare.
«Lo siamo, noi lo siamo. E ora te lo chiedo io, per favore. Per favore, non trattenerti, Marta, non con me...», Alberto avanza senza fermarsi, senza ostacoli, abbattendo barriere, abbattendo muri, abbattendo maschere che nemmeno sapevo di indossare, azzera la distanza, si avvicina ed è come se un misero velo di raso ci separasse, «non fingere di volere qualcun'altro, perché prima o poi ti ritroverai con qualcuno che non vuoi».
E forse è la musica che gli dà coraggio, forse sono le persone attorno a noi — semplici mostri dall'aria stanca e consumata — che danzano senza voler accennare a smettere, forse sono le luci evanescenti, che danno quella percezione di offuscato e di dolcemente misterioso, forse è quell'odore di fumo che si riversa nelle narici, illusione di materialità che si sgretola.
O forse sono io, con le mie iridi che urlano ciò che gli mormora il cuore — bisbiglio proibito —, che gridano tutto quello che non dico, tutto quello che con fermezza incuneo fra i denti e il palato.
Gli occhi non fanno come la bocca — loro non dicono, loro urlano.
Lo sta per fare. Vedo il riflesso nelle pupille di Alberto di quello che sta per accadere.
«E se fosse la tua stessa ragione di vita a consumarti come vento sul fuoco? Riusciresti a distaccartene?» gli domando come se avessi la punta d'un pugnale puntata alla gola, l'orlo del mio naso che va a sfiorargli il mento. Una minuscola scintilla d'elettricità viene scatenata al contatto.
Il mio sguardo scende sulla sua bocca, il labbro inferiore impegnato a farsi mordere. La mia mano, quella colpevole di aver strappato le calze, è estremamente tentata dal voler cedere e premere la sommità delle dita su di esso, saggiandone la morbidezza — poiché sì, oh sì... le sue labbra sono dannatamente morbide.
«Si vede che devi imparare a conoscermi, Marta... io non mi distaccherei, mai. Io mi lascerei consumare» è tutto ciò che dichiara senza remore, senza vergogna, senza paura, «se me lo permetti, ti mostrerò ogni angolo nascosto di me...».
C'è dell'assurdo in tutto questo, come un qualcosa di primordiale, un qualcosa di invisibile, impossibile da recepire visivamente — ma c'è, incuneato nei corpuscoli dell'aria, in quell'astratto sottile, quasi incastrato a metà fra due dimensioni —, impossibile da toccare. Le luci del locale, le sue linee, si spezzano sopra i nostri volti, avvolgendone i contorni, carezzandone gli spigoli e mettendo in risalto gli occhi, le pupille dilatate... colme, traboccanti, di brama — le sue —, di timore miscelato a frenesia — le mie.
E la musica... perché questa melodia risuona così ammaliante?
Perché tutto questo connubio di dettagli riesce a farmi apparire Alberto come un qualcosa che si avvicina all'incanto?
È quell'alternarsi di sfolgorio e tenebrore, è questo valzer dei mostri attorno a noi, è l'alcol che inizia a irretire i miei sensi, scavando e lasciando che loro emergano — istinti incontrollabili, coloro che di solito stanno assopiti, sedati, privati di ogni scappatoia —, e prendano il sopravvento, spazzando via ogni freno, ogni tormento.
«Non sai di che parli...» enuncio abbassando con un certo sforzo, fatica colossale, lo sguardo.
"Sto cedendo, sto cedendo, sto cedendo"... eppure... io l'ho voluto, io l'ho cercato, io ho bruciato la sua rosa.
Io... cosa ho fatto?
"Per favore, te ne sarei grata se tu continuassi a essere un cliché del cazzo vivente che pronuncia battute riprovevoli. Almeno in quella maniera mi allontani da te. Se ti esponi come hai fatto prima, allora sì che rappresenterai un problema per me".
Glielo avevo chiesto, quasi con tono supplichevole e disperato...
«Io te lo avevo detto...» parlo di nuovo, senza dargli il tempo di una risposta, «te lo avevo detto e tu non mi hai ascoltata... perché non me l'hai dimostrato? Perché non ti sei rivelato il perfettino altezzoso che credevo? Perché non ostenti superbia e tracotanza come tutti questi anni, al Caravaggio, che mai ti sei dimenticato di fare?».
«...Vuoi che ostenti superbia e tracotanza?», gli angoli delle labbra di Alberto si orpellano d'un ghigno oltremodo sarcastico.
«Sì, perché in quel caso odiarti sarebbe più facile!» sbotto ormai giunta allo stremo delle forze, ai limiti della pazienza.
«Quindi adesso non mi odi...».
«No... voglio dire sì! Vattene alla dannazione!» esclamo roteando le pupille, il bianco della sclera che saetta con fare macabro.
E gli do le spalle, me ne frego delle calze strappate, della rosa bruciata, di aver traumatizzato la tizia che si stava limonando e di aver fatto l'impeccabile figura della psicopatica — più lato Sith di così non era mai successo.
Giro le caviglie e, senza attendere oltre, mi muovo, gamba dopo gamba. Necessito di mettere distanza fra me e quel faccino da schiaffi — e al tempo stesso perfetto per essere ricoperto di vezzeggiamenti e di... baci.
«Signora dei Sith, scappi un'altra volta? Stavolta dove andrai?» la voce divertita di Alberto non tarda ad arrivarmi alle orecchie, come anche la sua presenza, prontamente incollata alla mia schiena.
«Alla dannazione! Se non ci vai tu, ci vado io!» ringhio mettendo in atto una marcia degna di quella Imperiale.
«Qua dentro, più che alla dannazione, andrai massimo sotto alla cassa del Dj, o direttamente al piano bar. Tanto ci pensa Midorin a pagare» sogghigna lui deciso a farsi beffe di me e della mia irritazione scatenata per colpa sua.
«Al bagno, andrò al bagno! Quello delle donne! Che vuoi per caso un invito a venire? Scollati», e procedo per la direzione dei sanitari, sperando, in cuor mio, che sia la strada giusta.
In mezzo a tutte queste persone è difficile sapersi orientare, soprattutto se qua dentro non ci ho mai messo piede prima d'ora.
«Se proprio ci tieni e se proprio insisti... vedrò di poterti accontentare».
Un ragazzo, dall'espressione decisamente nell'altro mondo e ubriaco in modo evidente, mi viene addosso all'improvviso e, in nome della sfortuna e della merda più immane di questo pianeta osceno, fa collidere contro di me il suo Mojito, riversandone il liquido sopra la stoffa del mio vestito — più della metà del cocktail!
Una spiacevole sensazione di freddo e di viscoso aderisce alla mia pelle, superando lo strato sottile; il mio viso viene inesorabilmente deturpato da un'espressione insofferente, per niente cheta, e i fumi dell'alcol che scorrono con fare impetuoso dentro di me lasciano che la collera prenda il sopravvento.
«Sc... scusami...» ridacchia il ragazzo dopo aver fissato per quello che sembra essere infinita eternità l'alone che si è andato a formare per colpa sua, le palpebre che fanno fatica a restare aperte, «non ti avevo vista! Ma ora è un vero peccato, perché il mio drink è finito tutto su di te... Ti va se... ti va se lo bevessi direttamente dalla tua pelle?».
«Scusa?». Credo di non avere ben inteso.
«Ci divertiamo un po', avanti... abbassi un po' del tuo vestito e io mi riapproprio di ciò che mi è stato tolto. Scommetto che ti piacerà» rispiega il tizio avendo la sfacciataggine di passarmi il palmo sudato della sua mano contro la parte scoperta della mia giugulare, spalle nivee nude e inermi. Tocco viscido che mi fa rabbrividire.
Il mio essere ubriaca lo fa amplificare — me lo fa recepire come un qualcosa che si dipana, dilatandosi con sollecitudine insolente, medesima sensazione di essere lambiti dalla malattia più cruda, cancerogena e corrosiva. Sento la pelle che si corrode sotto quelle dita estranee, sotto quella mano avulsa, attraverso quel tocco ributtante.
Gli occhi dello sconosciuto sono adombrati per via dell'oscurità danzante del locale, ma l'espressione suggerisce ogni minimo pensiero che sta sciando nella giungla della sua mente, e ciò mi fa contorcere i resti interiori, fremere il sangue dentro le striature delle vene, nascere ribrezzo persino in punti a me nascosti.
Sguardo di potere, di autorità mista ad arroganza e desiderio impudico.
Ed esso va a cozzare con l'arcata delle mie labbra oltremodo arricciata in una smorfia di puro sdegno, ineccepibile nausea.
Troppi secondi faccio passare, troppi secondi gli permetto di premere la mano contro di me — di contaminarmi in qualche modo. Troppo tempo lascio lui per imperare sulla mia figura, lascio che si faccia beffe di me. E nessuno può anche solo minimamente osare a farsi beffe di me, nemmeno quando sono ubriaca.
Quando finalmente sto per riappropriarmi delle mie facoltà fisiche, decidendo di muovere il braccio al fine di schiaffeggiare via quella pressione insopportabile, succede qualcosa. Succede in fretta, la saetta del fulmine quando cade e si schianta al suolo.
Il contorno del polso del ragazzo sconosciuto non viene sigillato dalla mia mano — dita tempestate di anelli decorati di pietre e orpelli argentati, sottili, aggraziate —, sotto le mie pupille sbarrate sfila con pesante zelo quella di Alberto, andando a stringere quella carne quasi volesse spezzare l'osso e disintegrare i tendini.
Lo vorrebbe... oh, eccome se lo vorrebbe.
La sua presa è talmente granitica che le luci ondeggianti ne illuminano l'epidermide cerea e irrigidita, filamenti di muscoli che danno l'impressione di volersi lacerare di colpo — eppure sembra proprio che sia disposto a sopportarne il compromesso, la conseguenza... tutto pur di strappare via quell'arto da me. Il riflesso della sua reazione è del tutto impresso, modellato nelle sue iridi, trasformate in due abissi senza fine.
Sembra quasi che la bocca di Alberto sia scolpita nel marmo tanto è serrata, incastonata in un'espressione di innegabile livore e disprezzo. Quasi che sembra immobile, impossibile credere che fino a pochi istanti fa si muoveva facendo librare frasi e parole.
Ho il cuore in gola quando egli si decide a parlare, rischio di soffocare.
«Te lo do io un consiglio per divertirti, se me lo permetti. Prendi una corda, legatela attorno al collo e vatti allegramente a dondolare, come un'altalena. Chiedi a qualcuno di spingerti, magari, doppio divertimento» proferisce Alberto con tono inflessibile, implacabile... sinistro, quasi che istiga una parvenza di spavento anche in me.
«Aspetta... mi stai forse dicendo che dovrei impiccarmi?» replica l'altro dopo aver colto con effetto ritardante il succo del suggerimento, un ghigno esilarato che gli orna labbra e denti.
Alberto aumenta la pressione attorno al suo polso e, finalmente, la mano dello sconosciuto si distacca dalla mia clavicola. Vengo liberata.
«Magari sì, magari no. Dipende dai punti di vista» sibila lui senza lasciargli scampo visivo ed ecco che sopraggiunge il primo mugugno di dolore.
«E tu chi saresti per sentirti in dovere di dirmi certe cose?» borbotta l'estraneo a denti stretti, le palpebre assottigliate, la consapevolezza di non avere più me sotto le sue grinfie, bensì tutt'altro. Lo provoca.
«Uno che sa come divertirsi». E la musica cambia, il volto di Alberto si trasforma con essa — una melodia dalle venature più buie, tanto intrinseche, tanto stregate prorompe fra le pareti, negli angoli, sino a baciare il suo viso, donandogli munificente crudeltà.
Vittoria e crudeltà, unione ultraterrena su di lui. Fattezze dell'"Angelo Caduto" di Cabanel. «E uno che sta per aprirti la gola se non ti levi dal cazzo entro dieci secondi» chiosa alla fine, con quel tono che sancisce che il discorso finisce lì.
«Bomber, lasciami andare il polso, però! Inizia a farmi male e io ci tengo alla mia mano, mi serve!» esclama il ragazzo tentando di sfilarsi via dalla morsa di ferro di Alberto.
«Serve per farti le seghe, suppongo. Sei mancino?» gli domanda egli lanciando una rapida occhiata verso l'arto, realizzando che si tratta appunto di quello sinistro.
«N-no... perché?».
«Perché, in tal caso, la mano sinistra non rappresenta utilità, non so se mi spiego».
«Alberto!», lascio — do loro il permesso — che le mie labbra pronuncino il suo nome con impeto, con lo stesso fervore del vento quando soffia fra le frange degli alberi. Ne solletico la sua immaginazione, i suoi desideri proibiti. Semplicemente dicendo il suo nome.
E lui sembra cedere di un briciolo di volontà, ne scorgo un flebile tremulo sull'orlo delle sue spalle e appena sulla sommità del mento. Bocca di marmo che si plasma sotto il mio richiamo.
«Alberto, lascia stare. Andiamocene via» insisto sapendo di avere trionfo elementare. Lo guardo, cerco disperatamente di farlo desistere con i miei occhi di smeraldo, speranza che trovino loro la soluzione.
Faccio collidere il mio tocco sopra la stoffa della sua camicia, con morbidezza, qualcosa che si avvicina a sinonimo di carezza. Inclino percettibilmente il viso, lasciando che i capelli caschino con dolcezza sino a ricoprire la mia scapola, osservando il suo profilo con un che di tormentato e impellente.
«Lascia stare» ripeto irrorando l'arcata superiore della bocca con la lingua, «il vestito si può lavare, la macchia può andare via. La sua inettitudine rimarrà lì. Ti prego, lascia stare».
E stavolta si muove l'altra mano, quella che se ne stava a penzoloni accanto al mio fianco — adesso la faccio viaggiare alla volta di quella linea di mascella, levigata, spigolosa, che emana pallore e pare evocarmi.
È come un rintocco magico, un incanto del buio che lo fa arrendere, lo fa desistere da ciò che sta appena mettendo in atto; un'astratta striatura di maliardo incantesimo avvolge il suo braccio ed egli cede, abbandona la presa, obbedendo al mio volere.
«Sparisci», è l'unica cosa che pronuncia Alberto verso colui che ha appena scampato la condanna di rimanere senza una mano.
«Va bene, va bene... me ne vado. Se avessi saputo prima che te la volevi stendere tu, avrei evitato. Chi prima arriva, meglio alloggia, giusto?» ribatte il ragazzo dai capelli scuri, massaggiandosi il punto dolorante ora libero e inarcando un sopracciglio.
Il petto di Alberto vibra di un ringhio di veleno, rabbia primordiale.
«Lascia stare, lascia stare, lascia stare...» mormoro avvicinandomi contro il suo orecchio, in punta di piedi.
Non voglio che lo prenda a pugni come Ludovico ha fatto con Claudio... non voglio che lo faccia per causa mia. Aumento la presa contro i suoi zigomi, incuneando contro la pelle le mie unghie.
"La violenza è l'ultimo rifugio degli incapaci". Thalìa avrebbe finito la voce a furia di ripeterlo. E Alberto... non è un incapace.
Mosso da un istinto di salvaguardia, lo sconosciuto ci guarda per l'ultima volta — ennesimo gesto di provocazione — e infine gira su se stesso, allontanandosi da lì, allontanandosi da noi. Immergendosi di nuovo in mezzo a quella folla di persone, dai volti deturpati, dove al di sopra avvengono infinite battaglie fra bene e male.
"Chissà sul mio quale delle due metà sta prevalendo... vorrei tanto avere uno specchio per scoprirlo".
«L'ho fatto, ho lasciato stare... ma non è così che doveva andare... Quello ti ha toccata, lui voleva... voleva...» proferisce Alberto inciampando sulle sue stesse parole, in conflitto interiore.
Gelosia — /ge·lo·sì·a/.
"Sentimento tormentoso provocato dal timore, dal sospetto o dalla certezza di perdere la persona amata ad opera di altri".
«Voleva, ma non ha potuto» lo interrompo io, finendo, non so come, non so quando, con la faccia incastrata contro la sua gola cocente, che si alza e si abbassa al ritmo di un respiro irregolare, ansante.
E il braccio che fino a prima tentava di bloccare la sua presa, ora si libra sino alla nuca, fasciandola in una morsa di ferro, bisognosa.
Ge-lo-sia.
Ne vezzeggio con delicatezza i ciuffi dei capelli, dove sino a qualche minuto fa vi erano infilate le dita di quella ragazza — e ora vi sono le mie —, ne percorro le sembianze del mento con la semplice punta del polpastrello, stando attenta, mostrando accortezza.
«Che stai facendo?» mi chiede Alberto dopo aver deglutito, la voce tenue, quasi vacillante; come se ogni vocabolo desse il sentore di perdere l'equilibrio per poi cadere a terra, sgretolandosi lettera dopo lettera.
«Non è ovvio? Ti sto rivestendo di me, cancellando ogni orma che ti ha lasciato quella ragazza... sto ricucendo piano piano» dico in un soffio, «forse non vuoi?».
Il cuore che mi martella nel petto — rumore che sovrasta perfino quella della mistica armonia — e l'adrenalina che sale sino alle stelle.
«Volevo solo la conferma. Perché poi non vorrei che fosse solo un sogno lontano, fumo dissolto non appena riaprirò gli occhi».
Mi distacco da lui, lasciando qualche centimetro di spazio fra le nostre figure, perfetta visuale l'uno dell'altro.
Io volevo uno specchio, per vedere nel mio viso quale lato stesse trionfando: bene o male. Ma lo specchio ce l'ho, ce l'ho sempre avuto per tutta la sera... i suoi occhi. E mi vedo, mi scorgo attraverso di loro.
Nel mio volto sta prevalendo la coscienza di possedere entrambi, incastrati impeccabilmente; né il nero che cerca di vincere sul bianco, né il bianco che cerca di vincere sul nero. Si accettano, si innestano.
«Magari lo è davvero... un sogno» mormoro senza staccargli l'attenzione di dosso.
«Allora non svegliatemi più» dichiara egli per poi chinarsi in avanti, terribilmente in avanti, aprendo le labbra e posandole con grazia esemplare sopra la mia pelle, all'altezza della giugulare, dove il ragazzo di prima aveva posato la mano.
«C-che stai facendo?», stavolta sono io porgli la domanda, la bocca che tremula e subito che vado ad artigliargli le spalle, come gesto di incontrollabile reazione. Mi ci aggrappo, temendo che le gambe prima o poi avrebbero ceduto.
E dopo mi sfiora, adesione gentile di palmo e polpastrelli sull'incavo del collo, gesto per farmi inclinare il capo, facendo sì di lasciare più spazio, più libertà sulla mia clavicola.
«Lo stesso che hai fatto tu, con me».
Infine il suo profumo mi fa prigioniera, ammaliandomi con il più docile dei modi, gli permetto di dominarmi e — glorificando l'accezione del mio atto, replicandolo — non mi oppongo, non cerco di scappare via, quando lo sento mordermi.
Denti contro pelle. Il fuoco che agogna di rescindere il ghiaccio — quella tormenta che mai ha smesso di imperversare.
«A-Albi...» mugugno arcuando le sopracciglia, attraverso la sua chioma bruna che mi solletica lo zigomo. La pressione che esercito su di lui aumenta, le ginocchia vibrano di un sussulto, che si infossa nelle ossa e ne rapisce il controllo motorio.
Ma adesso non v'è risposta al richiamo. Soltanto silenzio.
Alberto che addenta il mio gelo, saggiandone il sapore, e con le labbra ne lambisce i contorni. Una sensazione di bruciore s'irradia in quel punto preciso, delizia e dolore, un livido che affiora — vedendo luce per la prima volta — e brama che viene inoculata oltre la mia corazza, oltre la mia patina di brina.
E ciò mi sprona, mi impone, di volere di più. Mi rende incontentabile.
E se fosse questo il valzer dei mostri a cui alludevo? E se fossimo noi i mostri danzanti? Terrificanti e solenni, tenebroso splendore.
Alberto ha detto che si sarebbe lasciato consumare, e allora voglio essere io a togliergli il respiro, a privarlo del terreno sotto i piedi.
Abbandono la presa alle sue spalle, e la sposto sino alle gote, distraendolo dal suo scopo — imprimere un marchio, volgarmente inteso anche come "succhiotto".
Afferro il suo viso al fine di portarlo all'altezza del mio; la pelle mordicchiata che sussulta e che torna a respirare. In quella distanza che ci separa, in quegli irrilevanti centimetri, vi è ingabbiato tutto, vi è racchiusa ogni cosa.
Galassie, costellazioni, energia infinita, spazio sconfinato, tempo che ticchetta e scorre, la rivoluzione. Il risveglio di qualcosa di assopito.
E faccio sì che avvenga questa sommossa di emozioni, di ragione e di sentimenti; da sempre in guerra fra di loro.
Mi sento morire, quando lo faccio.
Sento che il decadimento mi trapassa a filo di rasoio, da parte a parte, tagliandomi e lacerandomi in ogni lembo, in ogni angolo; ma immediatamente, come a voler compensare, avverto la rinascita, calore, lo sbocciare di mille e mille fiori diversi, dagli splendidi colori, petali pronti ad assorbire ogni scia di luce.
Fa male, perché per troppo tempo, lì, vi è stato nient'altro che freddo e terra arida, fattezze spoglie e miserevoli. Pareti sbriciolate.
Eppure... è il giusto prezzo da pagare per un bacio. No? È un'agonia tollerabile.
Alla fine l'ho fatto io, cedendo. Alla fine non ho fatto altro che soccombere a lui. Ad Alberto Del Bianco. L'ultimo con cui avrei mai pensato di rifare una cosa del genere.
La prima volta che l'ho baciato è stato un qualcosa di veloce, rapido, quasi effimero; però ora... ora non si può descrivere.
Forse per il mio stato alterato grazie all'alcol, forse perché per davvero lui mi ha stregata, e senza che io me ne rendessi conto.
Mi beo. Io mi beo delle sue labbra incastonate alle mie, perfezione di forme, precisione di movimenti.
Alberto non mostra sorpresa, forse, in cuor suo, nel profondo, se lo aspettava che prima o poi avrei cessato di combattere; tuttavia risponde con la stessa, identica foga con cui io gli ho avvinghiato le guance per poi far collidere la mia bocca con la sua.
Invischia le mie ciocche argentee con le dita, stringendo con gentilezza e altrettanta irruenza, mentre con le altre va a imprigionarmi la sommità delle nuca, attirandomi a sé, facendomi aderire al suo petto più di quanto lo sia già.
Sì, ora ne sono sicura. Questo è il nostro valzer e i mostri siamo noi.
«Ma rivestiti di sogni più che puoi, così la realtà avrà di che strappare via» pronuncio contro le sue labbra, proprio sull'orlo, il respiro che s'infrange addosso al mio.
Il rossetto che avevo applicato prima di venire qui per il diciottesimo di Midorin è andato a farsi benedire; un po' sbavato per via della consumazione dei drink, un po' rimasto attaccato agli angoli della bocca di Alberto. Potrei quasi mettermi a ridere.
«Se continui così, ti dirò io cosa avrò di che strappare... Marta». E quando dice "Marta" anziché "Signora dei Sith" capisco; il suo livello di serietà è giunto decisamente in alto.
«Come il cellulare che mi strappasti dalla mano al veglione del Caravaggio? Intendi in quel modo?» mi ritrovo a punzecchiarlo. Ho sempre accettato quel lato malizioso di me, costantemente celato, sebbene sempre presente e vivo.
«Marta...» ripete lui assieme a un ringhio, voce roca che avrebbe fatto capitolare qualsiasi ragazzina del suo indirizzo. E forse sta facendo capitolare anche me.
«Falla finita, non sei credibile quando fai il trattenuto» sentenzio con tono lascivo, lasciandomi sfuggire un respiro ansimante — i polmoni che mi ricordano che devo respirare per poter resistere a questa sensazione.
«Ti prego... io con te non ho mai fatto il trattenuto. Tuttavia ritengo saggio farlo adesso, in mezzo a tutta questa gente. Sarebbe alquanto... indecente, non trovi?».
«Ma per favore...». Scuoto il capo, alzando le pupille al cielo, e per dargli prova della mio essere spudorata e del mio bisogno di averlo, di sentirlo, premo i palmi contro il suo petto e lo spingo all'indietro, ben sapendo che ad accoglierlo v'è uno dei divanetti in pelle del locale.
Senza lasciargli il tempo di formulare una risposta sensata, avanzo sino alle sue ginocchia e mi siedo a cavalcioni su di lui — lo strappo delle calze che si allunga oltre il limite, impotente sotto la mia gamba che si piega.
Lo nota.
«Vedo che ti sei già portata avanti, allora» dichiara mentre va a posare la mano proprio lì, sul lembo di pelle scoperto, non più rivestito di telo trasparente. Vi lascia interessanti scie in superficie, delicati arzigogoli disegnati appositamente per farmi tormentare più di quanto lo sia già.
«Avevi detto che ti saresti trattenuto». Poggio le braccia sopra lo schienale del divanetto, oltre la sua testa, intrappolandolo.
Il mostro che è in me prende il sopravvento.
«E se volessi fare... il cattivo?». Alberto annoda le mie iridi alle sue, trionfo di sfumature scintillanti e colme di quei segreti troppo proibiti per poterli rivelare.
Nello stomaco avverto miriadi di spilli che premono per aprire una via d'uscita e liberare le farfalle che svolazzano indisturbate. «Sai... questa tua... posizione, be', diciamo che non aiuta chissà quanto la mia intenzione di esercitare decenza».
«Non mi dire» recito quasi con crudeltà, osservandolo dall'alto del mio dominio, scandendo ogni singola parola, «la prossima volta, la rosa regalamela nera».
Riprendiamo un attimo di respiro, e ritorniamo a Matilde.
Il mio animo sta provando quella sensazione di pace cui gli è stata tolta negli ultimi giorni. Lo sento respirare, lo sento librarsi più leggero, sollevato, libero di quelle catene di filo spinato che hanno popolato i miei incubi di notte e il mio vivere di giorno.
Ne porto tutt'ora le ferite. Cicatrici, perlopiù.
A volte sanguinano, a volte fanno un male talmente tremendo che devo fermarmi un attimo, stringere le palpebre e digrignare i denti, resistere e fare mente locale — mi dimentico troppo spesso, ultimamente, di come si faccia a inglobare ossigeno.
Ma nessuno le nota, nessuno se ne accorge. Ieri, mentre mi osservavo allo specchio del bagno prima di andare a scuola, ho sentito la mia psiche rivolgermi una domanda: "Perché metti tutti quegli strati di vestiti addosso?". E me la sono immaginata che guardava, che mi studiava, gli strati di stoffa che mi ero infilata addosso; camicia, maglione, sciarpa, calze nere, gonna, altre calze lunghe sino al ginocchio, stivali, basco, giacchetto, guanti...
Sembravo una di quelle streghe che amano vestirsi a strati.
E io mi sono trovata a rispondergli muovendo le labbra e mettendo in moto le corde vocali.
«Perché almeno nascondo il mio sentimento di malessere interiore». L'espressione spenta.
Effettivamente ho sopportato, in silenzio, evitando di guardare Claudio negli occhi ogni volta che lo incrociavo a scuola. È un fardello che mi è stato imposto, un fardello cui io e soltanto io posso portare.
La vicinanza di Leonardo mi aiuta, mi aiuta davvero. Con il suo essere oro prezioso, con i suoi capelli che ricordano il grano e con i suoi occhi che richiamano l'empireo, mi ha nutrita di speranza e di quell'utopia che normalmente si associa al sogno più bello. È come se mi avesse decorata con una coroncina di fiori intrecciati e piccoli ramoscelli, prendendomi per mano e incoraggiandomi a volteggiare su me stessa, sorridendo.
Il compleanno di Midorin è capitato proprio a pennello, il momento perfetto per spegnere il cervello e per sentirsi rasserenati. Lontano quello che serve dalla realtà.
"Lontano"... probabilmente è proprio quella la parola chiave. Stare lontano, allontanarsi dai problemi, dal caos, dal disordine.
Un po' come abbiamo fatto io e Leonardo anche questa sera: ci siamo allontanati dall'immenso casino che impera all'interno del Twenty One per uscire fuori e fumare una sigaretta in liliale tranquillità.
La normalità, a volte, non è affatto male.
«Un po' noioso là dentro, non trovi?» mi domanda Leonardo dopo aver gettato all'esterno una scia dritta di fumo.
«La noia si combatte col vizio, e la sigaretta ne è il più lampante degli esempi» sentenzio esibendo la Winston incastrata fra il mio dito indice e medio, l'angolo delle labbra piegato in un piccolo sorriso.
«Wow... che maestra di vita. Da quando l'Artistico sforna nuovi filosofi?» si prende gioco di me, spavaldo, quello sguardo provocatorio che tanto lo ha reso un qualcuno perfetto da odiare durante questi anni.
«Sta' zitto» lo ammonisco scuotendo il capo, «rimaniamo con le bocche sigillate per qualche attimo, ci stai?».
«Non hai più frasi intelligenti con cui controbattere?» replica lui sollevando un sopracciglio.
E, senza dargli una risposta, mi muovo di qualche passo, colmando la distanza che ci separa, arrestandomi dinanzi a lui e alla sua altezza fuori dagli schemi. Chino la testa sino a poggiare l'orecchio contro il suo petto, le ciocche scostate.
Socchiudo le palpebre, distendendole e respirando senza esagerare. Percepisco il battito del suo cuore.
«Per udire il rumore della felicità devi fermarti un attimo e tendere bene l'orecchio, il battito d'ali d'una farfalla o il ronzio di un'ape lo senti solo stando in silenzio» mormoro con la stessa dolcezza del miele, «me lo ripeteva spesso mia nonna, soprattutto nei momenti bui».
«La felicità ha un rumore?».
«Forse sì... io sto sentendo il tuo cuore che batte, che vibra oltre la pelle, oltre le costole... è un bel rumore» confesso lasciando che ciò che penso fluisca sotto forma di parole, «hai mai sentito le ali delle api che fremono quando volano? Perché è uno dei suoni più dolci del mondo».
«Atena, tutto questo zucchero non è da te... dov'è finita la Matilde Cattiva dicevi di essere?» sogghigna Leonardo, tuttavia lo sento carezzarmi i capelli con le dita, gesto cui non riuscirò mai abituarmici fino alla fine.
È sempre una novità, sempre un qualcosa a cui faccio fatica ad accettare, o credere.
«Approfittane, perché sono più le volte in cui mi comporto da vera stronza anziché... zuccherosa».
«Ne terrò atto» proferisce lui per poi essere interrotto dallo squillare del mio cellulare, più precisamente per l'arrivo di un messaggio. «Ancora questo cellulare del cazzo... Matilde, giuro che lo do in pasto ai miei dobermann» sbuffa come anche quella volta a casa sua, e ha tutte le ragioni del mondo, sostanzialmente.
Veniamo sempre interrotti nei momenti... meno opportuni.
«Chi è?» si preoccupa di chiedermi tirando un'altra boccata di fumo dalla sigaretta.
«È Laira, faccio veloce» gli spiego con la fronte corrugata di perplessità mentre osservo e sblocco il display; sono le due di notte passate... cosa mai potrebbe voler Laira da me?
Laira, 2:16
- Ho scoperto chi ha scattato la foto a te e Leonardo! Dobbiamo parlare! Puoi telefonarmi?
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