50. Divenire
"Riguarda solo me o stanno tutti impazzendo?"
Joker (2019)
«Costanza, calma, tranquilla... respira... è tutta questione di inspirare ed espirare. Vedi? Su e giù, riempi i polmoni e svuota i polmoni» Leonardo la incoraggia posandole entrambi i palmi delle mani sopra la stoffa del vestito, sopra le sue spalle visibilmente preda di spasmi, susseguirsi di tremiti.
«Non si tratta di stare calmi o di respirare, io voglio solo disintegrarla!» sibila lei per tutta risposta, sfregando con talmente tanta veemenza l'arcata dei denti superiore con quella inferiore che mi costringo a stringere le palpebre per il fastidio, smettendo di guardarla.
La lacrima maledetta tracima dal bordo dell'occhio, e io, con movenza veloce — quasi a ripudiare qualcosa di turpe, che non deve stare lì —, la sfrego via aiutandomi con le sommità delle dita. Un gesto impercettibile, venuto e andato, come il pizzicore che mi affliggeva le pupille sino a pochi istanti fa, sino a quando Leonardo mi teneva avvinghiata a sé, stretta contro il suo petto, alla valle della sua gola, imprigionandomi con flautati sussurri e vezzi eseguiti dalle sue nivee dita.
Un'incantevole prigionia e al tempo stesso letale, che dà assuefazione.
Infatti mi sento come stordita, non padrona totalmente di me stessa. Sembra che le mie gambe siano composte non più di ossa e carne, ma di carta, sottile carta senza alcun ricamo o lettera — un po' come anche le labbra, che le percepisco come rivestite di ragnatele pregne di rammarico, traboccanti di grovigli di parole non dette e che tanto vorrei dire.
Ma non posso... non posso.
Costanza io l'ammiro per questo. Lei qualsiasi cosa le passa per la mente — seppur ragionandoci dovutamente quei famosi dieci secondi — lo dice, dice sempre le cose come stanno. Un po' come adesso. Informandoci del bacio di Ariadne e, forse, del suo presunto orientamento sessuale; cosa che mi sta lasciando alquanto presa contro piede dal momento che l'avevo immaginata in mille modi diversi vicino a Leonardo, e se non era Leonardo allora era Michelangelo.
«Volevo solo scollarla via da te, maledizione! L'ho presa, per ironia della sorte, a braccetto! Come Veruca Salt fa con Violetta Beauregard, per schernirla un po'... poi sai cosa fa? Tsk, prende un sorso dal suo bicchiere di prosecco, si lecca quelle dannate labbra colorate di rosso e si sporge, pensavo volesse togliermi un filo di ciglia o qualcosa del genere» racconta Costanza con l'orlo del labbro inferiore che a stento riesce a rimanere fermo, quello superiore arricciato come non mai, il ritratto dello sdegno puro, «no, mi ha semplicemente baciata. Ariadne Ardinghelli, milady gambe da fenicottero, mi ha baciata. Continuo a volerla ammazzare, incidere gli angoli della sua fottuta bocca con il coltello così imprimo a vita quella sua voglia di sorridere».
Vorrei tanto rassicurarla come lei molte altre volte ha fatto con me, non curandosi chi io fossi, mettendo da parte le divergenze che con eccessiva immaturità noi di Artistico e Classico ci ostinavamo a portare avanti, incalzando qualsiasi tipo di livore e di rancore, incalzando colpi bassi e pugnalate alle spalle, incalzando dissomiglianze quando sostanzialmente non ce n'erano — non ci sono —, comportamenti infantili e capricciosi all'ordine del giorno.
"Non l'ho fatto per te, l'ho fatto perché mi annoio", aveva detto quando glielo chiesi, quando le chiesi perché lo facesse, di aiutarmi, di tendermi la mano — mano nemica.
Ma la realtà è che Costanza ha uno smisurato senso di sostegno verso gli altri — gli altri che secondo il suo modesto punto di vista ne hanno bisogno, e onore. Poiché minuscolo frammento di sé che mostra raramente a chissà chi, a pochi eletti, scheggia rara del suo essere, il medesimo spiraglio di luce che anche Leonardo cova e tiene segretamente per se stesso, lontano da occhi curiosi e indiscreti, malevoli.
Loro sono esseri speciali, animo pregiato e cuore prezioso, tanto prezioso... colmi di vivo amore, forse troppo. Forse è proprio per questo motivo che nessuno dei due ha mai amato veramente; l'amore... sensazione tanto grande, tanto tragica e spaventosa, sentimento troppo immenso per cuori troppo piccoli, sentimento troppo divorante per intrinsechi troppo fragili, per coloro che mai si sono rivelati a nessuno.
Bisogna essere forti per amare — non è mai troppo tardi per imparare, e più ci si fa male, più conquistiamo ferite, più risplendiamo di sfavillio di beltà. Le cicatrici invisibili, i tagli incorporei, i segni inavvertibili, ci rendono così belli agli occhi di chi ci guarda, di chi sa guardare veramente, ci rendono come qualcuno di estremo valore. Un'opera d'arte da custodire.
Io sono rivestita di cicatrici, di tagli, di segni, di macchie di buio senza una stella, sono decorata della sofferenza più estrema, e Leonardo ha saputo vedere quanto valore ho, al di sotto di tutto; ha preso un pennello e ha tracciato una linea passando di livido in livido, disegnando qualcosa di nuovo, qualcosa di singolare e sublime, prendendo quel dolore, quella sofferenza, e creandone una scultura di cristallo, lasciando un fiore al centro, posato sul bordo.
Quel fiore sono io.
Fiore dapprima forte, possente, invincibile. Così credevo. Evidentemente mi mancava da affrontare la tempesta delle tempeste; il bacio di Claudio, il bacio di Ade.
Basta poco per far avvizzire un fiore, basta davvero poco...
Dove sono le mie spine adesso? Dov'è la mia rinomata audacia? E il mio coraggio? È bastato davvero questo per spazzarli via in un soffio?
Io sono stata l'emblema scintillante del divenire, del trasformarsi, dell'evolversi... ora è come se mi sentissi rimandata all'inizio, indietro, per ripartire da zero.
"Costanza, io vorrei aiutarti... ma in questo momento non so nemmeno aiutare me stessa... che figura ci farei con una come te?", penso con amarezza, la lingua incollata contro il palato costretta a rimanere ferma, costretta alle catene. Io la costringo alle catene, io impongo, io sono il mio limite.
«Cazzo... Ariadne è lesbica...» proferisce Costanza scuotendo il capo, ancora incredula, ignorando la presa di Leonardo sulle sue spalle. Presa che poi si sposta con lentezza sino al mento, di modo da farle arrestare quel tremolio angosciante.
«Avanti, Cost, stai calma. Sei sicura che non volesse prenderti un po' in giro? Sai com'è fatta Aria, sai quanto adora punzecchiarti, esattamente come tu fai con lei» tenta di farla ragionare Leonardo mentre che cerca di guardarla negli occhi.
«Io non la bacio per prenderla in giro, diamine, Leonardo!» esclama lei oltraggiata, sfilando via l'apice del volto dalla mano di Leonardo e incrociando le braccia al petto come a voler riacquistare un po' di quel contegno che tanto la contraddistingue, «Io non bacio nessuno per prendere in giro... eccetto quando ho baciato Matilde, ma lì ero proprio ubriaca», si giustifica baluginando le iridi, mettendo in rilievo il bianco della sclera.
Costanza non bacia nessuno per prendere in giro — per rovinare —, Claudio lo ha fatto.
"E io? Io forse non l'ho fatto anche con Ludovico? Io ho preso in giro Ludovico? Io ho rovinato Ludovico?".
Sento che mi sta per venire a meno il respiro... troppi pensieri... troppi rimorsi... troppi triboli... il morso del pentimento mi divora torturandomi lentamente.
Che ci faccio qui? Perché sono venuta? Non va bene, tutto questo non va bene, è dannatamente sbagliato. Io sono sbagliata, in una maniera o nell'altra finisco sempre per funzionare male, il meccanismo che s'inceppa.
Io non sono un fiore, io sono la peggiore delle erbacce. Gramigna che, prima o poi, andrà a soffocare quelle spighe di grano che rifiniscono Leonardo. Lo stringerò e lo farò morire, facendo spegnere quel meraviglioso dorato, nullificandolo.
«Ricordo bene quando hai baciato Matilde, già...» ammette Leonardo quasi con irritazione, lieve in ogni caso, imitando la stessa posizione della ragazza dinanzi a sé, «adesso Ariadne dov'è?».
«Non lo so, non ne ho idea, non lo voglio sapere. Io l'ho piantata là dove l'ho trovata» replica Costanza risentita, guardandosi con fare distratto intorno.
«L'hai schiaffeggiata? L'hai colpita in qualche modo?» le domanda lui sperando in un "no" come risposta, ma considerando il viso lugubre di Costanza è tutta un'incognita.
«No, avrei voluto prenderla per i capelli e infilarle la testa nel ponche. Me ne sono andata perché l'istinto di omicidio stava salendo a livelli epici» spiega ella ostentando indignazione.
Che ci faccio qui? In mezzo a loro due, senza che riesca a spiccicare parola?
"Se non lo sai tu, allora vattene", mi suggerisce interiormente qualcuno, "va' via, forse neanche si accorgeranno della tua assenza".
Io... io... io ero venuta qui perché avevo bisogno di lui, perché volevo stare con lui, sentire il suo tocco su di me, volevo lasciare che mandasse via tutto quel filo spinato... volevo dolcezza, la sua dolcezza.
Dio, quanto ne avevo bisogno... anche il solo essere sfiorata.
"No, caro Claudio, io non glielo dirò".
Io avevo bisogno di lui, nel mio più pietoso egoismo. Io mi stavo — io mi sto — spezzando in mille e mille frammenti di rammarico, in quei petali di tormento che ha nominato poco fa, e l'unico pensiero che ho ponderato è stato quello di farmi lenire da lui, lasciando che l'egoismo prendesse il sopravvento.
Che ci faccio ancora qui? Me ne devo andare, per fortuna che io e Costanza siamo venute con due macchine diverse.
"Domattina c'è scuola, devo svegliarmi presto", penso cercando di indorare la pillola, cercando un briciolo — qualora davvero ce ne fosse — di saggezza e buon senso.
Saetto le pupille, trasformate in due voragini buie colme di spavento, in ogni dove, osservando persone estranee, visi sconosciuti, ascoltando voci anonime che pare si somiglino fra di loro, risate che stonano, che anziché carezzare l'udito, lo vanno a graffiare. Insopportabili.
Un buon odore — dolciastro e stucchevole — va a riversarsi nelle narici, riempiendole di immediato ribrezzo verso niente, verso tutto. Verso quel luogo così pieno di persone e di sensi di colpa, di quelle parole del cazzo non dette, sigillate con mano da maestro.
D'un tratto il cibo servito sopra i tavoli a mo' di buffet mi scatena un serio attacco di nausea, talmente spiacevole che mi costringe a voltarmi dall'altra parte, dando automaticamente le spalle sia a Leonardo, sia a Costanza.
Talmente rivoltante che mi convince ad azzardare un passo in avanti, la gamba di carta finalmente si muove, prende vita. Nei miei occhi cala una patina di lacrime, ritorna a prevalere il pizzicore.
Me ne devo, me ne devo andare, me ne devo andare.
Se non altro devo uscire da lì — già io stessa sono una gabbia, non ne ho bisogno di un'altra.
Pare che Leonardo sia troppo impegnato a tirare su di morale Costanza, e Costanza pare sia troppo impegnata a riversare tutto il suo astio verso Ariadne, sicché agisco indisturbata. Nessuno che vede, nessuno che m'impedisce di fare niente. Occhio non vede, cuore non duole.
Eppure perché il mio fa così male?
A passo deciso — l'unica sicurezza che è rimasta in me — avanzo verso l'ingresso, facendo pressione sulla medesima maniglia che Costanza ha abbassato per farci entrare. Apro la porta e varco quella soglia, colei che dovrebbe restituirmi quella percezione di agognata libertà e sofferta solitudine.
Un soffio di vento mi scompiglia i capelli e mi provoca una scia di brividi per la linea della spina dorsale, fino a propagarsi sino alla sommità delle mani e dell'effigie delle gambe. Pelle d'oca affiora in me, insieme alla consapevolezza di star distruggendo tutto quanto con le mie stesse dita, padrona di un disastro che io non volevo e che non ho cercato.
"Potesse il vento portarmi via con sé...".
Socchiudo le palpebre mentre, quasi al rallentatore, esco all'esterno, premendo la suola delle scarpe contro l'assito della veranda del Club Equestre. Lascio che uno spicchio di buio senza stelle mi avvolga, quella speranza di volare via, leggera come il frutto di un soffione, friabile, quella sensazione di librarmi in aria, nel vuoto, ondeggiando in un moto che culla, che tenta di portare serenità al mio sentirmi spezzata.
Al mio prendermela con me stessa con così tanta crudeltà — castigando Matilde, Matilde e solo Matilde, mai gli altri. Sempre e solo Matilde.
Un fiore che si abbandona a se stesso... e indovina cosa succede a un fiore che si abbandona a se stesso...
Quando tiro su con il naso mi rendo conto di essere scoppiata in lacrime, senza volerlo, senza averne percepito i rivoli caldi scivolarmi contro la pelle delle gote, fino a lambire il contorno delle labbra. Salate, sono salate. E fanno male, come fa male il mio cuore.
Le avevo trattenute con maestria e accortezza dentro l'ambiente dove si sta svolgendo quella cena, sono stata brava a ricacciarle indietro quando avevo di fronte Leonardo.
Ma ora non ce la faccio più, ora sono giunta al limite, l'ho varcato con coscienza, quasi con sottomissione.
Me ne sto andando, lasciando indietro ciò cui conta, ciò che mi fa vivere e che mi disegna sorrisi anche laddove ristagna la più fetida dell'afflizione. Cammino, pestando i sassolini, innalzando rumore e maledicendo questa codardia che non mi appartiene, che mai ha osato a bussare alla mia porta, che mi sta strappando via il mio essere Atena, brandello dopo brandello.
È bastato un semplice bacio, dato dalla persona sbagliata, e tutto è divenuto fumo.
Mentre avanzo alla volta della mia auto, passando al lato dei campi d'allenamento, permettendo a un flebile raggio lunare di tracciarmi linee contro i miei contorni, spezzandosi negli angoli e nelle curve degli arti, permettendo alla luna di ricamare una corona di fioca luce sopra i miei capelli — esattamente dove avviene quella divisione così netta fra rosa e castano —, premo entrambe le mani con fare disperato contro le guance bagnate, coprendo labbra tremolanti e naso arrossato.
È come abbandonarsi a se stessi, in un certo senso, è come lasciarsi andare, lasciar fluire ogni cosa che fluttua dentro, ogni cosa che incide le corde di spirito e corpo.
Rientrerò a casa, facendo silenzio, senza svegliare la mamma, spegnerò il cellulare, tenendolo il più lontano possibile, e mi infilerò sotto le coperte, stanca e sfinita delle dinamiche che mi hanno artigliato nelle ultime ventiquattro ore, chiudendo le palpebre e pregando nessuno in particolare affinché le lacrime smettano di scendere.
Sì, avrei senz'altro fatto così. Se nessuno ha qualcos'altro in serbo per me dovrei riuscirci senza problemi...
A Leonardo ho detto che ho avuto una giornata lunga, tutti hanno giornate lunghe, dopotutto... gliel'avrei fatta bastare anche il giorno dopo come giustificazione.
«Dove pensi di andare?», una voce mi fa bloccare, una voce profonda, una voce traboccante di inflessibilità, una voce che sino a pochi minuti fa era paragonabile allo zucchero filato, di quello più dolce, di quello più candido, più profumato.
Una voce che in questa sera stessa mi ha dedicato persino il verso di una poesia cheta, mormorata proprio contro l'orecchio — unicamente per me —, mossa da splendida improvvisazione e adorazione.
Rimango statica sulle mie stesse gambe, come se mi avessero tolto le batterie o come avessero premuto il tasto di spegnimento. Ho dimenticato la regola di base che si mette in atto al fine di muoversi.
È paura, probabilmente, turbamento, forse, terrore di poter crollare come petali di fiore strappati dalla corolla, sicuramente sì.
Rimango su, issata in piedi, soltanto per indolenza, sollevata in sottili filamenti di illusione e in ciò che è il mio scheletro — me lo sento di vetro, adesso come adesso.
A quanto pare ci risiamo... ancora una volta... di nuovo... è come se rivivessi la scena di quando vidi Ariadne insieme a Leonardo, una sequenza di film che scorre dietro i miei occhi con velocità, tuttavia riesco comunque a carpirne l'essenza, il ricordo.
Io che scappo e lui che m'insegue — io che faccio cinque passi indietro, lui che ne fa altrettanti, seguendomi senza titubanza alcuna.
Io che fuggo per rabbia e lui mi insegue — come quella volta che si è dichiarato aspettandomi fuori dal supermercato. Io che fuggo per delusione e lui mi insegue — l'averlo visto con lei, vicino a lei.
Io che fuggo per paura e lui mi insegue — ora, e stavolta è colpa mia, di Claudio.
«A casa, sono un po' stanca... ho staccato dal cinema e ho alle spalle ore di lavoro, non sarei dovuta venire» replico con voce fioca, dopo aver deglutito quella pesante matassa di parole che non avrei potuto rivelare, un boccone amaro da mandare giù.
«Te ne stai andando a casa. Senza aver degnato di un saluto né Costanza, né me. Circostanza curiosa» enuncia Leonardo alle mie spalle, io che ancora non mi volto verso di lui, preferendo il supplizio dell'isolamento, condannandomi a non guardarlo negli occhi — condannando lui a non guardare nei miei, repleti di lacrime —, «mi auguro che non sia per via di Aria, perché l'hai vista insieme a me. È mia amica, Matilde, e poi, a quanto pare, quelli come me non sono il suo tipo».
«Tranquillo, non è assolutamente per Ariadne. Te l'ho detto, sono solo stanca, vorrei andare a dormire» insisto cercando di rassicurarlo in qualche maniera, le mani ancora premute contro il viso, di colpo divenuto di granito, impossibili staccarle da lì.
"Ti prego, Leonardo... lasciami andare, lascia che io vada... Ritorna dentro e lasciami sola".
«Puoi voltarti?» sento che mi chiede con garbo, quella cortesia che l'ho sentito usare con Gandolfo, il giorno stesso che ci ha accusato per il fumo nei bagni, quella cortesia che ha conquistato l'adorazione di chiunque nei suoi confronti, quella gentilezza che fa capitolare ogni persona, gentilezza dorata che orna le spighe di grano cresciute rigogliose dentro di lui.
«È meglio che vada» asserisco soffiando un lungo sospiro che mi è impossibile soffocare assieme al resto del mio silenzio, «ci vediamo domattina a scuola».
«Lo sai, vero, che io non te lo permetterò? Non senza che tu mi abbia guardato negli occhi, non senza che tu me lo dica in faccia» ribatte Leonardo osando un passo in avanti, più vicino a me, meno distanza tra di noi, percepisco il rumore del suo movimento.
«Ho solo avuto una lunga giornata. Tutti hanno lunghe giornate che sfibrano le menti e prosciugano le forze... una dormita e tutto passa, è la prassi» insisto muovendo un passo, imitando il suo, riportando la distanza in pari, e facendo scivolare i palmi freddi delle mani lungo l'orlo della gola, sulla stoffa della camicia, sino ad agganciarli contro i gomiti — braccia strette, gabbia voluta.
«Lo so che non posso essere considerato allo stesso livello di Marta o Falco, oppure di Esposito. A loro racconti tutto, ciò che ti fa felice e ciò che ti tormenta, sono i tuoi più grandi amici... io magari ti sembrerò egoista e sfacciato, forse è anche prematuro, ma puoi raccontarle anche a me quelle cose. Sia nere, sia bianche. A me puoi dirle, Matilde, puoi dire delle tue lunghe giornate. Tutti ne hanno, ma a me interessano soltanto le tue» proferisce Leonardo con infinita serietà, infinita clemenza.
"Ti sbagli... nemmeno a loro, che sono i miei più grandi amici, racconto tutto... e tu non sei sfacciato o egoista, quelli sono aggettivi che si addicono a me".
Chino maggiormente il capo verso il basso, i capelli che cascano oltre le mie guance, oltre la linea della mandibola.
«È inutile che ti crei un muro tra te e le persone che ami. Puoi farlo alto quanto vuoi, fino a raggiungere le vette del cielo, non m'importa. Io comunque lo scalerò, mi arrampicherò fino in cima, mi siederò e ti guarderò da lassù porgendoti la mano» continua a dire, e mentre lui lentamente mi cattura, io non smetto di piangere in silenzio.
«Devo andare» fuoriesce dalla mia bocca senza che me ne renda conto, aumento la presa delle dita contro la stoffa, pressione sulla pelle.
«Non ti lascerò andare, lo vuoi capire?», Leonardo non demorde.
Testardo, testardo, testardo! Tignoso!
«Mi rivedrai domani, ho detto» dico monocorde, forse brusca.
«Mi vedrai adesso. Voltati oppure farò a modo mio».
«Per piacere, Leonardo, non fare l'insistente» ringhio fra i denti, il sentore di quella collera primordiale che inizia a ribollire dai bassifondi, freme, scalcia, affiora in superficie.
Collera che avrei dovuto scatenare contro quel testa di cazzo di Claudio Patriarchi e non contro di Leonardo, non contro di lui... lui non se lo merita...
Quale errore, quale pecca, quale sbaglio, atteggiamento disdicevole il mio. Io me la merito la solitudine, mi merito metri e metri di grigio muro intorno a me; magari lo potrei decorare con lo stesso filo spinato con cui Claudio mi ha rovinata.
«Se non si è tenaci, se non si è caparbi, o insistenti, qualsiasi cosa o persona volerà via» chiosa con tono cheto, superando finalmente la mia figura e collocandosi dinanzi a me, senza nemmeno aver messo il giacchetto e con le mani infilate all'interno delle tasche dei calzoni a sigaretta.
«Matilde, che hai fatto?» mi chiede preoccupato, vedendomi con la testa china e gli occhi irrorati, proprio lì, sull'angolo, laddove le ciglia si infrangono con la carne del volto, «è deleterio vederti così».
"Claudio mi ha baciata, mi ha rovinata, ecco che ho fatto. E non è mia intenzione quella di rovinare anche te...".
È già successo, in un passato remoto, che mi sentissi così, così morente, così spenta e così tossica. E non volevo avvelenare nessuno, volevo allontanare tutti quanti. Volevo essere abbandonata, come l'ultimo fiore in mezzo a un'enorme distesa di erba.
«Te l'hanno mai raccontato cosa succede quando un fiore si abbandona a se stesso?» apro bocca, rilasciando un sospiro di disperazione e angoscia, rilasciando un brandello di quel groviglio che ho cacciato giù come le dita che mi ostinavo a infilare in gola, la consapevolezza di essere ascoltata e guardata, «Rimane solo. Con il sogno che prima o poi arrivi pioggia a dissetare le sue radici, ma arriverà soltanto gramigna di desolazione e rovi di decadenza. Nessun battito d'ali e nessun fruscio d'animale. Il caldo del sole non rappresenta più speranza, ma agonia rovente, finché non sopraggiunge l'oscurità ad alleviare. Purtroppo quando ci si aggrappa con ogni parte di noi alle ombre si è destinati nient'altro che a sfiorire. Un fiore quando si abbandona a se stesso inizia a sanguinare, petalo dopo petalo, adagiandosi come specchio di sangue e vita strappata. Prima rosso e infine nero».
«Nessuno ti abbandonerà, Matilde, non sarai mai un fiore lasciato da solo. Non ti lascerò ad annerire» asserisce Leonardo senza crogiolarsi in attimi di esitazione, prendendo con delicatezza il mio volto fra le sue dita, le mani che mi sfiorano caute e fini, e alzandolo per farlo brillare sotto la luce di luna e delle illuminazioni del Centro Equestre, «stamattina hai dato la prova inequivocabile di non voler essere lasciata sola. Il Caravaggio al completo lo ha capito».
«E se ritornassi a essere odiosa e tossica come lo ero un tempo? Come quando volevo a tutti i costi lasciarmi... andare? È difficile sopportarmi, Leonardo», annego nelle sue iridi.
"Lo rovinerò perché correrai da lui, presto o tardi, correrai da lui come un coniglietto impaurito e glielo dirai. Gli racconterai quello che ho fatto, saprà che ti avrò contaminata. La sua Matilde... la sua piccola e dolce Matilde profanata da colui che odia di più".
«Io non ti voglio rovinare, Leonardo... non voglio» mormoro con la bile che mi risale dalle viscere, sensazione d'impotenza.
Per tanto tempo sono stata imprigionata fra rovi, sterpi acuminati, selva di rami avvizziti, che non conoscono la bellezza di foglie e di boccioli, incuneati fra di loro in un intreccio asfissiante, stretto stretto — io costretta in quelle spire. Non mi era permesso di uscire, di assorbire nei polmoni aria di libertà — un fiore senza petali non ha bisogno di libertà.
Una mano, io potevo solo oltrepassare quegli argini con una mano, tempestata di macchie viola e perle di sangue, poiché le spine non perdonano. Una mano per invocare aiuto, una mano per essere afferrata da un'altra, sigillata da altre dita.
Per tanto tempo, ricordo... io me ne stavo lì, in compagnia dei miei demoni — mostri spaventosi, un tutt'uno con quella prigione di tralci avviticchiati a me —, con quella mano anelante di conforto, troppo raccapricciante per essere scorta, tanto meno toccata.
Ci vuole coraggio a farsi carico dei demoni degli altri...
Marta è stata la più intrepida di tutti. Leonardo lo sarà altrettanto?
«Tu mi hai già rovinato. Esattamente quella notte, durante quella festa, è stato lì che ti sei presa qualcosa di me che nemmeno sapevo di avere» recita Leonardo chinandosi verso di me, all'altezza dei miei occhi. Lui gigante, io folletto. «Di che hai paura?».
«Del passato che ritorna a bussare» dico in un soffio, mentendo per metà.
«Tu temi il passato, io temo il futuro» mi rimembra alludendo alla pressione che suo padre non si risparmia dal fargli cadere sulle sue spalle, come un macigno pesante tonnellate, «rimaniamo focalizzati sul presente, okay? Vuoi ancora tornare a casa?».
«Forse potrei trattenermi ancora cinque minuti» abbozzo un sorriso, talmente percettibile che a stento si potrebbe definire tale, «mi fai vedere il tuo cavallo? Fibonacci, giusto?».
«Esatto, chiamato così in onore della Successione di Fibonacci... non per niente, il noto matematico portava il mio stesso nome» enuncia lui con un certo orgoglio, lasciandomi un buffetto sulla punta del naso e aggiustandosi la montatura degli occhiali, «mia madre voleva che portassi il nome che fu di grandi luminari. Altro esempio, Leonardo Da Vinci».
«Forse è proprio per questo che ti sei montato la testa per tutti questi anni, eh?» sdrammatizzo osservandolo attraverso la frangetta.
«Io? Montato? Ma quando mai...» replica Leonardo indifferente, tendendomi il palmo della mano, in attesa che io lo afferri.
«Da sempre» insisto con ostinazione, «e pure viziato. Questo è un qualcosa che mai rinnegherò».
«Prendi questa cavolo di mano, Matilde, oppure ti faccio vedere io come sono montato e viziato».
«Mi stai antipatico quando fai così» borbotto accettando il tocco delle sue dita, che lui prontamente intreccia alle mie.
«No, che non ti sto antipatico. Se ti fossi stato sulle palle, credimi, a quest'ora non saresti qui» mi fa notare con quel che sembra essere ironia. Sorrisetto impertinente dipinto in quel del suo viso angelico, perfezione di statua greca, cornice di ciuffi biondi.
«E dov'è che sarei, sentiamo?».
«Probabilmente fra gli artigli di quel bestione, il tuo amico Golia».
«Forse...» ammetto ben sapendo che lo avrei infastidito. Le lacrime ormai del tutto scomparse dalle gote, seccate e incuneate sotto la pelle.
«E io forse fra gli artigli di Olivia... forse» risponde lui per le rime, facendo spallucce.
«Leonardo... fammi vedere questo Fibonacci prima che accenda una sigaretta per poi spegnertela in un occhio, quello con l'eterocromia».
Apro la finestra, il mattino seguente, deliziandomi di un fievole, gelido raggio di sole.
Ho gli occhi appiccicosi, pesanti — esattamente come lo è il fardello che mi è calato inesorabile sulle spalle —, e le labbra aride, molte crepe sono affiorate sulla loro superficie, crepe scavate da quelle parole che intenzionalmente ho sigillato al loro interno.
Le pupille si restringono sotto quella luce nascente, figlia di un'alba appena sorta, divengono piccole come spilli. I tetti delle case, dei palazzi, imperano sotto di me, il traffico, il via vai delle auto, persone già sveglie e vestite pronte per iniziare la giornata, persone stanche, anziane, che portano a spasso il proprio cane o che si affrettano a gettare la spazzatura nel cassonetto giù in strada.
Infinite dinamiche, infinite incognite si diramano sotto le mie iridi assonnate; ogni giorno che mi sveglio c'è sempre qualcosa di nuovo, di rivoluzionario da scoprire.
Quando ero chiusa dietro le "sbarre" di Villa dei Pini, aprire finestre, per me, era come aprire un mondo — ogni volta sempre diverso. Un mondo che in qualche modo sentivo lontano, che non mi apparteneva per nessuna ragione, mi urlava a squarciagola che io non centravo niente e che mai mi avrebbe più accolta.
In un certo senso... quasi che ne percepisco la stessa sensazione anche adesso, in questo odierno 2014, quando sostanzialmente le cose dovrebbero andarmi — non pretendo "bene" per forza — in maniera normale, regolare.
Ma il mondo non smette di girare solo perché hai la nausea. L'ho capito.
Tralasciando indietro il dettaglio che a diciotto anni lo si dovrebbe spaccare, il mondo. E invece se fosse il mondo a spaccare te?
«'Giorno, figlia! Hai un aspetto orribile, effetto dell'hangover? Avete fatto festa ieri sera? Al cinema o al Centro Equestre? Con Jev o con Leo? Magari con entrambi» mi arriva la voce della mamma alle spalle, facendomi sobbalzare con tanto di dita aggrappate contro la linea di legno della finestra, «Cosa gradisci per colazione?».
«Li abbiamo i cereali di angoscia? Sennò un cornetto farcito di monotonia va più che bene... anzi no, il cornetto lo vorrei vuoto, che è già triste di per sé» recito senza un tono ben definito dopo essermi voltata verso di lei, in piedi poggiata contro lo stipite della porta.
Con la coda dell'occhio scorgo anche Marsellus che ancora dorme beatamente sopra le coperte arruffate del mio letto.
«Santo cielo, ieri l'altro chiedevi pane, burro e disperazione, con latte macchiato alla depressione. Quando arriverai alla fine dell'anno scolastico cosa mi chiederai? Latte allungato all'assenzio? Lame di coltello imbevute nella marmellata?» ribatte Adele velatamente stupita.
«Non mettermi in testa strane idee, sono quelle che poi hanno tutta l'aria di diventare geniali».
«Seriamente, Matilde. Fette biscottate con in mezzo una spalmatina di Leonardo? A te piace mangiare ragazzi, ultimamente...» mi prende in giro. E ha perfino esordito con "seriamente".
«Seriamente, mà?», le lancio un'occhiata di traverso con tanto di sopracciglio inarcato e capelli in disordine, lo splendido ritratto di Bellatrix Lestrange.
«Seriamente» ridacchia lei con quella sua aria sbarazzina, «muovi le chiappe e vestiti pesante, fa particolarmente freddo oggi. Il latte è già versato nella tazza e ho aperto un pacco di Pan di Stelle, meglio la dolcezza di prima mattina anziché angoscia e monotonia».
Eppure la finestra è spalancata alle mie spalle, eppure non sento freddo... che sia divenuta fredda io stessa?
«Grazie, mamma» le dico finalmente con voce gentile, verso colei che ogni mattina, che ogni giorno si preoccupa di farmi stare bene e di donarmi una fetta del suo rinomato buon umore.
Anche Adele ha tanto di quello zucchero filato dentro di sé, saprebbe strappare un sorriso a chiunque.
«Ti piacerebbe se ti rispondessi "al cazzo", eh, Matilde? O se ammettessi di essere completamente rincoglionita, eh?» domanda sogghignando nervosamente.
Grazie... al cazzo.
A me fa sempre ridere, effettivamente. E lei rincoglionita c'è nata, quindi...
«Non stavolta. Solo stavolta» ammetto roteando gli occhi e, miracolo dei miracoli, alzando gli angoli delle labbra al fine di tratteggiare un sorriso, «adesso fuori, mi vesto, ai suoi ordini, Sergente». E mi sfilo via la maglia di pile del pigiama rimanendo soltanto con la canottiera, ancora il reggiseno da indossare.
«Muoviti! Di là c'è Vivaldi che si sta facendo la permanente alle piume, è uno spettacolo esilarante».
«Mi muovo». E divengo tutt'uno di quel mondo iniziato esattamente quel dì, alla fine a lui poco importa se stono o meno nel bel mezzo delle sue volute.
Divenire... sempre un continuo divenire — evoluzione.
Tutti ne subiamo l'influsso. E chissà Marta... chissà come sta andando il suo di divenire.
Chissà come le è andata ieri con il professore; perché mi ha mandato un messaggio che si sarebbero visti e poi, ovviamente, non ha aggiunto nessun altro dettaglio. Forse a scuola l'avrei strangolata direttamente.
Sembra sia passata un'Era da quando ho premuto contro capelli e orecchie le mie fedeli cuffie scheggiate un po' qui e un po' là, ascoltando con affetto e devozione smisurata la mia "Rock the Casbah".
Mi sembra infinitamente lontano — anni luce quasi — l'effetto che fin da sempre ha avuto su di me, quietandomi l'animo e propinandomi la dovuta carica in pillole di armonia.
È difficile spiegare certi dolori, ma tutto diventa più facile quando una melodia in particolare riesce a entrarti dentro, nel profondo, cantando solo e soltanto per te, facendoti danzare nel bel mezzo di tutta quell'oscurità.
Le canzoni ci fanno sentire meno fragili — ed è proprio vero che alcune ti conoscono meglio delle persone.
Forse è proprio per questo, per questa ragione se io adesso faccio passare le grandi cuffie oltre i versanti del mio viso, incollandole alle orecchie e scegliendo qualcosa di diverso, qualcosa che mi urla chiaro e tondo che è ora di cambiare, lasciare spazio a qualcun'altro e mettendo da parte — almeno per adesso — la melodia dei Clash.
Il mondo è un divenire, le persone sono un divenire. E anche le loro scelte.
Io scelgo di ascoltare un pezzo nuovo, differente, un pezzo che va a decorarne alla perfezione quei miei petali che minacciano di staccarsi da un momento all'altro.
"Divenire" di Ludovico Einaudi non potrebbe essere più azzeccata.
Ed è una melodia che fa male, perché totalmente in simbiosi con il mio tormento silente, quell'afflizione che Claudio ha provocato con altrettanta facilità e senza provare dispiacere, senza provare a chiedere scusa. Le persone come lui non chiedono scusa. Io chiedo scusa, perfino quando non ne ho motivo.
Il piano che riecheggia, il violino che imperversa dentro di me, sono piccole schegge acuminate che volteggiano senza attecchire come si deve.
Per questo vado in loro aiuto, mi metto a danzare anche io, danzo insieme a loro, mi lascio manovrare — cullare — da esse consapevole di essere al sicuro, perché la musica non cercherà mai di farti del male, sempre dalla tua parte.
All'inizio sì, può dare quell'illusione di unione del tuo dolore e di quello suo, che tanto dà quell'impressione di andare ad osannare. Ma poi diventa tutto più facile, diviene parte di te, tutt'uno con te, e lo allevia.
In qualche maniera lenisce, lenisce e lenisce, senza che tu te ne accorga.
Ed è lì che i polmoni finalmente tornano a respirare aria pulita — districati da rovi e liberati da macchie cancerogene —, ed è lì che il cuore torna a battere, a sperare in qualcosa di bello.
Perché per riuscire a divenire, occorre sperare, occorre avere speranza — essere sopravvissuti a vicende spente e di triboli non ti fa desiderare altro che luce, calda e avvolgente. Non lasciarsi sopraffare, non lasciarsi spezzare, è quello l'ostacolo più grande.
La Winston appena accesa è incastrata tra le dita — indice e medio — e mentre danzo ne prendo qualche boccata. Chiudo gli occhi. Mi lascio liberare.
Me ne frego di passare per ridicola di fronte agli sguardi degli studenti che stanno entrando nel cortile del Caravaggio, non m'interessa delle chiacchiere che faranno sottovoce.
"Atena si è del tutto rincitrullita".
Essere rincitrullita, a me va più che bene. Oltre che essere una splendida traditrice e voltagiubbe, sia chiaro. Dopo che io e Leonardo abbiamo — hanno — reso ufficiale ciò che c'è tra di noi, non mi stupirei dovessero saltar fuori miriadi di simpatici nomignoli.
Ma adesso non è di rilevanza, adesso conta solo Einaudi, il mio voler rigettare tanta di quella materia nera e la sigaretta.
Le mie gambe si muovono come dotate di vita propria, i resti di quel passato di danza classica che mai andrà più via, la delicatezza che viene fuori con gesti, piedi premuti contro il terreno, pizzicandolo quasi con paura, e braccia che si articolano nel vento, ali di libellula.
L'incanto, però, viene smorzato all'improvviso quando per disattenzione vado a collidere contro il petto di qualcuno, senza alcuna intenzione. Tolgo le cuffie prima di voltarmi e verificare i danni.
«Volevi per caso uccidermi?» Ludovico mi domanda osservandomi dall'alto dei suoi occhi scuri ornati di quella chioma disordinata di ciuffi su ciuffi, le mani infilate nelle tasche dei jeans.
Ovviamente è senza giacchetto. Il freddo per lui è una sciocchezzuola. «Che ascolti stavolta?» seguita a dire senza la minima espressione.
«Se volessi ucciderti, Ludo, credimi che non sarebbe in questo modo» proferisco mentre che un sorriso colmo di spontaneità mi si dipinge sulle labbra, mi basta guardarlo per ottenere questa sensazione di familiarità, «stavo solo danzando. Sto ascoltando Einaudi, vuoi provare?».
«È come uno di quei tuoi gruppi metal?» chiede lui con un sentore di curiosità, cauto.
Scuoto il capo sforzandomi di non mettermi a ridere, «No, tutto un altro mondo... pensa che il compositore si chiama come te. Tieni, prendi», e gli offro senza indugio le mie cuffie, che accetta senza fiatare, infilandosele nel bel mezzo di quella selva di capelli.
«Adesso prendi le mie mani, chiudi gli occhi e lasciati guidare da me» dico e catturo entrambe le sue mani, stringendole dolcemente con le dita, sottili e di bambina contro le sue più grandi e con un che di ruvido.
Le braccia di Ludovico cominciano a oscillare sotto la mia presa, morbida e per niente brusca; vorrei scoppiare a ridere per la faccia dubbiosa con cui mi sta guardando, quasi gli stessi mostrando qualcosa di mai visto prima.
Leggiadra faccio ballare il capo, i capelli che carezzano le spalle a ogni gesto. E quando Ludovico prende confidenza con l'agitare i propri arti è allora che lo abbandono, piroettando su me stessa, ormai la melodia ben impressa nella mia mente.
«...Non ti senti più libero?» gli vado a chiedere dopo aver preso un tiro dalla sigaretta, il fumo che fuoriesce dalla bocca.
«Cosa?» replica senza aver capito per via delle cuffie alle orecchie.
«Sentiti libero anche tu, Ludovico... ce lo meritiamo un po' tutti» sussurro al vento, consapevole che Ludovico non mi avrebbe sentita.
D'un tratto vengo issata su, avvolta da braccia forti e vigorose, il peso di una piuma per le sue mani. «Io mi sento libero solo quando sono con te» mi dice Ludovico con occhi seri ma tuttavia con quell'angolo della bocca piegato percettibilmente verso il cielo, un orecchio libero dalla musica, la cuffia scostata all'indietro.
«Ludovico...tu lo sai benissimo che...» oso ricordargli con un certo sforzo, sospirando e premendo i palmi contro le sue spalle senza vergogna.
«Lo so, lo so bene. Nel senso, sì, lo so, ma non riesco, non riuscirò mai a comprenderlo. Non sono mai riuscito a capire come funziona davvero l'amore o quello che cazzo è... penso che ancora mi ci vorrà un po'. Non saprò mai spiegarmi perché proprio lui, non saprò mai spiegarmi come lui abbia fatto ad avere i tuoi occhi solo per sé. L'unica cosa che so è che sento lo stomaco colpito da tante pugnalate mentre ti guardo, la testa quasi decapitata quando ti parlo» m'interrompe il secondo Ares, parlando, per la prima volta, più del solito.
«E se ci tieni a tenerla lì dov'è, la testa, ti consiglio di metterla immediatamente giù, Auditore. Matilde sa camminare da sola, ha ancora le gambe che le funzionano alla perfezione, per fortuna» la voce di Leonardo giunge inesorabile alle nostre orecchie, sprezzante, altezzosa, la stessa che riservava a me prima della sua dichiarazione.
Egli è in piedi a pochi metri da noi, le iridi che non mancano di incenerire la figura di Ludovico oltre le lenti degli occhiali, soprattutto le sue braccia strette attorno alla mia vita.
«Sentiamo, me la taglieresti tu, piccolo lord?» obietta Ludovico senza il minimo timore, tuttavia obbedendo e riponendomi per terra, sciogliendo l'appiglio.
«È un'idea allettante...» asserisce Leonardo facendo spallucce, non mancando di perdere di contegno, «ma la violenza non è mai la soluzione, te l'hanno detto? Be', in caso contrario ringraziami, ti ho appena dato una lezione di vita».
«Non era la soluzione nemmeno quando ho spaccato il naso all'amico tuo?» ribatte imperterrito Ludovico, provocandolo.
«Ti sembrerà assurdo, ma no, non era nemmeno lì la soluzione... anche se ammetto di aver apprezzato l'intenzione». E quando sento il nome di Claudio sottinteso rabbrividisco.
«Comunque la testa a me piace esattamente dov'è, e penso che valga lo stesso per te, biondino. Matilde rimane comunque mia amica» gli ricorda Ludovico sfilandosi le cuffie per restituirmele.
«Certo che rimango tua amica, Ludo» lo rassicuro andandogli a sfiorare la guancia con un buffetto, «se me lo permetterai».
«Ovvio che te lo permetterà» borbotta Leonardo roteando gli occhi.
«Ovvio che glielo permetterò» ripete Ludovico con un che di malizioso.
«Ovvio che siete proprio due bambocci» sbuffo contrariata voltandomi e dando loro le spalle, finendo definitivamente la Winston.
«Ehi, bambocci!», una nuova voce si leva dal nulla, allegra e smagliante. Il ritratto della giovialità.
«Falco» lo saluta con labbra contratte Leonardo, sempre non mancando di usare quell'aria di completa sufficienza.
«Aspramontagna» ricambia Diego con sottile — sottilissima — ironia, con tanto di occhiolino. A Diego piace molto fare la beffa oltre che il danno.
«Ciao, Castaman» enuncia Ludovico con un singolo cenno della mano, letteralmente.
«Castaman?» ripeto inarcando un sopracciglio.
«Ieri eravamo da Marta a studiare e gli ho fatto ascoltare la "Legalize" di Caparezza. Capa ama i giochi di parole, infatti sembra di sentire dire "rastaman". Ora non fa altro che chiamarmi Castaman» spiega Diego in parole povere gesticolando con il braccio.
«Castaman è fico» insiste l'altro.
«Castaman fa tanto da tossico, senza offesa» interviene Leonardo.
«Caparezza non è un tossico, fanculo» obietta Diego del tutto piccato.
«Alborosie scommetto di sì, però».
«Tu conosci Alborosie?» esclama Castaman stupito, portandosi le mani fra i dreadlocks fulvi, «Come, dove, quando?».
«Ascolto musica anche io, Falco, ho gli orecchi come te, sai com'è...» lo prende in giro Leonardo, non risparmiandosi nessuna frecciatina.
«Nah, tu non puoi ascoltare Alborosie... non tu» replica Diego dopo averlo osservato con occhi titubanti per qualche secondo, «sentite, bambocci, vi stavo appunto rivelando una notizia bomba prima di essere volutamente interrotto», e squadra senza remore l'unico pezzo del Classico in mezzo a quelli dell'Artistico, «venerdì è il compleanno di Midorin Ayasaka. Diciotto anni si compiono una volta sola nella vita e... tenetevi forte, festeggerà sabato al Twenty One e siamo tutti invitati!».
«E tu come lo sai?» fa Leonardo guardingo.
«Glielo ha detto a Marco, ecco perché lo so» sbuffa spazientito, «è ufficiale, ragazzi, sabato ci si sfascia. E siccome il mondo fa schifo, la vita uguale e l'amore non ne parliamo, come minimo voglio ubriacarmi talmente tanto da andare a fare il gondoliere sull'Arno con in testa il basco di Che Guevara».
«Quando dici tutti, intendi anche tutti quelli della sua sezione?» domando con un timore che lentamente sta affiorando, per poi inghiottirmi.
«Ma è chiaro. Tutti i Perfettini che condividono i banchi con lei» mi dà la conferma Diego.
E nella stessa sezione di Midorin Ayasaka c'è anche lui. C'è anche Claudio.
«Perfettini e Fattoni sotto lo stesso tetto, ancora una volta. Che altro si può volere di meglio dalla vita?» sentenzia Leonardo con un che di beffardo, lo specchio esatto della mia voglia di andarci.
Il momento dell'ora X e Marta entra in scena. (E no, non è tutta scena!)
Il perfetto ritratto di me stessa mi osserva dallo specchio della camera, imitando qualsiasi mio movimento.
Dita che s'infilano attraverso le ciocche argentee, sgrovigliando delicatamente nodi sopravvissuti allo scorrere della spazzola, labbra rivestite di rossetto rosso geranio che mimano un bacio, di quelli che richiamano le copertine vintage di anni ruggenti, gambe che si piegano facendo zampillare in ogni dove i lustrini delle calze sottili, che mostrano ogni lembo di pelle, mani che vanno a levigare la stoffa di velluto verde scintillante, colei che agghinda la semplice manifattura dell'abito.
I miei capelli sono cresciuti di qualche centimetro negli ultimi mesi e la ricrescita comincia a essere evidente, urge un'immediata ricolorazione, non ne ho ancora abbastanza di questo argento etereo e che tanto ricorda la dinastia Targaryen.
Per di più plasma un connubio magnifico assieme alle mie iridi dal colore così raro, così unico.
Gli occhi è stata l'unica parte di me che mai ho disprezzato, l'unica che abbia sempre ammirato sulle superfici degli specchi — patetico oggetto che deruba le persone di modestia e le riempie di quella che io chiamo sindrome di Narciso, per chi non fa attenzione —, l'unica cosa che ho sempre avuto terrore mi venisse strappata via, inconsciamente e stupidamente.
Ma loro sono sempre lì, grandi, sfavillanti di una luce unica quanto il loro colore, contenitore di vetro di mille lune — la metà rivelate, altre ancora celate — e decorati di lunghe ciglia immerlettate di mascara argentato.
Spiccano quasi volessero uscire all'esterno, quasi volessero urlare qualcosa al mondo intero. Ma non possono, troppo chete sono le loro urla.
Prima di rimirarmi e verificare qualche falla sull'abbigliamento con cui uscirò in vista della lunga notte, ho aperto il gruppo Facebook dedicato al compleanno di Midorin, quello per il suo regalo, tanto per assicurarmi di essere stata inserita nella lista dei partecipanti alla spesa.
L'ho fatto con piacere di accettare l'invito al suo diciottesimo e l'ho fatto con altrettanto piacere di contribuire al suo regalo. Un biglietto tutto compreso per andare e visitare Inghilterra, Scozia e Irlanda in lungo e in largo questa estate — naturalmente, una buona fetta di denaro l'ha messa anche il padre.
Successivamente, con atteggiamento morbosamente curioso, ho aperto il profilo di Emilio, scoprendo una fotografia fresca del suo spettacolo a teatro. Mi ha chiesto di andarlo a vedere quando siamo usciti insieme quella sera, mentre ci recavamo nel Caffé Letterario che mi ha rapita non appena vi ho messo piede; purtroppo ho dovuto rifiutare... con tanto, tanto rammarico.
Midorin aveva inoltrato gli inviti il pomeriggio stesso e, non sapendo a cosa lui mi avrebbe poi proposto, ho subito detto di sì. E un impegno preso va mantenuto, fino alla fine.
Inoltre nutro gran simpatia verso Midorin, sarebbe stato un peccato non andare, dopotutto, i diciotto anni arrivano una volta sola.
Il mio riflesso, pallido sia nell'incarnato sia nei ciuffi che dolcemente cascano oltre le spalle, alza una mano, dita tremolanti che vanno ad attecchire sull'angolo della bocca, nel punto preciso dove Emilio vi ha posato un bacio.
Lui è misurato — estremamente ponderato —, è quieto, identico al mio essere neve.
Accortezza e freddezza, entrambi le sappiamo usare con maestria ed esperienza; ed è proprio lì la scintilla che esplode in me, sapere che ogni gesto, ogni movenza, può osare sempre oltre, può sempre trasformarsi in qualcosa di... eccelso, rovente. Per questo dobbiamo stare attenti, stiamo attenti.
Da troppo tempo abbiamo perso l'abitudine di farci assuefare dal fuoco divampante, e il ghiaccio si scioglie facilmente sotto anche la più flebile delle fiamme.
Il mio telefono prende a squillare facendo vibrare nel silenzio la melodia della Marcia Imperiale, è Matilde.
«Arrivo, sono pronta» le dico direttamente senza tanti giri di parole.
«Sbrigati, DarthMart! Diego e Thalìa sono già arrivati, Ludovico è in viaggio insieme a Marco. Quanto a Leonardo penso sia già lì con Alberto, ha detto che aspettano noi prima di entrare» m'informa Matilde con la voce alterata dalla telefonata.
"Sono pronta". Pronta...
Pronta a una lunga notte, di luci e risate, di cocktail a fiumi e musica assordante. Di Alberto che non smetterà di darmi il tormento. Ora sì che osservo con espressione preoccupata la sua chat su Messenger, attiva soltanto undici minuti fa. Un messaggio è rimasto in sospeso, un suo messaggio. Senza io che rispondo.
Alberto Del Bianco, 21:49
- Stasera vedi di non andarti a nascondere chissà dove. So essere un ottimo cacciatore quando voglio.
L'entrata del Twenty One non è affollata come credevo.
È anche vero che sono solo le dieci e venti della sera e Midorin ha il beneficio di occuparlo da ben prima delle consuete undici e mezza, orario di default che fa riempire locali e discoteche. Ha prenotato il posto dalle nove della sera fino sino alle undici, servendo bevande e stuzzichini vari, naturalmente anche il tipico dolce a forma di diciotto.
Tecnicamente è maggiorenne in via del tutto ufficiale da ieri, ma niente e nessuno vieta di festeggiare un giorno dopo, Veronica lo fece addirittura una settimana di ritardo per via degli impegni lavorativi dei suoi genitori.
Fuori fa freddo, dicembre nascente, e i nostri cappotti sono l'unico riparo fino all'ingresso.
«Dovevano per forza aspettarci? Ma non potevano entrare?» borbotto senza sforzarmi di mascherare la mia irritazione nel contempo che ci sbrighiamo a raggiungere la porta principale. Pure ben evidente.
«Leonardo ha insistito tanto, che ci vuoi fare» risponde Matilde scostandosi dietro le orecchie i suoi ciuffi rosei, uno smokey eyes fatto a regola d'arte spicca sopra le sue palpebre, allungato con una precisa linea scarlatta di eye-liner.
«È Alberto che ha insistito... non Leonardo» ringhio senza farmi sentire, con un tic all'occhio che non riesco a controllare, stringendomi nel giacchetto.
«Eccoli là» mi ragguaglia la mia amica, cui un flebile sorriso le affiora proprio sulla cornice delle labbra pitturate d'un rossetto castano.
Già, eccoli là. Entrambi immobili dinanzi alla porta d'ingresso, tutti e due più alti del buttafuori dall'aspetto robusto e muscoloso, minaccioso. Figure di ragazzi di bell'aspetto, l'uno che completa l'altro. Leonardo di ciuffi dorati, Alberto di ciuffi bruniti, Leonardo di iridi azzurre — riflessi marini —, Alberto di iridi blu — sfumature di cielo.
L'uno la meravigliosa antitesi dell'altro. Intenti a parlare fra di loro, scambiandosi forse segreti — tutti abbiamo segreti. Intenti a sorridere.
Alberto sorride e lo detesto, detesto quel suo sorrisino del cazzo. Che sembra suggerire mera presa in giro, che sembra suggerire che ne sa una più di te, sempre avanti di un passo.
A me non piace sentirmi indietro, proprio per niente.
«Ce l'abbiamo fatta!» esclama Matilde mettendosi dinanzi a Leonardo a piedi pari, perfetto esempio di bambina.
La differenza d'altezza fra i due è abissale. E Leonardo l'accoglie con un'espressione che racconta ogni dettaglio delle sue emozioni; a scuola, ne porta tanti di filtri, oscurando occhi e smorfie, ma quando la guarda è come se si dimenticasse di come si fa.
«Ti aspettavo» le dice semplicemente, carezzandole con garbo e miele lo spigolo del mento.
«Entriamo. Sto morendo di gelo e di fame, forse anche di sete. Vorrei bere!» dichiara lei euforica, troppo euforica.
«Sì, entriamo. Albi? Tu vieni? Marta?» sento che dice rivolgendosi a me a lui.
«Soltanto un secondo. Devo dare una cosa a Marta» ribatte Alberto soffermandosi con gli occhi sulla mia effigie bardata meticolosamente, tuttavia le gambe scoperte, luccicanti sotto la luce del lampione, slanciate da un paio di stivali con qualche centimetro di tacco.
«Andiamo... non farai sul serio» proferisce Leonardo con voce trascinata, quasi annoiata.
«Eccome se faccio sul serio» insiste il suo amico, le mani tenute nascoste dietro la schiena.
«Che vuole fare?» domanda Matilde perplessa e incuriosita al tempo stesso.
«Le ha colto una rosa dal roseto di una casa mentre venivamo qua a piedi. Se lo beccava il proprietario penso che ora si sarebbe ritrovato un bel proiettile di sale in testa» rivela il segreto senza vergogna.
«Tu che cosa?» stavolta sono io a parlare. Stavolta sono io ad aprire bocca, che altro non ne esce se non una frase indignata.
«Una rosa. Solo una rosa. Mi dispiace, non ho avuto tempo di cospargerla di brina... ma se la metti fuori dalla finestra, stanotte, puoi scommetterci che domattina sarà perfetta, identica a te, Signora dei Sith» mi spiega Alberto incatenando contro la mia volontà le sue iridi alle mie. Immorali, solenni e cariche di quel desiderio, di quella fiamma mortale che a tutti i costi vuol bruciarmi.
«La prossima volta regalale direttamente un roseto, dai retta» conclude Leonardo per poi afferrare Matilde per mano e infine entrare all'interno del Twenty One, dove già si sente il riecheggiare della musica.
Ci lasciano soli. Rimaniamo io e lui, e la rosa. Il suo sguardo acuminato e le mie schegge di ghiaccio.
«Non dovevi disturbarti, Alberto» dalle mie labbra viene sprigionata una tormenta di neve, «io non accetterò quella rosa. L'hai uccisa inutilmente».
«Era un qualcosa che volevo fare e l'ho fatto. Noi umani siamo fatti di scelte, ne abbiamo un'infinità, e se non scegliamo allora che viviamo a fare? Non sei d'accordo, Signora dei Sith?» enuncia Alberto senza darsi per vinto, voce mordace e profonda, voce che mi carezza la nuca.
«Io scelgo di non volerla. Questa è la mia scelta. Regalala a qualcun'altra, potresti ottenere una reazione diversa dalla mia» recito impassibile.
«Uhm, nah, non è così che funziona. Regalarla a qualcun'altra rappresenterebbe un atto privo di senso e a me gli atti privi di senso mi danno tanto fastidio. Non voglio perdere tempo» insiste egli azzardando un passo verso di me, finalmente esibendo la mano dove proprio lì, fra le dita, è incastrato il gambo di una rosa e le sue spine al seguito.
Le dita... le dita hanno delle ferite. Per coglierla deve essersi punto, per coglierla per me. Esito, dura un frammento di attimo, ma esito.
«Alberto, lo dirò un'ultima volta, io non voglio quella rosa» ritorno alla carica, tenendo gli occhi fermi, sbattendo con parsimonia le palpebre.
«Prendila».
«No, ti ho detto di no. Non è difficile da capire».
«Prendila, Marta».
«No, Alberto, no!» esclamo all'improvviso, gli occhi sbarrati.
«Smetti di avere questa fottuta paura del cazzo! Tu e il tuo maledetto essere gelo. Smetti di scappare da me, smettila, perché ti porterà soltanto a un vicolo cieco. Poi sarà difficile poterne uscire!» grida a sua volta, il buttafuori che ci guarda, tiene d'occhio che la situazione non sfugga di mano.
Ed è allora che lo faccio.
È allora che scelgo, decido di fargli vedere quanto sono gelo — antitesi di fuoco bruciante.
Lui non sa quanto io sia in grado di osare... di quanto sia disposta a scottarmi.
Dalla tasca del giacchetto infilo la mano e ne estraggo l'accendino, lasciando le sigarette ancora assopite.
Digrigno i denti, assottiglio lo sguardo. Con il pollice faccio scattare la rotellina e una fiamma prende subito vita. Fuoco nelle mie dita.
Avvicino essa sino a farla collidere con i petali della rosa, rossa, d'un vermiglio spettacolare. E al contatto la rosa prende ad ardere, avvampa. Brucia di dolore e di distruzione. Petalo dopo petalo. È quasi piacevole da vedere, quasi sublime.
Alberto adesso sa che non sempre sono gelo.
Visi conosciuti eppure così lontani. Visi visti fra i corridoi di scuola eppure così estranei. Occhi amichevoli eppure così assuefatti. Voci che si danno alla pazza gioia eppure così... così... perché le vedo così artefatte? Così fasulle? Così di plastica?
Forse perché appartengono a persone che sono totalmente fuori di sé, totalmente inebriate da alcol e dal fumo di qualche canna.
Forse perché una di quelle voci appartiene a me. Perché mi sto dando alla pazza gioia anche io. Perché mi sono scolata non so quanti bicchieri di drink, perché ho fregato la canna dalle mani di Diego e perché la musica mi sta entrando dritta in vena, esaltando quel senso di controllo che man mano sta andando a svanire.
E senza di quello... senza di quello divento oltremodo senza freni, spudoratamente senza freni.
Ondeggio il mio capo senza ritegno, ascoltando il ritmo della canzone che non riconosco, i capelli che vanno in ogni dove in una danza sensuale, spontanea e intrinseca.
Ho urlato già dieci volte di seguito "Tanti auguri, Rin-Chan, ora attendi a commettere qualche omicidio perché poi andrai in galera", e lei altre dieci volte ha riso come una scema gettandomi le braccia al collo, ubriaca quanto me. E la tranquilla e pacata Midorin ha ceduto al fascino proibito dello sfasciarsi al proprio diciottesimo. Ne abbiamo un'altra nel club.
Ma diamine... questa sì che è proprio una festa con la "f" maiuscola, come si deve, come dio comanda.
«Cazzo, vorrei compiere nuovamente diciotto anni...» borbotto mentre rido fuori di me, parlando con me stessa, «in quel caso l'avrei accettata la rosa di Alberto».
Getto la testa all'indietro, facendo scivolare le braccia assieme, arcuando la schiena in un movimento non troppo comune. Merito del mio precedente di ginnastica artistica.
«Ci credi? È il compleanno di Midorin e la rosa l'hanno regalata a me!» urlo contro un tizio accanto a me, che si sta propriamente dando da fare con una ragazza.
«Fico! E l'hai accettata?» risponde tuttavia quest'ultima, abbandonando le labbra del suo cavaliere.
«Col cazzo, gli ho dato fuoco!» grido di rimando fiera di me stessa.
«Troppo forte! La prossima volta che mi regaleranno dei fiori lo farò anche io!».
«Brava, cara ragazza, molto brava!» mi congratulo con lei senza riuscire a smettere di sghignazzare come una di quelle iene che si vedono sui cartoni animati.
«Chi te l'ha regalata?» sento che mi chiede.
«E be'... è facile... aspetta che te lo indico».
Ruoto gli occhi in ogni direzione al fine di trovare la figura di Alberto Dannato Del Bianco. Dopotutto, dove cazzo potrà mai essersi andato a ficcare? Ma non ha detto che voleva darmi la caccia per tutta la sera? Che ridicolo.
Lo vedo.
«È quello... lì. Quello lì, seduto sui divanetti e con una ragazza che gli sta letteralmente risucchiando la faccia» alzo il dito verso di lui, percorso da un tremito, la voce spezzata. Rimango spiazzata.
«L'ha regalata anche a lei la rosa?».
«Glielo vado a chiedere. Aspettami qui...» ordino a quella sconosciuta mentre che prendo una delle decisioni più idiote della mia vita.
«Vanessa. Mi chiamo Vanessa!» Vanessa mi urla alle mie spalle.
"Ma non me ne frega un cazzo di te, Vanessa. Vattene affanculo, Vanessa".
Ora la metto in atto io la mia Marcia Imperiale. In confronto Darth Vader in persona mi fa un baffo.
Come ha osato? Prima fa tutto il carino, il bastardo testa di cazzo che altro non dice se non del suo interesse per me, mi regala una fottuta rosa e poi... poi...
E poi non sceglie me.
E poi preferisce le labbra di un'altra qualunque.
E poi preferisce un tocco diverso dal mio.
E poi mi lascia indietro.
Dovevo bruciare lui, non quella povera rosa.
«Vaffanculo! Ti faccio pure lo spelling. V a f f a n c u l o» urlo davanti a lui, davanti a lei, davanti a entrambi, prendendoli contro piede, fermando le loro lingue.
«Fai schifo. Patetico, scemo e ridicolo. Ho già detto che te ne devi andare affanculo? Io te lo ripeto comunque, vaffanculo» continuo fuori di me dalla rabbia, «la prossima volta te lo faccio io un regalo. I crisantemi. Sulla tua tomba».
«Ma che ti prende?» mi domanda la ragazza, osa rivolgersi a me. Splendida ragazza dagli occhi scuri e i capelli color cenere, delicatezza allo stato puro.
«A me niente. Io sto una meraviglia. Il bipolare è lui, quello che ti stai limonando. Sai che ti dico? Tienitelo, è tutto tuo. Io non lo voglio, non lo voglio più» ringhio non ancora consapevole di aver toccato il fondo.
E muovo le gambe, girandomi, dando loro le spalle. Lasciando nient'altro che l'alone della mia effigie e lieve sentore della mia essenza.
Mi porto le mani contro la fronte, scostandomi via i capelli, mandandoli all'indietro.
«La rosa... lui mi regala una rosa...» mormoro ripetutamente, senza meta alcuna.
Di colpo la discoteca me la trovo troppo stretta.
Lui mi regala una rosa e io gliel'ho bruciata. Io ho bruciato Alberto, io l'ho fatto a pezzi.
Ma chi è rimasto scottato alla fine? Io o lui?
Una mano mi artiglia il braccio, stretta, non disposta a lasciarmi andare. Mi attira contro il petto di colui che mi cattura. Labbra e denti collidono contro il mio orecchio, contro il mio lobo.
«Gelosia nuda e cruda è la tua» mi sibila lui, senza vergogna e senza pietà.
«Assolutamente no» balbetto, ma vengo ascoltata. Il suo viso entra più un collisione con la mia nuca, i miei capelli.
«Era ciò che volevo. Ha funzionato. Eccome se ha funzionato. Io sono un cacciatore, te l'ho detto, Signora dei Sith. Le trappole sono il mio forte e tu ci sei caduta come un piccolo coniglietto impaurito» proferisce Alberto, scavandomi una voragine nel petto. Qualcosa che si sgretola.
«Tu hai... tu... l'hai fatto apposta?» in uno scatto mi volto per guardarlo in faccia, per vedere che faccia ha la vittoria e il trionfo.
Iridi blu, iridi predatrici, iridi che mi scrutano quasi a volermi divorare. La vittoria ha un bel colore.
«Non ho mai detto che avrei giocato pulito, mai».
«Non dovevi farlo» dico lasciando che un'onda di tristezza mi sovrasti dalla testa ai piedi.
«Era l'unico modo. Perché finalmente sono riuscito a tirare fuori il fuoco che è in te. Ed è stato splendido» mi rivela.
«E adesso? Adesso che facciamo?» domando come se facessi finta di non sapere la risposta.
«Adesso avvicinati», sono le ultime parole che pronuncia; perché lui me lo ordina, ma è lui che lo fa.
È lui che si avvicina.
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